Sassoli smentisce Pd e Iv: “In tutti i paesi Ue task force Recovery”

“La parola crisi mette paura in Europa, bisognerebbe accostarcisi con un po’ di pudore e prudenza perché può dare la sensazione di un paese che mette meno a fuoco i propri obiettivi”. David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, ripete a In mezz’ora in più da Lucia Annunziata, quello che va dicendo da un paio di giorni. “Dobbiamo avere paura della crisi, non assecondarla”. È netto Sassoli. A Bruxelles la preoccupazione di una crisi di governo in Italia, mentre parte il processo del Recovery Fund, aumenta.

Sarà magari anche per questo, ma la giornata di ieri fa registrare toni più bassi. A partire proprio dal Pd. In un primo momento Nicola Zingaretti ha mandato avanti Matteo Renzi. Poi al Nazareno hanno capito che c’è il rischio di una crisi “al buio”. E così correggono il tiro. Con lo stesso segretario che avverte: “Il governo ha bisogno di un rilancio ma il rimpasto adesso non è prioritario”. E Goffredo Bettini che condanna le “opache manovre” perché “se cade il governo si vota”.

Nel frattempo, a Palazzo Chigi si preparano alla “verifica”. Il premier vuole guidare il processo. E dunque sta mettendo a punto un’agenda di incontri con le delegazioni dei partiti e poi con i loro leader, che dovrebbero partire già oggi.

Le trattative sotto traccia, a partire proprio dalla gestione delle risorse europee, vanno avanti. Afferma Bettini: “Conte ha confermato che la bozza del piano di ripresa e resilienza è una bozza aperta”. Come dire, il Pd ha tutte le intenzioni di frenare quella che i dem definiscono la voglia di “accentramento” di Conte. E così oggi ci sarà un seminario di tutto il partito, proprio per discutere del Recovery Plan. Sul tavolo, c’è qualche modifica (anche se l’impianto resta lo stesso) al piano in se stesso. E soprattutto la struttura di governance: azzerarla, come vorrebbe Renzi, per il Pd non è possibile. L’idea è quella di lavorare sulla task force, sia delimitando i poteri sostitutivi e derogatori dei manager, sia dando un ruolo chiaro ai ministeri. A lavorare sul piano e sulla struttura di governance sono in questi giorni però tutti i partiti, M5s compreso. In discussione c’è il “come” non il “sé”. E’ ancora Sassoli a chiarire: “La lite sulla cabina di regia per il Recovery plan? Ce l’avranno tutti. Il riferimento è il governo. Ma l’Italia ha 209 miliardi e vanno amministrati: come fai a farlo se non hai una regia? Serve un coordinamento che aiuti la macchina”. Affonda: “Io sento che le indicazioni date da Conte possono essere contestate, migliorate, però certamente servirà un aiuto al governo”. Da notare che sabato anche Paolo Gentiloni (anche lui un big del Pd con un ruolo di primo piano in Europa, Commissario agli Affari Economici) ci aveva tenuto a mettere l’attenzione sulle “procedure” e cioè sull’”attuazione” del piano: “Più che sui nomi, sulle task force, ragionerei sulle procedure. I piani vanno attuati perché poi ogni sei mesi deve arrivare un bonifico da Bruxelles. Per questo deve esserci una corsia preferenziale”. Un altro tema, quello di una normativa ad hoc (di cui aveva parlato lo stesso premier un paio di mesi fa), che entrerà nella discussione.

Politicamente, il Pd passa alla fase successiva dell’attacco al premier: non è in discussione il suo ruolo tout court, ma i dem vogliono pesare di più. Nella stessa dinamica si inserisce la richiesta di misure anti Covid più restrittive, dopo le immagini di assembramento ieri nelle vie dello shopping delle grandi città. Ma intanto anche Anche Maria Elena Boschi (sempre negli studi della Annunziata) fa un relativo passo indietro: “Non vogliamo nessuna crisi. L’argomento rimpasto è chiuso. La priorità è usare bene i fondi europei e allo stesso tempo coinvolgerci”. Ma poi fa cadere lì l’avvertimento neanche tanto velato: “Se c’è crisi, non credo che andremo al voto. M5S ha un problema non solo per il secondo mandato ma anche perché tanti di loro non tornerebbero in Parlamento”. Come dire: un’altra maggioranza la troviamo. Va detto pure che Luigi Di Maio, corteggiato dai renziani come eventuale premier al posto di Conte, e considerato uno dei principali “congiurati contro di lui, smentisce categoricamente via Tweet: “Ancora fake news su di me, evidentemente qualcuno semina zizzania, quindi voglio essere chiaro: è fuori dal mondo mettere in discussione Giuseppe Conte. Se poi ci sono differenze di vedute, si risolvono da persone adulte, ma basta falsità!”.

Si riparte dalla verifica e dalla parlamentarizzazione del percorso del Recovery. Esiti, comunque, imprevedibili.

Ma mi faccia il piacere

Pirlon. “Se un uomo può sposare un altro uomo, perché non dovrebbe sposarsi con una bambola gonfiabile? Se tutto è famiglia, nulla più è famiglia” (Simone Pillon, senatore Lega, Twitter, 5.12). Piuttosto che Pillon, è meglio pure un paracarro.

Gian Domenico Fracchia. “Il processo ha provato una cosa: Del Turco è innocente. In secondo grado la Corte lo assolve da quasi tutte le fantomatiche tangenti” (Gian Domenico Caiazza, avvocato di Ottaviano Del Turco condannato a 3 anni e 11 mesi per cinque tangenti complessive da 850mila euro, Riformista, 11.12). Del Turco “assolto da quasi tutte le tangenti” ricorda quella ragazza un po’ incinta.

A grande richiesta. “Il Centro si illumina con Spelacchio ‘gold’” (Messaggero, 9.12). “Nel Natale-non Natale, Raggi paragona le sorti di Roma a quelle di Spelacchio” (Foglio, 10.12). “Alla fine del suo quinto anno, la sindaca Raggi ce l’ha fatta: al posto di Spelacchio c’è un vero albero di Natale” (Sebastiano Messina, Repubblica, 10.12). “Dimenticate Spelacchio. Roma non brilla ma l’albero sì” (Repubblica, 8.12). “Da Navona a Spelacchio, in Centro è iniziato il Natale” (Messaggero, 8.12). Non ne sentivate anche voi la mancanza?

Testa di Gallera. “Sono uscito a correre lungo un percorso urbano tra quelli frequentati da noi runner milanesi… Io mi sentivo bene, le gambe andavano, avevo la musica nelle orecchie e, se c’era, non ho fatto caso ad alcun cartello che segnalasse il confine comunale. Avrò probabilmente sconfinato di un paio di chilometri: ero sovrappensiero” (Giulio Gallera, FI, assessore Welfare Regione Lombardia, 7.12). Le gambe vanno, la testa un po’ meno.

Levategli la boccia. “Ma quale libertà! Siete dei pecoroni! Schiavi di Casalino e Conte! Io voglio fare il cavolo che mi pare! Io parlo dello sci, delle funivie, delle discoteche, io voglio stappare una boccia di Dom Perignon!” (Nicola Porro, vicedirettore il Giornale, Youtube, 3.12). Mi sa che ne ha già stappate una dozzina.

Levategli il fiasco. “Un giornale da mascalzoni (Lerner a parte) come quello di Travaglio…” (Andrea Marcenaro, Foglio, 11.12). Lui invece è come Obelix: ci è caduto dentro da piccolo.

Disobbedienza incivile. “Divieti di Natale assurdi, chi li vìola ha ragione” (Attilio Fontana, Lega, presidente Regione Lombardia,Libero, 7.12).Lui pensa sempre ai soldi alle Bahamas.

Parinetti. “Come Ulisse, Sgarbi deve correre da Penelope e far fuori tutti i froci… anzi i proci, scusate” (Oscar Farinetti, fondatore Eataly, Stasera Italia, Rete4, 2.12). Compro una consonante.

Mi consenta. “‘Consentiamo il rientro al domicilio’ annunciava Conte ad aprile. ‘Permettiamo di spostarsi tra i comuni’ proclama Di Maio. Nella loro interessata magnanimità, per allargare i confini della nostra libertà i nostri governanti devono aver perso di vista i limiti del loro potere” (Messina, Repubblica, 12.12). Che è quello di consentire e di vietare.

Lo storico Samsonite. “Ascolta, Travaglio, meglio che studi un po’ di storia recente”, “Travaglio attribuisce la caduta del Prodi due un po’ a Turigliatto e un po’ a Mastella. No, fu determinata dalla magistratura. Un giovane e ambizioso Pm di Catanzaro, un certo De Magistris, spedì un avviso di garanzia al ministero della Giustizia, Mastella, e arrestò sua moglie. Mastella, ovviamente, si dimise da ministro e il governo cadde” (Piero Sansonetti, Riformista, 9.12). Naturalmente De Magistris a Catanzaro non ha mai spedito avvisi di garanzia a Mastella né arrestato sua moglie. Lo fece invece la Procura di Santa Maria Capua Vetere, che da Catanzaro dista appena 423 km. Ma Sansonetti è un esperto di storia, non di geografia.

L’emerito. “Troppo poteri a un solo uomo. Taske force incomprensibile. Soluzione rococò, denota sfiducia nello Stato” (Sabino Cassese, ex-giudice della Consulta, La Stampa, 9.12). A proposito, professore: com’era quella dello “stato d’emergenza senza emergenza”?

Pappagalli. “Abbiamo fatto nascere un governo per togliere i pieni poteri a Salvini, non per darli a Giuseppe Conte” (Matteo Renzi, leader Iv, Repubblica, 7.12). “Non abbiamo voluto dare i pieni poteri a Salvini, non intendiamo darli a Conte” (Maria Elena Boschi, deputata Iv, Corriere della sera, 8.12). “Come Salvini ora Conte vuole avere pieni poteri” (Domani, 8.12). “Non solo Recovery: ecco i pieni poteri di Conte” (Domani, 9.12). Trova le differenze.

I titoli della settimana/1. “Merkel trova il nuovo Monti: Conte” (Verità, 9.12). “La Merkel licenzia Conte” (Giornale, 9.12). Fermo restando che la Merkel non ha detto una parola su Conte, urge sincronizzare gli orologi.

I titoli della settimana/2. “Ungheria e Polonia vincono con i veri. Noi prendiamo schiaffi dicendo solo sì” (Verità, 11.12). Per la precisione, 209 miliardi di schiaffi.

Il titolo della settimana/3. “Del Turco è il nuovo Tortora” (Riformista, 9.12). Che tanto non può più querelare.

I titoli della settimana/4. “Pd e FI si ribellano: ‘Ridiamo l’onore al Del Turco’” (Riformista, 10.12). Ecco: ridiamo.

Anche Clooney cede al fascino dello Spazio: sesta regia per lui, ma era buona la prima

Al sesto film, più la serie Catch-22, dietro la macchina da presa, è chiaro che la regia per George Clooney non è un lusso né un hobby, ma una seria opzione della sua filmografia: The Midnight Sky non ne insidia il vertice, ovvero l’opera prima Good Night, and Good Luck (2005), ma mette ko, e non solo tecnico, ciofeche quali In amore niente regole (2008), epopee fallite quali Monuments Men (2014) o vorrei – i fratelli Coen – ma non posso quali Suburbicon (2017).

Dal 23 dicembre su Netflix e, crediamo, ai prossimi Oscar in molteplici categorie, la Sesta di George dà al Mark L. Smith di Revenant il compito di adattare il romanzo di Lily Brooks-Dalton Good Morning, Midnight con la sopravvivenza, della Terra e dell’Uomo, per Leitmotiv e un’attitudine crepuscolare, terminale e nostalgica per registro. Ne viene un’opera che, per partito preso, non entusiasmerà alcuno, ma sa accordarsi con empatia e sincronizzazione sorprendente al nostro tempo pandemico, sia nell’attenzione alle sorti del Pianeta che nella temperatura emotiva, nella malattia e nel fine vita.

Presa la via distopica, la science fiction le preferisce ben presto la corsia d’emergenza umanista, servendosi dell’universale, l’apocalisse, per inquadrare il particolare, i drammi personali, privati, intimi riversati in coro greco. Un punto di arrivo, o se preferite di Arrival, che non nasconde ascendenze, simmetrie e scopiazzature della fantascienza ultima scorsa, da Gravity e Solaris, che l’hanno impegnato quale attore, a Interstellar, Ad Astra, Tomorrowland e The Martian, per citarne solo alcuni, ma tale enciclopedia di genere pare assistere Clooney più nell’economia di scala – per lui inedita – di The Midnight Sky, che nella poetica, ecologista, riflessiva e dolente.

Se le immagini spaziali, ovvero gli effetti visivi, sono anche laddove fascinose già assimilate – e vieppiù annichilite dall’annunciato film in the outer space di Tom Cruise – il pathos viene dallo stesso Clooney, che con barbona grigia e orizzonte bigio (si sottopone a chemio e trasfusioni) incarna l’astronomo Augustine Lofthouse, che decide di rimanere da solo al Barbeau Observatory del Circolo Artico, evacuato in elicottero nel 2049 a seguito di un non meglio precisato catastrofico “evento”. Il dottore, cui si aggiungerà la piccola e ammutolita Iris (Caoilinn Springall), tenterà di mettersi in contatto con la navicella Aether, di ritorno dall’esplorazione sul pianeta K-23, un satellite di Giove con condizioni promettenti per la vita umana. Capitano il fermo Ade (David Oyelowo), pilota il veterano Mitchell (Kyle Chandler), nel novero Sanchez (Demián Bichir) e Maya (Tiffany Boone), l’equipaggio ha in Sully (una dedita Felicity Jones), che aspetta una bambina, l’elemento peculiare.

Con premura d’attore, Clooney dona a tutti i colleghi una o più scene di bravura e, complice una sequenza da antologia, la camminata spaziale dall’epilogo sanguinolento, svela l’arcano: il bel George non ci fa, ci è regista.

“Non c’è solo musica: da noi Barbero vende come Fedez”

Si chiama Wrapped: è la sintesi di un anno di ascolti in streaming sulla piattaforma Spotify, nata in Svezia nel 2006 e leader globale dell’ascolto della musica contemporanea: 320 milioni di utenti, tra cui 144 milioni di abbonati al servizio a pagamento Premium. Per fare un esempio Dua Lipa è stata “streammata” ben 3,8 miliardi di volte da 172 milioni di persone in 92 Paesi del globo. In contrasto alla consueta pubblicazione di questi dati, alcuni artisti – tra cui il violinista e collaboratore dei Coldplay Davide Rossi – hanno postato un meme con scritto “date agli artisti queste fottute royalties”.

È il primo scoglio da affrontare per la Managing director italiana – e del Sud Europa – Federica Tremolada: “Spotify non paga gli artisti direttamente ma chi li rappresenta, ovvero le etichette discografiche che hanno un accordo con noi. A oggi abbiamo condiviso 19,1 miliardi di dollari con l’industria musicale. E quest’ultima ha tutti gli strumenti per poter rendicontare”. Questo forse andrebbe spiegato a chi, come il leggendario David Crosby, si sfoga su Twitter accusando Spotify “di rubare i miei soldi”.

La pandemia e il blocco dei concerti stanno spingendo molti artisti a vendere i diritti sulle loro canzoni, da Bob Dylan a Stevie Nicks. Questo perché i guadagni dallo stream sono irrilevanti (in media 0,003 dollari ad ascolto). Ma c’è chi come Nile Rodgers degli Chic, autore di Let’s Dance di Bowie e Get Lucky dei Daft Punk, riconosce al colosso delle attenuanti: “Non sono i servizi di streaming che hanno un problema con i pagamenti. Sono le etichette che lo stanno perpetrando e dobbiamo affrontarlo davvero”.

È innegabile che Spotify abbia lanciato e contribuito, più di qualunque altra piattaforma o media, a far consolidare in Italia il rap come mainstream: “Siamo lo specchio di quello che sta accadendo all’interno della società. Noi elaboriamo una immensa mole di dati e nelle analisi emerge che il rap è un genere amatissimo in Italia, soprattutto dai giovani: ha introdotto un dizionario e una serie di storie molto attraenti per loro. È in corso una trasformazione. L’hip hop è il più richiesto in streaming oggi: rispetto al 2017 è cresciuto del 40 per cento in Italia mentre a livello globale solo del 5”. I nuovi songwriter arrivano da questa realtà: Tha Supreme è l’artista con il maggior numero di stream nel nostro Paese, seguito da Sfera Ebbasta e Marracash, mentre la canzone più ascoltata nel mondo nel 2020 è Blinding Lights di The Weeknd.

L’innovazione è un chiodo fisso della piattaforma digitale: “Spotify For Artist è uno strumento chiave e permette di segnalare un contenuto”. Il 2020 è stato indubbiamente l’anno del Podcast, vero asso nella manica di Spotify, capace di attrarre più investimenti pubblicitari di qualsiasi altro media, qualcosa di inimmaginabile fino a due anni fa. “È stato favorito sicuramente dal lockdown e dalla creatività di chi ha inserito i programmi audio. Ci sono quasi due milioni di podcast sulla piattaforma oggi, di cui oltre la metà è stata caricata quest’anno. Durante la prima fase della pandemia sono cresciuti gli ascolti dei contenuti di salute, di yoga, di benessere. E di corsi di inglese, di informazione, di gialli e crimine. Il genere più seguito è l’education e cultura, quindi si può dire che gli italiani vogliono formarsi sui temi, approfondendo ad esempio la storia e la letteratura”.

Alessandro Barbero è stato a lungo primo in classifica per l’ascolto del suo podcast Lezioni e conferenze di storia ed è risultato secondo nella classifica annuale del 2020. Per l’intrattenimento il più seguito è stato Muschio selvaggio di Fedez e Luis Sal. Podcast di tendenza, aderenti alla società, diventati da nicchia a essere fenomeni di massa.

“Bisio è un grande sul set. Ma Abatantuono e Rubini sono stati una vera scuola”

Al telefono? “No, almeno vediamoci sul computer”.

Stefania Rocca deve (almeno) guardarti in volto, deve capire, percepire, ridurre le distanze, affrontare il contrasto se necessario, polemizzare con garbo, ricostruire e smussare ogni accento divistico o egoriferito.

Così, all’inizio, incastonata in una bellissima casa totalmente bianca (“prima era nera”), davanti al secondo caffè per cacciare gli ultimi echi del sonno e sulla testa un’aureola dovuta alla falsa prospettiva di una lampada ad arco, il suo dichiararsi “punk” potrebbe apparire stonato, o quantomeno forzato.

E invece se il punk è libertà, lei a sette anni ha scelto di diventare attrice, al primo film ha detto un no gigantesco al regista (“non mi tolgo le mutande”); è andata a studiare all’Actors Studio di New York subito dopo il ruolo da protagonista in Nirvana (“per pagarmi le lezioni private ero tornata cameriera”), si disinteressa di orari e obblighi (“anche i miei figli stanno diventando come me”) e il suo curriculum racconta la libertà di passare da ruoli drammatici, quasi psichedelici, a quelli più leggeri e popolari come in Tutti pazzi per amore e ora in Cops con Claudio Bisio (ultima produzione Sky, in onda per due puntate da domani). E guidata da una serie di registi, da Salvatores a Minghella, da Abel Ferrara a Branagh, come poche altre attrici italiane.

Il suo percorso sembra quasi nascosto…

Un po’ è colpa mia, mi vendo male, e un po’ in Italia non tutti sono contenti se partecipi a progetti importanti.

Il cinema per lei.

Per me anticipa, educa o racconta una società; uno può anche portare sullo schermo una storia irreale, ma quella stessa storia avrà un’incidenza sul pubblico e sulla società; e poi, attraverso la fantasia, si può affrontare qualcosa di nuovo: ben venga se accade attraverso personaggi femminili.

Che non sono tanti.

In Italia non trovo un esempio di film al femminile; forse l’ultimo è La pazza gioia di Virzì.

Quel ruolo è stato un grande sforzo per la Ramazzotti.

Qualcosa di simile mi è successo a teatro quando ho interpretato Giovanna d’Arco, ma ero all’inizio e forse ho peccato d’inesperienza; ricordo Walter Le Moli (il regista, ndr) che arriva, mi guarda e mi avverte: “Dobbiamo rasarti i capelli, ma non durante le prove, preferisco il giorno prima del debutto, così senti l’effetto”.

E…

Ho accettato: subito dopo il taglio, ho indossato un cappuccio per non vedermi; una volta in scena, quando mi sono scoperta la testa, ho sentito un diffuso “oh, poverina”. Quell’onda emotiva mi ha avvolta a lungo, oltre lo spettacolo: ero talmente dentro il personaggio che per un po’ di tempo mi sono chiesta se quello che vedevo era reale o frutto di visioni.

Ha mai detto “no” a un ruolo o a una scena?

Mi sono sempre piaciuti i ruoli forti, la mia curiosità mi porta a vivere altre vite, scardinare i pregiudizi rispetto a un personaggio o a noi stessi: questo è il divertimento, il bello di questo mestiere; però ho rischiato più all’inizio di adesso.

Perché?

Sono in un’età in cui non ci sono i ruoli, per questo sono tornata al teatro.

In questi mesi, senza palco, l’artista è stato costretto a vivere la propria vita.

Assolutamente, anche se, da sempre, mi interrogo fin troppo; (sorride) comunque non lavoro da febbraio e in questo frangente mi sono occupata di attività alle quali non ero abituata, come pulire casa e stirare, oltre a partecipare alla fondazione di un’associazione di artisti, Unita.

Con lei Gabriele Muccino ha girato il suo primo lavoro, un cortometraggio…

Me lo aveva proposto come forma di presentazione, per poi arrivare al primo film, Ecco fatto, e insieme lo abbiamo mandato a Domenico Procacci (produttore, ndr); nel momento in cui era tutto pronto, mi propongono il ruolo da protagonista in Viola: ho accettato.

E…

Per anni Gabriele non mi ha parlato; però Viola è stato un film innovativo, anticipatore, parlava di sesso in Rete. È uno dei miei preferiti.

Si rivede?

Non mi capita mai.

E con i suoi figli?

Non sono così egocentrica, non sono un’attrice che indica il televisore al grido “guardate, c’è mamma”; hanno visto Cops, ma evito di insistere, non voglio schiacciarli con l’ego.

Stefania Rocca punk.

Non sono cambiata molto, l’approccio alla vita è lo stesso.

La vita non è la stessa.

Sono mamma, quindi dentro un meccanismo più borghese, ma viaggio sempre sui binari a me consoni.

Lei ragazza a Torino.

Amici, parco, biblioteca, la sera un locale rock, viaggi all’estero, in particolare Londra.

Cosa sognava?

Per me era chiaro già il futuro: diventare attrice, libera e indipendente.

Quando lo ha capito?

Da bambina, a sette anni, credevo di poter cambiare il mondo attraverso le immagini cinematografiche, o di cambiare la realtà con la finzione.

Il suo film dell’infanzia…

(Inizia a cantare) La storia infinita e adoravo la possibilità di stare per due ore tutti zitti in un’altra dimensione.

Il suo primo giorno su un set.

A Torino, avevo 16 anni, e mi avevano chiesto di girare una scena per un film straniero, ambientato a Superga. Io felicissima. Con qualche problema: i miei genitori non sapevano nulla, quindi la liberatoria la firmò mia sorella; quando mamma scoprì la furbata, decise di colmare il gap e coprirmi con papà.

E l’Actors Studio?

Un caso: avevo finito di girare Nirvana insieme ad Abatantuono e Rubini e mi ero un po’ spaventata, credevo di non essere all’altezza di stare accanto ad attori di quel livello; (ci pensa) mi sentivo in difficoltà perché non avevo completato gli studi al Centro Sperimentale, anche se ne ero uscita appena due mesi prima del diploma.

Quindi?

(Sorride) Una volta a New York, per studiare l’inglese, mi iscrivo a un college; peccato che i miei compagni erano soprattutto cinesi e giapponesi, con loro uscivo pure la sera: appena ho iniziato i provini, ogni volta mi chiedevano il motivo del mio “accento strano, quasi orientale”.

Soluzione?

Per pagarmi un coach e rimediare, ho iniziato a lavorare come cameriera e a miscelare cocktail; proprio il coach mi ha consigliato l’Actors, e lì si è aperta una realtà affascinante, in cui, oltre ai ragazzi, vedevi professionisti come Al Pacino e Julienne Moore preparare le scene.

Torniamo a Nirvana e ai dubbi.

Non semplice: il primo giorno sul set tremavo, mentre loro sono stati calorosi, inclusivi.

Secondo la Golino, Rubini è un uomo pericoloso.

In che senso?

Sentimentalmente.

Allora sì; ma io ero un maschiaccio, sono entrata nel loro gruppo fondato sul cameratismo.

Ha lavorato con un altro “pericoloso” come Abel Ferrara.

Gli voglio molto bene, a me i matti creativi piacciono, e lui è uno in grado di cambiare tutto il set all’ultimo; un giorno arriva, vede il programma di lavoro e sentenzia: “Non mi piace, troppo comune”. Quindi se ne va, noi in attesa, e quando torna aveva deciso di girare dentro uno stanzino, senza niente. Aveva ragione. È il genio maledetto che viene fuori.

A volte poco lucido, però.

In quel periodo si drogava moltissimo, e lo rivendicava come necessità per mantenere un equilibrio acquisito; (ci pensa) è stato poi bravissimo a uscirne, ora è pulito, non beve neanche più, va in giro con la bottiglia di acqua minerale.

Con quanto si è diplomata?

Se non sbaglio 58, ma non ero studiosa. Approfondisco più oggi.

Ha sempre l’ego a bada.

Ma no, avevo scelto quella scuola solo perché si studiava psicologia, e la psicologia era il mio piano B.

Di nuovo: ha sempre l’ego a bada.

L’attore, per essere tale, deve mettere da parte il proprio Io, altrimenti uno recita sempre lo stesso ruolo; quando rivedo i mei film, e magari ritrovo me stessa e non il personaggio, m’incazzo.

All’inizio della carriera si è spogliata più volte…

Solo se necessario alla storia; per il vero esordio, in Poliziotti, interpretavo una ragazza tossica, e per pagarmi una dose andavo con un tizio, ma nella sceneggiatura non era specificato nulla; arrivo sul set, e trovo Giulio Base che mi dà le indicazioni: “Ora farai sesso con lui, togliti le mutande”. “No”. “Ma il personaggio è questo…”. Da lì una litigata furibonda.

Il finale?

Mi sono tenuta le mutande, super protetta.

Al primo film non molte avrebbero avuto tale carattere.

Eh, lo so. Ma i registi, l’ho capito con gli anni, ti mettono alla prova, in un rapporto di gioco-forza. Infatti con Giulio siamo diventati amici.

È molto quadrata.

No, ho solo consapevolezza di me stessa, sono sempre stata attenta a non farmi prendere per il culo; (ci pensa) per me “quadrata” vuol dire rigida, e non mi ci vedo, anche perché ho evitato le sovrastrutture; in realtà, col tempo, ho provato a smussare i miei angoli, per risultare meno diretta e magari meno antipatica, ma non ci riesco.

In Cops è con Bisio.

È un grande attore, con grande esperienza, uno in grado di contribuire al giusto clima sul set, e non è un aspetto secondario; (ci pensa) torno indietro per un esempio: sul set di Nirvana un giorno dovevo girare una scena con Christopher Lambert, e lui aveva palesemente le palle girate, tanto da deconcentrarmi. Salvatores se ne accorse e mi chiese: “Riesci senza di lui?”. “Meglio!” E Christopher: “Hai ragione, scusa”.

La morale?

È fondamentale chi hai davanti e intorno, come si rapporta al lavoro e a te: Bisio in questo è fantastico perché crea l’atmosfera giusta.

Quando ha preso consapevolezza della fama…

(Silenzio prolungatissimo) Sto pensando se me lo sono mai detta; (altro silenzio) ero a Napoli per uno spettacolo, ancora con i capelli blu per Nirvana, cammino per la strada e un ragazzino mi urla: “Ma che sei del Napoli? Brava!”. Poi la sera vado a bere una birra con gli amici, e dopo un po’ un tipo si ferma davanti a me e con modi stupiti esclama: “No! Dimmi che non è vero”. “Cosa?” “Sei veramente tu? Sei Naima”. “Sì”. “Ti prego no, Naima non può essere reale, mi stai togliendo un sogno. Adesso esco, e tu fai finta di non avermi mai visto”. L’ho capito e apprezzato.

Il supereroe.

Da bambina Lady Oscar, poi Batman.

Vizio.

Una quadrata non può avere vizi.

“Quadrata” è stata archiviato.

Allora ne ho tantissimi, ma li definisco piaceri.

Mania.

Non ho orari, ho una vita senza regole: mi sveglio quando voglio, dormo quando ho sonno, e i miei figli stanno seguendo questa forma. Ah, dimenticavo, non sono ordinata.

Chi è lei?

E chi cazzo lo sa?

 

Polizia violenta: Klodian come Floyd

Mercoledì scorso, Klodian Rasha, 25 anni, è stato ucciso vicino alla sua abitazione, a Tirana, da un poliziotto, durante il coprifuoco. L’agente è stato sospeso.

Tirana brucia. Per il George Floyd albanese – il paragone è con l’afroamericano che il 25 maggio scorso perse la vita durante un controllo di polizia a Minneapolis – i giovani della Capitale continuano a protestare. Contro di loro le squadre dell’anti-sommossa usano idranti, manganelli e lacrimogeni, ma le manifestazioni proseguono. A fuoco, nel centro della città, a piazza Skanderberg, perfino l’albero di un Natale che si preannuncia molto triste. Adesso, come Rasha, – la cui morte è stata miccia di una tensione latente e profonda – a migliaia violano le misure restrittive e il divieto di raggruppamento per urlare il loro dissenso dinanzi alla sede del governo, accusato anche di cattiva gestione della pandemia. Già furiosa per il ristagno dell’economia, resa ancora più fragile dal virus, e per il tasso di disoccupazione e povertà del Paese, la gioventù di Tirana urla, piange e rivendica. Sassaiole e petardi sono stati tirati alle sedi del ministero dell’Interno e delle Finanze. Nonostante le immediate dimissioni del ministro dell’Interno Sander Lleshaj, la rabbia della Capitale è arrivata anche a Durazzo e Scutari. Disillusa verso quell’Unione Europea che sembra uno spettro sempre più lontano nonostante i negoziati, la gioventù albanese giura che non rientrerà a casa tanto presto. Per eccesso di legittima difesa rimane in prigione, secondo decisione della Corte, Nevaldo Hakdaraj, il poliziotto che ha sparato alla schiena al ragazzo. Ma le due pallottole che lo hanno colpito sono state esplose “da forze dello Stato”, e per questo ha chiesto perdono ai suoi cittadini Edi Rama, il premier. Ma la morte del ragazzo ha dato il via alla faida politica; così verso Rama ci sono richieste di dimissioni da parte dell’opposizione. In prima linea ci sono Sali Berisha, ex premier e leader del Partito democratico albanese, e Lulzim Basha, capo dell’opposizione e membro dello stesso raggruppamento politico che dice ad alta voce: “Non possiamo andare avanti così, liberiamoci di Rama”. A questo coro si unisce, anche se in modo tacito, lo stesso presidente Ilir Meta.

“Non solo incitano, ma orchestrano le violenze in strada. Così facendo però sminuiscono la memoria di Rasha; questi personaggi della politica albanese non lo fanno per la giustizia, ma per loro tornaconto”. Questa è stata la risposta del primo ministro Rama agli avversari, di ritorno da Washington dove ha negoziato dosi di vaccino per il Covid-19.

Zam e Zacarias, giornalisti ammazzati per una notizia

Il 2020 verrà ricordato come l’annus horribilis anche per il giornalismo: 42 cronisti uccisi e 235 arrestati. A due settimane dall’inizio del 2021, da un capo all’altro del pianeta, si registrano altri due giornalisti morti ammazzati nello stesso giorno: uno in Iran, l’altro in Messico. Entrambi uccisi per aver tenuto fede alla missione principale del nostro mestiere, ovvero informare anche quando farlo comporta mettere a repentaglio la propria vita. La magistratura iraniana per chiudere la bocca a Ruhollah Zam, 47 anni, un reporter che aveva denunciato la corruzione del regime teocratico sciita, lo ha accusato di aver ispirato e organizzato via social le manifestazioni scoppiate in tutto il paese nel 2017.

La gente allora era scesa in piazza per protestare contro i rincari della benzina e dei beni di prima necessità mentre l’entourage degli ayatollah continuava ad arricchirsi. Prima di venire impiccato, Zam aveva sperimentato tutta la via crucis prevista per chi viene incarcerato sulla base di questa categoria di reati. Dietro le sbarre i detenuti presunti traditori della “patria”, devono sopportare quotidianamente torture fisiche e psicologiche, “fino a che un piombo non li raggiunga per sempre”, per dirla con i versi scarni di Eugenio Montale. In Iran il regime preferisce tenere le pallottole per uccidere i manifestanti (più di 1500 solo nel 2019) mentre la forca, sempre allestita, è riservata a chi viene ritenuto colpevole mentre si trova in carcere.

Zam era stato condannato lo scorso giugno per “corruzione sulla Terra”, un reato inventato dal regime sciita spesso usato in casi di spionaggio o tentativi di rovesciare il governo. Il sito web di Zam, AmadNews, canale da lui creato sull’app di messaggistica Telegram aveva diffuso alcuni video delle proteste e informazioni imbarazzanti su alcuni funzionari dell’esecutivo e membri del clero sciita che tiene in scacco il popolo iraniano dal 1979. Le manifestazioni della fine del 2017 hanno rappresentato la sfida più grande per l’Iran dopo quelle del Movimento dei Verdi del 2009. Quelle di tre anni fa però fecero capire per la prima volta agli iraniani che il web poteva aiutarli a organizzarsi meglio. E Zam aveva dato il suo contributo essendo esperto di nuove tecnologie.

Gli slogan che nel 2017 sfidavano apertamente la Guida Suprema, il Gran Ayatollah Ali Khamenei – il padrone nel vero senso della parola del Paese – erano stati caricati sul canale di Zam per farli sentire anche a chi non aveva ancora avuto il coraggio di scendere in piazza e che, così, forse l’avrebbe trovato. Nel 2019, i Pasdaran avevano dichiarato di aver intrappolato Zam, che era riuscito a fuggire e avere asilo in Francia, in una “operazione complessa che utilizza l’inganno dell’intelligence”. Il giornalista era figlio di un religioso sciita riformista che non lo ha però difeso. Zam era consapevole che fare giornalismo in Iran avrebbe potuto comportare la messa a morte da parte dello Stato. “È stato lo Stato” è l’accusa che si sente spesso urlare nelle manifestazioni di protesta in Messico per l’enorme numero di giornalisti vittime della lotta tra cartelli. Accusare lo Stato non è una massimizzazione bensì un’accusa circostanziata data la comprovata connivenza tra i signori della droga e le istituzioni, dalla polizia municipale ai politici passando per magistrati per arrivare ai vertici della repubblica messicana. L’ultimo giornalista a rimanere sul campo è il fotoreporter Jaime Castaño Zacarías. Alcuni uomini lo hanno inseguito e freddato dopo averlo visto scattare foto di una fila di cadaveri con le mani legate sul ciglio di una strada a Jerez nello Stato di Zacatecas. Secondo i media la mattanza era dovuta a uno scontro tra cartelli della droga. Nel 2020 il Messico conquista così il triste primato di giornalisti uccisi sul lavoro: 14 in 12 mesi.

Corte Suprema boccia ricorso sul voto: Trump fuori gioco

Sette settimane dopo l’Election Day, presidenziali al capolinea negli Stati Uniti: domani, riunendosi nelle capitali dei 50 Stati, i 538 grandi elettori del Collegio elettorale renderanno ufficiale l’elezione di Joe Biden a 46°presidente Usa. Donald Trump mastica amaro e magari medita colpi di coda; ma l’ora della sconfitta senza appello pare ormai vicina, dopo che la Corte Suprema ha respinto il ricorso del Texas e di altri 18 Stati, cui s’erano pure aggregati la campagna del magnate e un centinaio di parlamentari repubblicani. Trump però non s’arrende: dice che la battaglia è solo all’inizio e istiga i suoi sostenitori, che inscenano, in centinaia, forse migliaia, una protesta a Washington davanti alla Corte Suprema.

L’istanza mirava a invalidare i risultati del 3 novembre in quattro Stati e a fare rinviare la riunione del Collegio elettorale: è stata respinta perché giuridicamente immotivata. Trump, che sul ricorso del Texas aveva puntato le ultime speranze, si sfoga su Twitter: “Un enorme e vergognoso fallimento della giustizia. Il popolo degli Stati Uniti è stato truffato e il nostro Paese disonorato; e la Corte Suprema non ha avuto “coraggio e saggezza”. Il tweet di Trump commenta un post dell’anchorman di Fox News Sean Hannity, un suo sostenitore, secondo cui a almeno due giudici conservatori, Samuel Alito e Clarence Thomas, avrebbero voluto consentire al Texas di portare avanti il ricordo. Ci volevano altri tre voti: a ‘tradire’ Trump sarebbero dunque stati proprio i tre giudici da lui nominati, Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh ed Amy Barret. Poche ore prima del verdetto – giunto venerdì sera -, Trump aveva spronato la Corte Suprema a rovesciare il risultato delle presidenziali: “La Corte Suprema dovrebbe seguire la Costituzione e fare quello che tutti sanno deve essere fatto. Devono mostrare coraggio e saggezza. Salvate gli Usa!”. Il ricorso, presentato dal procuratore generale del Texas Ken Paxton, criticava modifiche apportate alle procedure di voto in Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, tutti Stati vinti da Biden, e chiedeva di congelare i voti del Collegio elettorale in questi quattro Stati – in tutto 62 – e di rinviare la riunione del Collegio elettorale. Nel ricorso si accusavano i quattro Stati di non avere protetto dalle frodi il voto per posta. Senza quei 62 voti, Biden, che ha 306 grandi elettori, sarebbe sceso sotto la maggioranza (che è 270).

La Generación Bicentenario. “In Perù falsa democrazia”

Noelia Chávez era a Lima, al centro delle proteste che di lì a poco avrebbero portato alla destituzione del presidente de facto Manuel Merino, seguita alle dimissioni del predecessore Martin Vizcarra. Vedendo “la piazza San Martin stracolma di gente, come non l’aveva mai vista prima”, twitta: “Ecco la Generazione Bicentenario (Gb) che chiede a Merino di farsi da parte”. Un’etichetta che è rimasta attaccata alle proteste peruviane e che la giovane sociologa, formatasi all’Università Pontificia, spiega essere “un cappello sotto cui si riparano – dice Chávez – diversi movimenti che vogliono far sentire la propria voce contro i politici che non li rappresentano più, che assaltano il potere per i propri tornaconti e non per il bene della cittadinanza. ‘Gb’ è qualcosa di multi-generazionale, multi-classista e trasversale. Un’etichetta che non sempre sta bene a coloro che non vogliono far parte della storia ufficiale del Paese, sentendosi esclusi dal punto di vista dei più forti”.

Da chi è costituito il movimento?

Si tratta di identità molto diverse: in gran parte sono giovani, tra i 18 e i 24 anni, nati già in democrazia, in un Paese senza terrorismo e senza dittatura. La ‘Gb’ è cresciuta in un periodo democratico e di boom economico, senza il bagaglio di paura nei confronti della politica. Una generazione nativa digitale, per quanto il Perù presenti forti ritardi tecnologici. Tuttavia non è il mezzo che la caratterizza.

Perché il presidente Martin Vizcarra è stato destituito?

In Perù viviamo una crisi politica dal 2016, una crisi che deriva dallo scontro tra l’esecutivo e la maggioranza al Congresso, costituito da chi ha perso le elezioni e gli fa la guerra. L’intento di Vizcarra, pur senza appoggio parlamentare, senza partito e senza le forze economiche dalla sua parte, era governare con il sostegno dei cittadini per lottare contro la corruzione e fare una seria riforma politica. Così, come spesso accade in Perù, hanno tirato fuori un’inchiesta per corruzione su di lui, che risale al suo ex ruolo di governatore, per farlo dimettere. Ora c’è un vuoto di potere, cosa che i cittadini non accettano. Non scendono in piazza per appoggiare Vizcarra, ma contro il gesto del Congresso.

Qual è la situazione del Perù, Bicentenario a parte.

C’è una completa scollatura tra potere politico e cittadinanza a cui ora si aggiunge la pandemia che evidenzia tutte le lacune di un’intera classe politica che lavora solo per i propri interessi. Da questo è derivato un doppio choc: quello del rischio del ritorno all’autoritarismo, e quello della violenza della polizia che ha portato milioni di persone in piazza. Un momento davvero storico.

C’è differenza tra le proteste peruviane e quelle degli altri dei Paesi sudamericani?

La verità è che in un mondo globalizzato e con una società dell’informazione tanto potente, i manifestanti condividono mezzi e saperi. Ma soprattutto hanno in comune l’insofferenza nei confronti di democrazie limitate e immature che non sono all’altezza della situazione. Il Perù è l’ultimo Paese del Sudamerica a compiere il bicentenario dall’indipendenza: con le dovute differenze, le mobilitazioni – da Hong Kong al Cile – si ribellano contro strutture conservatrici e chiedono riforme che concludano il processo democratico.

Come è cambiato lo spazio pubblico in Perù?

Finora i peruviani hanno vissuto dando le spalle alla politica e alle questioni pubbliche e con timore a prenderne parte in un paese diviso tra dittatura e terrorismo di Sendero Luminoso. La lotta era radicale e ha distrutto i movimenti sociali degli anni 70. Con il boom economico, poi, si è creduto che il mercato avrebbe risolto tutto. Ma con la pandemia, i movimenti si stanno riappropriando di spazi e temi politici.

Ci sono partiti dietro alle manifestazioni?

No, è tutto spontaneo, i gruppi si organizzano autonomamente e confluiscono in spazi dove, certo, si trovano anche partiti politici. È una novità: non c’è una leadership politica o sindacale, nessuno dirige l’orchestra, anche perché nessuno è in grado di rappresentare la varietà delle istanze presenti nella protesta: movimenti urbani, ma anche rurali.

La protesta sfocerà in un partito politico?

Probabilmente sì, ma ci vuole tempo. Ma Generación bicentenario è già una manifestazione politica in sé.

Prendi una tragedia, fanne parodia. Ed è subito satira

Continuiamo la nostra passeggiata amena in compagnia dei comici greci e latini.

LA FORMA DEL DISCORSO DIVERTENTE

La congettura assurda. Celeberrima, anche perché ripresa da Molière, la battuta di Euclione:

EUCLIONE: Fammi vedere le mani. SERVO: Ecco. Te le ho mostrate. EUCLIONE: Le vedo. Mostrami anche la terza. (Aul., 640-642)

Una forma sofisticata di congettura è quella del personaggio che, per mentire, dice la verità. Nel Miles gloriosus, Palestrione, volendo convincere Sceledro che la ragazza non è lei, gli dice la verità, cioè che è lei:

SCELEDRO: Ti sembrava lei? PALESTRIONE: Perdio, certo che era lei. (Mil., 462)

SOSTANZA E FORMA

La parodia. Il termine parodia indica una procedura caricaturale e il suo prodotto, nonché un genere letterario; e può essere satirica. L’ultimo film di Woody Allen, Rifkin’s Festival, abbonda di parodie spiritose dai classici del cinema (Welles, Fellini, Godard, Bergman). Mel Brooks parodiava film e generi (Frankenstein Junior, Mezzogiorno e mezzo di fuoco, Alta tensione, Balle spaziali); la rivista Mad, tutta la cultura di massa. I commediografi greci e latini non erano da meno. Un esempio supremo di parodia è lo scherzo di Eschilo a Euripide nelle Rane, dove Aristofane mette in burla i versi di Euripide mostrando come sia possibile concludere tutti i suoi trimetri giambici con la frase “perse la boccetta” (ληκύϑιον ἀπώλεσεν). Lo stratagemma comico prende da qui il suo nome (lecizio).

EURIPIDE: Allora comincio: “Egitto, narra una famosa storia, / giunto per mare insieme ai suoi cinquanta / figli ad Argo…”. ESCHILO: “… perse la boccetta” EURIPIDE: “Dioniso che coi tirsi e con le pelli / di cervo, tra le fiaccole, lanciandosi / lungo il Parnaso…”. ESCHILO: “… perse la boccetta” EURIPIDE: “Pelope, con le sue belle cavalle / giunto a Olimpia…”. ESCHILO: “… perse la boccetta” (Bat., 1205-1233)

Negli Acarnesi, la scena in cui Diceopoli minaccia di accoltellare una cesta di carbone fa il verso a quella di Euripide in cui Telefo prende in ostaggio il piccolo Oreste. Gli basta poi elencare gli oggetti cenciosi tipici delle tragedie di Euripide per farne la parodia:

DICEOPOLI: Ti supplico, Euripide, per le tue ginocchia: dammi qualche straccio da una tua vecchia tragedia. Devo recitare un lungo discorso al Coro. Se non parlo bene, mi aspetta la morte.

Euripide gli propone in sequenza gli stracci di Eneo, di Fenice, di Filottete, di Bellerofonte, infine di Telefo:

DICEOPOLI: Ecco, sì, Telefo! Dammi i suoi stracci. EURIPIDE (al servo): Ehi tu, servo: dagli i cenci di Telefo. Stanno sopra gli stracci di Tieste, in mezzo a quelli di Ino. DICEOPOLI: Dammi anche quelle altre cose che si accompagnano a questi stracci: il berrettino milesio, per esempio, per la testa. Un bastone da mendicante. Un cestino bruciacchiato. Una ciotolina con l’orlo sbreccato. Un vasetto tappato con una spugna. EURIPIDE: O uomo, mi porterai via tutta la tragedia! DICEOPOLI: Nel cestino mettimici un po’ di foglie secche. (Ak.,414-469)

In tutte le commedie di Aristofane sono frequenti le citazioni satiriche da Euripide, Eschilo, Sofocle, Alceo. E da Omero: nelle Vespe, Filocleone si aggrappa al ventre di un asino come Odisseo all’ariete per sfuggire a Polifemo; mentre nella Pace sono diversi i riferimenti all’Iliade. Una lunga parodia dei processi, e dei fanatici di processi, è la scena delle Vespe in cui Bdelicleone inscena un giudizio contro un cane che ha rubato un pezzo di formaggio, per poi assolverlo con un trucco: alla sentenza inaspettata, Filocleone sviene.

L’impiego di situazioni e motivi presi dalla tradizione tragica per raccontare gli eventi comici, con i personaggi che passano dal linguaggio comune della commedia a quello eroico della tragedia, genera un’esperienza teatrale varia nei toni, e piena di risate.

BLEPIRO: Me infelice! Piangi, Antiloco: oh, non sui tre oboli, su me che vivo ancora, quando tutto è perduto! (Ekk., 391-93), scrive Aristofane prendendo in prestito il passo dalla scena dei Mirmidoni di Eschilo in cui Antiloco informa Achille della morte di Patroclo. Aristofane parodia anche le proprie scene, giustapponendole a contrasto:

LAMACO (ferito, sorretto da due soldati): Ahi ahi, tremende e angosciose sofferenze. Me infelice. Muoio trafitto da una lancia nemica. (…) DICEOPOLI (sorretto da due ballerine): Ahi ahi, che tette, sode come cotogne! (Ak., 1190-1199)

In modo analogo, nell’Epitrepontes Menandro echeggia situazioni dell’Alope di Euripide e dell’Auge di Euripide, mentre nel Samia parodia l’Hyppolytos di Euripide.

CRISALO: O Troia, o patria, o Pergamo! (Bacc., 933)

Quella parodia di un verso dell’Andromacha di Ennio è all’interno di un lungo monologo delle Bacchidi (925-978) in cui il servo Crisalo paragona la propria impresa a quella della conquista di Troia: Plauto sfrutta parodisticamente ogni possibile parallelismo. Nel prologo del Poenulus, prende di nuovo in giro Ennio, riproducendo fedelmente alcuni versi della sua tragedia Achilles Aristarchi, per farne la caricatura:

IL PROLOGO: “State zitti, tacete, fate attenzione: chi vi ordina di ascoltare è l’imperatore…” degli istrioni, che vi prescrive anche di disporre le chiappe in ordine e in pace sui sedili, sia che siate venuti affamati sia che siate venuti satolli. (Poen., 3-6)

La parodia di Plauto, qui, sembra innocente, ma è satirica: essa, infatti, rivela la sua ostilità verso le famiglie patrizie di cui Ennio era cliente, gli Scipioni e i Fabii.

(34. Continua)