S’intitolava Comprati e venduti un vecchio libro di Giampaolo Pansa, edito nel 1977 da Bompiani, con un disegno in copertina che raffigura una forbice nell’atto di tagliare una lingua trasformata simbolicamente nella penna di un giornalista. “Comprati e venduti restiamo noi stessi”, titolammo sul settimanale L’Espresso, quando Carlo De Benedetti comprò il glorioso gruppo editoriale fondato da Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Ma ora bisognerebbe dire comprati, venduti e sfregiati, a un anno esatto dall’acquisizione definitiva del gruppo Gedi da parte della proprietà Agnelli-Fiat.
Uno sfregio alla storia di Repubblica e dell’Espresso, ma anche all’autonomia e all’indipendenza dell’informazione, è infatti il documento con cui il nuovo padrone fissa i “valori” e la “missione editoriale” del gruppo. Come se non fossero già impressi in quella storia, scritta da tanti giornalisti di valore, intellettuali, uomini e donne di cultura. Piuttosto che una rifondazione, questa è in realtà una mutazione genetica che punta a tagliare la lingua ai redattori, ovvero a mettere il bavaglio alle redazioni, non tanto in nome di una scelta politica quanto di un interesse economico e commerciale. Un processo degenerativo, di snaturamento e demolizione, iniziato già con l’infausta maxi-fusione denominata “Stampubblica”.
Oggi, per citare i “fondamentali” di questa Mediamorfosi, “chi lavora nel Gruppo deve avere equilibrio nel riportare le notizie, distanza critica rispetto ai fatti, evitare ogni forma di militanza”. Obblighi tanto ovvii quanto ambigui. Tanto più che stiamo parlando di giornali, come L’Espresso prima e la Repubblica poi, che fin dalla loro fondazione si sono schierati apertamente sul fronte progressista, rivolgendosi a una constituency di lettori laica e democratica. Una “struttura d’opinione”, come amava dire un tempo Scalfari, in simbiosi con le rispettive redazioni.
Sono quattro i “pilastri” su cui si fonda il Codice del gruppo Gedi. Al primo posto, c’è la “qualità del lavoro”: un obiettivo e un impegno professionale di qualsiasi buon giornalista, se non fosse che qui la qualità viene declinata con riferimenti banali come il “rispetto delle notizie, dei lettori e dei rapporti di lavoro”. Oppure, “nell’intrattenimento significa tradurre creatività in realtà” (?), “andare incontro all’immaginario collettivo sfidando ogni conformismo” (!), “sul modello di Radio DeeJay” (?!). Con tutto il rispetto per i colleghi che si occupano proficuamente di questa emittente, indicarla come “modello” a chi lavora in due testate storiche, di grande impegno politico, culturale e civile, rischia di risultare vagamente blasfemo.
Poi, c’è l’Innovazione, ovviamente all’insegna della transizione al digitale, come se fossimo all’anno zero. Segue l’Indipendenza, Deo gratias, per “autosostenersi finanziariamente” (bella scoperta!), “giocando la partita sul terreno dei contenuti digitali a pagamento” (leggasi “articoli redazionali” o più volgarmente “marchette”) e della “ricerca di nuove forme di ricavi” (traffico clandestino di notizie o prostituzione redazionale?). E infine, Coesione, ci mancherebbe altro. Cioè, “rapporto schietto tra colleghi” (come in un collegio di educande). E ancora, grande ammucchiata fra “azienda, quotidiani, periodici, radio e concessionaria (pubblicitaria – ndr), con tanti saluti alla “centralità del lavoro giornalistico” e alla necessità di “evitare ogni possibile commistione di ruoli”, reclamate giustamente dal Cdr di Repubblica.
Sì, c’è “il passaggio storico della trasformazione digitale come occasione irripetibile per il rilancio”. Giusto. Ma lo stesso gruppo, intanto, prefigura un bilancio 2020 in rosso per diverse decine di milioni di euro, mentre il sito Repubblica.it perde il primato rispetto a quello del Corsera e la rivista di filosofia e cultura MicroMega viene condannata alla chiusura. Fiat voluntas vostra!