Repubblica&Espresso: lingua tagliata, militanza zero e modello Radio Deejay

S’intitolava Comprati e venduti un vecchio libro di Giampaolo Pansa, edito nel 1977 da Bompiani, con un disegno in copertina che raffigura una forbice nell’atto di tagliare una lingua trasformata simbolicamente nella penna di un giornalista. “Comprati e venduti restiamo noi stessi”, titolammo sul settimanale L’Espresso, quando Carlo De Benedetti comprò il glorioso gruppo editoriale fondato da Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Ma ora bisognerebbe dire comprati, venduti e sfregiati, a un anno esatto dall’acquisizione definitiva del gruppo Gedi da parte della proprietà Agnelli-Fiat.

Uno sfregio alla storia di Repubblica e dell’Espresso, ma anche all’autonomia e all’indipendenza dell’informazione, è infatti il documento con cui il nuovo padrone fissa i “valori” e la “missione editoriale” del gruppo. Come se non fossero già impressi in quella storia, scritta da tanti giornalisti di valore, intellettuali, uomini e donne di cultura. Piuttosto che una rifondazione, questa è in realtà una mutazione genetica che punta a tagliare la lingua ai redattori, ovvero a mettere il bavaglio alle redazioni, non tanto in nome di una scelta politica quanto di un interesse economico e commerciale. Un processo degenerativo, di snaturamento e demolizione, iniziato già con l’infausta maxi-fusione denominata “Stampubblica”.

Oggi, per citare i “fondamentali” di questa Mediamorfosi, “chi lavora nel Gruppo deve avere equilibrio nel riportare le notizie, distanza critica rispetto ai fatti, evitare ogni forma di militanza”. Obblighi tanto ovvii quanto ambigui. Tanto più che stiamo parlando di giornali, come L’Espresso prima e la Repubblica poi, che fin dalla loro fondazione si sono schierati apertamente sul fronte progressista, rivolgendosi a una constituency di lettori laica e democratica. Una “struttura d’opinione”, come amava dire un tempo Scalfari, in simbiosi con le rispettive redazioni.

Sono quattro i “pilastri” su cui si fonda il Codice del gruppo Gedi. Al primo posto, c’è la “qualità del lavoro”: un obiettivo e un impegno professionale di qualsiasi buon giornalista, se non fosse che qui la qualità viene declinata con riferimenti banali come il “rispetto delle notizie, dei lettori e dei rapporti di lavoro”. Oppure, “nell’intrattenimento significa tradurre creatività in realtà” (?), “andare incontro all’immaginario collettivo sfidando ogni conformismo” (!), “sul modello di Radio DeeJay” (?!). Con tutto il rispetto per i colleghi che si occupano proficuamente di questa emittente, indicarla come “modello” a chi lavora in due testate storiche, di grande impegno politico, culturale e civile, rischia di risultare vagamente blasfemo.

Poi, c’è l’Innovazione, ovviamente all’insegna della transizione al digitale, come se fossimo all’anno zero. Segue l’Indipendenza, Deo gratias, per “autosostenersi finanziariamente” (bella scoperta!), “giocando la partita sul terreno dei contenuti digitali a pagamento” (leggasi “articoli redazionali” o più volgarmente “marchette”) e della “ricerca di nuove forme di ricavi” (traffico clandestino di notizie o prostituzione redazionale?). E infine, Coesione, ci mancherebbe altro. Cioè, “rapporto schietto tra colleghi” (come in un collegio di educande). E ancora, grande ammucchiata fra “azienda, quotidiani, periodici, radio e concessionaria (pubblicitaria – ndr), con tanti saluti alla “centralità del lavoro giornalistico” e alla necessità di “evitare ogni possibile commistione di ruoli”, reclamate giustamente dal Cdr di Repubblica.

Sì, c’è “il passaggio storico della trasformazione digitale come occasione irripetibile per il rilancio”. Giusto. Ma lo stesso gruppo, intanto, prefigura un bilancio 2020 in rosso per diverse decine di milioni di euro, mentre il sito Repubblica.it perde il primato rispetto a quello del Corsera e la rivista di filosofia e cultura MicroMega viene condannata alla chiusura. Fiat voluntas vostra!

Flores: “MicroMega resta viva”. Bonsanti: “È un delitto di Gedi”

Sette righe comparse ieri pomeriggio sul sito di MicroMega confermano la notizia pubblicata in mattinata dal Fatto: “Ai tanti amici, e amici di MicroMega, e giornalisti che mi stanno chiamando in queste ore, posso assicurare che MicroMega continuerà a vivere, e che con i redattori e i collaboratori stiamo già studiando le modalità per non interrompere la continuità della testata, anche se il numero in uscita il prossimo giovedì 17 dicembre, un almanacco di filosofia dedicato alla biopolitica, sarà l’ultimo edito da Gedi”.

La firma è quella di Paolo Flores d’Arcais, fondatore e direttore della storica rivista di filosofia e politica “per una sinistra illuminista”.

Gedi dunque la chiude, dopo quasi 35 anni di vita, senza neppure comunicare perché. Indignata e attonita Sandra Bonsanti, storica direttrice del Tirreno, quotidiano anch’esso “tagliato” dal gruppo Gedi-Agnelli-Repubblica: “Con la chiusura di MicroMega, c’è la perdita di un pezzo della nostra identità, dell’identità non voglio neanche dire della sinistra, ma della cultura e del giornalismo di denuncia e d’inchiesta”.

MicroMega è nata nel 1986 ed è stata per più di tre decenni un punto di riferimento della cultura e della riflessione politica progressista in Italia, animata da uno stuolo di collaboratori tra cui Andrea Camilleri, Antonio Tabucchi, Stefano Rodotà, Franco Cordero, Giovanni Ferrara, Margherita Hack, Dario Fo, Franca Rame, don Andrea Gallo… E tanti altri: il meglio della cultura italiana.

La chiusura, comunicata dall’editore con una fredda nota di tre righe, è un’ulteriore prova del cambiamento di natura del gruppo editoriale Repubblica, passato nelle mani di John Elkann e della famiglia Agnelli.

“Non so se Flores riuscirà ad andare avanti”, continua Sandra Bonsanti, “ma la chiusura definitiva sarebbe un salto nella povertà culturale. Quale sia poi il gioco che si sta facendo, io non lo so. Io i giochi interni del gruppo Gedi non li posso conoscere, ma ci saranno sicuramente. A che cosa si punta, se non a distruggere un pezzo dell’editoria e del pensiero libero? Il risultato è questo: veniamo privati di un pezzo non solo della nostra cultura, ma della nostra civiltà. È una giornata triste, questa, proprio nella data nera in cui ricordiamo la strage di piazza Fontana”.

Conclude Bonsanti: “Non so come dirlo, ma ci vuole qualche parola grossa: lo ritengo un delitto di lesa libertà. Mi sento privata di un pezzo della nostra storia e penso che sia sicuramente una vera tragedia per la cultura e il giornalismo italiano. Un pezzetto alla volta, vedo scomparire tante voci libere. Mi trovo a pensare: meno male che c’è il Fatto; e perfino: meno male che c’è il Corriere della Sera… Io spero che tutto quello che ha rappresentato MicroMega possa in un modo o nell’altro a continuare a vivere”.

Il ministero dell’Ambiente: “Condono? Non se ne parla”

Ieri il Fatto ha rivelato che nella bozza del nuovo testo unico sull’edilizia, in discussione al tavolo tecnico del Consiglio superiore dei lavori pubblici (ministero delle Infrastrutture), è presente un enorme condono edilizio – anzi, una sorta di amnistia – per tutte le costruzioni abusive antecedenti al 1° settembre 1967. Un provvedimento che, tentando di risolvere alcuni problemi, rischia di sanare tutto, veri e propri ecomostri compresi.

Ebbene, il ministero dell’Ambiente non ha intenzione di avallare un provvedimento di questo genere: “Non passerà mai”, rivelano fonti del dicastero guidato da Sergio Costa. In sostanza, l’idea partorita al tavolo tecnico di Paola De Micheli – un testo in forma di articolato esiste fin da luglio – al momento non è stato ancora condiviso con gli altri ministeri. Quando lo sarà, se non sarà stato modificato, il ministero dell’Ambiente porrà il veto non solo sull’amnistia per gli abusi pre-1967 (l’attuale articolo 39), ma chiederà modifiche anche sulle altre due norme che cambiano – ma in maniera assai meno scandalosa – la disciplina attuale per le sanatorie (art. 37 e 38).

Basterà citare il testo predisposto al ministero delle Infrastrutture per capire il motivo del tono non conciliante del ministero dell’Ambiente: “Sono da considerarsi legittimamente realizzati, anche in presenza di diverse disposizioni nella regolamentazione comunale vigente all’epoca, gli interventi edilizi eseguiti ed ultimati prima del 1° settembre 1967 (…), ivi compresi quelli ricadenti all’interno della perimetrazione dei centri abitati o delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano individuate dallo strumento urbanistico all’epoca vigente”.

In sostanza, basta avere la documentazione dell’avvenuta esecuzione dei lavori e tanti saluti: tutto “legittimo”, il peccato viene cancellato ab origine.

Città contro porto: il derby di Venezia sui centimetri a cui si deve alzare il Mose

Dopo 17 anni di lavori, uno scialo di denaro pubblico senza precedenti, arresti e processi, il Mose che dimostra di poter salvare Venezia dalle acque alte si è trasformato in un colossale paradosso. Se le 78 paratoie d’acciaio alle bocche di porto vengono alzate, le maree si bloccano e la città si salva. Ma il porto agonizza, perché la navigazione si blocca. Così, se il porto vuole continuare l’attività commerciale e si utilizzano le difese artificiali con parsimonia, allora è Venezia ad andare di nuovo a fondo. Uno sberleffo, pensando ai 6 miliardi di euro spesi.

Gli ultimi dieci giorni di passione hanno dimostrato che a Venezia è in corso una guerra di centimetri, ovvero quelli che fissano il limite di marea in cui scatta l’ordine di alzare le paratoie. I Comitatoni di inizio secolo avevano indicato il livello di 110 cm. Ma ad agosto il commissario straordinario Elisabetta Spitz e il procuratore alle opere pubbliche del Triveneto Cinzia Zincone, d’intesa con Capitaneria di porto e autorità portuale, hanno deciso che fino al collaudo (dicembre 2021) il Mose sarà alzato solo con maree superiori ai 130 cm. Per questo all’Immacolata le paratoie sono rimaste sul fondo, anche se poi Centro Maree, Ispra e Cnr hanno dimostrato di averne previsto il superamento. Spitz e Zincone si sono affidate a rilevazioni interne al Consorzio Venezia Nuova (114 cm), con un risultato disastroso: 138 cm raggiunti a Venezia e 146 a Chioggia. Non a caso Italia Nostra ha chiesto le dimissioni della commissaria.

Negli ultimi cinque giorni, il Mose è così stato alzato sempre. Sospiro di sollievo per abitanti, negozianti e imprenditori cittadini. Ma dalla parte opposta si sono levate le proteste del Porto. Il commissario Pino Musolino: “Quando il Mose è in funzione non c’è accesso al mare. Senza una conca di navigazione funzionante che permetta alle navi di entrare e uscire anche con le barriere del Mose sollevate, i porti di Venezia e Chioggia non possono resistere a lungo”. Replica dell’ambientalista Stefano Boato: “Alzando solo a +130 si subordina il destino della città agli interessi del porto”. A questa quota si era opposto a settembre il vice procuratore alle Opere pubbliche, Francesco Sorrentino, votando contro la decisione di Spitz e Zincone: “Non possono modificare il livello indicato dai Comitatoni e mettono a rischio la pubblica incolumità”.

La soluzione sarebbe nella conca di navigazione di Malamocco, che è stata danneggiata da una mareggiata e nessuno l’ha riparata. Inoltre è troppo corta per le grandi navi e l’accesso è pericoloso, a detta dei capitani. Così i lavori per 30 milioni di euro, tra ricorsi e lungaggini, non sono ancora ultimati. Uno scandalo nel grande scandalo Mose.

Knorr, il ministero diventa sponsor del risotto in busta

La ricetta è questa “2 buste di Cuoci & Gusta orzo e farro, zucchine, pomodori e carote Knorr, 1 patata lessa, 4 panini da burger, 4 fette di pomodoro ramato, 4 foglie di insalata Iceberg, Maionese”. Si chiama BuonCibo il programma di Knorr (gruppo Unilever, una delle maggiori multinazionali al mondo, dai gelati al sapone) per “fornire delle soluzioni concrete all’insegna di una alimentazione più varia, a base più vegetale e fondata su scelte più sostenibili”. Il ricettario del BuonCibo usa solo prodotti Knorr. E fin qui non ci sarebbe nulla di notiziabile. Fatto sta che questo ricettario, figlio di un piano mondiale di Unilever per abbracciare (a modo suo) consumatori più attenti all’ambiente, ha avuto di recente la benedizione del Crea, ente pubblico vigilato e finanziato dal Ministero delle Politiche agricole di Teresa Bellanova. Per Andrea Ghiselli, dirigente di ricerca Crea Alimenti e Nutrizione il progetto “risponde alla perfezione alle raccomandazioni dell’ultima revisione delle Linee Guida per una sana alimentazione secondo le quali, per migliorare la salute dell’uomo e quella dell’ambiente in cui vive, è necessario aumentare il consumo di prodotti vegetali” (i salumi sono banditi dalle linee guida di Ghiselli). Il leghista Guglielmo Gulinelli, forse leggendo la ricetta del risotto alla milanese (“versare il contenuto di una busta di Risotto Milanese Knorr e la quinoa rossa in 600 ml di acqua fredda. Preparare poi seguendo le istruzioni sul pacco”) ha interrogato il ministero chiarendo che un ente pubblico non dovrebbe “sponsorizzare iniziative private volte semplicemente a fare operazioni di maquillage e greenwashing”. Forse al posto di Riso parboiled 88%, farina di grano tenero, sale, grasso di palma, lattosio, cipolla 0,7%, estratto di lievito, formaggio fuso, zucchero, olio extravergine d’oliva, curcuma, zafferano 0,04%, aromi (gli ingredienti del risotto Knorr, è chiarito, possono “contenere uova, sedano e senape”), meglio due fette di prosciutto.

Paolo Rossi, a Vicenza un ultimo addio in spalla ai compagni del Mondiale ’82

Cori, applausi e forte commozione. Vicenza ha salutato Paolo Rossi, scomparso a 64 anni lo scorso giovedì, con i funerali svolti nel Duomo di Santa Maria Annunciata. All’esterno, molte persone sono giunte a commemorare il campione del mondo che tanto fece gioire in quell’estate del 1982, con le note di Franco Battiato di sottofondo. Ma, considerate le norme Covid, circa 300 sono state le persone che hanno omaggiato “Pablito” in chiesa. Tra questi, anche il presidente della Figc Gabriele Gravina e il sindaco cittadino Francesco Rucco, oltre ai familiari e ai compagni di quel lontano ’82. Proprio loro hanno voluto trasportare la sua bara: Marco Tardelli, Antonio Cabrini, Giancarlo Antognoni, ecc. Sul feretro, circondato da fiori e stendardi, la maglia azzurra col numero 20. “Non ho perso solo un compagno di squadra, ma un amico e un fratello” ha commentato Cabrini, molto legato a Rossi. E la moglie Federica si è augurata “che Paolo possa aver visto tutto questo affetto”. Sì, perché Vicenza, per un giorno, è stata davvero un “centro di gravità permanente”.

“La rete antifascista con i Cinque Stelle, la Cgil e le Sardine”

“Una grande alleanza basata sulla persona, il lavoro e la socialità”. È la proposta lanciata dall’Associazione Nazionale dei Partigiani d’Italia (Anpi) lo scorso 4 dicembre, come spiegato dal suo presidente Gianfranco Pagliarulo. Al vertice dell’associazione dal 30 ottobre, a seguito della scomparsa di Carla Nespolo, auspica la nascita di una “rete nazionale”. E la prima pietra è stata poggiata proprio durante l’incontro tra organizzazioni e associazioni di ogni tipo – dalla Cgil con Maurizio Landini e Libera fino alle Sardine di Mattia Santori –, ma anche rappresentanti dei partiti politici.

Come nasce l’idea di questa rete?

Ci siamo misurati in un confronto interno, dove abbiamo analizzato la gravissima situazione del Paese. Abbiamo formulato l’ipotesi di avviare una rete nazionale con soggetti di varia natura e anche partiti che condividono con noi l’urgenza di una rinascita, in profonda discontinuità col passato.

E così l’incontro del 4 dicembre.

Esiste un “tavolo” ormai consolidato da anni con partiti e associazioni per discutere e intraprendere attività antifasciste e antirazziste su scala nazionale. Il tessuto democratico c’era e c’è: guardiamo alle innumerevoli associazioni e organizzazioni. Il problema è che sono isolate. Non sono in rete. L’incontro del 4 dicembre è un punto di partenza. Per questo abbiamo invitato partiti, movimenti…

Incluso il M5S: si è fatta un’opinione in merito?

Questa volta, con soddisfazione, hanno partecipato il capo politico Vito Crimi, il senatore Andrea Cioffi e il deputato Riccardo Ricciardi. La partecipazione dei 5S è una novità molto positiva, ma il fatto stesso che forze diverse discutano assieme ci sembra un risultato davvero significativo. C’è profonda condivisione della proposta. Crimi ha sostenuto l’unità, anzi come ha detto lui stesso, l’“unitarietà” di questa proposta, nonché l’urgenza di proiettarla sui territori.

Quindi è una rete extrapolitica?

Questa rete non sarà mai un superpartito. Siamo paralleli alla politica, e intendiamo avere vari interlocutori: il primo è il governo, il secondo è il Parlamento, di cui vogliamo ribadire la centralità; nel sociale ci sono tantissimi altri soggetti con cui interloquire.

Eppure già le Sardine provarono a dialogare con il governo, nel tentativo di abrogare i decreti Salvini.

Non mi pare che sia compito di questa rete avanzare specifici programmi, bensì indicare indirizzi. Mi viene in mente la questione sanitaria: occorre realizzare davvero l’articolo 32 della Costituzione. Mi pare sotto gli occhi di tutti che il Servizio sanitario nazionale sia stato in questi anni parzialmente svuotato con eccessiva enfasi sulla sanità privata. Inoltre, è giunto il momento di tutelare questo diritto allo stesso modo in tutte le regioni.

State già lavorando per una prossima riunione?

Ci sarà un comune appello. In una fase successiva, ci vedremo ancora per articolare la presenza sul territorio, considerando le specificità di ogni realtà.

Ci saranno ulteriori forze e personalità?

Sì, associazioni ed energie, a cominciare dal mondo della cultura, dell’arte, della scienza e dell’informazione.

Salvini scarica ancora barile e si contraddice sugli sbarchi

Fino a un anno fa si presentava come l’uomo solo al comando, unico salvatore della Patria contro l’invasione dei migranti. Ieri, di fronte ai giudici di Catania che devono decidere se mandarlo a processo con l’accusa di sequestro di persona per la gestione dei 131 migranti a bordo della nave Gregoretti, Matteo Salvini si è invece presentato in tutt’altre vesti. Quelle di un semplice gregario, quasi che, al tempo in cui guidava a modo suo il Viminale, non fosse che il mero esecutore di decisioni assunte in piena armonia con Palazzo Chigi e i suoi allora colleghi del governo gialloverde.

Due di loro sono stati sentiti ieri a Catania e alla fine delle loro deposizioni, il Capitano ha distribuito le pagelle: promossa a pieni voti l’ex titolare della Difesa, Elisabetta Trenta, che ha riferito che in quei giorni caldi, dal 27 luglio 2019 (quando in teoria nulla ostava allo sbarco dei migranti) fino al 31 dello stesso mese quando effettivamente furono fatti scendere, era stata attenta a garantire il pieno rispetto dei loro diritti: ed era quello che più interessava all’avvocato del capo del Carroccio, la senatrice leghista Giulia Bongiorno che punta a far cadere le accuse contro il suo assistito sostenendo come la stessa nave della Marina militare potesse essere considerata un porto sicuro. Un dieci e lode dunque, anche se Trenta nella stessa deposizione ha chiaramente fatto intendere che nel ruolo di ministro dell’Interno non si sarebbe comportata allo stesso modo di Salvini. Che ha bocciato con l’arma del dileggio, Danilo Toninelli, che ha sostenuto in udienza di non aver inciso in nessun modo sul trattenimento a bordo dei migranti. E che per questo è finito nel mirino del capo del Carroccio (“Da Toninelli solo ‘non ricordo’, speriamo ricordi almeno la strada di casa”), oltre che della Bongiorno.

L’avvocato per un pezzo, oltre un’ora, gli ha rinfacciato in aula di aver pubblicato alcuni post sul suo profilo social, tra giugno 2018 e agosto 2019, che sarebbero la prova provata della sua piena condivisione della politica dei ricollocamenti del governo gialloverde e dunque, della piena condivisione delle scelte operate da Salvini. Qualche “non ricordo” di Toninelli ha poi dato lo spunto a Salvini per accusarlo di reticenza, ancorché l’ex ministro delle Infrastrutture non abbia mai negato che “la linea del governo era quella di interessare gli altri paesi europei perché si assumessero la responsabilità dei ricollocamenti, ma ogni sbarco ha una storia a se stante”. Ora Salvini attende il 28 gennaio quando a Palazzo Chigi verrà acquisita dai magistrati di Catania la testimonianza di Giuseppe Conte, principale bersaglio della Bongiorno che ha già depositato agli atti un video del presidente del consiglio risalente all’epoca del caso Gregoretti. “Per me quel ‘noi’ e quel ‘poi’ che pronuncia Conte spiegando di aver avuto un ruolo nei ricollocamenti dei migranti per poi dare il via agli sbarchi chiude il processo”, ha detto il capo del Carroccio, a cui ha fatto eco il suo avvocato che ha pescato nella valigia dei ricordi. “Io c’ero in quel governo e ricordo che spesso scrivevo a casa per avvertire che avrei fatto notte in quanto Conte, Di Maio, Salvini, Toninelli e Moavero stavano chiusi in una stanza a decidere chi fare sbarcare e chi no”. Agli atti del tribunale di Catania sono stati già acquisiti diversi documenti sugli sbarchi di migranti simili a quello della nave Gregoretti, sia relativi al periodo in cui Salvini rivestiva la carica di ministro dell’Interno sia quando è cambiata la compagine di governo e al suo posto si è avvicendata Luciana Lamorgese. Anche su di lei Salvini si è prodotto a margine dell’udienza di ieri.

“Abbiamo salvato vite e protetto un Paese, quello che non è accaduto dopo perché dopo di me ci sono stati morti annegati” ha detto prima di entrare nell’aula bunker di Catania. Dove ha invece sottolineato come la politica del Conte II non sia poi di molto cambiata in tema di gestione degli sbarchi: “Anche Lamorgese ha fatto come me, esattamente la stessa cosa, più di una volta. Dopo 10 giorni in mare, a ottobre 2019, il governo ricollocò per poi autorizzare lo sbarco”. L’attuale ministra dell’Interno sarà sentita dai giudici di Catania che convocheranno anche l’allora vicepremier Luigi Di Maio e l’ambasciatore Maurizio Massari.

Rai, Corona esce dalla porta Rai3, ma rientra dalla finestra Rai1

A Franco Di Mare sarà venuto un travaso di bile. Perché, una volta uscito dalla porta, Mauro Corona rientra dalla finestra. Così, non potendo partecipare a #Cartabianca per il veto del direttore di Rai3, e nonostante le proteste reiterate di Bianca Berlinguer che lo rivorrebbe, Corona ieri è tornato in Rai. E il bianco, come la neve delle sue montagne, deve portargli fortuna. Sembra che il diavolo ci abbia messo la coda, perché questa volta non si tratta di #Cartabianca ma di Linea Bianca, trasmissione che si occupa di vette italiche condotto da Massimiliano Ossini, in onda alle 14 del sabato di Rai1. Sembra quasi uno schiaffo quello che il direttore della rete Stefano Coletta ha rifilato a Di Mare: Corona tu non lo vuoi? Me lo prendo io. E così ecco oltre 16 minuti d’intervista allo scrittore dalla sua casa sulle Dolomiti. Corona, che ha da poco sfornato un libro (L’ultimo sorso, vita di Celio, Mondadori), ha raccontato come la sua vera passione sia la scultura. “Non capisco perché le persone si lamentino di questo Natale. Ma finalmente un Natale diverso, povero e creativo! Io stesso sarò più padrone del mio tempo, me ne resto a casa a scolpire nel legno dei folletti, che poi regalo”, ha detto. Per poi esser salutato con grande affetto. “Ci vediamo presto, Mauro!”. Insomma, se a Corona sono precluse le telecamere di Rai3, sembrano aperte tutte le altre. Tutto ciò lascia intendere che sulla sua testa in Rai si stiano consumando sgarbi e ripicche tra direttori, reti e testate. Con vecchie ruggini e nuove diatribe. Col risultato che Corona un po’ può andare in onda e un po’ no. Su una rete è il nemico pubblico numero uno e su un’altra è ospite gradito. Segno che in Rai qualche bicchierino di troppo non è una prerogativa solo dello scrittore montanaro.

L’Emilia-Romagna è sempre a rischio idrogeologico

In Italia – Il Cnr-Isac segnala che novembre e l’autunno 2020 sono stati il nono e il dodicesimo più caldi dal 1800 con 1,5 °C e 0,7 °C sopra media. Anomalie ancora più marcate sulle Alpi, che sotto insistenti anticicloni hanno vissuto il secondo o terzo novembre più mite, molto soleggiato, secco e pressoché senza neve. A inizio dicembre la situazione è cambiata di colpo e lo scirocco ha subissato d’acqua le zone dal Triveneto, all’Appennino settentrionale, al Tirreno. L’episodio del 4-6 dicembre in 60 ore ha rovesciato fino a 786 mm di pioggia a Barcis, alle spalle di Pordenone, quantità esorbitante, quattro volte la media mensile (ma il record fu di 828 mm in 48 ore durante l’alluvione del settembre 1965). Due metri o più di neve fresca a 1800 m dall’Ortles-Cevedale, alle Dolomiti, alle Alpi Giulie, paesi isolati e al buio, strade e ferrovie interrotte per neve e frane nelle zone già martoriate due anni fa dalla tempesta Vaia. La rotta arginale del fiume Panaro ha inondato Nonantola (Modena), confermando l’Emilia-Romagna tra le regioni più a rischio idrogeologico con le recenti alluvioni del Secchia (dicembre 2009, gennaio 2014), del Parma (ottobre 2014, dicembre 2017), Trebbia (settembre 2015), Enza (dicembre 2017), Montone e Savio (maggio 2019). Due trombe marine lunedì 7 a Trieste, evento raro, allagamenti e dissesti anche dalla Toscana alla Campania, e a Venezia ripetute acque alte che nel giorno dell’Immacolata il Mose non ha contenuto.

Nel mondo – Il servizio EU-Copernicus dice che novembre è stato il più caldo al mondo (0,8 °C sopra media) con il contributo delle solite folli anomalie artiche (prossime a +10 °C!), e nonostante il gelo precoce in Asia centrale. Secondo novembre più caldo in Europa dopo il caso del 2015, ma record mensili battuti in Norvegia, Svezia e Finlandia. Come ogni anno la Noaa ha raccolto nell’Arctic Report Card le allarmanti notizie climatiche in arrivo proprio dal Grande Nord, tra cui il mare 1-3 °C più caldo del dovuto ad agosto 2020, la banchisa al suo secondo minimo storico in settembre, i vasti incendi di torbiere in Siberia, l’erosione dei suoli costieri a permafrost, altri 300 miliardi di tonnellate di ghiaccio perso in Groenlandia. Dicembre si dà da fare con ulteriori primati nazionali di temperatura massima per questo mese, 36,5 °C in Pakistan, 36,3 °C in Algeria e 33,5 °C alle Maldive. Grande ondata di calore pure in Australia, 48,7 °C nel Queensland. Lo scirocco ha sospinto i diluvi triveneti anche oltre la frontiera con l’Austria, 371 mm tra il 4 e il 9 dicembre a Lienz, più di quanto dovrebbe cadere da novembre ad aprile, anche lì enormi nevicate in montagna, un metro e mezzo già a 1000 m. Inondazioni in Congo, Mozambico, Iran e soprattutto Thailandia (almeno 24 vittime). Un inconsueto indicatore analizzato dal Weizmann Institute of Science (Israele) simboleggia il nostro gravoso impatto sul pianeta: la massa dei manufatti umani – edifici, strade, automobili e tutti gli oggetti quotidiani – è sempre più imponente, oltre 1100 miliardi di tonnellate, e si stima che quest’anno abbia eguagliato quella di tutta la biomassa al mondo, animali, piante, inclusi i prodotti agricoli (Global human-made mass exceeds all living biomass, su Nature). Siamo una potenza devastatrice, e aggiungiamo i dati sulle emissioni-serra, in calo solo temporaneo per il Covid: stando all’Emissions Gap Report dell’Unep, nel 2019 si è toccato un record di 59 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, mentre per limitare il riscaldamento a 1,5 °C a fine secolo – come chiede l’Accordo di Parigi giunto al suo quinto anniversario – bisognerebbe ridurle a 25 miliardi di tonnellate annue al 2030, estendendo a tutto il mondo l’obiettivo -55% di emissioni dell’Unione europea.