L’Avvento. Natale sarà un’aurora: la luce avrà il sopravvento sull’odio

Anche oggi, terza domenica di Avvento, leggiamo nel Vangelo di Luca un testo tradizionale di questo periodo: il cantico del sacerdote Zaccaria per la nascita del figlio Giovanni, figlio che diventerà il predicatore nel deserto che battezzerà Gesù. In questo canto viene annunciato che “l’Aurora dall’alto ci visiterà per risplendere su quelli che vivono in tenebre e in ombra di morte, per guidare i nostri passi verso la via della pace”. Il buio, la notte, hanno sempre suscitato timore nell’animo umano. Forse è il ricordo ancestrale di quando l’essere umano non conosceva ancora il fuoco, capace di rischiarare la notte e proteggere dai pericoli. Ancora oggi si può avere paura del buio. E allora si lascia accesa una piccola luce che rompe l’oscurità delle tenebre e in qualche modo anticipa lo spuntare dell’alba. Anche il futuro, con il suo contenuto imprevedibile, può essere percepito con timore, e anche in questo caso si può essere aiutati se ci è dato di vedere un po’ di luce che lo illumini. L’antico inno che pronuncia Zaccaria chiama questa luce (che è Gesù) Aurora, l’Aurora che dall’alto ci ha visitati per far luce sul nostro presente e sul nostro futuro.

Secondo il Vangelo di Luca, Giovanni (il battista) e Gesù nascono quasi gemelli e saranno uccisi da un potere oppressivo e ingiusto a poca distanza l’uno dall’altro. Entrambi cammineranno davanti a Dio, ma Luca chiarisce nettamente la “gerarchia” tra i due. Zaccaria, riferendosi al figlio Giovanni, dice “Tu sarai chiamato profeta dell’Altissimo”, mentre l’angelo aveva appena annunciato a Maria, dettandole il nome del bambino che essa partorirà (Gesù) e la dignità che avrà il bimbo: “Sarà chiamato Figlio dell’Altissimo”. Non è possibile equivocare, anche perché le spiegazioni successive di Zaccaria tracciano con chiarezza la funzione e le caratteristiche del ministero di Giovanni: profeta, precursore, banditore della salvezza, annunciatore del perdono.

Il compito del neonato figlio di Zaccaria è annunciare che l’aurora è già iniziata, anche se la luce non ha ancora avuto il sopravvento sulle tenebre dell’odio, del peccato, della morte. Ma l’aurora ha già avuto inizio, e quindi l’attesa è ora illuminata da quell’Aurora (Gesù) che ci ha già visitati (e che tornerà a visitarci) e grazie alla quale possiamo camminare sulla via della pace. Pace con Dio, con il prossimo, con noi stessi. Pace con Dio, perché Gesù è la fine di ogni inimicizia e l’inizio del perdono dei peccati (“per dare al suo popolo conoscenza della salvezza mediante il perdono dei loro peccati”); pace con il prossimo, perché Gesù è la fine di ogni inimicizia fra gli esseri umani e l’inizio della liberazione dai nemici e dei nemici (“ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano”); pace con noi stessi, perché Gesù è la fine di ogni inimicizia interiore e l’inizio di una vita di gioia e riconoscenza (“per risplendere su quelli che giacciono in tenebre e in ombra di morte, per guidare i nostri passi verso la via della pace”).

Da qui la possibilità di vivere senza paura (“di concederci che, liberati dalla mano dei nostri nemici, lo serviamo senza paura”): senza paura del giudizio e della punizione di Dio; senza paura degli uomini, di quello che ti possono fare, liberi da odio e inimicizie; senza paura di noi stessi, delle nostre incapacità, dei nostri limiti, delle nostre debolezze. Natale è un’aurora, dice questo antico inno, un’alba nuova che apre il presente al futuro, quando sarà giorno pieno e ogni ombra sarà scacciata.

 

 

Niente masse né popolo: è il partito di “uno” solo

Prendo un titolo fra i tanti quasi uguali dei maggiori giornali italiani in questi giorni: “Renzi: io non cedo, Conte faccia un passo indietro. Pronti a non votare la legge di Bilancio” (Corriere della Sera, 9 dicembre). Il titolo è esemplare perché anticipa e anzi racconta il contenuto della storia. Non c’è popolo, in questo racconto. Sapevamo da tempo che il popolo era stato sostituito dall’elettorato, che vuol dire le richieste indiscusse e obbedite di gruppi forti, più o meno spontanei, in luogo della linea disegnata e condotta da un leader.

Abbiamo attraversato e superato un periodo in cui niente di sgradito alla parte chiassosa dell’elettorato si poteva fare. E così abbiamo attraversato l’abolizione allo sbando delle province, l’uso abbondante di leggi retroattive, la tentata abolizione del Senato, il riuscito taglio del numero di deputati e senatori, senza ridisegnare alcuna riorganizzazione delle due Camere mutilate. Però la persuasione che “ascoltare la piazza” fosse la mossa vincente si è appannata quando ci si è accorti che, a ogni successiva prova elettorale, gli elettori si erano già dimenticati della benevolenza ricevuta, ma avevano capito quale era la vera strada: umiliare coloro che avevano eletto, giudicandoli subito corrotti, inabili e inutili, ed esigendo intanto un taglio nei compensi di chiunque si era montato la testa con il titolo di deputato o senatore.

Naturalmente non stiamo parlando di mutamenti spontanei o di un improvviso virus della politica che, secondo alcuni, risale alla parola e alla condanna della “casta”, area abbondante di disprezzo che avrebbe incluso, se ci fosse stato, anche l’on. Don Bosco. Alcuni leader hanno imparato presto che era bene mettersi a distanza dai propri colleghi, ma soprattutto dal proprio partito. Gli espedienti sono due: la frantumazione interna e la creazione del partitino. Sono davvero ingenui coloro che ridono di piccoli numeri tipo 3 per cento, a disposizione di personaggi che sembravano dominare la scena con valanghe di voti e feste di popolo. Guardate che cosa riesce a fare Renzi con il suo “ridicolo” e “umiliante” 3 per cento. Domina o paralizza la scena fermando dove vuole e quando vuole le mosse apparentemente solide e non arginabili dei suoi nemici.

Ma qui è necessario un lessico per una interpretazione di eventi apparentemente insensati. “Nemico” è sempre il collega di partito o di governo. La scena si svolge in interni che poi proiettano fuori immagini sorprendenti. Per esempio, il nuovo “fondatore” del partitino non cerca, come sembra, questo o quel risultato sul programma o sul voto. Gli importa che si senta bene lo scontro delle armature con l’avversario, il premier con cui governa. Non ce l’ha con i principi del partito di prima o di dopo. Ce l’ha con la persona da disarcionare. Non importa chi lo segue e chi non lo segue. L’importante è disarcionare l’ex capo. Il popolo è diventato il pubblico. Gli elettori li inventeremo a suo tempo, a seconda del tipo di elezioni, del luogo e delle opportunità del momento. Ecco dove siamo adesso. Di popolo è stanco anche il popolo. Gli elettori, da un lato accettano tutto pur di chiudere infiniti litigi personali, dall’altro sanno che puoi piazzare con successo la tua richiesta di zona gialla mentre l’epidemia è al suo meglio (è solo un esempio) perché ogni tornata elettorale è ormai scambio di voto: io esigo la cacciata di tutti gli stranieri, ma voterò il tuo pluricondannato già designato per un delicato incarico economico.

Direte che la destra sembra fuori da questa descrizione. Diciamo che è solo un passo di lato, perché non è ancora al potere. Ma è già pronta, ciascuna truppa col suo unico, indiscutibile leader già con armatura e insulti adeguati, per il suo scontro uno contro uno. Per il torneo Meloni contro Salvini bisogna avere un po’ di pazienza. Sulla pista dell’arena ora stanno ancora galoppando Renzi contro Conte e la scena rappresenta bene il punto a cui siamo arrivati. Un primo scossone è avvenuto a sinistra e ci ha liberati dal popolo. Che vada a incendiare i cassonetti o lasci andare i loro ragazzini maneschi al Pincio. Degli elettori ci ha liberato Grillo e il suo corteo di signore e signori perbene. Se vuoi votare, usa la piattaforma Rousseau, e se non hai interesse per queste o quelle elezioni, lascia perdere con la noia di cercare il candidato giusto. Non candidare nessuno così non sbagli. Le destre hanno a disposizione fette di elettorato, gli avanzi di ciò che prima era la politica, ma anch’esse preferiscono una Disfida di Barletta, che è molto meglio di una guerra tra fascismo e antifascismo. Ecco dove sono arrivati coloro che credevamo essere i protagonisti della politica. Sono arrivati al partito di uno, ciascuno in cerca di uno scontro finale, senza l’ingombro della folla fracassona. Intanto il Parlamento, più o meno a tutte le ore, parla a vuoto.

 

Occhiate carbonizzanti, tesori venerei e un tattoo di tigre sopra l’inguine

Dai racconti apocrifi di Ugo Ojetti. C’era una volta una mannequin che, dopo aver lavorato un paio d’anni, era riuscita una grande cocotte, e poi aveva deciso di sistemarsi sposando Terzo Stucchi, un industriale blindato di soldi e invidiato parecchio. Lei, bella, alta, velenosa, si divertiva ancora a lanciare agli uomini occhiate carbonizzanti; e lui, il marito di tutta quella donna, ne era geloso. La gelosia è un sentimento primitivo, inadatto ai tempi moderni, ma in Terzo Stucchi persisteva come in alcuni persiste il coccige caudato.

Un’estate, la moglie partiva per la Costa Azzurra con la figlia, sicché lui, dovendo restare in città, telefonò a un amico d’infanzia, un gesuita che sapeva invulnerabile alle tentazioni della carne: magro, fronte alta, volto pallido da convalescente, la sua figura mistica pareva uscita dalle xilografie di un libro di Lutero. “Daresti lezioni di latino a mia figlia, Piero?” gli chiese. “Volentieri. Male non può farle, tanto più che lo dimenticherà”. Terzo Stucchi adesso si sentiva tranquillo, come il guerriero medievale che, di notte, fra una battaglia e l’altra, si palpava nel giustacuore la chiave con cui aveva serrato i tesori venerei della sposa lontana.

Sulla spiaggia ardente, all’ombra di un parasole di tela bianca, il moralista e la bella signora non facevano che parlare. Annerito dal sole, il prete, in bermuda blu, si sarebbe detto uno sportivo del gran mondo; lei, agile come uno zampillo, era prodiga di sorrisi; e la loro intesa era sorprendente; ma, trascorse due settimane, la mogliettina aveva ormai perso ogni fiducia nella perspicacia del pedagogo. “La sera ho paura a rimanere sola. Troppo silenzio”, gli confessò un pomeriggio nel parco, all’ombra dell’aromatico eucalipto sotto il quale prendevano il caffè. “Vieni a tenermi compagnia, finché non mi addormento. Fra noi due c’è una tacita intesa di castità: davanti a te potrei spogliarmi senza arrossire, e tu sapresti vedere il mio corpo senza desiderarlo. Stasera alle 11. Socchiuderò la porta e terrò spenta la luce”.

La trovò alla finestra, diritta, come un’apparizione: sulla pelle non aveva che un peplo leggero, reso trasparente dalla luna. Quella donna era un fatto nuovo, un mondo diverso da scoprire, una nuova psicologia in cui inabissarsi. Quando le palpò i seni, elastici e protervi, lei rovesciò la testa all’indietro con la solennità mitologica di una diva del cinema, offrendogli le labbra e la lingua. Mentula erubuit. L’alba li sorprese estenuati e belli sul letto sconvolto. Il suo corpo nudo, le disse, gli ricordava quello di una ragazza che aveva conosciuto in India, in un villaggio al limite della giungla, dove era stato in missione. “Sul suo ventre era tatuata, a spirale, la storia di una avventurosa caccia alla tigre. Dopo vari episodi drammatici, la tigre inseguita riusciva a fuggire, celandosi in un nascondiglio segreto dell’inguine, da cui rimaneva fuori solo la coda”.

Per tutto il resto della vacanza, ogni notte, consumarono la golosa leccornia dell’amore, circospetti come due colpevoli. Era una storia che sfidava il diritto di un marito, l’onestà di una moglie, la lealtà di un amico, i voti di un presbitero; ma inebriava. “Quanto ho da imparare!” pensava lui, rammentando certe confessioni indecenti: accoppiamenti frettolosi in alberghi a ore, incomodi possessi automobilistici con complicazioni di vestiti che la paura di essere sorpresi non aveva permesso di togliere, fornicazioni domestiche con baliasciutte esuberanti. “Mi ami?” le domandò un giorno, dopo un bacio. “Non è necessario” disse lei, mostrando la maiolica del suo sorriso. “È questo il bello”.

 

Mail Box

 

 

“Perché Conte sbaglia”: le opinioni dei lettori

Caro Marco, non sono d’accordo con te sul tuo articolo “Perché Conte sbaglia”. Sono d’accordo sotto il profilo politico, ma non sotto quello umano. Le persone che hanno a cuore i propri cari sanno e sapranno come comportarsi in quei fatidici giorni. Le distanze non sono e non saranno d’ostacolo sia per i “responsabili” come per gli “irresponsabili”.

Ennio Angelo Tonizzo

 

Durante una pandemia come questa, che ha già ucciso più di 62.000 italiani, causato danni permanenti a migliaia di persone e continua a mietere vittime, il diritto alla vita viene prima del diritto di stare tutti insieme per le feste. Chi ama veramente il prossimo e vuole proteggere la vita e la salute degli altri (specialmente i più esposti e/o più deboli), dovrebbe fare un grande sacrificio e passare questo Natale e Capodanno da soli (o con i congiunti). Dopo i vaccini potremmo riprendere a festeggiare le feste insieme.

Claudio Trevisan

 

Caro Marco, mi pare surreale il dibattito sulle feste natalizie. Sarebbe cosa buona e giusta astenersi da frizzi e lazzi per onorare dignitosamente i tanti morti, i tanti malati in totale solitudine che lottano fra la vita e la morte, i loro congiunti e tutte le persone in precarie condizioni economiche. Com’è riportato nel tuo editoriale, i nostri comportamenti irresponsabili hanno già prodotto effetti nefasti. Cos’altro deve accadere per recuperare il buon senso? Spero che la famiglia del Fatto promuova una campagna per l’adozione di comportamenti consoni alla gravità della situazione.

Mario A. Querques

 

Riapriamo pure a Natale e Vigilia così come a Capodanno, tanto poi se dopo una settimana aumentano i contagi sappiamo a chi dare la colpa, com’è ovvio e come sempre al presidente del Consiglio Conte. Persona tanto equilibrata, paziente e capace di sedere libero dai tanti condizionamenti nell’ufficio di Palazzo Chigi. A chi lo insulta troverei un bel posticino di lavoro alle presse o alle lappatrici, sottoposto alle normative del Jobs act, dell’art. 18, ai diritti attuali dei lavoratori e pagato con i voucher. Assicuro loro che, come penso già sanno, non deve essere brutto.

Fabio De Bartoli

 

Quando Menapace zittì Maria Elena Boschi

Ho letto con attenzione l’articolo “Povera Boschi, spettinata da Lilli Gruber” a firma di Selvaggia Lucarelli. In occasione dei dibattiti sul referendum di Renzi, Maria Elena si è trovata a battersi ad armi impari contro la professoressa Lidia Menapace. La poverina si era ritrovata non solo scarmigliata, ma con tutte le ossicine rotte. Ricordo che durante il dibattito, la prof. riprese la Maria Elena, allora ministro, con un lapidario ma eloquente “signorina, Lei dovrebbe studiare un po’ di più”.

Giovanni Mazzocchi

 

Mannino, la giustizia va riformata presto

Caro Travaglio, la conclusione con una completa assoluzione dopo vent’anni di indagini e di processi della vicenda giudiziaria di Mannino conferma la mia convinzione che un’eventuale riforma della giustizia italiana debba essere basata su due cardini. Il primo è l’introduzione del principio di responsabilità per tutti coloro che operano nella gestione della giustizia. Lo stesso principio deve valere anche per i magistrati che per dolo o per colpa commettano degli errori che, nei casi più gravi, possono comportare il carcere per anni a degli innocenti. Il secondo cardine dovrebbe essere l’istituzione di una nuova piccola magistratura avente un’unica base nazionale completamente separata e distinta dall’attuale e con l’assoluta impossibilità di passaggi di magistrati fra le due distinte magistrature. Tale nuova magistratura dovrebbe avere come unico compito quello di giudicare le questioni in cui sono coinvolti i magistrati dell’attuale magistratura. Finché i giudici si giudicano fra di loro, sarà difficile pensare che siano giudicati come succede per tutti gli altri cittadini.

Pietro Volpi

 

Caro Volpi, se un pm chiede una condanna e i giudici gliela negano, non c’è nessun errore: è la fisiologia del processo. Altrimenti tanto vale far fare la sentenza ai pm oppure seguire l’esempio dell’Urss, dove tutte le condanne chieste dai procuratori venivano puntualmente irrogate dai tribunali.

M. Trav.

 

I nostri errori

Ieri, in un pezzo a pagina 15 – “Lupacchini mentì per farsi rafforzare il livello di scorta” –, abbiamo scritto che l’avvocato del magistrato Otello Lupacchini si chiama Ivano Lai, mentre il suo cognome è Iai. Ce ne scusiamo con l’interessato e con i lettori.

FQ

 

Per una svista nell’articolo “Conte: spostamento e deroghe per Natale, decida il Parlamento”, uscito sull’edizione di ieri a pagina 6, ho scritto che l’Abruzzo “rimane comunque l’unica Regione non gialla” omettendo “insieme con Valle d’Aosta, Alto Adige, Toscana e Campania”, tutte arancioni nella nuova mappa in vigore da oggi. Chiedo scusa ai lettori.

G. Cal.

In pandemia, piagnistei ed ego dilatati

 

“La nostra pandemia invece non finisce, ma perdura, fino a data da destinarsi, con un fastidioso piagnisteo”

Veronica Gentili, “Gli immutabili” La nave di Teseo

 

Visto che siamo in guerra, come da quasi un anno ci rammentano gravemente i nostri cosiddetti leader (e i cosiddetti leader di tutto il mondo), magari li avremmo desiderati risoluti come Winston Churchill, che dopo i bombardamenti visitava le case colpite, e per tenere alto il morale del popolo saliva in cima a un tetto a recitare “Locksley Hall” di Alfred Tennyson, un poema ottocentesco che già intravedeva le stimmate della vittoria nel dominio dei cieli. Di gesti emozionanti, personalmente ricordo solo Papa Francesco sul sagrato deserto di piazza San Pietro, con il Vangelo di Marco: “Venuta la sera”. E (forse non solo personalmente) non dimentico il coraggio dimostrato dal premier del mio Paese, Giuseppe Conte, quando lo scorso 9 marzo proclamò il lockdown salvando molte vite e, immagino, con la morte nel cuore. Lo ringrazio. Per il resto (e la cosa ci riguarda tutti), anche questa volta, come osserva l’autrice, “abbiamo perso la nostra occasione per cambiare e siamo rimasti gli stessi di prima”. Anzi, siamo perfino peggiorati, ritornando al nostro tran tran con un sovrappiù di puerili capricci, piagnucolando e battendo i piedi per terra.

Frignano un po’ tutti, dall’allenatore ricoperto d’oro e buttato fuori dalla Champions, che non gradisce le domande da studio, all’ex leader decaduto, per terra, che pretende le scuse altrimenti si porta via il pallone. Senza contare le calde lacrime versate dalle Alpi al Lilibeo per le disumane privazioni natalizie, con la gnagnera sui cenoni distanziati, che turbano assai la destra sovranista (roba da fare rivoltare nella tomba il Capoccione che per forgiare gli italiani dichiarava le guerre). E come dimenticare la pandemia dell’ego dilatato? Virologi, presidenti di Regione, tuttologi un tanto al chilo, il cui contributo alla conoscenza (con rare eccezioni) Veronica – che è anche conduttrice di un popolare talk show serale – liquida con un epitaffio: “Se divulgata con sufficiente convinzione, un’opinione può tranquillamente avere la meglio su un fatto”. Amen.

È al termine del suo diario pubblico e privato che troviamo la citazione di T. S. Eliot: “Il mondo finisce in questo modo, non con il rumore di un’esplosione, ma con un fastidioso piagnisteo”. Che mi ricorda ciò che in altri tempi (ma con le medesime lagne), Alberto Moravia diceva a un discepolo un po’ troppo assillante: caro, tu ti arrampichi, ti arrampichi ma non lo vedi che è tutta pianura?

Antonio Padellaro

 

È scontro tra avvocati sulle telefonate del grande accusatore di Romeo

Scontro tra avvocati a margine del processo di primo grado all’imprenditore Alfredo Romeo, accusato di aver pagato un ex dirigente Consip, Marco Gasparri (che ha già patteggiato 20 mesi). Domenico Caiazza, avvocato di Romeo, in aula il 3 dicembre ha chiesto di acquisire una serie di conversazioni intercettate sull’utenza di Gasparri: oltre a quelle di Gasparri con il capitano Gianpaolo Scafarto però Caiazza ha chiesto anche quelle con il suo legale, Alessandro Diddi, teoricamente coperte dal segreto difensivo anche se, a detta di Caiazza, Diddi non era ancora stato nominato da Gasparri. L’avvocato Diddi ha risposto con una lettera dura nella quale ricorda al collega l’articolo 103 del codice di procedura, “quello che vieta le intercettazioni delle conversazioni tra i difensori e i loro assistiti, quello che rappresenta il principale strumento di tutela per l’adempimento pieno e libero di un mandato difensivo”. Poi aggiunge una “riflessione più amara, che è giuridica e politica insieme”: “Chi ha messo in discussione il nostro art. 103 cpp – scrive – mostrando di non saperlo o volerlo interpretare, non è un avvocato qualsiasi, è il presidente dell’Unione delle Camere penali”. La richiesta di Caiazza che ha fatto infuriare Diddi punta a inficiare la credibilità delle dichiarazioni di Gasparri sulle mazzette che a suo dire Romeo gli avrebbe pagato. Caiazza in aula al riguardo in sostanza ha spiegato: “Pensiamo che non ci sia stato nulla di spontaneo e interroghiamo il nostro giudice su quali possano essere le ragioni di questa decisione del Gasparri di chiamata in correità”.

La perquisizione di Gasparri fu disposta nel dicembre 2016 dalla procura di Napoli nell’inchiesta Consip poi trasferita a Roma per competenza. “Il decreto di perquisizione del corrotto Gasparri, apprendiamo dall’ascolto di queste conversazioni, – ha detto Caiazza in aula – viene trasmesso dalla Procura di Napoli a Scafarto alle 11 e mezzo del mattino e il capitano Scafarto telefona al perquisendo: ‘Guarda, non ti vorrei disturbare, ti devo notificare un atto… è una sciocchezza’”. Dopo una serie di telefonate, continua l’avvocato di Romeo, “Gasparri chiama l’avvocato, il suo difensore” per avvisarlo della perquisizione. “Diddi – dice Caiazza – che in quel momento è nell’ufficio del pm di Napoli Woodcock, gli dice: ‘So tutto, stai tranquillo, non fare cazzate’”. L’avvocato Caiazza punta a inficiare “la chiamata di correo” contro Romeo sotto due profili: “la credibilità” e “la spontaneità dell’iniziativa”. A tal fine chiede tempo per ascoltare tutti gli audio. Il pm Mario Palazzi in aula ha fatto notare che Diddi era già il legale di Gasparri e ha ironicamente aggiunto che se lui avesse chiesto (come Caiazza) di usare il colloquio tra un indagato e il difensore “ci sarebbe stato uno strepitus fori”. Strepitus che infatti Diddi riserva al collega: “Nell’apprendere la notizia – scrive a Caiazza – la reazione immediata è stata di stupore per non essere stato preavvertito da un collega di questa iniziativa processuale, che mi riguardava. Me lo sarei aspettato. Non tanto, o non soltanto nell’osservanza di norme deontologiche, quanto piuttosto di una sacralità del rapporto tra avvocati”.

Sentito dal Fatto, Caiazza ribadisce che quegli audio fanno parte del processo. Attilio Soriano, legale di Scafarto, invece commenta: “Non c’è nulla di poco trasparente, considerato che nel momento in cui Scafarto parla con Gasparri è ben cosciente che la sua telefonata era oggetto di intercettazione presso il Noe, del quale faceva parte”.

Inchieste e governo: tutto spinge Vivendi alla pace

Sta prendendo davvero una brutta piega l’avventura italiana di Vincent Bolloré. Stando a quanto scrivono i magistrati milanesi nell’avviso di conclusione dell’indagine sulla tentata scalata del francese a Mediaset, il finanziere bretone non ha giocato pulito nel 2016, quando ha messo a ferro e fuoco Cologno Monzese. Tanto che, ironia della sorte, si rischia che a togliere le castagne dal fuoco a Silvio Berlusconi saranno proprio gli odiati magistrati di Milano, oltre a un governo che l’ex Cavaliere trattava alla stregua di un consesso di pericolosi chavisti e ora gli ha appena regalato il cosiddetto emendamento salva Mediaset.

Il quadro dipinto dagli inquirenti non lascia molto margine al finanziere bretone, che fino a poche settimane fa, con la sua Vivendi, azionista ingombrante di Tim e di Cologno Monzese, rischiava di dettare legge sia sulla partita governativa della “rete unica” che sul futuro di Mediaset. Due vicende parallele che spesso si sono incrociate e che, stando alla ricostruzione del pm Silvia Bonardi, i francesi stessi avrebbero voluto accostare in un’unica operazione per dare vita a un gruppo internazionale che unisse il business della telefonia a quello della vendita di contenuti.

Un obiettivo impeccabile dal punto di vista industriale. Peccato che, secondo gli investigatori, lo si sia perseguito con operazioni finanziarie non altrettanto impeccabili. Nell’avviso di conclusione indagini sull’operato di Bolloré e del suo braccio destro, Arnaud de Puyfontaine, viene infatti tratteggiata una messinscena – fingere di voler rilevare Mediaset Premium e rinnegare a stretto giro l’accordo raggiunto in tal senso – dietro alla quale si sarebbero consumate spregiudicate attività finanziarie, con il reale obiettivo di assalire Mediaset sottopagandola e di portarla in dote a Tim.

Come? Il cda di Vivendi, nota il pm, aveva deliberato già a partire dal 18 febbraio 2016 “un rilevante acquisto, anche ai fini del controllo, della società Mediaset Spa, provocando per tutto l’anno 2016 continui deprezzamenti del valore dell’azione” dell’azienda della famiglia Berlusconi, divenuta così a buon mercato per i francesi che a dicembre dello stesso anno erano arrivati a possederne il 28,8%.

Tutto, quindi, è iniziato “due mesi prima della sottoscrizione del contratto dell’8 aprile 2016, in contrasto sia con le trattative ufficiali in corso con la controparte e concernenti l’acquisizione del 100% di Mediaset Premium”, la pay tv del Biscione. Di qui l’ipotesi di reato: manipolazione del mercato e ostacolo alla vigilanza per Bolloré e de Puyfontaine.

Ufficialmente l’acquisizione di Premium era l’inizio del connubio italo-francese per la creazione di una nuova tv paneuropea. Invece, è stata l’esordio di una battaglia legale che indirettamente ha coinvolto anche Telecom, di cui Vivendi è primo azionista col 23,94%. Tre mesi dopo l’accordo su Premium, a luglio 2016, Vivendi con una mano stracciava l’intesa, con l’altra comprava Mediaset, lamentando “presunte differenze valutative circa l’analisi dei risultati” della pay tv, come ricorda ancora il pm, che parla di “sistematica attività di pretestuosa contestazione in ordine all’oggetto delle pattuizioni contrattuali”. Di qui le comunicazioni diramate dai francesi con una “scorretta informativa al mercato concretamente idonea a provocare una sensibile alterazione del prezzo delle azioni Mediaset” che infatti dal 26 luglio al 28 novembre 2016 registrano “una flessione del 30,8 per cento” (il magistrato accusa anche i francesi di non aver comunicato alla Consob di essersi avvalsi della consulenza di Mediobanca).

Tutto questo, secondo il pm, avveniva mentre Vivendi trattava con la partecipata Tim la “costituzione di una newco formata, oltre che dalla società di telefonia, da Vivendi e da Mediaset”. Da allora lo scontro è proseguito con una serie di battaglie legali in Italia e all’estero, dalle quali Bolloré stava emergendo vincitore: bloccato il progetto Media for Europe che avrebbe dovuto, se non altro, blindare il controllo dei Berlusconi su Mediaset; vittoria alla Corte di Giustizia europea sul 19% delle sue azioni congelate dall’Agcom (mercoledì il Tar avrebbe dovuto restituirle alla società francese, ma l’emendamento del governo sposterà tutto almeno a giugno).

Se è vero infatti che Cologno è ancora solida, il gruppo sta compensando il calo del fatturato tagliando i costi. E il futuro non è roseo: servirebbe ben altra dimensione e un’ingente quantità di investimenti. Se Mediaset ha problemi di lungo periodo, Bolloré adesso li ha molto più a breve: la probabile richiesta di rinvio a giudizio e pure la causa civile in cui il Biscione chiede a Vivendi 3 miliardi per il pastrocchio su Premium, non lontana dall’avviarsi a conclusione. Il finanziere bretone potrebbe scivolare sulla classica buccia di banana. La sua disinvoltura, per così dire, non è un fatto nuovo: come ha ricordato ieri la Finanza, nell’inchiesta Mediaset “è stata acclarata un’ulteriore condotta manipolativa” sulle azioni della Premafin di Ligresti a cui, era il 2010, era interessata la francese Groupama.

“Ho perso lavoro e rispetto nella gogna del revenge porn”

Non c’è solo la maestra di Torino, purtroppo. Alice, una dottoressa quarantenne di Brescia, madre di due figli, dopo aver subito un vile atto di revenge porn, è stata licenziata e ha scoperto che la vita, dopo un’esperienza così traumatica, non può più tornare quella di prima. Le parlo al telefono subito dopo la notizia della chiusura delle indagini con l’iscrizione nel registro degli indagati di ben 10 persone, tra cui un agente della polizia locale, un ex calciatore del Brescia e due donne.

Alice, come inizia questa brutta storia?

Due anni fa vengo a sapere che su Telegram girava un collage fatto con mie foto prese da Instagram e le foto di una pornostar che mi somiglia, August Ames, che si suicidò per cyberbullismo. E già lì mi preoccupo. Poi a febbraio tantissime persone, tra cui un mio amico poliziotto, mi scrivono che su alcune chat di whatsapp stanno girando dei miei video intimi.

Da dove arrivavano quei video?

Li avevo inviati tempo fa a una persona con cui avevo avuto una relazione, ma non so chi li abbia diffusi illecitamente per primo. Ci tengo a dire che da cinque anni con mio marito vivevamo da separati in casa, per amore dei figli. Ci sentivamo una squadra, ma l’amore era finito.

Che diffusione c’è stata?

I video erano nelle chat di tutta la città, su gruppi Telegram con associato il mio cartellino sanitario, i nomi degli studi oculistici per cui lavoravo, il mio numero di telefono. Ricevevo non so quanti messaggi da sconosciuti.

Rispondevi?

Sì, dietro suggerimento dell’avvocato mandavo la foto dell’articolo del codice penale che stavano violando, annunciando denunce se diffondevano il video.

E?

Molti di loro facevano lo screenshot della mia risposta e lo pubblicavano nei gruppi, dileggiandomi. Non si spaventavano.

E tu sei andata a denunciare.

Sì, e d’accordo con la polizia postale decido di tenere attivo quel numero di cellulare ormai pubblico per aiutare le indagini. Quando le persone che mi contattavano sul cellulare dopo aver visto o diffuso il video mi scrivevano cose utili alle indagini inoltravo tutto alla polizia.

Tra queste qualcuno è finito nel registro degli indagati?

Sì.

In quei giorni poi tuo marito riceve una email.

Sì, di una persona che gli inoltra il video spacciandosi per la mamma di un mio paziente bambino, dicendo che è una vergogna. Giro la mail alla polizia, alla fine delle indagini arriva la sorpresa.

Cioè?

Cioè che sarebbe stata inviata sotto falso nome da una donna che aveva un relazione con mio marito dal 2018. Che oggi è tra gli indagati insieme a una sua amica.

Come ti sei sentita in quei giorni?

Malissimo. Una gogna oscena, anche perché ero quella sposata e mamma, quindi non potevo avere una sessualità e in più una dottoressa, ancora più uno scandalo.

Le mamme dei compagni di scuola dei tuoi figli?

Neanche mezza parola. Già da prima alcune mamme dell’istituto, non della classe, avevano creato una chat di gruppo contro di me in cui commentavano come mi vestivo.

Sei bellissima, a loro dava fastidio?

So solo che a un certo punto andavo a prendere i bimbi in tuta, ma continuavano comunque a dire che avevo i leggins in mezzo al sedere, mi fotografavano.

Come l’avevi saputo?

Mi aveva avvisato un papà.

E ora?

Ora mio marito mi ha fatto togliere dalla chat della classe, per tutelare i bambini, dice lui. Mi sono sentita una madre di merda.

Tra i dieci indagati ci sono molte persone che conosci?

Mi è dispiaciuto vedere che c’è un amico che mi aveva avvisato del video, ma evidentemente mentre mi avvisava lo diffondeva anche.

Il calciatore?

Lo conoscevo di vista.

L’uomo a cui avevi inviato i video?

È indagato.

Passiamo al lavoro. Tu lavoravi in due studi.

Sì, uno dei due mi ha licenziata, il titolare ha detto che avevo tradito la sua fiducia. L’altro mi ha detto che dovevo andare via, ma il giorno dopo si è scusato, nonostante i colleghi invece mi volessero fuori. Sono stata pugnalata da così tante persone…

Anche da un rappresentante delle forze dell’ordine.

Sì, un poliziotto è tra gli indagati, ma il mio video è girato su chat di polizia e carabinieri da Torino a Siracusa. Scrivevano “Festeggiamo con la nostra accreditata!” perché il nostro studio oculistico è accreditato con loro.

Che lo abbiano diffuso anche le forze dell’ordine è ancora più avvilente.

Dovrebbero conoscere almeno la legge, se non l’umanità.

Come cambia la vita?

I sensi di colpa, gli sguardi delle persone. Il pensiero di non fidarsi più di nessuno. Avrò la lettera scarlatta per sempre, perché a nessuno interessa quello che ho passato ma solo la parte pruriginosa della vicenda, l’idea che fossi sposata, anche se poi ero separata in casa da anni.

Chi ti ha più delusa?

Le donne. Ho sentito invidia e perfidia nei miei confronti.

Ti senti a disagio quando esci o vai a lavorare?

Quel video lo hanno visto tutti. Il lockdown è stato quasi una fortuna per me, perché sono uscita poco. Sul lavoro se un cliente mi invita per un aperitivo mi irrigidisco molto, penso che avrà visto il video. È difficile.

L’avvocato Barbara Del Bono, che le è accanto mentre Alice si racconta, vuole aggiungere una cosa: “In questa vicenda mi ha stupito l’ignoranza in fatto di legge, ma anche l’ignoranza emotiva, la mancanza di empatia e di compassione nei confronti di una persona che ti spiega di essere una vittima. Davvero sconcertante”.

“Dossier Italia, molti errori ma io non l’ho censurato”

Il generale Pier Paolo Lunelli sostiene che la mancanza di un piano pandemico aggiornato alle nuove linee guida Oms del 2013 e del 2017, potrebbe essere costata 10 mila morti solo in Lombardia.

Dottor Ranieri Guerra, direttore generale aggiunto dell’Oms, lei era a capo della Prevenzione al ministero della Salute dal 2014 al 2017. Che avete fatto?

Lunelli dice che c’erano nuovi elementi fin dal 2013, ma allora c’era il mio collega Giuseppe Ruocco. Io sono arrivato a fine 2014 e ho dovuto gestire diverse epidemie – Ebola, Zika, West Nile, Chikungunya –, per cui ho confermato la vigenza del piano pandemico antinfluenzale, per poi iniziare il percorso di revisione e allertare la ministra quando ero in uscita, nell’ottobre 2017. Non c’è stato il tempo per rinnovare il piano con le Regioni, anche perché era annunciata per il 2018 una revisione completa delle procedure Oms. Comunque Sars-Cov2 è un virus diverso da quelli influenzali, non si combatte con gli antivirali stoccati al ministero.

Sul sito del ministero si legge che il piano è stato “aggiornato nel 2016” ma ci sono verbi al futuro riferiti al 2006, non si accenna alle epidemie successive né alle nuove linee guida dell’Oms, di cui invece lei scrive nel settembre 2017, quando raccomanda alla ministra Beatrice Lorenzin di rifarlo.

Bisogna chiedere al dottor Claudio D’Amario per l’epoca successiva.

Il piano del 2006 prescrive, fin dalla fase di allerta che secondo alcuni inizia il 5 gennaio e secondo altri il 30, approvvigionamenti di Dpi, verifiche nei laboratori e negli ospedali, compresi i ventilatori per le terapie intensive. Le mascherine sono state regalate alla Cina ai primi di febbraio, le verifiche sugli ospedali sono state fatte dopo Codogno (19 febbraio).

Sono arrivato in Italia l’11 marzo per l’Oms. Ma lei solleva una questione importante. Negli anni c’è stato un crollo delle risorse finanziarie per il piano. E riguarda soprattutto le Regioni. Dal mio arrivo a marzo ho cercato di dare una mano. Rivendico il contributo nella struttura di risposta, che è quella prevista dal piano: centralizzazione e passaggio delle responsabilità operative alla Protezione civile sotto l’indirizzo del presidente del Consiglio.

Veniamo al rapporto dell’Oms Europa sull’Italia, che criticava l’iniziale reazione “caotica” e “improvvisata”, pubblicato l’11 maggio e ritirato in poche ore. Ora l’Oms dice che il rapporto è stato rimosso per “inesattezze e incongruenze”. Ma Francesco Zambon, coordinatore degli autori, dice di non aver ricevuto rilievi.

Qualcuno da Copenaghen, sede dell’Oms Europa, ha detto ‘approvatelo in fretta’. Ma è stata data solo un’approvazione condizionata al rispetto delle prescrizioni dell’ufficio legale. E Zambon ha deciso di pubblicarlo subito.

La commissione scrive “approved” e raccomanda di sentire l’ufficio legale sui tempi dell’azione Oms in Cina e rivedere il tono.

E questo non viene fatto. Io non mi oppongo alla pubblicazione, ma dico a Zambon che ci sono inesattezze, per esempio le tabelle di mortalità non erano giuste, e chiedo di spostare di due giorni la pubblicazione, anche per informare il ministero della Salute che ne ignorava la redazione: fairness istituzionale.

Zambon scrive al direttore dell’Oms Europa, Hans Kluge, che a informare Roma doveva essere lei.

No, è responsabilità dell’Oms Europa da cui dipende l’ufficio di Venezia. Poi avremmo potuto rivederlo con i colleghi dell’Istituto superiore di sanità e aggiornare i numeri, perché alcuni erano sbagliati.

Lei il 14 maggio scrive a Zambon di “questioni politiche”, che “l’Oms è la foglia di fico” con cui il governo italiano copre “decisioni impopolari”…

Vuol dire solo che dando le linee guida Oms per decisioni difficili si consente al governo di dire: non ci siamo inventati niente.

Gli scrive anche dei 10 milioni versati dall’Italia all’Oms e della mediazione con gli Usa per il G20. Non sono i motivi del ritiro del rapporto?

L’Italia, dopo un’ assenza di 5/6 anni, decide di donare 10 milioni per l’appello Oms per i vaccini, cioè per portarli a due miliardi di persone nei Paesi in via di sviluppo, che è parte della politica africana dell’Italia. Non si può rispondere ‘va’ a quel paese’ con un testo poco preciso. Per quanto riguarda il G20, nell’agenda c’è anche la sanità e l’Oms è a disposizione.

A Bergamo lei è stato sentito dai pm “a titolo personale” secondo l’Oms. Per Zambon invece l’Oms oppone l’immunità. Non è giusto che tutti rispondano ai pm?

Certo. Per me nessuno ha scritto all’Oms. Pensavo si riferissero alla mia presenza nel Cts. Poi mi chiedono: e l’inchiesta di Report? Potevo tacere, appellandomi alla mia immunità o collaborare.

Lei non aveva informato l’Oms? A Report risulta che le abbiano pagato il viaggio.

No, ero già a Milano. Quanto agli altri, l’Oms ha solo chiesto di avere le domande scritte.

Ma lei non crede che il rapporto sull’Italia potesse servire ad altri Paesi?

Posso essere d’accordo anche se altri Paesi hanno altri sistemi, ma non l’ho ritirato io.

L’ha fatto ritirare il governo italiano?

Assolutamente no.

Boccia: “Allentiamo i vincoli e la terza ondata è assicurata”

Continua il “derby” tra salute e libertà di movimento, tra partito della fermezza e partito del Natale. A dar voce al primo ci hanno pensato ieri il ministro della Sanità, Roberto Speranza, e il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia: “Se vogliono rimuovere i vincoli agli spostamenti in tutti i Comuni – ha detto Boccia – ci troveranno contrarissimi. Siamo ancora nella fase più critica e se i comportamenti non saranno rigorosi, il rischio della terza ondata è abbastanza certo. Se vogliono chiarimenti per i piccoli Comuni nelle aree interne, il Parlamento ha i mezzi per farlo, ma chi dovesse votare a favore di una norma che allenta i vincoli – conclude – dovrà poi risponderne davanti agli italiani”.

Concetti ribaditi da Speranza: “Sono molto preoccupato per le due settimane delle feste natalizie – ha detto –. Se passa il messaggio ‘liberi tutti’ si ripiomba in una fase pericolosa a gennaio e febbraio, quando saremo in piena campagna vaccinale.

Ma il partito del “Natale mobile” non sente e risponde. Il primo a lamentarsi è stato Eugenio Giani, presidente della Toscana ancora arancione: “La Toscana – lamenta – ha sicuramente uno dei livelli minori di contagio, e quindi si viene a creare una disparità di trattamento tra Regioni. Una delle regioni in zona gialla è arrivata ad avere negli ultimi giorni una media che si avvicina ai 4 mila contagi giornalieri e noi che da una settimana siamo a 500 rimaniamo in zona arancione. La cabina di regia provveda in tempi rapidi a valutare più positivamente i dati toscani. Meritiamo la zona gialla”. “La chiusura dei confini comunali il 25-26 dicembre e il primo gennaio – fa eco a Giani il collega ligure Giovanni Toti – è un’ingiustizia contro le attività commerciali come bar e ristoranti”

La replica di Boccia: “Da un mese e mezzo nelle regioni in zona rossa e arancione esistono le stesse regole che sono state ipotizzate” per Natale, Santo Stefano e Capodanno e non c’è mai stata una sola lamentela, perché le regole consentono il passaggio nei Comuni limitrofi e soprattutto consentono agli anziani di non restare soli così come a chi ha bisogno di avere un sostegno.”

Ma il derby sicuramente continuerà.