“A Natale riunirsi con i non conviventi è un grosso rischio”

I contagi sono ancora tantissimi, i morti anche, la pressione sugli ospedali diminuisce ma la situazione rimane critica, il peggio non è passato e le prime dosi di vaccino non risolveranno il problema in tempi brevi. Concetti che dovrebbero essere ovvi ma che, alla luce dell’acceso dibattito sul colore delle regioni e sugli spostamenti a Natale, evidentemente così non sono, al punto che il presidente dell’Istituto superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, e il direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute, Gianni Rezza, hanno sentito il bisogno di ribadirlo più volte: “Sarà un Natale Covid – ha detto Brusaferro – incontrarci in tanti sarà un problema anche se siamo congiunti, ma viviamo lontano. L’incidenza del virus è ancora molto elevata, lontana dai livelli che permettono il ripristino della fase di contenimento. Impossibile con questi numeri pensare di mitigare i limiti agli spostamenti”.

Concetti confermati da Rezza: “Serve una bolla più stretta possibile – dichiara –. Il vaccino non risolverà subito i problemi. All’inizio saranno poche dosi”. La curva del contagio, intanto, continua a mantenersi a livelli stabili: ieri i nuovi casi di Covid-19 registrati in Italia sono stati 19.903 (contro i 18.727 di venerdì), a fronte di 196.439 tamponi effettuati, con un tasso di positività del 10,1%, impercettibilmente superiore rispetto al 9,9 delle 24 ore precedenti. I pazienti attualmente ricoverati nei reparti Covid sono 28.066, 496 in meno rispetto a venerdì, 3.199 le persone in terapia intensiva, 66 in meno.

Preoccupa il Veneto, ancora una volta Regione che fa registrare il tasso di crescita giornaliero del contagio più alto di tutti: +2,8%.

Sanità lombarda, manager “piazzati”. Tutti i versamenti

C’è un documento contabile interno alla Lega che riassume bene il sistema usato dal partito per finanziarsi attraverso le nomine nelle aziende sanitarie. Uno spaccato di come la sanità sarebbe stata concretamente lottizzata dal partito del Nord, almeno negli ultimi 12 anni. Il documento (riprodotto sopra) riporta i nomi di 34 dirigenti sanitari della Lombardia: direttori generali, direttori amministrativi, direttori sanitari e direttori socio sanitari. Tutti professionisti in teoria slegati dalla politica, che secondo il documento interno avrebbero però versato soldi alla Lega in quanto “nominati in quota”.

I dati analizzati per ora si riferiscono a tre anni in particolare: 2008, 2009 e 2010. I dirigenti pubblici citati sono ancora per gran parte in attività, quasi sempre in posizioni ancora più importanti di quelle ricoperte all’epoca. L’elenco copre a tappeto la Lombardia: tutte le Asl, le Asst, gli ospedali più grandi. Dalla Valtellina a Mantova, da Milano a Brescia. Sommando i versamenti dei vari manager del settore, secondo quanto registra il documento di cui il Fatto è venuto in possesso, si arriva a circa 120mila euro all’anno. E questo riguarderebbe solo i direttori sanitari della Lombardia, una delle tante regioni amministrate dalla Lega.

Per capire come funzionerebbe il sistema, basta qualche caso, partendo dal primo dell’elenco “Direttori generali”. Mara Azzi, classe 1959, laureata in Giurisprudenza. Le carte dicono che ha versato in tutto 24mila euro alla Lega (6mila all’anno). Tra il 2008 e i 2010, Azzi era direttore generale della Azienda ospedaliera di Desenzano del Garda, Brescia. Poi è diventata direttore generale della Asl della provincia di Bergamo, poi della Ats del capoluogo orobico. Oggi – e fino al 2023 – è il direttore generale dell’Ats di Pavia. Mauro Borrelli, ingegnere civile di formazione, da una vita dirigente sanitario in Lombardia, prima è stato direttore generale dell’Asl di Lecco, poi di quella di Mantova, adesso dell’Asst Franciacorta, Brescia. Secondo il documento avrebbe versato 18mila euro in tre anni. Più contenute – 10mila euro – le donazioni di Alberto Zoli, all’epoca direttore sanitario della Asl di Lecco, oggi pezzo da novanta della sanità lombarda: è il direttore generale dell’Areu, l’Azienda regionale emergenza urgenza. Lo stesso Zoli membro del Cts, e finito nell’occhio del ciclone mediatico per aver presentato, lo scorso 12 febbraio, lo studio elaborato dal matematico Stefano Merler sugli ipotetici impatti del coronavirus nel nostro Paese (e per cui Salvini si scagliò contro il governo accusandolo di aver nascosto agli italiani).

L’elenco delle presunte donazioni dei manager sanitari è lungo. In alcuni casi, c’è anche una nota sulle abitudini di versamento: c’e chi paga la propria quota sempre a gennaio dell’anno successivo, chi in altri periodi, ma lo schema resta, secondo quanto annotato nel documento, lo stesso. Dirigenti che avrebbero versato regolarmente soldi al partito, con bonifico bancario. Qualcuno si è spinto anche fuori dai confini lombardi.

Spicca Walter Locatelli (secondo il documento, 6mila euro all’anno). Era direttore generale dell’Asl di Milano. Oggi si è trasferito a Genova, dove guida Alisa, l’Azienda ligure sanitaria della Regione Liguria: il presidente Giovanni Toti lo ha nominato commissario straordinario per gestire in questa fase di emergenza sanitaria tutte le cinque Asl liguri e l’ospedale San Martino di Genova. Chi però ha veramente spiccato il volo è Maria Cristina Cantù, classe ’64, da Varese. C’è anche lei fra i 34 nomi dell’elenco dei dirigenti sanitari: avrebbe versato 18mila euro in tre anni. Cantù nel frattempo ha fatto il salto: dal 2018 è senatrice della Lega Salvini Premier, prima era stata due volte assessore in Regione Lombardia. Nel 2014 assunse suo staff al Pirellone l’ex compagna di Salvini, Giulia Martinelli, facendo scandalo e diventando per tutti una salviniana di ferro. Abbiamo richiesto un commento via email ai cinque ex dirigenti sanitari citati, nessuno ci ha risposto.

Il “sistema del 15%”. Ecco la prova che inchioda la lega

Versamenti al partito in cambio di nomine pubbliche. Posti nei più importanti cda d’Italia, nelle direzioni di ospedali e aziende sanitarie locali, nei consigli di revisione contabile delle partecipate pubbliche. Poltrone assegnate in cambio della restituzione alla Lega di una parte dello stipendio. È il “sistema del 15%” – la quota da restituire al partito per i nominati –, un sistema scritto nero su bianco. Così il Carroccio avrebbe gestito il suo potere politico negli ultimi vent’anni, con un vero e proprio sistema di finanziamento per le casse del partito, stando a quanto emerge sia da documenti inediti (in parte pubblicati in queste pagine) sia da diverse testimonianze raccolte.

Il “sistema del 15%” il Fatto lo ha raccontato, nell’inchiesta sulla Lombardia Film Commission, riportando quanto avrebbe detto il commercialista Michele Scillieri durante l’interrogatorio con i pm di Milano. Ma quello che ora siamo in grado di svelare è un meccanismo strutturato e ben collaudato, in vigore da anni. Tutto è raccontato nei dettagli da alcuni documenti contabili interni alla Lega e dalle testimonianze di tre ex leghisti che fino a pochi anni fa sedevano in posti cruciali dell’amministrazione del partito. I documenti inediti raccolgono i nomi di decine e decine di dirigenti e manager di aziende sanitarie pubbliche lombarde. Molti ancora in attività. Nomi e cifre: quelle che ognuno di loro versava alla Lega, il partito del Nord. Che, a dispetto delle intemerate d’origine contro il clientelismo romano, ha creato un sistema perfetto per controllare le nomine. Tutto fatto in modo trasparente, con bonifico bancario, così che la spesa sia anche detraibile fiscalmente. Un sistema perfetto, che si basa però su un presupposto molto scivoloso, come vedremo più avanti: la donazione deve essere spontanea.

 

Nero su bianco: la delibera del consiglio federale

Analizzare tutti i nomi è un lavoro lungo: questa è solo la prima puntata di un’inchiesta che pubblicheremo nella prossima settimana. Di certo il sistema del 15% è stato istituzionalizzato, formalizzato in un Consiglio federale della Lega dell’autunno 2001. Lo dimostra un documento del partito, mai pubblicato finora, firmato dall’allora segretario organizzativo della Lega Nord, Gianfranco Salmoiraghi. Il 23 ottobre del 2001 Salmoiraghi informa le varie sezioni della Lega che una settimana prima, in occasione del Consiglio federale (l’organo esecutivo della Lega), è stato deciso che sarà Giancarlo Giorgetti ad avere “l’incarico di sovrintendere alla nomina dei nostri esponenti”. Citando il verbale del Consiglio federale, Salmoiraghi aggiunge che secondo quanto deciso “è dovere morale di quanti saranno nominati, di contribuire economicamente alle attività del Movimento con importi che equivalgano, mediamente, al 15% di quanto introitato”.

Esattamente la stessa percentuale di cui ha parlato Scillieri ai magistrati di Milano pochi giorni fa. Il commercialista e socio d’affari dei contabili della Lega, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni – indagato insieme a loro per peculato nella vicenda della Lombardia Film Commission – ha messo a verbale di aver dovuto restituire al partito il 15% del suo compenso ottenuto come revisore contabile della stessa Lombardia Film Commission, un ente pubblico controllato dalla Regione Lombardia. Ma la testimonianza di Scillieri, alla luce di questi documenti inediti, potrebbe essere solo la punta dell’iceberg.

 

“Tutti sapevano. Eri nominato e poi aiutavi la Lega”

Che tutto sia andato così per molti anni lo conferma al Fatto Daniela Cantamessa, in Lega dagli albori, segretaria di Umberto Bossi fino all’arrivo di Roberto Maroni alla segreteria federale. “Lo sapevano tutti che funzionava così – racconta – era normale: tu eri nominato dalla Lega e poi aiutavi il partito. Io però non ero in amministrazione, non vedevo personalmente le donazioni”. Chi ha conosciuto bene la macchina contabile per qualche anno è Francesco Belsito, tesoriere dal 2007 al 2012, poi cacciato per lo scandalo degli investimenti in Tanzania e condannato in via definitiva per appropriazione indebita nell’ambito della vicenda dei 49 milioni. I saldi sui conti correnti dei partito Belsito li vedeva, e spiega al Fatto che “i manager nominati nelle partecipate di Stato dovevano versare una quota del loro compenso sul conto corrente del partito, sottoforma di donazione, così la scaricavano dalla dichiarazione dei redditi. Era la prassi, lo sapevano tutti. Quelli che versavano sul conto della Lega Nord federale erano i nominati delle partecipate di Stato. I nominati nelle società locali versavano invece alle sezioni regionali. Per esempio, Regione Liguria nomina persone nella finanziaria di riferimento regionale, in quella del turismo: 7-8 partecipate in tutto. Quei pagamenti li seguiva il segretario regionale del partito. Per società come Eni, Poste, Finmeccanica o allora Invitalia, si versava invece direttamente sul conto della Lega Nord”. Chi ha visto con i suoi occhi ogni singolo versamento, almeno in Lombardia, è una segretaria che ci ha chiesto l’anonimato. Ha lavorato nell’amministrazione in via Bellerio per quasi 30 anni, e dice che almeno fino al 2015 – quando insieme ai tanti altri dipendenti è stata lasciata a casa a causa dei tagli fatti da Matteo Salvini in nome dell’austerity – il sistema funzionava così. “Tutti quelli nominati avevano l’obbligo morale di dare un tot alla Lega ogni anno, almeno quelli che venivano remunerati per quell’incarico. Chi non lo faceva riceveva una telefonata da Giampaolo Pradella, che si occupava allora degli enti locali della Lega, che gli diceva: ‘Guarda, non è arrivato il contributo, ricordati eh’. Insomma, in modo velato gli si diceva: ‘Dai il contributo, altrimenti la prossima volta non vieni più nominato’”. C’erano contratti scritti? “No, era su base volontaria, che però volontaria non era. Il discorso era semplice: ‘La Lega ti ha messo lì, e tu devi contribuire’”. Funziona ancora così nel partito guidato oggi da Salvini? Alle nostre domande, inviate ieri al segretario federale e al suo vice, Giorgetti, non è stata data per ora risposta.

1 – Continua

Inciucio, Renzi disse a Salvini: “Hai visto? Gli ho fatto il mazzo”

Mercoledì sera Matteo Renzi ha appena finito di parlare in Senato e di attaccare il premier Giuseppe Conte riscuotendo gli applausi di tutto il centrodestra. Si sente chiamare alle spalle. È l’altro Matteo, Salvini, sceso apposta dai banchi della Lega per andarsi a complimentare. Lo scambio di battute è veloce: “Bravo! Hai ragione su tutto” lo elogia Salvini. La risposta è tutto un programma: “Hai visto? Gli ho fatto il mazzo” risponde Renzi.

La vittima è, ovviamente, il nemico numero uno di entrambi: il premier Giuseppe Conte che tutti e due vorrebbero vedere fuori da Palazzo Chigi. Ma quello di mercoledì non è l’unico contatto tra i due “Matteo”. Chi conosce entrambi racconta che i due ormai si sentono regolarmente via sms con toni spesso goliardici e che nelle ultime ore il leader del Carroccio si sia visto recapitare una delle ultime interviste più dure di Renzi contro il premier, corredata da una didascalia di questo tenore: “Ci sono andato giù duro eh…”. Insomma, la sintesi la fa un senatore di centrodestra: “I due Matteo hanno ripreso a sentirsi”.

E allora succede che di fronte alla voglia di Renzi di buttare giù Conte in base all’assunto che “i numeri per una nuova maggioranza ci sono”, arrivi la sponda di Salvini. Che ora parla come il leader di Italia Viva: “Non si può votare con gli ospedali pieni e in piena campagna vaccinale – dice il segretario della Lega da Catania – sì al voto il prima possibile, ma ad emergenza finita”. E nel frattempo, quale governo? “Non penso a ‘governoni’ e ‘governini’ – spiega Salvini – ma se ad accompagnare alle elezioni fosse una squadra più seria e competente dell’attuale, ne sarei felice”, conclude prima di precisare che l’esecutivo dovrebbe essere di “centrodestra”. Peccato che in Parlamento la coalizione Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia non avrebbe i numeri per una nuova maggioranza e quindi servirebbe un governo di unità nazionale. Quello che, in cuor suo, sogna anche Renzi (ieri Calenda ha addirittura lanciato l’idea di un “cabinetto di guerra” con l’appoggio esterno della Lega).

Nella cerchia di Salvini la spiegano così: “Visto che non si andrà a votare, le ipotesi sono due: o si forma un Conte ter o un governo tecnico. In quel caso noi ci andremo a sedere a quel tavolo”. Una posizione che irrita Giorgia Meloni che si oppone a qualsiasi inciucio: “L’unica soluzione decente sono le elezioni anticipate” ha ripetuto ieri. Ma Salvini tira dritto perché è convinto, su consiglio di Giancarlo Giorgetti, che con Renzi ci parla eccome, che stavolta l’ex premier “andrà fino in fondo” e che non convenga fare i barricaderi a prescindere. Anche perché il leader della Lega, oltre a gestire i soldi del Recovery, vuole giocare da protagonista la partita del Quirinale e visto che a luglio si apre il semestre bianco – i sei mesi che anticipano l’elezione del nuovo presidente in cui non si può votare – un governo sostenuto anche dalla Lega potrebbe essere la mossa giusta: “Sull’elezione del capo dello Stato senza la Lega e il centrodestra non si va da nessuna parte” ha messo le mani avanti Salvini.

Resta il fatto che il pallino ce l’ha ancora Renzi che ha fatto all-in: o vince tutto o perde tutto. Sì, perché i suoi parlamentari sono terrorizzati dall’idea che la situazione sfugga di mano al capo e si vada davvero al voto. In quel caso, con il Rosatellum, Italia Viva passerebbe da 48 a 5 parlamentari ma alla condizione di un accordo con il Pd e in seggi blindati, perdendo quei 2,5 milioni di euro che il partito renziano incassa ogni anno grazie ai rimborsi ai gruppi parlamentari e per gli staff di ministri e sottosegretari. Venute meno quelle risorse, difficilmente Italia Viva riuscirebbe a sopravvivere.

Centristi contro Lega: “Berlusconi ci prendeva in giro, ma con classe”

“Se volete fare i fenomeni, potete andare da un’altra parte…”. Così Matteo Salvini giovedì scorso si è rivolto ai cespugli del centrodestra che il giorno prima, in Senato, avevano espresso posizioni diverse sulla riforma del Mes, votando una propria risoluzione. E così ecco convocato per giovedì un bel vertice che, per la prima volta, ha compreso i “cespugli”. C’erano, infatti, pure Maurizio Lupi, Lorenzo Cesa, Gaetano Quagliariello e Giovanni Toti. E anche la Meloni ci è andata giù duro. Specialmente con Cesa. “La dovete finire di fare cose che indeboliscono il centrodestra!”, ha detto la leader di FdI. Il sottotesto sembra essere: abbiamo fatto un miracolo a riportare all’ovile Forza Italia, e vi ci mettete pure voi?

“Mi fa sorridere che finora i tre partiti principali non ci abbiano mai convocato a nessun vertice e l’invito arriva proprio quando devono bacchettarci…”, fa notare Gianfranco Rotondi (nella foto). Che poi guarda al passato: “La grandezza di Berlusconi è stata che, anche quando ci prendeva per il culo, lo sapeva fare alla grande. Qui il livello è un po’ più basso”.

Nel frattempo, pure dentro FdI ci sono fibrillazioni. Poco più di una settimana fa non è passato inosservato un duro scontro andato in scena a Montecitorio tra Fabio Rampelli e Giorgia Meloni, con il primo, che presiedeva l’aula, a intimare alla seconda di non andare fuori tema. E immediata replica piccata di Giorgia. Scintille che qualcuno imputa alla rivoluzione che Meloni sta facendo nel partito. Nelle sue intenzioni, infatti, se si vuole continuare a crescere, FdI dovrà essere sempre più “nazionalizzarsi” e togliersi quell’aria romanocentrica che finora l’ha contraddistinta. Per questo largo a nuove figure come i marchigiani Acquaroli e Fidanza, il fiorentino Donzelli, la torinese Montaruli e altri. Da qui il malcontento dei “romani”, Rampelli in testa. Ma qualcuno sussurra che anche il regno di Ignazio La Russa in quel di Milano potrebbe iniziare a vacillare.

Conte rinvia il calendario Il Pd: “Basta, faccia presto”

Giuseppe Conte compulsa gli ultimi sondaggi. E si compiace del fatto che Ipsos dia in crescita il gradimento del governo e pure quello suo personale. Peccato che la popolarità che gli serve, adesso, sia quella dei partiti che hanno firmato con lui il patto di governo. E quella, pur non rivelata dal termometro degli istituti di ricerca, è in discesa libera.

Basti sentire quel che dice di lui il Pd. Che giura di non voler seguire la corsa suicida di Matteo Renzi, perché “le crisi al buio non si fanno”, ma è altrettanto determinato a presentargli il conto che per lungo tempo aveva tenuto nel cassetto.

“Conte deve fare presto, deve scendere in campo, deve dire come la pensa su molti temi, non può continuare a fischiettare” è il ragionamento che fanno Nicola Zingaretti, Dario Franceschini, Andrea Orlando. Perché si sono stancati di avere “un capo che si prende solo gli onori e non gli oneri: non può mandare ai tavoli Goracci e D’Incà (il capo di gabinetto e il ministro dei Rapporti con il Parlamento, ndr) e dire che non c’è l’accordo: lui dov’è? Non può stare zitto. Deve fare sintesi, non solo le conferenze stampa”.

È un giudizio lapidario, che riporta a fatti concreti: dal mancato via libera alle riforme (“Mentre noi il taglio dei parlamentari l’abbiamo votato, anche se ci faceva schifo”) alla lentezza con cui si è approdati alla revisione dei decreti sicurezza (“Ci abbiamo messo un anno e ce li ha fatti fare solo perché abbiamo vinto le Regionali da soli”). Insistono, a sinistra, che il punto non è il rimpasto: “Non ci interessa, noi siamo collaborativi e leali ma lui deve dirci come procedere in maniera più veloce e collegiale al rispetto del patto di governo”.

Hanno fretta di incontrarlo, ma Palazzo Chigi il calendario delle “consultazioni” che Conte ha promesso agli alleati non lo ha ancora buttato giù. Anzi, trapela l’ipotesi che il premier voglia prima tastare il terreno con i capigruppo di maggioranza e con i capidelegazione, per capire quale sia la posta in gioco, e solo dopo sedersi al tavolo con i leader. Sarebbe un modo per evitare di incontrare subito quel Matteo Renzi che gli ha dichiarato guerra perfino dalle colonne di un quotidiano straniero, mentre era a Bruxelles per trattare sul Recovery fund. Un affronto che al Nazareno considerano “folle”, ma che non cambia di una virgola la condivisione delle “esigenze legittime” di cui il leader di Italia Viva si è fatto portavoce.

“Sintesi” è la parola d’ordine, dietro cui ovviamente si cela anche la partita per i posti. L’ha spiegata venerdì sera con la consueta franchezza il Pd Andrea Orlando, a Otto e mezzo: “La fase precedente è stata gestita da Conte soprattutto facendo ricorso alla comunicazione, adesso serve invece un metodo che coinvolga le parti sociali. Io non vedo l’uomo solo al comando, ma Conte deve pensare a risorse aggiuntive che lo aiutino a tenere insieme le parti in una fase così difficile, figure alla Gianni Letta, per intenderci”. Un ruolo, quello da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, a cui potrebbe ambire lo stesso vicesegretario del Pd. Ma in ballo c’è anche il vecchio schema del governo gialloverde, quello con i due “vice” esponenti dei due partiti di maggioranza, che tanto fece penare il presidente del Consiglio. Zingaretti si tira fuori dalla partita, Luigi Di Maio e Dario Franceschini no.

Ma in questa ipotesi di Conte-ter nessuno sa bene cosa voglia l’altro: “La verità è che ognuno se lo immagina a modo suo, questo rimpasto – sintetizza una fonte di governo 5 Stelle – Finora non ci siamo confrontati: come si fa? Con quali criteri? Chi dovrà cedere ministeri e perché?”. Tutti ripetono che la gestione di questo “Papeete natalizio” sarà difficilissima, perché si sa come inizia e non come finisce. Eppure sono tutti altrettanto convinti che Renzi non farà cadere il governo a meno che non abbia costruito già una valida alternativa (Quirinale permettendo). Alternativa, che tutti considerano di quasi impossibile realizzazione.

Però certo a gennaio la resa dei conti arriverà. E Conte, che si è impegnato a guidare la crisi, ha davvero poco tempo per convincere gli alleati del cambio di passo. Non li fa ben sperare la “terzietà” con cui sta affrontando anche la questione dell’allentamento delle misure natalizie, rinviata al Parlamento con la contrarietà dei ministri rigoristi. Né il fatto che il consiglio dei Ministri sospeso lunedì scorso non sia stato riconvocato nemmeno questo weekend: c’è da affrontare l’annosa querelle su chi gestirà i soldi del programma Next Generation e sui progetti in cui dovranno essere investiti.

Ieri, a dare un assist a palazzo Chigi è arrivato il commissario europeo Paolo Gentiloni. Che ha di fatto sostenuto l’idea di una task force, perché “l’esperienza ci dice che l’utilizzo dei fondi europei nel nostro Paese non è automatico”. E si è mostrato anche molto sereno sulla questione dei tempi: “Sette paesi hanno consegnato piani, e sei, tra cui l’Italia, hanno fatto avere le linee generali. Questo significa che l’altra metà dell’Ue non ha neanche trasmesso gli elementi generali”. Praticamente l’unico nel Pd a non chiedere a Conte di fare in fretta.

Processo alle invenzioni

C’è solo un processo più inutile di quello di Catania a Salvini per il blocco della nave Gregoretti (scelta sciagurata e demagogica, ma difficilmente inquadrabile come sequestro di persona): quello a Virginia Raggi, che domani va a sentenza alla Corte d’appello di Roma. Chi se lo fosse dimenticato si armi di santa pazienza e mi segua in questa incredibile vicenda che farebbe la gioia di Kafka. A giugno del 2016, appena osa diventare sindaca di Roma, la Raggi viene investita da un uragano politico, mediatico e giudiziario mai visto contro una persona che non ha fatto nulla di male. L’uragano diventa tsunami quando la sindaca si azzarda a sottrarre la mangiatoia delle Olimpiadi ai soliti noti. Appena nata la giunta, viene indagata la sua assessora all’Ambiente Paola Muraro per presunti reati ambientali commessi in 14 anni di consulenze per l’Ama, saltate fuori nell’attimo esatto in cui accetta l’incarico dalla Raggi e archiviate appena si dimette. Poi viene arrestato il capo del Personale Raffaele Marra, ufficiale della Finanza pluridecorato da Fiamme Gialle e Quirinale, per fatti di quattro anni prima, nell’èra Alemanno. Infine viene indagata la Raggi, che una processione di avversari e/o manigoldi ha provveduto a tempestare con decine di denunce.

Tre indagini per abuso d’ufficio per le nomine del funzionario comunale Salvatore Romeo a capo-segreteria, della giudice Carla Raineri a capo-gabinetto e del dirigente dei Vigili Renato Marra (fratello di Raffaele) a capo-ufficio Turismo. Un’indagine per rivelazione di segreto per presunti dossier contro il rivale Marcello De Vito. E un’indagine per falso ideologico per una dichiarazione all’Anticorruzione comunale sul conflitto d’interessi di Raffaele Marra nella promozione del fratello. Alla fine la montagna partorisce il topolino: tutte le accuse archiviate, tranne quella di falso per aver detto all’Anac che Marra, nella nomina del fratello, ebbe un ruolo “di mera pedissequa esecuzione delle determinazioni da me assunte, senza alcuna partecipazione alle fasi istruttorie, di valutazione e decisionali”. Tantopiù che il Regolamento comunale affida quelle nomine alla discrezionalità del sindaco. Infatti fu la Raggi, su input dell’assessore al Commercio Adriano Meloni, a decidere. L’accusa è un doppio paradosso: nel Paese dei conflitti d’interessi, l’unico politico imputato è la Raggi; una volta archiviata l’accusa di complicità nel conflitto d’interessi di Marra (contestato a lui solo), non si vede perché la sindaca avrebbe dovuto mentire per coprire un delitto che non aveva commesso. Insomma, un caso più unico che raro di reato senza prove né movente né dolo.

Il processo alle intenzioni finisce direttamente in tribunale, perché la sindaca sceglie il rito immediato. E lì si scopre ciò che si era sempre saputo: la nomina di Renato Marra non fu una promozione ad personam, ma era parte di un “interpello” per la rotazione di ben 190 dirigenti comunali; lì, per evitare sospetti di conflitti d’interessi, la Raggi respinse la candidatura di Renato a capo dei Vigili e optò per un ruolo di fascia inferiore; Raffaele fece pressioni per il fratello su Meloni e non sulla Raggi, anzi alle sue spalle; quando lei scoprì che la nomina comportava un forte aumento di stipendio, si lamentò in chat con lui per non averla avvertita; nessun elemento dimostra che la sindaca fosse informata delle sue pressioni. Infatti il Tribunale la assolve perché “il fatto non costituisce reato”. Motivo: “Nel complesso la risposta del Sindaco Raggi alla richiesta” dell’Anticorruzione “appare veritiera”: nessun falso. Fu solo imprecisa quando, con linguaggio avvocatesco, parlò di “istruttoria” in senso giudiziario e non amministrativo. Il buonsenso vorrebbe che la cosa finisse lì. Invece la Procura, crollate tutte le indagini sulla giunta, ricorre in appello con un atto di 31 pagine in cui non prova neppure a confutare nel merito le 316 pagine della sentenza, né porta elementi fattuali in grado di ribaltarle. Per giunta, i pm ripetono il movente-patacca già sostenuto invano in Tribunale: e cioè che la sindaca mentì per non essere indagata per il conflitto d’interessi di Marra, visto che all’epoca (2016) per il Codice etico dei 5Stelle bastava un avviso di garanzia per imporre le dimissioni di un loro sindaco. Peccato che sia falso: Pizzarotti, Nogarin e la stessa Raggi furono indagati nel 2016 e restarono al loro posto.
La Corte ha concesso ai pm di riascoltare due testimoni, che hanno confermato come la sindaca fosse ignara delle pressioni di Marra. Dunque, ancora una volta, l’assoluto deserto probatorio e anche il buonsenso suggeriscono un’assoluzione-bis. Ma tutto è possibile. E, in caso di condanna, il Codice etico dei 5Stelle vieterebbe alla Raggi di ricandidarsi sotto le loro bandiere. A meno che si decidessero a rimetter mano alle regole interne. L’obbligo di dimissioni è sacrosanto anche per un semplice avviso di garanzia (o anche senza) quando sia acclarata una condotta immorale e infamante che metta in serio dubbio l’onestà dell’eletto. Ma, se c’è di mezzo una posta nei bilanci comunali o un incidente di piazza (processi Appendino), o una frase controversa (processo Raggi), giustizia e politica devono viaggiare su binari separati. Confonderli significa condizionare i magistrati e condannarsi a combattere gli avversari con le mani legate dietro la schiena.

De Bortoli e quello che va detto: l’Italia si salverà con il senso civico

Ferruccio de Bortoli è una istituzione del giornalismo italiano, se il termine non lo facesse sembrare vecchio, visto che non lo è. Si è guadagnato, con le direzioni autorevoli dei giornali in cui ha lavorato, con le candidature, spesso declinate, a incarichi prestigiosi e con la sua presenza nel dibattito pubblico, un ruolo riconoscibile. E lo ha fatto perché resta un fervente sostenitore dell’Italia civica e liberale, figlia del Dopoguerra di cui ha saputo riconoscere i sacrifici e in cui ha visto la forza della libertà di iniziativa sia pure inserita in uno Stato attivo e presente con le sue politiche di sistema.

Anche in questo volume torna con forza la fede nel “senso civico” degli italiani dimostrato, scrive De Bortoli, ampiamente nella reazione alla pandemia da Covid. Che “è stata esemplare” manifestandosi non solo nella accettazione delle misure decise dal governo, ma anche “nella rete degli aiuti agli anziani, nell’assistenza ai nuovi poveri” o, ancora, “nelle file ordinate ai supermercati e nei concerti tenuti sui terrazzi”.

Questo senso civico fa rima con un sentimento di “cura della casa comune” il cui maggior esempio è dato non da un italiano, ma da un argentino, Papa Francesco, con la sua celebre messa solitaria sul sagrato di San Pietro il 27 marzo.

Anche gli “italiani hanno dimostrato di saper curare la casa comune, di avere a cuore la salute”. Questo è in fondo il segreto del successo di Giuseppe Conte, come lo stesso De Bortoli riconosce. Ma, da buon borghese liberale, l’ex direttore del Corriere della Sera invita a non adagiarsi in una “vita sopra i nostri mezzi”. Bene misure come i bonus per frenare l’emergenza, ma meglio lasciare andare l’economia con i suoi ritmi, limitandosi a un quadro regolatorio. Un juste milieu tra Stato e mercato in cui l’attitudine civica è essenziale. De Bortoli crede moltissimo che gli italiani ne siano dotati, ed è questa convinzione a sorreggere tutte le cose che ha deciso di dire “fino in fondo”.

 

Le cose che non ci diciamo

Ferruccio de Bortoli

Pagine: 152

Prezzo: 16

Editore: Garzanti

 

Revolutionary Rich, il poeta ritrovato

Prendiamo, tra milioni di esistenze del Novecento americano, i 66 anni vissuti da un uomo nato a Yonkers, nello Stato di New York, nel 1926. Mettiamo in fila – a scandire un talento artistico quasi sempre avaro di gratificazioni – un’infanzia solitaria, problemi di sopravvivenza economica, un’esperienza di soldato in trincea, matrimoni infelici e successivi divorzi, dipendenza da alcol e fumo, depressione e ricoveri psichiatrici. Ecco lo scrittore Richard Yates, che Minimum fax celebra al rango di classico con Capolavori, un cofanetto di quattro sue opere per un totale di 1.200 pagine.

La sua biografia è già un romanzo involontario. Sembra non esserci diaframma tra Yates e i suoi personaggi di carta. In un’intervista disse: “Se la mia opera ha un tema portante, ho il sospetto che sia molto semplice: tutti gli esseri umani sono irrimediabilmente soli, ed è in questo che risiede la tragedia delle loro vite”. Emblematico che un suo volume di racconti vanti come titolo Undici solitudini: un microcosmo di impiegati mitomani, ragazzi disadattati, reduci senza gloria, coppie in crisi. Personaggi che (come peraltro in tutta la narrativa di Yates) non si sentono mai all’altezza delle loro aspirazioni, costretti come sono a sopravvivere a se stessi. Nel 1992, poche settimane prima di morire, nella sua stanza all’Università dell’Alabama dove aveva insegnato, circondato solo da una scrivania con una macchina da scrivere e un frigorifero colmo di birre, disse a un cronista che lo contattò: “Grazie per essersi ricordato di me”.

In effetti la sua parabola, perennemente in bilico tra ambizioni smodate e sprofondi paranoici, è sempre rimasta sotto la soglia di un riconoscimento consolidato e dopo la sua scomparsa per anni tutti i suoi nove libri sono rimasti regolarmente fuori commercio. “Scrivere così bene e precipitare nell’oblio è un destino terribile” ha scritto Stewart O’Nan. Come è stato possibile sottostimare una produzione oggi universalmente riconosciuta come un modello? Una risposta la troviamo in una vecchia recensione di Joyce Carol Oates: “Un mondo triste, grigio, mortifero, fatto di sogni senza sostanza”.

Per il lettore non è un viaggio comodo attraversare le righe di Yates. C’è un ritratto crudelissimo della vita quotidiana e senza nemmeno quel sottile umorismo che pure salva certa desolazione narrata da un autore a lui affine come Carver. Il lettore si trova davanti a uno specchio che riflette la realtà senza infingimenti e che non illumina vie di fuga, scorciatoie per la redenzione. È come se all’autore – nel suo stile essenziale, senza virtuosismi – mancasse sempre un colore nella tavolozza. Non per difetto di creatività ma in nome di una vocazione letteraria geneticamente incapace di inventare altri mondi. È come se Yates non riuscisse a mettere il naso fuori di casa e non gli restasse altro che volgere il suo sguardo tra la cucina e la camera da letto.

Quando Elizabeth Cox gli disse contrita che la sua ossessione era scrivere della famiglia, lui le rispose: “Non c’è altro di cui scrivere”. A testimoniarlo il suo romanzo più fortunato: Revolutionary Road. Pubblicato nel 1961 non passò inosservato e a eternarlo nell’immaginario collettivo ha provveduto Sam Mendes nel 2008 con la versione cinematografica interpretata dalla coppia di Titanic DiCaprio-Winslet. In effetti si tratta di un naufragio, quello del matrimonio yankee degli anni 50, minato da recriminazioni urlate e silenzi ostili. L’amore affonda mentre l’orchestra del mondo circostante continua a suonare. I coniugi protagonisti, Frank e April, non riescono a vivere serenamente nei loro panni poiché disprezzano il ceto a cui appartengono con i suoi miti piccoloborghesi, le sue ipocrisie morali. Si sentono diversi e in qualche modo sprecati nell’ambiente in cui vivono. Frank crede nella possibilità che le parole, e solo le parole, aprendo un futuro indeterminato, attutiscano il dolore di vivere. Quando le parole non riescono più a esorcizzare la realtà April si sottrae e la storia sfuma in dramma. Un romanzo scritto con “tragica onestà”, per richiamare il titolo di una biografia di Yates uscita in Usa. L’autore aveva confidato: “Io non voglio soldi, voglio lettori”. Il tempo gli renda finalmente giustizia.

Palazzinaro muore nel mare di dicembre: indaga il nuovo pm conte di De Cataldo

Ademaro Proietti è un potente palazzinaro della Capitale. Più di settanta anni e quattro figli. Origini popolane. E infami: il suo papà si arricchì rubando l’oro degli ebrei deportati, con la complicità dei nazisti. Ademaro è uno squalo negli affari e nel suo clan familiare. Durante un’insolita gita decembrina a Ponza, sul suo gigantesco yacht di 60 metri, Proietti scompare in mare, di notte. Il cadavere affiora poco dopo, con una ferita alla nuca. A bordo i tre figli maschi, il genero piacione, due persone dell’equipaggio. È omicidio? A indagare è il pm “contino”. Alias il conte Manrico Spinori della Rocca, che si avvale di una squadra giudiziaria tutta al femminile. Un cuore sleale è la seconda inchiesta del nuovo detective “seriale” di Giancarlo De Cataldo, magistrato e scrittore. Spinori è un anomalo procuratore charmant. Non solo perché aristocratico.

Il bel Manrico ascolta musica d’opera o classica e per lui la soluzione dei misteri è da abbinare sempre a un riferimento operistico. Il suo metodo è quello del magistrato che cerca la verità, al contrario del capo Melchiorre, suo vecchio amico, che deve dapprima badare alle convenienze del potere e poi decidere cosa fare (un giorno bisognerà fare un catalogo dei procuratori capo nel giallo italiano). Divorziato, incline allo spleen e perennemente attratto da donne bellissime, non belle, il pm “contino” è l’esatto opposto della vittima, volgare incarnazione del pezzente arricchito. Come in tutte le famiglie milionarie, nel clan Proietti l’avidità ha da tempo surclassato i legami di sangue. L’indagine sulla morte di Ademaro scoperchia un nido di serpenti, per dirla christianamente, nel senso di Agatha. L’ideale per un giallo natalizio.

 

Un cuore sleale

Giancarlo De Cataldo

Pagine: 245

Prezzo: 17

Editore: Einaudi