Giuseppe Conte compulsa gli ultimi sondaggi. E si compiace del fatto che Ipsos dia in crescita il gradimento del governo e pure quello suo personale. Peccato che la popolarità che gli serve, adesso, sia quella dei partiti che hanno firmato con lui il patto di governo. E quella, pur non rivelata dal termometro degli istituti di ricerca, è in discesa libera.
Basti sentire quel che dice di lui il Pd. Che giura di non voler seguire la corsa suicida di Matteo Renzi, perché “le crisi al buio non si fanno”, ma è altrettanto determinato a presentargli il conto che per lungo tempo aveva tenuto nel cassetto.
“Conte deve fare presto, deve scendere in campo, deve dire come la pensa su molti temi, non può continuare a fischiettare” è il ragionamento che fanno Nicola Zingaretti, Dario Franceschini, Andrea Orlando. Perché si sono stancati di avere “un capo che si prende solo gli onori e non gli oneri: non può mandare ai tavoli Goracci e D’Incà (il capo di gabinetto e il ministro dei Rapporti con il Parlamento, ndr) e dire che non c’è l’accordo: lui dov’è? Non può stare zitto. Deve fare sintesi, non solo le conferenze stampa”.
È un giudizio lapidario, che riporta a fatti concreti: dal mancato via libera alle riforme (“Mentre noi il taglio dei parlamentari l’abbiamo votato, anche se ci faceva schifo”) alla lentezza con cui si è approdati alla revisione dei decreti sicurezza (“Ci abbiamo messo un anno e ce li ha fatti fare solo perché abbiamo vinto le Regionali da soli”). Insistono, a sinistra, che il punto non è il rimpasto: “Non ci interessa, noi siamo collaborativi e leali ma lui deve dirci come procedere in maniera più veloce e collegiale al rispetto del patto di governo”.
Hanno fretta di incontrarlo, ma Palazzo Chigi il calendario delle “consultazioni” che Conte ha promesso agli alleati non lo ha ancora buttato giù. Anzi, trapela l’ipotesi che il premier voglia prima tastare il terreno con i capigruppo di maggioranza e con i capidelegazione, per capire quale sia la posta in gioco, e solo dopo sedersi al tavolo con i leader. Sarebbe un modo per evitare di incontrare subito quel Matteo Renzi che gli ha dichiarato guerra perfino dalle colonne di un quotidiano straniero, mentre era a Bruxelles per trattare sul Recovery fund. Un affronto che al Nazareno considerano “folle”, ma che non cambia di una virgola la condivisione delle “esigenze legittime” di cui il leader di Italia Viva si è fatto portavoce.
“Sintesi” è la parola d’ordine, dietro cui ovviamente si cela anche la partita per i posti. L’ha spiegata venerdì sera con la consueta franchezza il Pd Andrea Orlando, a Otto e mezzo: “La fase precedente è stata gestita da Conte soprattutto facendo ricorso alla comunicazione, adesso serve invece un metodo che coinvolga le parti sociali. Io non vedo l’uomo solo al comando, ma Conte deve pensare a risorse aggiuntive che lo aiutino a tenere insieme le parti in una fase così difficile, figure alla Gianni Letta, per intenderci”. Un ruolo, quello da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, a cui potrebbe ambire lo stesso vicesegretario del Pd. Ma in ballo c’è anche il vecchio schema del governo gialloverde, quello con i due “vice” esponenti dei due partiti di maggioranza, che tanto fece penare il presidente del Consiglio. Zingaretti si tira fuori dalla partita, Luigi Di Maio e Dario Franceschini no.
Ma in questa ipotesi di Conte-ter nessuno sa bene cosa voglia l’altro: “La verità è che ognuno se lo immagina a modo suo, questo rimpasto – sintetizza una fonte di governo 5 Stelle – Finora non ci siamo confrontati: come si fa? Con quali criteri? Chi dovrà cedere ministeri e perché?”. Tutti ripetono che la gestione di questo “Papeete natalizio” sarà difficilissima, perché si sa come inizia e non come finisce. Eppure sono tutti altrettanto convinti che Renzi non farà cadere il governo a meno che non abbia costruito già una valida alternativa (Quirinale permettendo). Alternativa, che tutti considerano di quasi impossibile realizzazione.
Però certo a gennaio la resa dei conti arriverà. E Conte, che si è impegnato a guidare la crisi, ha davvero poco tempo per convincere gli alleati del cambio di passo. Non li fa ben sperare la “terzietà” con cui sta affrontando anche la questione dell’allentamento delle misure natalizie, rinviata al Parlamento con la contrarietà dei ministri rigoristi. Né il fatto che il consiglio dei Ministri sospeso lunedì scorso non sia stato riconvocato nemmeno questo weekend: c’è da affrontare l’annosa querelle su chi gestirà i soldi del programma Next Generation e sui progetti in cui dovranno essere investiti.
Ieri, a dare un assist a palazzo Chigi è arrivato il commissario europeo Paolo Gentiloni. Che ha di fatto sostenuto l’idea di una task force, perché “l’esperienza ci dice che l’utilizzo dei fondi europei nel nostro Paese non è automatico”. E si è mostrato anche molto sereno sulla questione dei tempi: “Sette paesi hanno consegnato piani, e sei, tra cui l’Italia, hanno fatto avere le linee generali. Questo significa che l’altra metà dell’Ue non ha neanche trasmesso gli elementi generali”. Praticamente l’unico nel Pd a non chiedere a Conte di fare in fretta.