Buona la prima: l’esordio di Hanya è lirico e feroce

Ci sono libri che si leggono lentamente, perché faticosi, e viceversa libri che si scolano d’un fiato tanto creano dipendenza. E poi ci sono i libri di Hanya Yanagihara, che creano dipendenza e perciò si gustano lentamente, pur di farli durare: era così per Una vita come tante (Sellerio, 2016) ed è così per Il popolo degli alberi, appena edito da Feltrinelli anche se di fattura precedente.

Il debutto nella narrativa della scrittrice di origini hawaiane – la migliore scrittrice di origini hawaiane della storia – è del 2013: Il popolo degli alberi sicuramente non è all’altezza del suo secondo romanzo – un capolavoro –, ma è ugualmente potente, lirico e feroce insieme. Yanagihara, “una vita come tante”, un’autrice come nessuna; una voce unica, sensibile ma non consolatoria, anche quando affabula in prima persona maschile: quella del dottor Abraham Norton Perina, Premio Nobel per la Medicina nel 1974 e vent’anni e passa dopo condannato e incarcerato per abusi sui minori, abbandonato da tutti tranne che un collega amico. È lui a insistere con l’ex luminare affinché scriva le sue memorie dietro le sbarre. Ne esce così l’autobiografia di un (per la giustizia americana) pedofilo: c’è qualcosa di Lolita, è evidente, con quegli stupri sui minori; qualcosa di Barney, a naso, con quella “versione” tutta in prima persona; qualcosa forse anche di Franzen, con quell’entroterra americano provinciale e ottuso. Ma no, Hanya non ha la spocchia e la volgarità compiaciute del maschio bianco eterosessuale.

Le sue memorie, le sue prigioni: fresco di laurea, il giovane Perina accetta di far parte di una spedizione di antropologi guidata dal prof. Paul Joseph Tallent. È un’esperienza intensa, febbricitante e faticosa sull’isola “proibita” di Ivu’ivu, in Micronesia, selvaggia e inospitale, popolata da strani indigeni. Lì, Perina scopre la “sindrome di Selene” – che gli varrà poi il Nobel –, una malattia locale, contratta mangiando una rarissima specie di tartaruga: chi ne è affetto invecchia nella mente, ma non nel corpo, diventando l’ombra di se stesso, uno zombie, un animale-bambino. Quell’avventura gli segna per sempre la vita, non solo professionale: il dottore deciderà, infatti, di adottare, negli anni, 43 ragazzini indigeni, chi orfano, chi disgraziato. Ma sarà proprio uno dei suoi figli a denunciarlo, tempo dopo, per abusi sessuali…

Per Yanagihara, l’antropologia è una forma di colonialismo, che a sua volta è una forma di sopruso: quanto di più distante dall’“addomesticamento” romantico e stucchevole dei Piccoli principi occidentali. I cattivi esistono, le nature malvagie pure; ci sono i natural born killers, i “diavoli nati”, come il Calibano di Shakespeare in esergo. L’autrice non giudica, si limita a dissezionare i suoi personaggi-insetti, così come il giovane Perina faceva in laboratorio con topi e cani. Su tutti, poi, incombe la giungla, con le sue “improbabili sfumature pappagallesche del verde”: un luogo incantato e tetro, in cui “niente obbedisce alle leggi della natura”. Ma anche qui l’ecologismo non ha il sapore antropocentrico e ateo di certi nostri Fridays for Future.

Appunta la scienziata delle lettere Hanya: ci sono “persone che credono a concetti come quelli di bene e male… Ma sebbene come idea astratta sia molto allettante, è fondamentalmente falsa”. E non è – come pomposamente recita la quarta di copertina citando un Premio Pulitzer – “relativismo morale”: è letteratura, per alcuni; vita, per tutti gli altri.

 

Il popolo degli alberi

Hanya Yanagihara

Pagine: 440

Prezzo: 18

Editore: Feltrinelli

“El Cid”, l’eroe spagnolo diventa un vero kolossal da cinque puntate

Eroe pop spagnolo esattamente come Don Chisciotte e Don Juan, ma con una differenza: El Cid è realmente esistito. Per questo gli showrunner dell’omonima serie tv – Luiz Arranz e José Velasco – non avevano dubbi sulla necessità di dedicare a Ruy Diaz de Vivar, altrimenti noto come El Cid Campeador, una produzione coi fiocchi, tra le più sontuose in terra di Spagna. A pensarci è stata Amazon Studios, che ha raccolto la proposta del produttore local Zebra predisponendo un vero e proprio kolossal in 5 episodi in onda su Prime Video dal 18 dicembre. Show integralmente ispanico per cast & crew, location e naturalmente soggetto, El Cid non infrange alcuna regola di classicità narrativa, strutturale e stilistica per mantenere l’aura patinata dell’eroe nazionalpopolare da offrire al mondo dell’on demand nel ghiotto pasto prenatalizio. Al centro sono le gesta, gli amori e i tormenti del giovane paladino di lealtà, condottiero medievale di Vivar – cittadina presso Burgos – mescolati ai vari complotti, strategie, vendette di chi lo circonda, tra guerre fratricide e cortigiani spioni, cuori infranti e desideri di potere, il tutto condito da spargimenti di sangue all’occorrenza. Gli ingredienti ne fanno una Royal saga fluttuante fra il vero e il fantasioso non distante da quelle che da anni ci propinano sovrani di ogni epoca e territorio (per lo più britannico, quindi qui almeno c’è una variante sul tema..) perché alla base di ogni civiltà, in fondo, la ricetta non cambia, vuoi che l’ambìto trono sia di spade o che la lingua sia il latino arcaico. Naturalmente i protagonisti rispecchiano meticolosamente l’immaginario collettivo dei rispettivi ruoli: laddove i più giovani emanano bellezza da ogni lato li si osservi, a partire da Ruy interpretato da Jaime Lorente (noto per La casa di carta) i più adulti sembrano Re e Regine delle carte da gioco. Ma in fondo così funzionano le “storiche favole” seriali.

The Wilds, teen drama senza troppa fantasia

Tredici, Skam, Sex Education, Euphoria: c’erano una volta i teen drama ambientati a scuola. E ci sono ancora… Ma siccome negli ultimi anni il genere ha prodotto decine titoli ed esplorato tutti i temi possibili e immaginabili, dal bullismo al sesso, dalla droga al disagio mentale, la scuola ormai non basta più. Ecco allora The Wilds (da ieri su Amazon Prime Video): un teen drama che ha come protagoniste nove ragazze naufragate su un’isola deserta.

Leah, Rachel, Shelby, Nora, Fatin, Toni, Dot, Martha e Jeannette salgono su un jet privato dirette a Kona, Hawaii, dove parteciperanno a un ritiro spirituale tutto al femminile. Alcune si conoscono, altre si incontrano ora per la prima volta. Provengono da ambienti sociali differenti e hanno caratteri diversi, più o meno aderenti agli stereotipi più comuni sugli adolescenti: c’è la ragazza truccatissima, la sportiva, la timorata di Dio, la ribelle, eccetera eccetera. Tutte maschere che, si scoprirà nel corso delle puntate, servono a nascondere i traumi che ognuna di loro ha vissuto.

Qualcosa intanto va storto, l’aereo precipita in acqua e le ragazze riescono a mettersi in salvo a nuoto. Si ritrovano su un’isola sperduta in mezzo all’oceano, senza vestiti di ricambio, con i telefoni scarichi e qualche bibita in lattina come unica provvista. Ok, sì: sembra Lost con nove teenager al posto di Jack Shephard e John Locke. Ma alla fine del primo episodio arriva la sorpresa. Il naufragio non è stato casuale e le ragazze, pare di capire, sono state scelte per partecipare a un misterioso esperimento sociale.

La serie si svolge su tre piani temporali. Nel presente ci sono due agenti dell’Fbi che cercano di capire cosa è successo davvero e perché; il passato prossimo sono i fatti accaduti sull’isola; il passato remoto è la storia di ognuna delle protagoniste, le loro cicatrici, le aspettative deluse, le esperienze che hanno formato il loro carattere. Ogni episodio assume il punto di vista di una ragazza diversa, strategia narrativa non originalissima che in compenso offre il vantaggio di comporre il puzzle pezzo per pezzo e di trattare tanti temi diversi.

Alcune storie sono più forti, come quella di Dot che ha cominciato a spacciare droga per pagare le cure al padre malato terminale, altre meno. La scelta, in ogni caso, è quella di concentrarsi sui problemi adolescenziali e non sulla sopravvivenza sull’isola, che finisce per diventare – oltre che una variazione sul tema teen drama – una metafora. Lo spiega Leah nella prima puntata, quando dice che sì, l’esperienza è stata dura, “ma il vero inferno è essere una teenager”.

Oltre alla già citata Lost, con cui ha in comune sia l’ambientazione sia i flashback utilizzati per la costruzione dei personaggi, The Wilds è in debito con diverse serie uscite negli ultimi anni: per esempio The Society, su un gruppo di adolescenti che rimangono bloccati da soli nella loro città; The I-Land, su dieci persone che si risvegliano su un’isola deserta; e Pretty Little Liars, che racconta di cinque ragazze e dei loro segreti. Un prodotto insomma non particolarmente innovativo in sé, che riesce però a mescolare elementi diversi in maniera piuttosto originale e a coinvolgere lo spettatore con lo stratagemma dell’esperimento sociale: chi vuol capire perché le ragazze sono state fatte naufragare sull’isola, e come mai proprio loro, deve arrivare fino alla fine.

La serie è stata creata da Sarah Streicher, già sceneggiatrice di Daredevil, ed è girata in Nuova Zelanda. Nel cast Rachel Griffiths (Six Feet Under), Sophia Taylor Ali (Grey’s Anatomy), Reign Edwards (Snowfall) e diverse giovani attrici esordienti o quasi. Particolarmente efficace la colonna sonora curata da Jen Malone (Atlanta, The Umbrella Academy, Euphoria). Fino al 25 dicembre il primo episodio di The Wilds sarà disponibile gratuitamente sia su Amazon Prime Video che sui canali YouTube, Instagram, Facebook e Twitter della piattaforma.

 

The Wilds

Su Amazon Prime Video

(Quasi) tutte le strade del cinema portano a Dafoe

Willem Dafoe verrà diretto da sua moglie Giada Colagrande in Tropico, un thriller che interpreterà con Pedro Pascal e la star tv brasiliana Morena Baccarin. La storia sceneggiata da Barry Gifford vedrà in scena in una torrida città costiera brasiliana un uomo, Raymond, incaricato di spiare un uomo d’affari statunitense, Mark, che vedrà la sua vita complicarsi quando si innamorerà contemporaneamente della moglie di Mark e della sua gemella. L’eclettico attore statunitense sta ultimando intanto in Irlanda The Northman, un’epopea vichinga ambientata nel decimo secolo in cui ha ritrovato il regista di The Lighthouse, Robert Eggers, condividendo il set con Alexander Skarsgård, Nicole Kidman, Björk, Ethan Hawke e Anya Taylor-Joy. Nel 2021 Dafoe apparirà anche in opere prestigiose come The Card Counter, un thriller diretto da Paul Schrader e prodotto da Martin Scorsese ambientato in vari casinò Usa con Oscar Isaac protagonista; NightmareAlley di Guillermo Del Toro con Cate Blanchett e Bradley Cooper nei ruoli principali e The Franch Dispatch di Wes Anderson con un ricchissimo cast di star americane e francesi.

Massimo Popolizio e Vinicio Marchioni hanno recitato in Governance, una coproduzione italo-francese di Michael Zampino, anche sceneggiatore con Heidrun Schleef e Giampaolo Rugo. Dopo un’inchiesta per corruzione un brillante manager senza scrupoli lascia la carica di direttore generale di un gruppo petrolifero convinto di essere stato tradito da una collega. Prepara la sua vendetta coinvolgendo suo malgrado un amico di famiglia, ma la situazione gli sfugge di mano.

Laura Chiatti, Chiara Francini, Antonia Liskova e Jun Ichikawa sono quattro amiche alla vigilia del matrimonio in Addio al nubilato che Francesco Apolloni ha tratto dalla sua omonima commedia.

Addio Kim Ki-duk, il pittore mistico del maxi-schermo

Un artista vero. E per questa sua arte estrema Kim Ki-duk soffriva di quel pathos comprensibile solo ai suoi simili. Avrebbe compiuto 60 anni fra 10 giorni questo poeta della regia sudcoreano, ma l’annus horribilis in corso gliel’ha impedito: a coglierlo complicazioni da Covid-19 mentre si trovava in Lettonia per acquistare una casa sul mare.

L’opera pluripremiata lasciata da Ki-duk va interpretata in sovrapposizione alla sua persona, così tormentata dalla necessità di esprimersi dentro al senso misterioso della vita. Emblematica la frase che pronunciò sulle ragioni del proprio cinema, così folle e a tratti geniale: “L’odio di cui parlo non è rivolto specificatamente contro nessuno, è quella sensazione che provo quando vivo la mia vita e vedo cose che non riesco a capire. Per questo faccio film: tentare di comprendere l’incomprensibile”.

Capace di gesti sovversivi come i repentini quanto estremi cambiamenti di vita – tutti tradotti in arte cinematografica – Kim Ki-duk era radicale in ogni sua manifestazione, anche quando si ritirava nell’isolamento di una montagna, sotto una tenda, a cantare l’Arirang, l’omonimo canto popolare coreano. Era il 2011, l’artista era reduce da un incidente sul set del film Dream che era costato la vita a un’attrice, ne uscì un’omonima opera testamentaria nella forma di video-confessione, anche’essa disperata, anche’essa totalizzante.

Ma c’era dell’amabile imprevedibilità in questo signore dall’immancabile codino: lo si poteva incontrare lungo la Croisette durante il Festival di Cannes – che spesso lo invitava con alcuni suoi capolavori – e fermare a far due chiacchiere in mezzo alla strada. Kim accettava, avvolto in un lurido cappotto marrone nonostante la mite temperatura, e iniziava a discorrere di arte, di vita e di morte. Poi gli si chiedeva di autografare la cartolina di un suo film, e lui lo faceva aggiungendo al suo nome in caratteri coreani una parentesi “Korean Director”, come a ribadire la sua identità anche a chi, chiaramente, la conosceva benissimo. E poi lo si trovava a cantare in live performance durante i festival, sempre quell’Arirang sintomo del suo attaccamento alla madrepatria che non mancava di criticare politicamente e socialmente. Perché lui era nato poverissimo, costretto a studi agricoli, alla fabbrica, all’arruolamento in marina fino alla folgorazione religiosa e poi artistica – a 30 anni – che lo portò a Parigi per coltivare la pittura.

Ne uscì cineasta a tutto tondo, forgiando quasi una trentina di opere, alcune di bellezza assoluta, nutrite di poesia immaginifica allo stato puro alternata al furore violento: il folgorante L’isola (2000), il meditativo Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003), il sublime Ferro 3 – La casa vuota realizzato nell’anno più prolifico della sua carriera, il 2004, in cui girò anche lo splendido La samaritana. E ancora L’arco (2005), Time (2006) fino al disturbante Pietà del 2012 con cui vinse il Leone d’oro a Venezia dopo svariati riconoscimenti a Berlino e Cannes.

Né in sala né in tv: ai film non resta che piangere

Chi vivrà vedrà. Non che la settima arte possa sottrarvisi, ma questa condizione necessaria oggi non è nemmeno lontanamente sufficiente: a programmare, anche solo pensare il domani. Stiamo messi così male, causa pandemia e i suoi derivati, da aggiornare in senso catastrofico quanto vaticinato dal padre dei fratelli Lumière più di un secolo fa: “Il futuro è un’invenzione senza cinema”. Dalla seconda chiusura delle sale, prescritta dal Dpcm dello scorso 24 ottobre, le piattaforme digitali non suppliscono la domanda né esauriscono l’offerta, anzi. Sono due i titoli che meglio restituiscono lo stato dell’arte: Cosa sarà di Francesco Bruni e Si vive una volta sola di Carlo Verdone. Il primo s’è fatto espropriare l’originaria denominazione, Andrà tutto bene, dal Coronavirus: in uscita lo scorso marzo, slittato all’autunno, battezzato alla Festa del Cinema di Roma, ha avuto proiezioni sabato 24 ottobre e l’indomani, poi le sale sono state richiuse, sicché dal 29 ottobre è disponibile on demand. Perfino più icastica la ventisettesima regia di Verdone, attesa in sala lo scorso 26 febbraio, procrastinata al 26 novembre, quindi rimandata sine die: il cinema Europa – per dare la misura continentale del problema – di Roma è ancora addobbato per la release originaria e di questo passo, giacché è sprovvista dell’anno, l’indicazione del 26 febbraio potrebbe ritornare utile.

Wikipedia taglia corto, “è un film italiano del 2021 diretto e interpretato da Carlo Verdone”, ma forse anch’esso dovrà rivedere il titolo: Si vive una volta sòla, alla romana; Si vive solo due volte o il più stronzo Vivi e lascia morire, à la James Bond. La situazione è grave e, eccezionalmente, seria: I predatori, opera prima di Pietro Castellitto, ha conosciuto il grande schermo per un pugno di giorni, dal 22 al 25 ottobre, e da ieri in sordina s’è convertito all’on demand; sequel di Massimiliano Bruno, Ritorno al crimine ha disdetto l’intestazione e fa delle uscite cancellate un terno: 12 (marzo), 26 (novembre), 29 (ottobre); il focus partecipato di Gabriele Salvatores sulla prima ondata, Fuori era primavera, è stato giubilato, almeno nel lancio theatrical, dalla seconda, e dal 10 dicembre è su Rai Play; Tre piani di Nanni Moretti ne ha cambiati distributivamente di più, e la possibilità strappata al delegato generale di Cannes Thierry Fremaux di uscire a gennaio in Italia prima dell’approdo al festival francese è appesa al prossimo Dpcm. Destinazione anno nuovo e rigorosamente in sala per altri due titoli di punta del listino 01 Distribution: Freaks Out di Gabriele Mainetti, già piazzato al 16 dicembre, e Diabolik dei Manetti Bros., fissato all’ultimo dell’anno. Sotto l’albero, viceversa, si procede in ordine sparso. In vacanza su Marte, reunion di Neri Parenti dietro e Christian De Sica e Massimo Boldi davanti alla macchina da presa, arriva oggi, noleggio e vendita, online, mantenendo la scurrilità del cinepanettone che fu, ma cambiando prefisso, “telepanettone”, e perdendo, per allungarsi la scadenza, il prefissato Natale nel titolo; 10 giorni con Babbo Natale, seguito di 10 giorni senza mamma, di Alessandro Genovesi è dal 4 dicembre su Prime Video; Io sono Babbo Natale di Edoardo Falcone, che vanta l’ultima prova di Gigi Proietti, non andrà in TVOD, dicono da Lucky Red, sicché è probabile la dilazione al Natale 2021. Che le piattaforme non siano la panacea di tutti i mali e, ancor prima, che non siano per tutti, segnatamente “i piccoli, medi e indipendenti”, è consapevolezza diffusa quanto sottaciuta. “Se era già difficile approdare in sala, ma alla fine 70, 80, 100 schermi si riguadagnavano, ora siamo completamente bloccati: con Amazon e Netflix possono accordarsi i grandi, ma solo loro”, lamenta il produttore di Stemo Claudio Bucci, che a novembre sarebbe dovuto uscire con #Selfiemania, coproduzione Italia-Austria-Russia “con l’attualità per tema e la tradizione del film a episodi”. La percentuale sui click garantita dai servizi di streaming, osserva Bucci, “è risibile: è uno sfruttamento soddisfacente per i vecchi titoli, ma drasticamente inadeguato per quelli nuovi”.

Che fare? Paradossalmente, “saltare a piè pari sala e piattaforme, e puntare sulle tv: prima Sky, poi Mediaset o Rai”. Ma si recita a soggetto: sempre targati Stemo, L’altra luna di Carlo Chiaramonte, coproduzione con la Bosnia sostenuta da Media e Mibact, si avvarrà della prevendita Rai, mentre La danza nera, con Franco Nero e Daphne Scoccia, il 18 dicembre planerà su Prime Video con, Bucci non se lo nasconde, “outlook negativo”. Perché la decantata o, meglio, millantata democrazia digitale incappa tra SVOD e TVOD in un problema di apparenza e, dunque, sostanza: “Senza il traino della sala, come può un film medio-piccolo anche solo farsi notare sulla piattaforma?”.

 

Brexit, ora l’intento è limitare i danni di un mancato accordo

Qual è lo stato reale dei negoziati fra Uk e Ue? A saperlo davvero sono al massimo una decina di persone, quelle al tavolo della trattativa, quelle che – questo l’ultimo mandato uscito dalla cena di mercoledì fra il premier britannico Boris Johnson e la Presidente della Commissione europea – dovrebbero arrivare a una decisione definitiva domenica. Da fuori si cerca di trovare incoraggiante che le parti ancora si parlino, e perché dovrebbero parlarsi se davvero non ci fossero margini politici per un accordo dell’ultimo minuto? Ma tutti gli altri segnali sono mestissimi. Ieri Johnson ha dichiarato che è “molto, molto probabile che dovremo scegliere una soluzione che io considero meravigliosa per il Regno Unito e che da gennaio potremo fare esattamente quello che vogliamo”, codice per nessun accordo. La Von der Leyen, intervenuta al Consiglio europeo che si è concluso ieri, ha dedicato ad aggiornare gli Stati membri sulla Brexit solo 10 minuti, chiarendo che un fallimento dei negoziati è ora l’esito più probabile, e ha ribadito che “rimangono differenze fondamentali”. Sul piano della concorrenza che appare il vero scoglio, ha dichiarato che “il principio di equa competizione è una precondizione per un accesso privilegiato al mercato europeo, ed è sacrosanto chiedere che società non europee che vogliano accedervi siano soggette alle stesse regole delle nostre nel nostro mercato”. Sul tema della sovranità, reclamata da Downing Street, ha detto: “Se decideremo di innalzare le nostre ambizioni, per esempio sull’ambiente (Londra) resterebbe libera – sovrana, se preferite – di scegliere cosa preferisce. Noi ci limiteremmo ad adattare di conseguenza le condizioni di accesso al nostro mercato”. Le reazioni dei Paesi membri sono variegate, con la Germania che vuole un accordo, ma “non a ogni costo”; il francese Macron che dice di sperare ancora in una intesa che “rispetti gli amici britannici” e il premier italiano Conte fra i più fermi: “Se questi problemi non si sbloccano, diventa tutto molto complicato. Il tempo sta finendo. Non è quello che volevamo, ma dobbiamo prepararci a una hard Brexit”. L’unità europea resta solida, e le parti sembrano aver cambiato strategia: ora l’obiettivo è attenuare l’impatto di un no deal a cui mancherebbero solo 20 giorni.

Rice la pasticciona, dal team Obama a quello di Biden

A Joe Biden non riesce il percorso netto, nel mettere insieme la squadra che guiderà gli Stati Uniti nel quadriennio 2021-25: più che la ‘Biden 1’, la nuova Amministrazione sembra la ‘Obama 3’, zeppa com’è di molti vice promossi titolari: proprio come il neo presidente. Nella foto di famiglia mancava Susan Rice: Biden le ha trovato uno strapuntino, più che una poltrona. Il presidente eletto ha dimostrato molta attenzione agli equilibri di genere ed etnici, ma ha finora lasciato poco spazio alla sinistra progressista, il cui impegno alle urne è stato essenziale per la sua elezione. In un incontro con leader dei movimenti per i diritti civili, Biden ha anzi avvertito la sinistra che non intende attuare la sua agenda “a colpi di decreto”, ma lavorando col Congresso “a scelte che siano durature”.

Una delle figure d’inciampo è proprio Rice, cui Biden aveva pensato come segretario di Stato, ma che è stato costretto a confinare alla presidenza del Consiglio di politica interna, dove pare un po’ un pesce fuor d’acqua. Rice, 56 anni, è stata consigliere per la sicurezza nazionale e rappresentante degli Usa all’Onu nei due mandati Obama. Era stata, però, oggetto di pesanti critiche, con l’allora Segretario di Stato, Hillary Clinton, per la gestione dell’attacco contro il consolato statunitense a Bengasi nel 2012: quattro le vittime Usa, fra cui l’incaricato d’affari Chris Stevens, un agente dei servizi e due marines. Quell’episodio rendeva improbabile una sua conferma da parte del Senato. Ragion per cui Biden, che evidentemente voleva – o doveva? – utilizzarla, le ha trovato un ruolo che non richiede approvazione del Senato. Amica di Biden, Rice dovrà occuparsi dell’attuazione del ‘Build Back Better’, il piano del presidente eletto per la ripresa economica: terreno già occupato, però, da figure importanti, come il Segretario al Tesoro Janet Yellen. Rice non è, però, l’unica scelta discussa. Le verifiche dei media hanno scovato scheletri finanziari nell’armadio di Antony Blinken, segretario di Stato designato, e hanno pure messo in crisi il generale Lloyd Kelly, designato segretario alla Difesa.

Suscita malumori, fra i progressisti e i neri, anche la conferma all’Agricoltura di Tom Vilsack, che già ricoprì il ruolo con Obama. A proposito di radical, Intercept rende pubblico l’audio in cui Biden invita a essere cauti sul fronte della riforma delle forze di polizia, avvertendo che lo slogan ‘Defund the Police’ può compromettere l’esito dei due ballottaggi di gennaio in Georgia, dove Democratici e Repubblicani si giocano il controllo del Senato. “È così che ci hanno battuto – dice Biden riferendosi alla batosta presa dai Repubblicani alle elezioni –, dicendo che parliamo di definanziare la polizia, ma noi non parliamo di questo, vogliamo che la polizia sia responsabile, vogliamo dare soldi per fare la cosa giusta, avere più psicologi e psichiatri ai servizi di emergenza, spendere i soldi per fare meglio il loro lavoro, non con più agenti ma con maggiore comprensione”.

Regeni: “Ora via l’ambasciatore”. L’Egitto ammise di averlo spiato

Rogatorie inevase, documenti nascosti, depistaggi. Mentre emergono nuovi particolari dell’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, da destra e sinistra arrivano appelli a Palazzo Chigi a ritirare l’ambasciatore italiano in Egitto. Presa di posizione che per ora non sarebbe all’ordine del giorno. Anche se dalla Farnesina trapela l’intenzione di procedere alla sospensione del sostegno italiano a ogni incarico egiziano in ambito internazionale, come le agenzie dell’Onu. “Vogliamo la verità – ha detto Giuseppe Conte – e come governo continueremo ad operare tutti i passi necessari e valuteremo ogni iniziativa”.

“La Procura egiziana non trasmette atti realmente nuovi e significativi sul piano investigativo dal 2017”, si legge nel documento con cui la Procura di Roma, archiviando la posizione dell’agente egiziano Mahmoud Najem, riassume il lavoro inquirente dal 2016 a oggi. Le indagini coordinate dal procuratore Michele Prestipino e dal pm Sergio Colaiocco e portate avanti dai carabinieri del Ros, guidato dal generale di divisione Pasquale Angelosanto, e dallo Sco della Polizia di Stato, sono andate avanti nonostante l’ostruzionismo egiziano e hanno portato all’individuazione presunto esecutore materiale delle torture e poi dell’omicidio “volontario” di Regeni, il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. L’ufficiale della National Security egiziana è indagato insieme ad altri tre connazionali alti in grado: il generale Tariq Sabir e i colonnelli Uhsam Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim. “All’inizio – si legge – viene negata ogni azione nei confronti di Regeni, poi si ammette di averlo attenzionato ma solo per tre giorni, infine si ammette di averlo controllato per un periodo più lungo”. Regeni verrà denunciato “dopo metà novembre” 2015 da Mohamed Abdallah, il sindacalista degli ambulanti che lo accuserà di essere un agente Cia, pochi giorni dopo il rifiuto di lui di riservargli parte della borsa di studio dell’università di Cambridge.

Ieri il presidente della Camera, Roberto Fico, ha confermato l’interruzione dei rapporti diplomatici fra la Camera dei deputati e il Parlamento egiziano, decisa da Montecitorio nel novembre 2018. Appelli al ritiro dell’ambasciatore sono arrivati da Laura Boldrini (LeU), Roberto Calderoli (Lega), Michela Montevecchi (M5S) e Lia Quartapelle (Pd), cui si sono aggiunti l’Anpi e il sindaco di Milano, Beppe Sala, che ieri ha conferito la cittadinanza onoraria milanese a Patrick Zaky, lo studente egiziano dell’Università di Bologna ancora detenuto al Cairo.

A Erdogan sanzioni inutili. “L’Europa spara a salve”

“Non ho mai creduto che questa volta l’Unione europea avrebbe imposto sanzioni generali alla Turchia per l’aggressiva campagna in corso nel Mediterraneo orientale ai danni soprattutto della Grecia e di Cipro. L’Europa abbaia, ma non morde”.

Esordisce con queste parole Can Dundar, alla richiesta del Fatto di commentare la notizia secondo cui il Consiglio europeo conclusosi ieri a Bruxelles, ha comminato sanzioni economiche blande e per giunta solo ad alcune persone ed entità non direttamente legate al cerchio magico del signore e padrone del Paese, il presidente Recep Tayyip Erdogan.

A causa delle purghe del Sultano, iniziate ben prima del fallito golpe di quattro anni fa, nei confronti degli oppositori politici e della stampa indipendente, l’ex direttore del giornale Cumhuriyet venne arrestato e tenuto dietro le sbarre per alcuni mesi nel 2015. L’accusa mossagli prima da Erdogan e poi dai magistrati fu la violazione del segreto di stato dopo che il quotidiano aveva pubblicato dei filmati in cui si vedevano alcuni esponenti dell’Intelligence di Stato turca mentre consegnavano partite di armi ai combattenti islamici siriani.

Dündar dal giugno del 2016 ha deciso di rimanere a vivere in Germania, dove si trovava per lavoro, in seguito all’accusa dei giudici turchi, con mandato di cattura e nota rossa dell’Interpol annessi, di aver preso parte anche al tentativo di colpo di Stato. Un’accusa talmente assurda da indurlo a rinunciare a rientrare in Turchia. “Ho subito un processo ingiusto e un tentativo di omicidio (davanti al tribunale mentre aspettava il verdetto di primo grado, ndr) solo per aver fatto il mio lavoro onestamente, ma dopo essere stato anche accusato di golpe ho dovuto arrendermi all’evidenza che in Turchia la magistratura non è più indipendente. La sentenza definitiva per la pubblicazione dei filmati dovrebbe essere emessa il prossimo 23 dicembre. Quasi sicuramente mi condanneranno a 35 anni di carcere”.

Dundar, che da Berlino dirige una piattaforma web di informazione indipendente sul suo amato paese, dice: “Chi non vuole imporre sanzioni sono soprattutto la Germania e l’Italia. Berlino teme innanzitutto che Erdogan reagirebbe aumentando i legami economici e militari con la Russia. Inoltre in Germania c’è una antica e vasta comunità di origine turca le cui ultime generazioni sono sempre più legate alla madrepatria dei propri nonni e fan di Erdogan per questioni di identità. Non ultimo la cancelliera Merkel teme che contrariare Erdogan sia molto pericoloso per la stabilità dell’Europa visto che la Turchia ospita sul proprio territorio 3 milioni di rifugiati”.

“Per quanto riguarda l’Italia – prosegue il giornalista in esilio – i motivi sono soprattutto di carattere commerciale, essendo la Turchia il paese dove Roma esporta di più. Ma anche la questione dei migranti eterodiretti da Erdogan può diventare un problema per l’Italia visto che Ankara ha preso il controllo della guardia costiera libica potendo di conseguenza gestire il flusso di coloro che fuggono dalle guerre e dalle miserie africane per cercare un futuro in Europa passando dalla Libia”.

Secondo il giornalista, le esplorazioni dei fondali attorno ad alcune isole greche e di Cipro non sono finalizzate tanto alla ricerca di idrocarburi quanto al tentativo da parte di Erdogan di creare ancora una volta un nemico esterno per risalire nei sondaggi. Guardando i grafici si evince che ogni volta che inizia una disputa con un paese straniero, il capo dello Stato recupera il terreno perduto e ricompatta il tessuto politico. Per esempio nel caso delle esplorazioni nel Mediterraneo Orientale così come per la vicenda delle vignette di Charlie Hebdo, anche i partiti di opposizione, tranne quello filo curdo, si sono schierati con il partito di Erdogan alla guida del governo. Alla domanda sul crollo dell’economia, Dundar risponde: “L’economia turca non è più risanabile, per i tanti errori di Erdogan che ha preteso anche di interferire con misure populiste nella politica della Banca centrale turca”.

Infine, circa la stretta sul diritto di espressione e di critica sancita, Dundar dice: “Le porto l’esempio più recente. Tre giorni fa una anziana signora di 80 anni è stata portata in commissariato e trattenuta perché in un tweet aveva criticato il consigliere per i media di Erdogan”.