Ci sono libri che si leggono lentamente, perché faticosi, e viceversa libri che si scolano d’un fiato tanto creano dipendenza. E poi ci sono i libri di Hanya Yanagihara, che creano dipendenza e perciò si gustano lentamente, pur di farli durare: era così per Una vita come tante (Sellerio, 2016) ed è così per Il popolo degli alberi, appena edito da Feltrinelli anche se di fattura precedente.
Il debutto nella narrativa della scrittrice di origini hawaiane – la migliore scrittrice di origini hawaiane della storia – è del 2013: Il popolo degli alberi sicuramente non è all’altezza del suo secondo romanzo – un capolavoro –, ma è ugualmente potente, lirico e feroce insieme. Yanagihara, “una vita come tante”, un’autrice come nessuna; una voce unica, sensibile ma non consolatoria, anche quando affabula in prima persona maschile: quella del dottor Abraham Norton Perina, Premio Nobel per la Medicina nel 1974 e vent’anni e passa dopo condannato e incarcerato per abusi sui minori, abbandonato da tutti tranne che un collega amico. È lui a insistere con l’ex luminare affinché scriva le sue memorie dietro le sbarre. Ne esce così l’autobiografia di un (per la giustizia americana) pedofilo: c’è qualcosa di Lolita, è evidente, con quegli stupri sui minori; qualcosa di Barney, a naso, con quella “versione” tutta in prima persona; qualcosa forse anche di Franzen, con quell’entroterra americano provinciale e ottuso. Ma no, Hanya non ha la spocchia e la volgarità compiaciute del maschio bianco eterosessuale.
Le sue memorie, le sue prigioni: fresco di laurea, il giovane Perina accetta di far parte di una spedizione di antropologi guidata dal prof. Paul Joseph Tallent. È un’esperienza intensa, febbricitante e faticosa sull’isola “proibita” di Ivu’ivu, in Micronesia, selvaggia e inospitale, popolata da strani indigeni. Lì, Perina scopre la “sindrome di Selene” – che gli varrà poi il Nobel –, una malattia locale, contratta mangiando una rarissima specie di tartaruga: chi ne è affetto invecchia nella mente, ma non nel corpo, diventando l’ombra di se stesso, uno zombie, un animale-bambino. Quell’avventura gli segna per sempre la vita, non solo professionale: il dottore deciderà, infatti, di adottare, negli anni, 43 ragazzini indigeni, chi orfano, chi disgraziato. Ma sarà proprio uno dei suoi figli a denunciarlo, tempo dopo, per abusi sessuali…
Per Yanagihara, l’antropologia è una forma di colonialismo, che a sua volta è una forma di sopruso: quanto di più distante dall’“addomesticamento” romantico e stucchevole dei Piccoli principi occidentali. I cattivi esistono, le nature malvagie pure; ci sono i natural born killers, i “diavoli nati”, come il Calibano di Shakespeare in esergo. L’autrice non giudica, si limita a dissezionare i suoi personaggi-insetti, così come il giovane Perina faceva in laboratorio con topi e cani. Su tutti, poi, incombe la giungla, con le sue “improbabili sfumature pappagallesche del verde”: un luogo incantato e tetro, in cui “niente obbedisce alle leggi della natura”. Ma anche qui l’ecologismo non ha il sapore antropocentrico e ateo di certi nostri Fridays for Future.
Appunta la scienziata delle lettere Hanya: ci sono “persone che credono a concetti come quelli di bene e male… Ma sebbene come idea astratta sia molto allettante, è fondamentalmente falsa”. E non è – come pomposamente recita la quarta di copertina citando un Premio Pulitzer – “relativismo morale”: è letteratura, per alcuni; vita, per tutti gli altri.
Il popolo degli alberi
Hanya Yanagihara
Pagine: 440
Prezzo: 18
Editore: Feltrinelli