Il gruppo Gedi: “Dal 1º gennaio chiude MicroMega”

Gli Agnelli chiudono MicroMega. Dopo quasi 35 anni di pubblicazioni, rischia di spegnersi una delle voci storiche del dibattito culturale italiano. La notizia non è ancora ufficiale, ma è stata comunicata dall’editore con una gelida lettera di tre righe. Oggetto: cessazione pubblicazioni Micromega. “Gentili Signori, vi informiamo che dalla data del 1º gennaio 2021, Gedi Gruppo Editoriale S.p.A. cesserà la pubblicazione del periodico MicroMega. Cordiali saluti”. Firma: Corrado Corradi, direttore generale della divisione stampa nazionale di Gedi. Il direttore di MicroMega Paolo Flores d’Arcais non ha voluto commentare la notizia.

Dal 1986 la rivista è un riferimento dell’universo progressista e uno dei punti di approdo dell’impegno degli intellettuali in politica, alimentata da alcune delle migliori firme del giornalismo e della letteratura. Una’esperienza che si vuole cancellare dalle edicole e dalle librerie con un tratto di penna, senza spiegazioni pubbliche e senza il minimo rispetto per una storia ultratrentennale e per un altrettanto lungo contributo alla cultura nazionale.

L’editore di Repubblica e della Stampa ha deciso di rinunciare a questa voce del giornalismo. È l’ennesimo strappo che si consuma tra Repubblica e la sua identità storica dal commiato di Carlo De Benedetti e dall’avvento di John Elkann e della famiglia Agnelli.

Il più recente numero della rivista bimestrale, uscito a novembre, è ancora in edicola. La copertina è dedicata a un focus sui crimini coloniali dell’Italia in Africa, compiuti durante il periodo di occupazione di Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia. Rischia di essere l’ultima copertina di una storia lunga e importante, nella speranza che Flores e la sua redazione possano trovare un modo per tenere in vita MicroMega con un altro editore.

Chi è Louis Camilleri, il mago che ha fatto risparmiare 193 milioni di tasse alla Ferrari

Un risparmio fiscale di 193 milioni di euro in un anno. Guardando il bilancio di Ferrari NV, la holding olandese che controlla il gruppo di Maranello, è questo il merito maggiore di Louis Camilleri, il manager maltese con cittadinanza britannica appena dimessosi dalla guida della casa automobilistica per fare spazio a John Elkann. Camilleri verrà ricordato come l’uomo dello sconto fiscale, che è riuscito a far pagare alla Ferrari un’aliquota effettiva (tax rate) che tantissime piccole e medie aziende italiane si sognano: solo il 17%. Il merito non è tanto del fatto che Elkann abbia deciso di spostare la holding che controlla il gruppo Ferrari in Olanda, ma di una specifica agevolazione concessa dall’Italia. A settembre del 2018, nello stesso mese in cui Camilleri è stato nominato amministratore delegato in seguito alla scomparsa di Sergio Marchionne, Ferrari Spa ha infatti firmato un accordo di patent box con l’Agenzie delle Entrate italiana. Si tratta di uno sconto fiscale per le aziende che fanno soldi grazie allo sfruttamento di marchi e brevetti. In sostanza viene concessa un’agevolazione con l’obiettivo di evitare lo spostamento all’estero di beni protetti da copyright. E di asset del genere, a partire dal simbolo del marchio, il Cavallino Rampante, la Ferrari ne ha parecchi. Il patent box è offerto anche da altri Paesi europei, Olanda compresa. Come dire: probabile che se Roma non si fosse fatta avanti anche Ferrari Spa, la società che detiene la proprietà di marchi e brevetti del gruppo, sarebbe stata trasferita a caccia di sconti offshore. Di certo l’accordo quinquennale firmato con l’Agenzia delle Entrate, valido dal 2017 al 2019 e rinnovabile, è stata una benedizione per i conti del gruppo. Lo dice l’ultimo bilancio consolidato del 2019: “Le imposte sul reddito per il 2018 sono state di 16 milioni di euro, in diminuzione di 193 milioni di euro (o del 92,2%) dai 209 euro milioni per il 2017. La diminuzione delle imposte sul reddito è principalmente attribuibile all’impatto positivo di applicazione del regime fiscale Patent Box”. Il risparmio ottenuto da Camilleri, già ad e presidente di Philip Morris, nel cui cda sedeva anche Marchionne, ha permesso a Ferrari di risparmiare un bel po’ di soldi. Non solo nel 2018, anno di entrata in vigore dell’accordo, in cui la società ha cumulato anche lo sconto di cui non aveva beneficiato l’anno prima, ma da lì in avanti. Per calcolare il vantaggio complessivo ottenuto da Ferrari grazie allo sconto fiscale bisogna confrontare le imposte pagate nel 2017, quando il Patent Box non era attivo, con quelle versate l’anno scorso. Risultato? Nel 2017 l’aliquota effettiva era pari al 24,2%. L’anno scorso, come detto, è stata solo del 17%: quasi come una partita Iva in regime di flat tax.

Nuova Ilva statale, Emiliano critica l’intesa con Mittal

Anche il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, si scaglia contro l’accordo firmato dal governo con ArcelorMittal. Dopo le proteste del sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, anche Emiliano annuncia battaglia contro il piano industriale annunciato per il rilancio dello stabilimento ionico dell’ex Ilva che secondo i piani aziendali dovrebbe tornare a produrre fino a 8 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. “La sola idea che il raggiungimento di una produzione industriale vicina alle 6 milioni di tonnellate di acciaio, passi attraverso la ricostruzione degli altiforni e in particolare di Afo5, genera sgomento”, ha dichiarato il presidente dem, definendo il rifacimento dell’Altoforno 5 “anacronistico e assolutamente fuori dal perimetro di decarbonizzazione che è stato per anni oggetto di discussione e approfondimento”. Il nuovo piano industriale, infatti, prevede nel 2025 di raggiungere quota 8 milioni di tonnellate attraverso l’Altoforno5 (fermo dal 2015 e che da solo potrebbe garantire ben 5milioni di tonnellate), l’Altoforno 4 e, per la prima volta a Taranto, anche di un forno elettrico.

La gestione della fabbrica con l’intervento statale, insomma, parte con il piede sbagliato. Associazioni ambientaliste hanno già promesso battaglia e con il dissenso degli enti locali si potrebbe tornare allo scontro verificatosi pochi anni fa in occasione del contratto tra governo e Arcelor firmato dall’allora ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda. Regione e comune, all’epoca, presentarono persino ricorso al Tar per bloccare l’ingresso della multinazionale. Le istituzioni locali lamentano l’esclusione dal tavolo delle trattative. La stessa cosa vale anche per i sindacati. Insomma una situazione particolarmente calda che qualcuno a Roma dovrà tentare di risolvere. Magari senza l’intervento dei giudici.

Trattativa, l’ex ministro Mannino assolto anche in Cassazione: “Fu estraneo ai fatti”

“Estraneo a tutte le contestazioni. Tesi dell’accusa illogica e incongruente”. La Cassazione ha confermato l’assoluzione in Appello dell’ex ministro Calogero Mannino (Dc) alle accuse di minaccia a corpo politico o istituzionale dello Stato nello stralcio del processo Trattativa Stato-mafia. La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale di Palermo contro la sentenza d’Appello. Nelle motivazioni dell’assoluzione i giudici di secondo grado scrivevano che “non è stato affatto dimostrato che Mannino” fosse “finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte e indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo Maxiprocesso) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso (…) che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa Nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno”. I giudici sottolineano inoltre come “la tesi della procura” fosse “non solo infondata, ma anche totalmente illogica e incongruente”.

Morandi, da Aspi sistematiche menzogne

Nella gestione del Ponte Morandi emerge “la ripetizione di falsa reportistica”, “l’assenza di reali ispezioni”, “la sottovalutazione di rischi accertabili”, comportamenti che hanno portato al “falso affidamento sulle condizioni di salute del viadotto” e all’ulteriore “falsificazione delle valutazioni di sicurezza richieste dall’ordinanza del presidente del Consiglio dei ministri del 2003”. Ulteriori manipolazioni sono state replicate nelle “verifiche antisismiche, previste nell’ambito del progetto di retrofitting (la ristrutturazione che non ha mai visto la luce, ndr)”. E ancora: “L’elusione dei controlli” ha condotto a fornire “premesse tranquillizzanti di continui monitoraggi”, in realtà “alquanto lacunosi”, e pareri sovrastimati sulla tenuta di “elementi strutturali come pile e stralli”.

Per la prima volta dall’inizio delle inchieste su Autostrade per l’Italia nate dopo il disastro del viadotto Polcevera, un giudice mette nero su bianco quello che potrebbe essere considerato un antipasto del processo madre: a monte dei 43 morti di Genova c’è un filo rosso che collega la cattiva manutenzione delle infrastrutture da parte della concessionaria e le sistematiche falsificazioni dei rapporti sulla sicurezza.

Il fine generale – secondo i giudici Massimo Cusatti, Cristina Dagnino e Simonetta Colella – era sempre lo stesso: “Coprire omissioni e condotte tese a risparmiare denaro nella manutenzione e adeguamento delle strutture autostradali, nell’interesse di una maggiore distribuzione di utile”. Queste considerazioni sono contenute nell’ultima ordinanza del tribunale del Riesame di Genova, chiamato a rispondere sul ricorso presentato da Paolo Berti, uno dei dirigenti arrestati per le barriere antirumore “attaccate con il Vinavil”.

I magistrati hanno riconosciuto l’esistenza dei “gravi indizi”, ma gli hanno revocato gli arresti domiciliari (misura sostituita con l’interdizione) perché il pericolo di inquinamento probatorio sarebbe cessato col licenziamento. Esiste tuttavia il rischio di recidiva, secondo il tribunale, perché “né l’uscita dal gruppo Aspi-Atlantia (che non ne impedisce consulenze per le società satellite), né il nuovo incarico per Sicuritalia Group Service, impediscono a Berti, che ha avuto rapporti con numerosissimi subappaltatori del gruppo, l’ulteriore commissione di reati”. Le barriere autostradali fonoassorbenti, va ricordato, erano state progettate male e saldate con una resina fuori norma. Di fatto erano pericolanti e non reggevano il vento. I massimi vertici di Aspi sapeva che costituivano un rischio per l’incolumità ma evitarono di sostituirle perché sarebbe costato troppo.

A sua volta Berti avrebbe mentito sulla strage di Avellino, per cui è stato condannato a 5 anni, per salvare l’ex ad Giovanni Castellucci. E per questo, secondo la Finanza, sarebbe stato ricompensato con uno stipendio da 700mila euro l’anno. Due giorni dopo il crollo del Morandi cancellò una chat Whattsapp col capo delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli (Castellucci li definisce “il gatto e la volpe”). In quello scambio Donferri dice: “I cavi sono corrosi”. Berti risponde: “Stica… me ne vado”. “Ho cancellato quei messaggi per fare spazio sul cellulare”, ha dichiarato Berti durante un interrogatorio in cui ha respinto ogni accusa. Ma per i giudici anche questa versione non è credibile e rientra in una generale “scarsa limpidezza processuale”.

E ora un condono edilizio per gli abusi “ante-1967”

Un condono edilizio – e forse qualcosa di più, un’amnistia – per tutto quello che è successo fino al 1° settembre 1967. Pensa che ti ripensa è questa la soluzione escogitata dal Tavolo tecnico presso il Consiglio superiore dei lavori pubblici (cioè il ministero delle Infrastrutture di Paola De Micheli) per risolvere una questione effettivamente ingarbugliata. L’idea, invero mai sentita, di fare l’ennesimo condono è contenuta all’articolo 39 della bozza dell’atteso Testo unico sull’edilizia (dovrebbe chiamarsi “Codice delle costruzioni”) che i tecnici del ministero stanno discutendo da luglio e che Il Fatto ha potuto leggere.

Dice così: “Sono da considerarsi legittimamente realizzati, anche in presenza di diverse disposizioni nella regolamentazione comunale vigente all’epoca, gli interventi edilizi eseguiti e ultimati prima del 1° settembre 1967 (…), ivi compresi quelli ricadenti all’interno della perimetrazione dei centri abitati o delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano individuate dallo strumento urbanistico all’epoca vigente”. Basta avere la documentazione dell’avvenuta esecuzione dei lavori e tanti saluti: tutto “legittimo”. Come si vede, non è nemmeno una sanatoria ex post, si cancella proprio l’idea che ci fosse qualcosa che non andava. Maglie talmente larghe che potrebbero consentire nuova vita persino a diversi “ecomostri”: è appena il caso di ricordare che è negli anni Sessanta che inizia lo sfregio massivo del territorio.

La data da cui far partire il condono non è ovviamente scelta a caso: è quella dell’entrata in vigore della “legge Ponte”, che ha previsto che per costruire qualcosa in tutto il territorio comunale bisognava munirsi di apposita licenza edilizia. Fino ad allora aveva regnato, per così dire, la legge urbanistica del 1942 che però si occupava sostanzialmente solo dei centri abitati. A complicare il tutto, il fatto che alcuni Comuni avevano un proprio regolamento edilizio, a volte persino anteriore al 1942. Ne è derivata, nonostante i plurimi condoni già varati a partire dagli anni Ottanta, una immane produzione di contenzioso legale tra le amministrazioni pubbliche e i privati e anche tra i privati: per lungo tempo, sbagliando, in molti hanno considerato automaticamente sanato – grazie a una lettura errata di una legge del 1985 – tutto il patrimonio immobiliare precedente al 1967, ma non è così. Questo ha effetto, ovviamente, sulle compravendite immobiliari e, quanto al futuro, sulla possibilità di richiedere il superbonus al 110% sulle ristrutturazioni edilizie, di cui ovviamente edifici o appartamenti così vecchi hanno più che bisogno. Per capire quanto conti questo che può apparire un dettaglio: il superbonus dovrebbe essere gran parte – circa la metà – dei 70 miliardi destinati alla “transizione verde” nel Recovery Plan italiano.

È da questo contesto che nasce il colpo di spugna definitivo: va detto che, magari non condivisibile, ma si tratta di una soluzione definitiva. Curioso che la proposta che oggi il ministero delle Infrastrutture mette nero su bianco nella sua bozza, sia stata avversata dai governi di centrosinistra solo pochi anni fa: all’inizio del 2015, esecutivo Renzi, Palazzo Chigi trascinò alla Consulta la Toscana per una normativa anche meno estensiva (il condono valeva solo fuori dai centri abitati). A questo proposito, e visto che anche l’Emilia Romagna aveva provato il colpaccio recentemente (e non parliamo della Campania), non c’è da aspettarsi che le Regioni si oppongano deliberando norme più restrittive nel caso passi l’impostazione del ministero di Paola De Micheli.

Certo, la norma proposta si muove sul filo della giurisprudenza costituzionale: insistere coi condoni, scrisse la Corte nel 1995, “finirebbe col vanificare del tutto le norme repressive di quei comportamenti che il legislatore ha considerato illegali perché contrastanti con la tutela del territorio”; nel 2004 però, pur ribadendo queste critiche, la Consulta escluse “l’illegittimità costituzionale di ogni tipo di condono edilizio straordinario, mai affermata da questa Corte”. Va detto che il nuovo Testo unico interviene anche sui meccanismi di sanatoria già vigenti tentando, ma in maniera assai più sfumata, di allargarne le maglie: operazione che non piacerà a tutti, ma assai più accettabile se si pensa che molto contenzioso è riferibile a violazioni anche piccolissime ad esempio nelle volumetrie.

L’euro-accordo, emissioni giù del 55% al 2030

Una nottata di discussioni e poi l’accordo. Il Consiglio europeo ha raggiunto ieri l’intesa sul taglio delle emissioni climalteranti. “Abbiamo deciso di tagliarle di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. L’attuale target è del -40%”, ha annunciato il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel. È la principale novità del testo sulla lotta al surriscaldamento globale, che durante il summit ha rischiato di arenarsi irrimediabilmente prima di una trattativa durata sette ore che ha portato a considerare il gas come “tecnologia di transizione” verso la neutralità climatica.

A opporsi a lungo sono stati alcuni Paesi dell’Est – soprattutto la Polonia – ancora fortemente dipendenti dal carbone per soddisfare i loro fabbisogni energetici. La discussione si sarebbe incagliata in particolare sulle misure di accompagnamento che dovrebbero agevolare il raggiungimento del nuovo obiettivo e attutire l’impatto delle misure economiche necessarie. L’impasse si è sbloccata grazie ad alcune concessioni fatte proprio alla Polonia. Il negoziato ha previsto nel testo delle conclusioni la menzione del gas come “tecnologia di transizione” e l’impegno dei leader a tornare sull’argomento clima in primavera, per dare “orientamenti addizionali” alla Commissione, sulle proposte di riforma dei due pilastri principali delle politiche climatiche Ue, attese per giugno. Vale a dire il mercato del carbonio Ets, in particolare il fondo per la modernizzazione creato per i Paesi dell’Est, e il regolamento Effort Sharing che copre le emissioni di agricoltura, trasporti ed edifici.

A ottobre scorso il Parlamento aveva votato la legge sul clima, che prevedeva obiettivi più ambiziosi (taglio del 60% entro il 2030). L’Ue si è impegnata ad azzerare le emissioni inquinanti entro il 2050. Nel dicembre 2019 è stato approvato il Green Deal europeo.

Tav, l’Authority avvisa: “Deciderà tutto la Francia…”

A un certo punto sono volate parole grosse nella Commissione Lavori pubblici del Senato. Impegnata ad analizzare lo schema del contratto di programma della sezione comune “transfrontaliera”, cioè il tunnel di base della Torino-Lione. Il Tav, insomma, nervo scoperto per i 5 Stelle che un anno fa hanno dovuto digerire il via libera all’opera, messi sotto dall’asse Pd-Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia. Dai banchi pentastellati c’è chi ha parlato di “lifting sui dati”, per denunciare l’operazione “politica” a cui si sarebbe prestato chi era chiamato a valutare il dossier dal punto di vista tecnico. Una bomba a cui il procuratore Giovanni Coppola, presidente della sezione Controllo Affari internazionali della Corte dei Conti ha replicato stizzito: “È un’accusa inaccettabile”.

Schermaglie a parte, nel corso delle audizioni in streaming a Palazzo Madama, l’Autorità nazionale dei Trasporti ha segnalato un rischio grande come una casa, ben noto peraltro ai lettori del Fatto. Ossia che l’Italia rischia di non toccare più palla quanto ad aspetti non proprio marginali relativi allo sfruttamento dell’infrastruttura che verrà: la competenza a decidere sui futuri reclami va presentata infatti di fronte al regolatore francese e, di conseguenza, tutte le controversie che dovessero nascere sulle decisioni prese da quell’autorità saranno deferite al giudice d’Oltralpe. Cose non proprio irrilevanti come la determinazione e la riscossione dei canoni, tanto per iniziare. Notizia, per quanto nota, che ha lasciato di stucco anche chi, come Massimo Mallegni di Forza Italia, mai potrebbe essere accusato di simpatie no Tav.

Lo schema di programma all’attenzione del Parlamento, ha detto il presidente dell’Autorità Nicola Zaccheo, così com’è “appare sbilanciato a sfavore dell’Italia, del suo sistema giurisdizionale di tutela e dell’organismo di regolazione nazionale”. Prima di firmare qualsiasi contratto, insomma, sarebbe necessario adottare qualche cautela in modo da non trovarsi poi del tutto disarmati: “L’accordo andrebbe quantomeno integrato con un protocollo che definisca i termini della cooperazione tra gli organismi di regolazione italiano e francese in ordine alla definizione dei principi e criteri che è tenuto ad applicare il promotore pubblico”. Ossia la società Tunnel Euralpin Lyon Turin (Telt), responsabile dei lavori di realizzazione e della gestione futura dell’ infrastruttura che costerà 9,6 miliardi. Cifra che rimane un grosso punto interrogativo, come pure la data di piena operatività dell’opera, prevista per il 2030.

Sull’allarme lanciato dall’Art verrà sollecitata la ministra delle Infrastrutture e Trasporti, Paola De Micheli, già lunedì quando verrà ascoltata dalle commissioni Lavori pubblici del Senato e Trasporti della Camera incaricate per conto del Parlamento di esprimere il parere sul contratto di programma che dovrà poi essere firmato da Mit, Telt e Ferrovie. Da quel contratto dipende anche lo sblocco di oltre 57 milioni di euro degli 80 totali (32 milioni circa sono già a disposizione della regione Piemonte) per le opere di compensazione per il territorio interessato dall’infrastruttura. Soldi che molto brutalmente servono “per costruire il consenso nella Valle”, per dirla con Paolo Beria del Politecnico di Milano, a cui non piace che queste risorse pubbliche siano affidate a Telt con la sola ragione “di far pendere dalle sue labbra tutti gli enti locali”.

Per ora, però, non è che pendano proprio dalle labbra di Telt. Il 18 ci sarà una riunione dell’Osservatorio della Torino-Lione con tutti i comuni interessati. Ma l’infrastruttura resta divisiva, come ha ricordato Pacifico Banchieri, presidente dell’unione montana Valle Susa, anche lui in audizione: “Al di là di quello che si dice, la stragrande maggioranza dei nostri comuni, e dei cittadini che abitano il nostro territorio, continua ad avere una visione molto critica dell’opera. È importante dire che la valle non è pacificata”.

L’ottimismo Ue non basta: sul clima è in ritardo

Dopo aver lottato contro la Polonia che difendeva il suo inquinante carbone, alla fine si sono messi d’accordo: i leader europei hanno deciso di tagliare entro il 2030 le emissioni di gas serra di almeno il 55% rispetto a quelle del 1990. Lo ha annunciato con soddisfazione il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel: “L’Europa è la leader nella lotta contro i cambiamenti climatici”. Su questo ha ragione, nel senso che tra tanti asini al mondo che nulla fanno per ambiente e clima, il mulo europeo che porta il Green Deal è il re. Una strada che “ci pone su un percorso chiaro verso la neutralità climatica nel 2050” ha detto Ursula von der Leyen. La sfida è però enorme e per ora solo sulla carta, e dovrà essere trasformata in realtà fisica (tonnellate di CO2 in meno e chilowattora di energia rinnovabile in più) con un enorme e pressante sforzo comunicativo, normativo e tecnologico.

I conti della serva sono questi: nel 1990 l’Europa emetteva 4,9 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente (cioè comprensiva anche degli altri gas serra come il metano), nel 2019 grazie agli sforzi di decarbonizzazione effettuati con il Protocollo di Kyoto si era arrivati a 3,7 miliardi di tonnellate, quindi con una riduzione di circa il 24 per cento. Per arrivare a meno 55 per cento al 2030 l’obiettivo emissioni totali è di 2,2 miliardi di tonnellate con una riduzione di 1,5 miliardi di tonnellate in dieci anni. Siccome la parte più facile del lavoro è già stata fatta nei trent’anni precedenti, chiudendo molte centrali a carbone e spostando in Cina e altri Paesi meno verdi le lavorazioni industriali più energivore e inquinanti come la siderurgia, ora resta da fare la parte più difficile, cioè un efficientamento spinto degli edifici, una straordinaria diffusione delle fonti di elettricità solare ed eolica, un massiccio passaggio alla mobilità elettrica, un taglio drastico ai sussidi all’energia fossile (in Italia nel 2018 sono stati di quasi 20 miliardi di euro), e un’economia circolare che senza ipocrisie dovrebbe tradursi in una riduzione dei consumi.

È un’impresa da far tremare i polsi che va perseguita da tutti, subito, senza tentennamenti e ambiguità. “Dieci anni è domani”, ha detto il presidente francese Macron, “allora applichiamoci per riuscire, subito, tutti insieme. Perché non c’è un piano B”. E l’Europa non è che un tassello che conta per circa il 10% sulle emissioni globali, quindi lo stesso dovrebbero fare anche gli altri Paesi, come ha sottolineato in un’intervista a Le Monde il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres: “Dobbiamo costituire una vera e propria coalizione mondiale per raggiungere la neutralità carbonica da adesso al 2050, visto che gli indicatori climatici sono in peggioramento: livelli record di CO2 nell’atmosfera da milioni di anni; il decennio che termina è stato il più caldo mai registrato; formazione del ghiaccio artico mai così lenta in ottobre; alluvioni, incendi, uragani apocalittici che diventano la norma”. Ovviamente la riduzione forzata delle emissioni 2020 a causa della crisi Covid, stimata in meno del 7% a livello mondiale, non fa testo, perché tutti non vedono l’ora di recuperare la crescita perduta; forse rimarrà un’eredità positiva solo sul telelavoro che sostituirà una parte dei trasporti automobilistici e aerei. Eppure la diminuzione che dovremmo ottenere ogni anno in Europa è proprio dello stesso ordine di grandezza di quella che tutti abbiamo vissuto con sofferenza per via della pandemia: muoverci di meno e consumare di meno, sempre.

Le promesse dell’Unione suonano come l’obeso che dichiara solennemente “da domani faccio dieta”, chiedendola soprattutto ai suoi cittadini, c’è dunque da domandarsi se almeno la dieta viene applicata subito e con più efficacia nei processi interni, ovvero garantendo una coerenza di tutte le scelte dell’Unione verso questo traguardo ambizioso. Non sembrerebbe, a giudicare dall’enorme contraddizione nel finanziamento delle grandi opere cementizie.

In questi giorni sono ripresi gli scontri al cantiere Tav Torino-Lione in Val di Susa: la gente giustamente protesta contro la violenza sul territorio motivata da dati di trasporto futuri che la stessa Corte dei Conti europea ha riconosciuto irreali, mentre sarebbero reali le emissioni di CO2 in fase di costruzione. Un’opera che viene spacciata come verde dalla stessa Commissione trasporti della Ue, ma che non lo è affatto, portando all’emissione certa di almeno 10 milioni di tonnellate di CO2 nei prossimi 10 anni, proprio quelli nei quali dovremmo drasticamente diminuirle. Si tratta dello 0,7% del taglio richiesto dalla strategia climatica al 2030, una percentuale non trascurabile se si pensa che è concentrata in un solo progetto, e dunque sarebbe facilmente cancellabile dal finanziamento Ue, giudicandola in aperto contrasto con le nuove esigenze climatiche.

Che la ripartenza dopo la pandemia sia il più possibile “verde” lo auspica anche l’Emissions Gap Report appena diramato dall’Unep, il programma ambientale delle Nazioni Unite. Invece no, cocciutamente si va avanti, ricorrendo pure alle forze dell’ordine per difendere un cantiere nocivo al clima, in area definita “di interesse strategico nazionale” e per “preminente interesse pubblico”. È proprio vero che con le parole si può ribaltare qualsiasi realtà fattuale. Interesse di chi? Dei costruttori? Data l’urgenza e la dimensione del problema, che ancora Guterres ha definito “un suicidio” per la specie umana, vorremmo vedere carabinieri e polizia che sanzionano i crimini ambientali, che obbligano la gente a risparmiare energia, a installare pannelli solari e a fare la raccolta differenziata. Non a sparare lacrimogeni per difendere ruspe, perforatrici e betoniere per realizzare a ogni costo – ambientale, economico e sociale – un tunnel di 57 km giudicato superfluo e dannoso.

Caro ministro dell’Ambiente Sergio Costa, per favore batta un colpo su queste contraddizioni, chieda in sede europea se i soldi per il Tav Torino-Lione non sia meglio spenderli per regalare pannelli solari alla gente e sanare il nostro dissesto idrogeologico. E chieda al nostro premier di depennare progetti che non hanno nulla di ambientalmente sostenibile. Vedrà che anche Macron farà lo stesso.

Non sono tempi nei quali ci si può permettere sprechi ed errori irreversibili, bisogna farlo notare proprio a chi con una mano vuole eliminarli e con l’altra li finanzia con il denaro dei cittadini europei.

Mail Box

 

C’è chi guarda al futuro, ma non è il centrosinistra

Si parla molto di Recovery Fund, poco di Next Generation Eu, che pure ne è il quadro di riferimento. La prima espressione evoca una restaurazione delle condizioni del passato; la seconda segnala la necessità di un radicale rinnovamento per affrontare la crisi economica e quella climatico-ambientale. A Roma solo l’altra sponda del Tevere sembra preoccuparsene. E chiama a raccolta economisti, sindacalisti, scienziati e ricercatori, rigorosamente sotto i 35 anni di età, per l’economia di Francesco (che non è quello argentino…). Per immaginare il futuro il centro sinistra, con la Fondazione Italianieuropei di Massimo D’Alema convoca i dirigenti politici degli ultimi trent’anni. Non è restaurando il passato che si incontra il futuro.

Melquiades

 

Lettera della Lav al ministro Speranza

Onorevole ministro, ancora oggi sugli animali vengono testati gli effetti di sostanze d’abuso quali alcol, droghe e tabacco. Esperimenti sui vizi dell’uomo che procurano, ogni anno, dopo atroci sofferenze, la morte di migliaia di animali oltre a basarsi su un modello sperimentale che fa riferimento ad approcci scientifici del secolo scorso. In Italia abbiamo l’opportunità di dare un segnale concreto di cambiamento grazie al bando delle sperimentazioni su animali per le sostanze d’abuso e gli xenotrapianti come voluto dalla legge in vigore e approvato dalla Camera già nel 2013. Purtroppo, sono stati numerosi i tentativi volti a cancellare i traguardi ottenuti a favore della ricerca e dei diritti degli animali e hanno comportato il posticipo di oltre 6 anni dell’entrata in vigore di questi fondamentali divieti. Le chiediamo, quindi, di non rimandare, ancora, i divieti previsti dal 1° gennaio 2021: un gesto semplice, ma determinante.

Gianluca Felicetti, Presidente Lav

 

Scrivete in italiano, per favore…

Lockdown, Recovery fund, task force e via con una sfilza senza fine di nomi incomprensibili alla stragrande maggioranza degli italiani. Possibile che il governo non riesca a comunicare quello che sta facendo senza ricorrere a termini che potrebbero tranquillamente essere detti nella nostra lingua? È così difficile parlare di “chiusura”, “fondi per la ricostruzione”, “gruppo di lavoro”, ecc.? Giuseppi e Giggino, parlate come magnate!

Gianluigi De Marchi

 

“Cashback”, occorrono procedure più semplici

Ho pagato con una carta di debito dei voli Ryanair che poi furono annullati a causa del Covid-19. Ryanair mi ha restituito quanto mi doveva riaccreditando le somme sulla stessa carta. Non poteva essere utilizzato lo stesso metodo per semplificare il cashback?

Pietro Volpi

 

Pier Ferdinando Casini, un’anima camaleontica

Casini non si vergogna nel dire che lui è un politico coerente? Proprio lui! Non conosce il pudore, si definisce democristiano da trent’anni, cosa ci faceva allora tutti quegli anni nel gruppo con Berlusconi, Bossi, Alfano, ecc.? Mai visto un politico saltare da una sponda all’altra come lui, a tal punto che in Parlamento vaga nel vuoto, non sapendo più dove sedersi. Bravo quel giornalista che lo ha definito l’Ibrahimovic della politica, ma Ibra almeno le società le arricchisce.

Riccardo Ducci

 

La gestione del Mose fa “rizzare i capelli”

Sarebbe interessante capire per chi è stato abbassato il Mose, quali navi sono entrate e/o uscite, cosa trasportavano e per chi. Se la decisione è stata presa per evitare ai noleggiatori delle navi di sostenere l’indennità dovuta per ritardi di carico/scarico, a mio parere, nessuna indennità doveva essere comunque dovuta in quanto i ritardi erano stati causati da “force majeure”. Visto che per fare i loro profitti privati hanno causato danni alla collettività, chi ha causato questo evitabile disastro deve risarcire chi è stato danneggiato. Forse adesso si capisce meglio perché ci sono voluti così tanti anni per completare il Mose…

Claudio Trevisan

 

Non mi sembra normale chi istiga a violare le leggi

Se un presidente di Regione, cioè un rappresentante delle istituzioni, si permette di manifestare pubblicamente il proprio consenso verso chi intende violare la legge (nella specie “i divieti previsti dal governo per Natale”), la cosa non fa storcere il naso a nessun procuratore della Repubblica? Quanto ai paradossi che la legge talvolta ci pone di fronte, è la vita, signora mia. Per manifestare il proprio consenso a chi intende violare la legge, o sei un criminale potenziale o sei un presidente di Regione.

Giancarlo Faraglia

 

Troppi anglicismi imbruttiscono la lingua

Sono sempre più disgustata dall’abuso di termini inglesi in tutti gli ambiti della nostra vita. Si parla di smart working, cashback… Questa mania coinvolge anche le attività professionali: navigator, broker, influencer e chi più ne ha, più ne metta! Sentivo tempo fa il prof. D’Achille dell’Accademia della Crusca che sosteneva che una lingua resta viva se vengono coniati neologismi, ma in Italia si prendono termini ed espressioni inglesi, senza neanche provare a tradurli.

Paola Ciotti