Rider. “Quanto vale la vita di questi invisibili? Le aziende non li tutelano”

 

Buongiorno, transito per alcune strade di Roma ove l’illuminazione non funziona e noto alcuni ragazzi che consegnano su bici, senza luci, pizze a domicilio: sono letteralmente invisibili, incappucciati in giacconi neri, sotto la pioggia. Costa tanto applicare una pellicola rifrangente ai contenitori? Per non dire che con qualche euro l’azienda potrebbe fornire un caschetto con luce a led. Quanto vale la vita di un ragazzo che ci porta un pasto a casa?

Vito Pindozzi

 

Gentile Vito, ciò che lei giustamente osserva deriva da un problema di fondo: i rider sono lavoratori senza diritti, non assunti dalle piattaforme, che li utilizzano come autonomi e li pagano in base al numero di consegne. Ecco perché pedalano anche sotto la pioggia, talvolta senza protezioni. Se guadagni solo per quante pizze trasporti, sei meno propenso a fermarti quando si guasta il faretto o si rovina il caschetto; altrimenti come campi? Le aziende non si assumono la responsabilità di verificare che i fattorini operino in sicurezza; si limitano alle raccomandazioni. Chiedono però loro efficienza, anche stilando la classifica dei più svelti e disponibili, il “ranking” (che per fortuna alcune hanno abolito). C’è poi una bomba sociale, in questi giorni, nella periferia di Milano. Ogni sera, a molti rider stranieri che tornano in provincia (non possono permettersi gli affitti in città) non viene permesso di portare le bici sui vagoni e qualcuno – per paura di subire un furto – dorme in stazione. Ne nasce una guerra tra poveri, continui litigi con i capitreno e gli altri utenti. Anche qui le app vanno responsabilizzate, affinché creino garage aziendali nelle città per custodire i mezzi a fine turno. Del resto, sono loro a guadagnare da queste attività, è impensabile che ignorino i disagi subiti dai loro addetti. Ciò detto, concediamoci tre pillole di ottimismo. Prima: grazie a una legge del novembre 2019, da quest’anno ogni rider ha l’assicurazione Inail. Seconda: tre settimane fa, il Tribunale di Palermo ha per la prima volta riconosciuto la subordinazione a un rider di Glovo, ordinando all’azienda di inquadrarlo con contratto da dipendente e salario orario. Terza: dal 2021, Just Eat assumerà i suoi fattorini e cancellerà il cottimo. Non ci si può certo accontentare, ma sono stati compiuti passi in avanti.

Roberto Rotunno

La Sicilia e la tutela scempio dell’arte

Tutela ultimo atto, protagonista la Sicilia. È quel che sta accadendo con un decreto del 30 novembre scorso, pomposamente chiamato “Carta di Catania”.

Con la quale l’assessore ai Beni culturali Samonà ha deciso che “i beni culturali appartenenti alla Regione Siciliana che si trovano custoditi nei depositi regionali potranno essere valorizzati attraverso l’esposizione in luoghi pubblici o privati aperti al pubblico”, previo “pagamento di un corrispettivo che potrà avvenire, oltre che in denaro, anche attraverso la fornitura di beni e/o servizi”. Gioiosamente, l’assessore sottolinea la piena comunità d’intenti con la soprintendente ai Beni culturali di Catania, Rosalba Panvini, anch’ella a quel che pare esultante se i beni “deprivati di ogni riferimento al contesto di appartenenza” potranno finalmente essere liberati dalle oscure segrete in cui giacciono in catene, e contribuire alle magnifiche sorti e progressive di quella Regione, “finalmente esposti e fruiti da tutti”.

E come si svolgerà tale “intervento rivoluzionario (…), un’importante svolta nella gestione del patrimonio regionale”? Avverrà per concessione, “sulla base di elenchi di beni, suddivisi per lotti omogenei”, che saranno comodamente redatti (gratis) da “studenti universitari in discipline connesse alla conservazione dei beni culturali che opereranno in regime di tirocinio formativo”.

Insomma, sotto il segno della “valorizzazione” i depositi dei musei e delle soprintendenze siciliane verranno svuotati, purché non siano già “destinati alla pubblica esposizione” nel museo stesso. A chi vuol prendere in affitto statue e quadri basterà “produrre un documento tecnico o un progetto di valorizzazione”, ponderosi allegati per i quali non viene fornita la minima istruzione o specifica. L’affitto (o se preferite concessione in uso) previo canone durerà da un minimo di due a un massimo di sette anni, prorogabili tacitamente. Non una sillaba vien spesa per rispondere a una semplice domanda: e mentre una terracotta greca o un quadro barocco saranno esposti al pubblico in un supermercato o in un albergo, chi mai, con che competenze e con che frequenza, ne controllerà condizioni climatiche e stato di conservazione?

Colpisce che questo colpo basso alle buone pratiche della tutela venga battezzato “Carta di Catania”, quasi potesse schierarsi accanto alla Carta di Atene del 1931 o alla Carta di Venezia del 1964, documenti che rappresentano ancora un punto di riferimento nelle discussioni sulla città o sul restauro.

L’assessore evidentemente mira a fare del provvedimento una sorta di manifesto, proponendo la sua “Carta” a modello universale per quegli stolti musei (dal Louvre ai Musei Vaticani, dal Metropolitan al British Museum, dall’Hermitage al Prado) che custodiscono gelosamente i materiali nei propri depositi. È assai improbabile che questo invito venga raccolto dai musei fuori d’Italia, ma il rischio che il contagio passi lo Stretto c’è. La Sicilia infatti è l’unica Regione italiana che goda di piena autonomia nell’ambito dei Beni culturali, per una norma la cui conformità alla Costituzione è assai discutibile. L’assessore regionale vi ha in pratica quasi tutti i poteri del Ministro nel resto d’Italia, e già in passato la Regione è stata campo di sperimentazione di riforme controverse o infelici (come l’istituzione delle soprintendenze uniche, dall’arte contemporanea all’archeologia), poi adottate in sede nazionale anche se a livello regionale non avevano dato buoni risultati.

La cosiddetta “Carta di Catania” incide sul patrimonio culturale della più grande Regione d’Italia (e una delle più ricche di beni culturali). Ma è ancor più pericolosa, perché vien diffusa come potesse servire da modello. Qualche precisazione è dunque necessaria. Prima di tutto, l’art. 6 del Codice dei Beni culturali definisce la valorizzazione come intesa non a far cassa, ma a “promuovere la conoscenza del patrimonio culturale al fine di promuovere lo sviluppo della cultura”. Quanto ai depositi dei musei, la norma siciliana è vittima del pregiudizio, diffuso ma non per questo meno fallace, che i materiali in deposito siano condannati in perpetuo all’oscurità, coperti di polvere, trascurati dagli addetti ai lavori e ignorati dai cittadini.

È vero il contrario. Tutti i musei importanti del mondo hanno vastissimi depositi, e li curano come una specie di riserva aurea, che raccoglie materiali su cui si svolgono studi e ricerche e da cui spesso vengono preziose scoperte (come il Mantegna emerso recentemente dai depositi dell’Accademia Carrara a Bergamo).

I depositi del Louvre sono così enormi che si è dovuto costruire un nuovo edificio nel Nord della Francia, a 100 chilometri da Parigi, in cui verranno trasferite circa 250mila opere. Per valorizzare i depositi non bisogna svuotarli, bisogna studiarli e conoscerli.

Non meno irresponsabile è l’idea di affidare a studenti tirocinanti un compito come la scelta dei materiali da “affittare”. Reclutare manodopera non pagata risponde alla stessa ratio alla base della cosiddetta alternanza scuola-lavoro, generalmente fallimentare. Comporta il disprezzo per la competenza, anzi implica che per valutare quel che è nei depositi si possa fare a meno di un occhio esercitato, quale non può avere uno studente universitario alle prime armi. Un esempio siciliano: nel 2003 Clemente Marconi, professore alla New York University, ha scoperto nel museo Salinas di Palermo oltre 200 preziosi frammenti di metope da Selinunte, in deposito dal 1823 quando furono scavati. Se fossero stati dati a soggetti diversi per esporli in spazi privati aperti al pubblico (bar, discoteche, gioiellerie…) nessuno sarebbe più stato in grado di riconoscerli uno per uno e di rimetterli insieme. E questa scoperta, invece, chi l’ha fatta? Un archeologo di prim’ordine come Marconi. Se un progresso si può auspicare per i depositi dei nostri musei, è che essi siano sempre più e meglio organizzati come “depositi di studio”, come alla National Gallery di Londra, dove non solo gli esperti, ma tutti possono circolare, oltre che nelle sale principali del museo, anche in mezzo a opere meno note.

Scritto in fretta e male, il decreto assessorile verrà, speriamo, contestato nella stessa Sicilia a causa della sua genericità che lo rende inapplicabile. Ma il governo nazionale non potrebbe battere un colpo?

Il portiere di Saba ovvero David Sassoli

In questi tempi bui è sempre bene avere occasioni di ilarità, ancorché velata di una certa malinconia. Nel caso che qui ci riguarda siamo un po’ nella zona della poesia “Goal” di Umberto Saba, quella dove un portiere subisce la rete e l’altro, invece, con “l’anima” se non col corpo partecipa alla felicità dei compagni: “La sua gioia si fa una capriola / si fa baci che manda di lontano / Della festa – egli dice – anch’io son parte”. Non ci crederete, ma stiamo parlando di David Sassoli. No, non perché l’ex mezzobusto kennedian-veltroniano del Tg1 sia portiere (né di calcio, né d’albergo, né di condominio), ma perché – ci ha informato via Twitter, ripreso da siti e giornali – il nostro lunedì presiederà la sessione plenaria dell’Europarlamento da Strasburgo. E allora?, dirà il lettore. E allora il povero Sassoli sarà solo, collegato in video con l’altra sede dell’istituzione che presiede, quella di Bruxelles, dove staranno tutti gli altri: le normative anti-Covid sconsigliano gli avanti e indietro tra Belgio e Francia che sono abitudine per gli europarlamentari, così Sassoli sarà lì con una telecamera e la sua gioia si farà una capriola. Ma perché mettersi in una situazione così ridicola?, si domanderanno i più curiosi. “Un gesto simbolico per compiacere Macron”, ci informa il sito Eunews. Il presidente francese, infatti, pare sia parecchio irritato per l’abbandono della sede francese dell’Europarlamento durante la pandemia e ha già fatto presente che così non va: il Trattato Ue stabilisce che la sede ufficiale (e della maggior parte delle sue sessioni plenarie) è la città alsaziana, mentre le commissioni stanno a Bruxelles e – che ci crediate o no – il segretariato del Parlamento in Lussemburgo. Tradotto: se volete chiudere Strasburgo, dovete cambiare il Trattato e vi serve l’unanimità, che ovviamente non avrete perché la Francia è contraria. E così il povero Sassoli starà lì da solo, come il portiere di Saba.

Allora è o non è una storia divertente? Certo meno del fatto che si riunisce un Parlamento che non ha il potere di fare le leggi, ma quella è una barzelletta vecchia…

Vaccino genico, serve altro tempo

Chi critica quanti come me, vaccinisti indefessi, nell’approssimarsi di una campagna vaccinale che dovrebbe liberarci dalla pandemia, pone tante domande e nutre perplessità, prima di “sparare” sentenze, si documenti. La situazione è davvero preoccupante. Esimi studiosi stanno lanciando appelli affinché si combatta il Covid-19 con un vaccino “vero” e non con una terapia genica ancora sconosciuta per i suoi effetti. Molti chiedono più tempo, non per ultimo, il Comitato Nazionale di Bioetica.

La ricerca non deve mai fermarsi, ma i tempi non possono essere accorciati quando si sperimenta una nuova tecnica. Infatti è la prima volta che si intende utilizzare nell’uomo a scopo di vaccinazione, una terapia genica. Si intende proporlo a tutti. Mi domando: è etico utilizzare a scopo di ricerca tutta la popolazione mondiale? Chi crede che i (cosiddetti) vaccini a Rna non provochino mutazioni nelle nostre cellule, si aggiorni. Le estremità dei nostri cromosomi si chiamano telomeri. Un enzima, detto telomerasi evita che a ogni replicazione del Dna i cromosomi diventino più corti. La presenza di questo enzima è cospicua in ovuli e spermatozoi e diminuisce nelle cellule somatiche. La telomerasi è una proteina costituita anche da Rna, che fornisce lo stampo per la sintesi di Dna. È un enzima che sintetizza Dna usando come stampo un Rna. Quindi non esiste nelle cellule solo il processo che dal Dna produce Rna, ma anche quello inverso. Cosa accadrà con l’Rna che si propone di inoculare al mondo intero? La risposta merita tempi molto lunghi. Non esiste vaccinazione, né farmaco che non provochino effetti collaterali, bisogna essere certi che il beneficio superi il rischio. Oggi, per la prima volta, si aggiungerebbe un altro fattore, tutto da scoprire nei suoi effetti, l’uso di una tecnica genica.

Be quite!

 

Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

La Nato, un morto che cammina. E non ci sarà guerra alla Cina

Tamburi di guerra sembrano rullare tra Bruxelles, Washington e Londra a proposito dello scontro con la Cina. Commissioni di esperti vengono create per riconfigurare la Nato in funzione della minaccia cinese. E in preparazione di una guerra, potete stare sicuri, che non ci sarà.

Autorevoli accademici ritengono ineluttabile una guerra tra Stati Uniti e Cina. Causa? Nessuna in particolare. La logica stessa della sfida lanciata da una potenza in ascesa alla potenza dominante condurrà, secondo loro, verso la contesa finale . È la cosiddetta “trappola di Tucidide”, l’autore del classico volume sulla guerra del Peloponneso: “Fu l’ascesa di Atene, e la paura che essa ispirò in Sparta, che rese la guerra inevitabile”.

Bene. Siccome è noto che le città dell’antica Grecia combattevano guerre scriteriate, secondo questi illustri professori, dovremmo ripetere anche noi, oggi, 2400 anni dopo, le stesse follie. Facendo magari la stessa fine della civiltà greca, autodistruttasi proprio per la sua incapacità di superare la guerra come valore e come strumento di risoluzione delle controversie.

Corriamo comunque su un filo sottile. Ed è stato lo stesso presidente cinese a pronunciarsi sul tema. Durante una visita ufficiale negli Usa, Xi Jinping ha dichiarato: “Non esiste oggi nel mondo una cosa chiamata ‘la trappola di Tucidide’. Ma se i maggiori Paesi insistono per lungo tempo nel commettere errori di valutazione strategica, possono finire col crearsela da soli questa trappola”.

Gli sventurologi di cui sopra, trasformano questo cruccio di Xi Jinping in una certezza negativa, e ignorano fattori di ordine generale che invalidano le loro previsioni, come il discredito totale della guerra come strumento di risoluzione delle controversie e il parallelo progresso delle forze della pace che hanno impedito conflitti tra grandi potenze dopo il 1945.

E ignorano anche ostacoli più specifici. Il prof. Mearsheimer ha descritto in un saggio molto popolare i dettagli della guerra da lui immaginata tra Cina e Stati Uniti. Lo scenario dipinto può sembrare plausibile, ma solo a patto di ignorare l’evoluzione del sistema internazionale negli ultimi 75 anni, e di escludere dai loro calcoli una variabile cruciale: la prevedibile entrata in campo, in una improbabile terza guerra mondiale, della Russia a fianco della Cina, e il ruolo che assumerebbe in questa eventualità la Shanghai Cooperation Organization (Sco), l’alleanza economica e militare tra i Paesi dell’Asia centrale, l’India, il Pakistan, la Cina e la Russia.

L’alleanza militare sino-russa, ormai quasi formalizzata, rende ancora più remota la possibilità di un nuovo scontro planetario. Gli Stati Uniti, anche nel caso per nulla scontato di un coinvolgimento Nato, non sono abbastanza potenti, né militarmente né economicamente, da poter sfidare una coalizione russo-cinese affiancata da una Sco (anche priva dell’India).

Gli strateghi del Pentagono e della Nato sono perfettamente coscienti di questa eventualità, e non premono per fare una guerra che non sono in grado di vincere. Ciò che conta in realtà per loro non è la guerra, ma la minaccia di essa. Hanno bisogno di tenere viva l’incombenza di un nemico credibile, che consenta di proteggere i loro budget e di perpetuare la loro sopravvivenza in un contesto in cui perfino il presidente francese, Macron, può affermare che la Nato è un morto che cammina.

 

Italia Viva, il partitino a colpi di ricatti minaccia il governo

 

“Non è accettabile che nel 2017 ci siano ancora i piccoli partiti che mettono i veti”

(Tweet di Matteo Renzi, segretario del Pd, da Porta a Porta – 31 maggio 2017)

 

Sono passati poco più di tre anni dalla sera in cui Matteo Renzi, allora segretario del Partito democratico, pronunciò in tv la sentenza da lui stesso rilanciata sui social e riportata testualmente qui sopra. Alla guida del governo c’era Paolo Gentiloni e il leader di Area Popolare, Angelino Alfano, minacciava di uscire dalla maggioranza per sabotare un possibile accordo fra Pd, Movimento 5 Stelle e Forza Italia sulla nuova legge elettorale con una soglia di sbarramento al 5%. E contro quel ricatto, Renzi fu – come al solito – tranchant con gli alleati: “Se quelli non prendono il 5% e stanno fuori non è un dramma”.

Accreditato oggi di uno stentato 3%, al di sotto quindi di quella quota minima, Renzi subisce – secondo i sondaggi di Pagnoncelli – un “consenso calante”, collocandosi all’ultimo posto fra i leader politici nell’opinione degli italiani. Con due punti percentuali in meno della soglia allora ipotizzata, a capo adesso di un “piccolo partito” come Italia Viva, si permette però di lanciare un ultimatum al governo che proprio lui aveva promosso, aprendo la strada all’accordo Pd-M5S. Da “pesce pilota”, rischia così di trasformarsi in “mosca cocchiera” della maggioranza giallorossa, con la pretesa di fare il driver dell’esecutivo o quantomeno di condizionarne la sopravvivenza.

Con una rara abilità che gli va riconosciuta, quella di riuscire ad avere torto anche quando potrebbe avere ragione, Renzi arriva a minacciare apertamente la crisi di governo in piena emergenza sanitaria, economica e sociale, nonostante che il Quirinale abbia prospettato in questa eventualità il ricorso alle elezioni anticipate. Evidentemente, l’ex rottamatore ritiene che si tratti solo di uno “spauracchio” e non teme di mancare di rispetto al capo dello Stato. Non a caso riscuote gli applausi della destra nell’aula del Senato. Alla fine – a meno che poi non si accontenti di un rimpasto, secondo la logica spartitoria della Prima Repubblica – nella migliore delle ipotesi otterrà quello che probabilmente avrebbe potuto ottenere con toni meno intimidatori e più costruttivi, senza destabilizzare e indebolire il governo di cui il suo partitino fa parte: e cioè, l’assicurazione che la “cabina di regia” per la gestione dei 209 miliardi di euro del Recovery Fund sarà sottoposta – com’è ovvio – all’esame del Parlamento e all’autorizzazione del Consiglio dei ministri.

Fatto sta che il presidente Conte, per non smentire la sua fama ormai consolidata di mediatore, s’è affrettato a chiarire che si è trattato di un “colossale fraintendimento”, replicando che “una struttura di monitoraggio di cantieri e tempi è necessaria”. Magari per evitare un assalto alla diligenza degli stanziamenti europei. Nel frattempo, che lo abbia chiesto Angela Merkel o qualcun altro, una “cabina di regia” la Germania, la Francia e la Spagna l’hanno già costituita. E l’Italia ha ampiamente dimostrato in passato la sua lentezza e la sua incapacità nell’utilizzare tutti i fondi che l’Europa metteva a disposizione.

Questi sono purtroppo gli effetti mediatici della politica-spettacolo, amplificata dai talk show, inquinata dalla commistione dell’infotainment televisivo e radiofonico, immiserita dalla carenza di idee e di valori. La politica come business, affari, interessi. Ma quando si parla di soldi, non è raro che si finisca ai ricatti. Con tanti saluti alla stabilità del governo e di tutto il Paese.

 

Il Pd fa il gioco di Renzi: a che serve il rimpasto?

Di Renzi sappiamo. Un Ghino di Tacco per istinto e per calcolo. Da giocatore d’azzardo scommette che, silurato Conte, non si andrebbe a elezioni. Usa e si fa usare dai giornaloni espressione di pezzi dell’establishment interessati a mettere le mani sulle risorse europee. Ha voluto il Conte-2 per farlo ballare sin dal primo giorno grazie a una scissione cinicamente programmata, reclutando una pattuglia di transfughi eletti con il Pd.

Ci fu un tempo nel quale è sembrato che si potesse fare affidamento sul Pd ai fini della stabilità del governo. Fratello maggiore e partner di un M5S ancora acerbo quale forza di governo e attraversato da contraddizioni interne. Ora non più. Mi spiego. Nella indole “governista” del Pd allignano due profili: esperienza e cultura di governo di una classe dirigente sperimentata, anche perché erede più o meno diretta dei partiti storici, ma anche – secondo profilo – una spiccata vocazione/ambizione all’esercizio del potere. Quella imputatagli dai critici che segnalano l’attitudine a insediarsi al governo anche senza passare per la via maestra delle elezioni. Un’ambivalenza/ambiguità che si riflette nella costituzione materiale del partito, sempre meno radicato nella società, sempre più interno allo Stato; articolato in componenti sempre meno espressione di riconoscibili sensibilità e orientamenti politico-culturali e sempre più abitato da tribù e cordate personali. Un po’ si spiega così la percezione che ne ricavano i cittadini: un ceto politico professionale associato al Palazzo.

Ne abbiamo un saggio eloquente in queste ore. Può darsi che i retroscenisti esagerino nel dare conto della doppiezza e dell’ipocrisia del Pd, che manda avanti Renzi o comunque si compiace del suo assalto a Conte. Certo, indizi non mancano. Da settimane, dirigenti di peso del Pd – Bettini, Orlando, Marcucci – si aggiungono a Renzi nell’invocare il rimpasto, raccontandoci, contro ogni evidenza, che rafforzerebbe Conte. Lo si è visto. Solo Biancaneve non sa che il tormentone sui rimpasti prelude e conduce alla destabilizzazione dei governi. Lo segnalo al lungimirante consigliere del Principe. Nel vivo dello scontro aperto da Renzi, vedi caso, 25 senatori si appellano al capogruppo Marcucci per spingere il governo a cambiare un dettaglio del Dpcm con le misure per il Natale. Un ulteriore segnale teso a marcare l’isolamento di Palazzo Chigi.

Delrio, nel delicato passaggio parlamentare sul Mes, in aula, contesta al premier un deficit di umiltà, di ascolto, di dialogo con le parti sociali, di riguardo verso il Parlamento. Notoriamente tutte qualità preclare del suo vecchio, giovane mentore (Delrio chiamava Renzi il suo Mosè). Orlando, che sarebbe il braccio destro di Zingaretti, fa felice Repubblica – giornale che da mesi conduce una campagna per far fuori Conte – con un’intervista nella quale adombra l’idea di commissariare il premier e gli muove le medesime critiche di Italia Viva, solo dissimulando un po’ la consonanza. Cosa voglia per sé, per il Pd, per il governo francamente non si capisce. Si è ventilata l’ipotesi che ben due ministri Pd su tre – Gualtieri e Amendola – possano affiancare Conte nel coordinare il Recovery e puntuale è scattato il sospetto che siano troppo leali con il premier. Evidentemente, essi non accontentano tutte le tribù pidine. In questo bailamme – una indecifrabile miscela di interessi personali e di partito – comprendo le difficoltà di Zingaretti nel fissare una rotta. Certo, ci vorrebbe una bussola.

Troppo alto ed evidente è il carattere pretestuoso delle critiche sul Recovery per la banale ragione che ancora nulla è stato deciso, né del progetto, né del soggetto (la cabina di regia). Né del cosa, né del chi, guarda caso ciò che sembra interessi di più. Domando: è proprio una bestemmia discuterne, da parte della maggioranza, nelle sedi politiche e istituzionali anziché sui giornali, facendo così la gioia delle opposizioni e dei guastatori professionali?

 

Farfalle e Nebbie fitte sul boschetto odoroso: non è “Apocalypse now”

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rete 4, 23.20: Cellular, film-thriller. Rapita senza un motivo apparente, una donna trova un telefono e compone un numero a caso per cercare aiuto. È occupato.

Italia 2, 21.10: Fog, film-horror. Un classico di John Carpenter ambientato in una cittadina alle prese con una fitta nebbia che impedisce di vedere il film.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, teatro. In un momento in cui è impossibile andare in scena, Rai 1 apre una finestra sul mondo della religione dal vivo con una messa evento, presentata da Andrea Delogu.

Rai 3, 20.45: Un posto al sole, soap. 5586esima puntata. Patrizio è alla ricerca di un incontro chiarificatore con Rossella. “Ci sei giovedì 13?”. “No”. “Giovedì 14?”. “No”. “Giovedì 15?”. “Sì”. “Perfetto”.

Rete 4, 21.25: Fuori dal coro, attualità con Mario Giordano. Un programma pieno di gente che sarebbe molto più decoroso lasciare a casa.

Rai 1, 21.25: Superquark, documentario. Piero Angela, a 91 anni, ha perso del tutto i freni inibitori, a giudicare da come introduce il primo filmato, dedicato alla deforestazione della foresta amazzonica: “Una strafiga con cui stavo si era fatta una ceretta brasiliana. Orrore! La supplico di farsi ricrescere il boschetto, e adesso, dopo un anno, laggiù ha una specie di parrucca afro. È una lussureggiante, fitta, pericolosa boscaglia, densa di profumi selvaggi, meravigliose farfalle, tucani, coccodrilli. Esplorarla con la lingua è come risalire il fiume in Apocalypse now. Un esperimento talmente sconvolgente che al momento dell’orgasmo senti questo bisogno impellente di decapitare un bue con un machete. E di infilarti un dito nel culo. Noi esseri umani siamo così complessi. Per cui vi do un consiglio, ragazze: fatevi ricrescere il boschetto. Ci vediamo fra un anno”.

Fox, 21.00: L.A.’s Finest, telefilm. Sid e McKenna devono indagare sulle cause di un decesso avvenuto su una spiaggia: un uomo ha un foro di proiettile in fronte. SID: “È omicidio”. MCKENNA: “Non è ping pong”.

Rai 3, 13.15: Passato e presente, documentario. Il carattere dei popoli attraverso gli avvisi sui treni. Nicht Hinauslehnen: sei il popolo che ha dato il potere a Hitler. Ne pas se pencher au dehors: sei il popolo che ha dato i natali a Maurice Chevalier, Edith Piaf e Charles Aznavour. È pericoloso sporgersi: sei un popolo così irresponsabile e menefreghista che è inutile spiegarti cosa può succedere se metti la tua testa fuori dal finestrino, arrangiati. Paolo Mieli ne parla con Alessandro Barbero.

Italia 1, 21.20: Freedom – Oltre il confine, documentario. Puntata dedicata a una nazione affascinante: la Svezia, dove il sesso è libero e non dà scandalo, ma si vergognano della religione. GIACOBBO: “Da loro, la religione è un argomento sporco. Ci sono tipi loschi che all’angolo di certi vicoli ti bisbigliano: ‘Pssst! Amico. Vuoi vederlo un santino? Ho anche delle foto di una concelebrazione col papa’. C’è chi va in chiesa, ma non si inginocchia: ‘Non faccio certe cose’. Ho visto un film svedese. Un uomo prende una camera in un motel. L’addetto all’ascensore gli procura una bibbia e un calice di vin santo. Il tizio legge un po’ di bibbia nel cuore della notte, beve il vin santo, si rimette i pantaloni e torna a casa. Il giorno dopo va a confessarsi, e ammette che è stata un’esperienza vuota”.

 

Volpi in pellicceria, Ghino di Renzi e Matteo di tacco

Non so perché (anzi lo so) ma quando mercoledì ascoltavo l’accaldato Matteo Renzi, rivolto a Giuseppe Conte, minacciare sfracelli mi veniva in mente una famosa frase di Bettino Craxi a proposito dell’astuto, astutissimo Giulio Andreotti. Ovvero che “prima o poi tutte le volpi finiscono in pellicceria”. Certo, parliamo della lontana Prima Repubblica ma quello che andava in scena mercoledì sera nell’aula del Senato non sembrava forse uno sketch del Bagaglino? Di quelli, per intenderci, dove gli inarrivabili Pippo Franco e Oreste Lionello cucinavano la ribollita dei rimpasti, delle verifiche, dei doppi sensi sui gabinetti ministeriali, e altre simili prelibatezze, con la platea del Salone Margherita a sganasciarsi. Purtroppo, l’altra sera mancava Pamela Prati e non rideva nessuno. Dobbiamo ammettere però che la battutissima del senatore del Mugello sul perché propiziare la caduta del governo, con novecento morti al giorno, l’Italia in ginocchio e l’annunciata terza ondata del Covid, neppure Pingitore (o Dracula) l’avrebbe mai pensata. Perché (tenetevi forte) lui dice: “voglio salvare l’Italia”. A proposito di volpi e volpini qualcuno potrebbe obiettare che Renzi nel reparto delle pelli sartoriali c’era già finito dopo il catastrofico (per lui e i suoi cari) referendum costituzionale del 2016. Quando (insieme alla Boschi) aveva promesso, giurin giurello, che se sconfitto si sarebbe ritirato dalla politica.

Così non è stato e lui ha preferito costruirsi un partitino che ricorda quell’altra maschera che fu coniata, sempre a proposito di Craxi (corsi e ricorsi della politica). Chiamato da Eugenio Scalfari, Ghino di Tacco, come il trecentesco brigante di Radicofani che controllava l’accesso alla strada che da Firenze porta a Roma esigendo al passaggio un pesante tributo. Collocatosi proprio al confine tra la risicata maggioranza e l’opposizione, a Ghino di Renzi si dev’essere dilatato l’ego e adesso non si accontenta più “di qualche strapuntino”. Un altro paio di ministri? Di più, di più. Una bella fetta della torta del Recovery (per “salvare l’Italia”, beninteso)? Fuochino. Poi, non ha resistito e a Barbara Jerkov del Messaggero ha confidato il suo sogno nel cassetto: un governo con “un’ampia maggioranza parlamentare” per arrivare alle politiche del 2023. Magari con Matteo di Tacco premier? Mai dire mai. Siccome, in fondo, ci è simpatico vorremmo dargli, aggratis, due consigli non richiesti. A proposito di furbacchioni da Bagaglino, tenga d’occhio Matteo Salvini che si è subito fatto avanti scambiandosi con Conte un paio di messaggini dialoganti (come diceva Clémenceau: i cimiteri sono pieni di persone indispensabili). Infine, ci duole segnalargli il seguente titolo della Stampa (con puntuale cronaca di Fabio Martini) che la chiama in causa: “‘Stavolta sono tutti d’accordo con me’. Ma nessuno si fida di lui”. E qui non può mancare quell’altro proverbio che dice: quando la volpe predica, guardatevi, galline.

All’attacco. Il premier non si faccia logorare: sfidi le bugie del Bullo

Non essendo esperta in consigli al Principe, e non sapendo quel che Renzi abbia esattamente in mente, temo di non averne da dare al presidente del Consiglio. Temo che la condotta di Renzi sarà la stessa – boicottare, ricattare, distruggere – quali che siano le iniziative più o meno inclusive di Giuseppe Conte.

La condotta del capo di Italia Viva è stata la stessa fin dall’inizio della pandemia: fin da quando accusò il governo di mettersi al servizio degli scienziati, sostenendo che il loro potere fosse abusivo al pari di quello esercitato dai magistrati negli anni 90.

Di certo non consiglierei al presidente del Consiglio di farsi logorare senza batter ciglio, né tantomeno – in piena pandemia, con quasi 1000 morti al giorno– di mandarci alle urne.

Renzi si può sperare di sfidarlo solo smontando le sue bugie, e dicendo a lui e a chi lo sostiene che abbiamo bisogno di esperti e task force capaci di gestire i fondi Ue con acutezza e integrità, perché la pandemia per forza cambia gli equilibri classici della politica e perché l’anno che ci sta di fronte sarà molto più nero di quanto possiamo immaginare.

È evidente che con l’arrivo dei vaccini sarà più che mai difficile far capire agli italiani la necessità delle misure di protezione (mascherine, distanziamento fisico, igiene): la crescente insofferenza verso scienziati allarmati come Andrea Crisanti o Massimo Galli è già un pessimo segnale. Varrà la pena farsi forti del loro giudizio, essendo quest’ultimo il più aderente alla realtà dei fatti.

Eviterei ogni trionfalismo sui vaccini, pur insistendo sul progresso scientifico che essi rappresentano: il blocco dei contagi non è garantito. Punterei il massimo sforzo, finanziariamente, sulla contemporanea ricerca di protocolli e terapie risolutivi del Covid-19.