In difesa. Si ricordi di Gramsci: “La pazienza è virtù rivoluzionaria”

Credo che il presidente del Consiglio abbia dimostrato di sapere benissimo come comportarsi. Sicuramente saprà reagire alle pressioni di Matteo Renzi e degli altri partiti di maggioranza: stavolta sono più che semplici lamentele o punture di spillo. Non deve irrigidirsi, e sono convinto che non lo farà.

Penso, invece, che la sua strategia sarà accomodante. Accoglierà alcune delle richieste che arrivano dagli alleati, cercando di sottolineare all’opinione pubblica che è la migliore strategia possibile: conciliare e mettere insieme proposte che vengono da più parti. Credo Conte sia consapevole di aver esagerato con la task force: il numero di collaboratori esterni, presi da fuori la pubblica amministrazione, è eccessivo.

Verrà incontro alle richieste di Renzi e degli altri, quindi, ma farà pesare il fatto che questa sua disponibilità deve essere assecondata dalla loro disponibilità a lasciarsi coordinare. Conte deve rimanere la figura centrale, attorno a cui verranno prese le decisioni e si scioglieranno le tensioni.

È una strategia che apprezzo molto. Conte ha mostrato una grande capacità di non perdere la pazienza. Deve aver fatto tesoro della lezione di Antonio Gramsci: “La pazienza è una virtù rivoluzionaria”.

D’altra parte gli antagonisti di Conte non hanno una strategia precisa: sembrano forti nelle critiche che lanciano, ma non hanno nessuna visione di un futuro possibile. In altre parole: non sanno dove andare.

Astrazeneca e Sanofi: in ritardo le prime scelte

Ora che nella corsa al vaccino si comincia a intravedere chi sta per tagliare il traguardo – l’americana Pfizer che ha appena pubblicato i risultati clinici sul New England Journal of Medicine definiti dalla stessa rivista “un trionfo” – si rimettono in discussione i contratti con le aziende stipulati per assicurarsi le dosi. A La Stampa il commissario straordinario Domenico Arcuri ha detto che in caso di ritardo del vaccino europeo AstraZeneca-Oxford University, è pronto un piano B: “L’Europa ha concordato con Moderna la possibilità di raddoppiare da 80 a 160 milioni le dosi”. Quello di Moderna è il terzo dei vaccini più avanzati nella sperimentazione e, come Pfizer, è basato sulla tecnologia del cosiddetto Rna messaggero, mai approvata prima per il commercio. I contratti stipulati prima di sapere fosse il cavallo vincente sono serviti a non restare esclusi dalla lotteria dell’accaparramento. Ma al momento della stipulazione, nessuno poteva sapere che Astrazeneca, su cui l’Europa puntava maggiormente, avrebbe subito battute d’arresto, normali per la scienza, ma che hanno rallentato l’iter di approvazione.

Astrazeneca ha appena pubblicato i primi risultati della sperimentazione del suo vaccino – basato sulla tecnologia dell’adenovirus inattivato – su The Lancet, ma il grosso dei risultati sugli over 55 non sono ancora pronti. I volontari sono stati reclutati più tardi e i risultati saranno disponibili tra qualche settimana. L’approvazione per Astrazeneca da parte di Ema (Agenzia del farmaco europea), slitta quindi a fine gennaio, se non febbraio, secondo quanto detto al Fatto da Guido Rasi, ex numero 1 di Ema. L’agenzia approverà a fine dicembre il vaccino Pfizer, mentre gli Usa potrebbero farlo già domani. L’Italia ha firmato contratti per 40,38 milioni di dosi con Sanofi-GlakoSmithKline, al momento fanalino di coda, con la fase 3 dei test ancora da iniziare, perché devono “migliorare la risposta immunitaria nelle persone anziane”, hanno dichiarato, beccandosi pure il sanzionamento della Borsa di Parigi. Sono invece 26,22 milioni di dosi quelle concordate con Pfizer, 30,28 con Curevax, e 10,79 con Moderna, che però non ha ancora passato il vaglio nè di una rivista specializzata né di un ente regolatorio, ma ha annunciato un’efficacia altissima del 94%.

Intanto ieri Ema ha avviato una significativa operazione trasparenza: in una conferenza di quattro ore ha spiegato l’iter di approvazione adottato e assicurato che una volta approvati, pubblicherà i dati di tutti gli studi sui vaccini e le motivazioni dell’approvazione.

“Troppi morti e troppi casi. No ai viaggi tra i Comuni”

Viceministro Pierpaolo Sileri, lei è sempre stato “aperturista”, ma oggi sostiene che non si possano consentire gli spostamenti tra Comuni a Natale, a Santo Stefano e a Capodanno. Perché?

Non vedo nei numeri, a oggi, la sicurezza per poter riaprire. Abbiamo ancora troppi decessi, il che significa che i contagiati delle scorse settimane erano molti di più. Il rischio è troppo alto. Avevo detto di guardare al Thanksginving e al Black Friday negli Usa, che sono occasioni di mobilità, incontri e shopping come il Natale da noi. Ebbene 15 giorni dopo si è osservata una crescita significativa dei contagi.

Ha senso potersi muovere per tutta Roma e non fra due piccoli paesi?

Probabilmente bisognava studiare una norma diversa dall’inizio, ma ora non possiamo permetterci errori, servono restrizioni a Natale per riaprire a gennaio le scuole e i ristoranti e togliere progressivamente il coprifuoco. In ogni caso avremo una risalita dei contagi dopo Natale, dobbiamo contenerla e così le Regioni potranno migliorare il contact tracing.

Alcune riaperture sono previste per il 7 gennaio: considerato il tempo che passa tra incubazione, sintomi e tamponi, a quella data potremo già misurare i danni?

Una settimana dopo li vedremo. Serviranno più tamponi, anche privati.

La Procura di Bergamo ipotizza che il piano pandemico non sia stato seguito, che gli approvvigionamenti di dispositivi di protezione e le verifiche negli ospedali dovessero partire dal 5 gennaio, dalla dichiarazione dell’Oms di polmoniti d’origine sconosciute in Cina, ma molto è stato fatto solo dopo il primo caso noto del 21 febbraio a Codogno (Lodi). Avete ignorato il piano?

Il piano ero convinto risalisse al 2010, Report ci ha fatto vedere che era sempre quello del 2006. Era un piano pandemico antinfluenzale, piuttosto vintage e per forza di cose non era un piano anti-Coronavirus, ma era una base da declinare a livello periferico.

L’avete detto alle Regioni?

Fin dal 9 gennaio è stato dato il primo alert e indicata la necessità di seguire i protocolli. Però l’Oms ha dichiarato l’emergenza solo il 30 gennaio e la pandemia a marzo. E nel frattempo ha indotto il ministero a inserire il link epidemiologico con la Cina nella definizione di caso sospetto. Così abbiamo perso tempo. Ma già il 29 gennaio, quando non c’era ancora il Comitato tecnico scientifico, ho chiesto la verifica sui posti letto alla task force.

L’Oms non consente all’autore del rapporto critico sull’Italia, poi ritirato, di parlare con i pm di Bergamo. Cosa ne pensa?

Il rapporto non era così critico, individuava dei problemi ed era giusto segnalarli a livello internazionale. Penso che tutti, anche l’Oms, debbano spiegare ai pm e all’opinione pubblica come sono andate le cose.

Conte: “Spostamenti e deroghe per Natale, decida il Parlamento”

Gli spostamenti tra piccoli Comuni limitrofi il 25, 26 dicembre e primo gennaio sono diventati la patata bollente del governo, dopo che più voci della maggioranza e lo stesso ministro degli Esteri Luigi Di Maio hanno chiesto con forza la modifica al Dpcm che li vieta. Il titolare del dicastero della Salute Roberto Speranza ha alzato subito il muro e ieri da Bruxelles il premier Giuseppe Conte ha tagliato la testa al toro: si pronunci “il Parlamento” perché “è sovrano” e potrà, assumendosene la “piena responsabilità”, introdurre delle “eccezioni” ai divieti ma con “grande cautela” e “attenzione”: non deve saltare “l’impianto complessivo” delle misure, pensate nel loro insieme per prevenire una “terza ondata” di contagio da SarsCov2. Il capo del governo ha specificato: “Non dobbiamo creare occasioni di convivialità tra persone che abitualmente non convivono” durante le feste natalizie, ma su questo punto “c’è grande sensibilità parlamentare. Se poi il Parlamento, assumendosene tutta la responsabilità, vuole introdurre qualche eccezione per i Comuni più piccoli, che possa consentire una circolazione in un raggio chilometrico contenuto… si è aperta una riflessione anche intorno al governo: ci confronteremo anche con gli altri capi delegazione, e ritorneremo su questo punto, ma ovviamente il Parlamento è sovrano. Non siamo contenti di introdurre delle misure, vorrei dirlo agli italiani: ma il numero dei decessi continua ad essere abbastanza elevato, e c’è il rischio che possa arrivare una terza ondata”.

 

Numeri. Rianimazioni in calo

Infatti, ieri i morti per Covid-19 sono stati 761 e 18.727 i nuovi casi (+1.728 rispetto a giovedì) a fronte di 190.416 tamponi (+18.830 sul giorno precedente). Sono 28.562 le persone ricoverate in reparto ordinario Covid con una variazione di -526 in ventiquattr’ore; in terapia intensiva ci sono 3.265 malati di Covid, la variazione rispetto a giovedì è di -29.

 

Rapporto. “Troppi ritardi”

E poi c’è il monitoraggio settimanale dell’Istituto superiore di sanità, ieri sera è stata diffusa un prima bozza, che invita alla prudenza: sebbene si osservi una diminuzione significativa dell’incidenza a livello nazionale negli ultimi 14 giorni (454,70 per 100.000 abitanti nel periodo 30 novembre – 6 dicembre contro 590.65 per 100.000 abitanti nel periodo 23 novembre – 29 novembre), il valore è ancora molto elevato; l’incidenza rimane cioè ancora “troppo elevata per permettere una gestione sostenibile”. L’Rt nazionale scende a 0,82 e solo il Molise rimane sopra quota 1, però con gli altri indicatori che si sommano in un rischio complessivo giudicato “basso”. E poi c’è nero su bianco quella che suona proprio come una risposta alla politica: “L’incidenza ancora troppo elevata e l’attuale forte impatto sui servizi sanitari richiedono di attendere prima di considerare un rilassamento delle misure di mitigazione, ivi comprese quelle della mobilità, oltre alla necessità di mantenere elevata l’attenzione nei comportamenti”. Il freddo dato della “valutazione complessiva di rischio” è elevato in cinque regioni: Emilia-Romagna (molteplici allerte), provincia di Trento, Puglia, Sardegna e Veneto. Il rischio rimane comunque un gradino sotto, moderato, in Abruzzo, Campania, Friuli Venezia-Giulia, Lazio, Liguria, Marche, provincia di Bolzano, Sicilia, Toscana, Umbria e Valle d’Aosta. In quest’ultimo elenco anche Calabria, Piemonte e Lombardia che, però, da domani diventano “gialle”. Passa al giallo anche la Basilicata. Paradossale l’Abruzzo che ritorna rosso per due giorni su sentenza del Tar, ma sarà arancione da domani, rimanendo comunque l’unica regione non gialla. Lo stesso Iss scrive anche di possibile “sottostima della velocità di trasmissione” del contagio, bacchettando le Regioni: “Sebbene in miglioramento, permane una diffusa difficoltà nel mantenere elevata la qualità dei dati riportati al sistema di sorveglianza integrato sia per tempestività (ritardo di notifica dei casi rapportati al sistema di sorveglianza su dati aggregati coordinati dal ministero della Salute) sia per completezza”.

 

Antidoto. 15mila assunzioni

E sul tema più caldo, quello dei vaccini, a cui viene rivolta la speranza per la fine dell’incubo, il commissario all’emergenza coronavirus Domenico Arcuri ha predisposto una call, chiamata, per assumere 13mila medici e 12mila tra infermieri e assistenti sanitari che avranno il compito di unirsi a quella sorta di “esercito della salvezza” pronto all’impegno per somministrare le dosi degli antidoti anti-Covid alla popolazione italiana.

Salvini: “Governo ponte”. E Meloni grida all’inciucio

Sarà che i giochi di ruolo in politica spesso funzionano. O anche, per usare una metafora calcistica, che l’imprevedibilità paga perché così non si danno punti di riferimento agli avversari. E quindi sarà per questo che il re del Papeete, no mask per convinzione e citofonatore per vocazione, tutto d’un tratto decide di togliersi la felpa per mettersi la cravatta, chiede “confronto” al premier Conte su “spostamenti, scuola e Recovery” e intima ai suoi di non fare “cagnara” al Tribunale di Catania dove oggi si presenterà da solo con il suo avvocato Giulia Bongiorno. E allora, sempre secondo il gioco di invertire i ruoli, succede che lei, leader mediatrice nelle baruffe tra i due fratelli litigiosi della coalizione e stimata nelle cancellerie internazionali, all’improvviso torni a essere la barricadera contro “l’Europa strozzina”, che organizza i sit-in davanti a Montecitorio e soprattutto la strenua oppositrice di qualunque “inciucio” di governo. Solo che di questo strano gioco di coppia tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni rimane solo l’apparenza. Sotto, c’è molto di più: un dualismo per la leadership del centrodestra, certo, ma anche un principio di spaccatura tra i due, che si è già tramutata in “irritazione” da parte di Meloni per le fughe in avanti di Salvini con il governo. E allora bastava sentire i rispettivi discorsi alle Camere di mercoledì sul Mes per capire quanto i due suonino su spartiti diversi. La mattina, alla Camera, Meloni ha dato spettacolo infervorandosi contro “i nemici dell’Italia” che con la riforma del salva-Stati avrebbero portato acqua “ai mulini tedeschi”. Nel pomeriggio, al Senato, Salvini era molto più calmo: il Mes non lo ha quasi citato e ha “chiesto” al governo di “migliorare” su scuola, Sanità, spostamenti natalizi, prima di chiedere un incontro al premier.

infatti Conte e Salvini giovedì si sono messaggiati e si vedranno la prossima settimana. Ma la spaccatura evidente tra Salvini e Meloni è emersa ieri quando il leader del Carroccio si è detto disponibile a un governo di larghe intese se si dovesse aprire la crisi: “Per accompagnare il Paese a nuove elezioni con un governo serio, noi ci siamo”, ha detto. Un’uscita che non era stata concordata con Meloni che, dal governo Monti in giù, vede come fumo negli occhi qualunque Grosse Koalition. E allora, quando sui telefonini dei meloniani, arriva l’agenzia della dichiarazione di Salvini, i commenti al veleno si sprecano: “Questo vuole andare con Renzi”. Malignità che prendono forma in serata quando a dare la linea ufficiale è la stessa Meloni, che si sente scavalcata: “FdI per coerenza è da sempre indisponibile ad appoggiare governi con Pd e/o M5S – risponde a Salvini – Dopo gennaio se l’esecutivo non regge c’è solo il voto”. Ma fonti leghiste confermano la tesi del proprio leader – che parla come Renzi – secondo cui “non si può votare all’inizio del 2021, per vaccinazioni e pandemia. Servirebbe un altro governo e la Lega è disponibile a impegnarsi”. In mezzo ci sarebbe una coalizione da far nascere. E anche lì son dolori. Salvini da tempo propone una federazione del centrodestra, ma Meloni non ci sta perché teme che il segretario della Lega voglia lanciare un’opa ostile sulla coalizione in un momento in cui il Carroccio crolla nei sondaggi e FdI si avvicina al 20%. Tant’è che Meloni sta puntando i piedi sulle candidature nelle città, a partire dal veto su Guido Bertolaso.

Di Battista dalla parte di Conte: “È da folli minacciare la crisi”

In questi giorni è stato soprattutto in silenzio. Ma l’ex parlamentare di cui tanti attendono mosse e scelte, dentro e fuori del M5S, ora ha voglia di farsi sentire. “È da irresponsabili, da folli pensare di far cadere Giuseppe Conte o parlare di rimpasto in tempi di pandemia”, dice al Fatto Alessandro Di Battista. Preoccupato dalla piega che sta prendendo la situazione nel governo. “Io ho chiesto e chiedo durezza su certi temi, a Conte come al Movimento. E parlo innanzitutto della revoca della concessione ai Benetton. Mi riservo la libertà di muovere le mie critiche politiche, come ho fatto anche nei mesi scorsi. Per esempio io non ero d’accordo con il presidente del Consiglio sulle elezioni in Puglia”. Ossia sull’esigenza per il Movimento di sostenere la ricandidatura del governatore dem uscente, Michele Emiliano.

Differenze di visione e rotta politica, di cui si è ampiamente discusso. Ma ora in gioco c’è altro. E Di Battista lo dice così: “È ridicolo ipotizzare di far cadere questo esecutivo per una task force. Ma di che parliamo? Vogliono una crisi di governo ora, con il rischio concreto di una terza ondata e proprio mentre la Bce inizia a comportarsi davvero come una Banca centrale europea (e speriamo che continui a farlo)? Solo in Italia in una fase così drammatica si parla di cose del genere”. Forse però anche il premier ha sbagliato a puntare su una squadra ristretta. O perlomeno, non ha dato l’impressione di voler accentrare troppo la gestione di un tesoro da 209 miliardi? L’ex deputato scuote la testa: “Non stanno contestando il presidente del Consiglio sulla base di questioni concrete, bensì solamente per gelosie interne. Ci sono altri interessi, altre dinamiche”.

E ovviamente Di Battista non fa fatica a indicare il primo colpevole: “Matteo Renzi è quanto di peggio ci sia attualmente nelle nostre istituzioni, io l’ho sempre detto, anche nei giorni nei quali si formò questo governo. Non è accettabile ascoltare ultimatum da chi ha perso le scorse elezioni. Casomai a farne, su argomenti come Autostrade o la legge sul conflitto di interessi, dovrebbe essere chi quelle Politiche le ha vinte…”. E si torna al M5S e alle sue difficoltà, che talvolta fanno rima con contraddizioni. Però ora il cuore del problema è un altro, è il Renzi che gioca a indicare il burrone: non proprio da solo, a occhio. “L’ex premier ha alcuni sgherri di sua fiducia anche dentro il Pd, è evidente” scandisce Di Battista. Un combinato disposto che sta terremotando l’esecutivo, al punto che ormai da più parti si parla apertamente di voto anticipato. Ma l’ex parlamentare torna al punto cruciale: “Questi attacchi a Conte non possono essere minimamente avallati. Io sarò il primo a chiedere conto di come verranno spesi i soldi del Recovery Fund, perché è denaro pubblico. E vorrò sapere chi li gestirà, con nomi e cognomi. Ma nonostante le mie critiche al governo, lo ripeto, sono contrarissimo al rimpasto, e figurarsi cosa penso di una crisi di governo”.

In questo scenario, c’è sempre un Movimento che deve ancora darsi una nuova guida politica, ovvero una segreteria che subentri al capo politico reggente Vito Crimi, come hanno sancito ieri anche gli iscritti approvando il documento di sintesi degli Stati generali. Un voto peraltro segnato dalla scarsissima partecipazione, ridottasi al dieci per cento degli aventi diritto. E pare un altro evidente segnale della temperatura, dentro i Cinque Stelle. La certezza è che l’organo collegiale verrà votato a gennaio.

E la domanda resta quella, se Di Battista sarà della partita. Ma l’ex deputato resta a quanto ha già spiegato al Fatto poche settimane fa: “Ho già parlato di questo. Per il mio coinvolgimento ho posto delle condizioni, chiedendo che venissero messi al voto degli iscritti sei punti per me fondamentali, dalla revoca della concessione ai Benetton all’impegno, nero su bianco, che non ci saranno deroghe al vincolo dei due mandati, fino al fatto che il Movimento accetterà solo una legge elettorale che preveda le preferenze e che si presenterà da solo alle prossime elezioni politiche. Sono i miei punti, e da questi non mi muoverò”.

Conte vuole guidare la crisi, Renzi teme il voto e le fughe da Iv

A qualcuno ricordano i giorni dell’estate 2019. Solo che qui, anziché i mojito al Papeete c’è il Natale col Covid. E per qualcuno è anche una consolazione: “Nessuno ci manderà a votare in piena pandemia”. Non è il messaggio che ha fatto recapitare il capo dello Stato, per cui dopo il Conte 2 ci sono solo le urne. Messaggio che tutti hanno ben chiaro, oramai. Anche se molti confidano nell’ancestrale capacità del Parlamento di trovare altre maggioranze, pur di non sciogliersi. Ma quel che è evidente a tutti è che, appena varata la legge di Bilancio, si scatenerà il putiferio. Quello vero, non le schermaglie di adesso. Prima di ripartire da Bruxelles, dopo il vertice europeo che ha dato il via libera al programma Next Generation, Giuseppe Conte ha deciso di non fare più finta di nulla e di provare a “guidare la crisi”. Il messaggio gliel’ha recapitato via El Paìs lo stesso Renzi, in mattinata: un’intervista in cui si è detto pronto a far cadere il governo, proprio mentre il premier italiano era impegnato a trattare al Consiglio europeo. Conte perde la pazienza: “Ci sono istanze critiche, che sono state rappresentate in modo molto vocale, molto sonoro, in varie trasmissioni tv e vari giornali. Sono molto impegnato, ma non è che non cerco di tenermi aggiornato”. E allora chiede “trasparenza”, vuole “capire che cosa nascondono, quali obiettivi”. Un confronto con i partiti che finora lo hanno sostenuto, per chiarire se la fiducia c’è ancora oppure no. Il calendario è ancora da fissare, ma avverrà “presto”, dicono da Palazzo Chigi.

La crisi è profonda. E ha Matteo Renzi come testa d’ariete, ma una marea di giallorosa dietro di lui. Alcuni perfino assetati di vendetta: “Sapevamo dall’inizio che Iv sarebbe stata una spina nel fianco: ma cosa abbiamo fatto per fermarla? Niente, abbiamo continuato a sfamarli, accontentandoli su ogni singolo dossier. E adesso ci presentano il conto”.

Per la verità, non è che il premier avesse molta scelta, visto che Iv conta 18 senatori e il Conte 2 non sarebbe mai stato possibile senza l’avallo di Renzi, allora ancora nel Pd. Lui lo sa bene e ancora una volta si trova a una curva pericolosa della sua carriera, dove la cosa che reputa più inaccettabile è finire nell’irrilevanza politica. Quindi ancora una volta si gioca l’azzardo. E mentre il premier è ancora a Bruxelles, dicevamo, lo attacca frontalmente dalle colonne di El País. Continua a sostenere, Renzi, che “non si va al voto”, perché “bisogna prima verificare che non ci sia una maggioranza alternativa”. Renzi in realtà sa benissimo due cose. La prima è che tutti stanno lavorando per un assetto diverso – senza l’attuale presidente del Consiglio – a partire dal Pd, che pure ieri, prima con Goffredo Bettini, poi con Andrea Orlando agita la minaccia del voto (“No a Papeete di Natale, o si va a votare”). Ma la seconda è che la parola elezioni deve essere disinnescata il prima possibile: perché davanti a questa eventualità, la maggior parte dei parlamentari di Iv sarebbero pronti a lasciarlo solo nella sua decisione di sfiduciare Conte, consapevoli del fatto che a rientrare in Parlamento sarebbero forse meno di una decina di loro, stando ai sondaggi. Anzi, molti si sfogano con i colleghi del Pd, alcuni vorrebbero rientrare. Insomma, Renzi potrebbe non avere i numeri per staccare la spina.

Intanto gli abboccamenti si moltiplicano. Gli uomini di Iv fanno circolare la possibilità di un governo con Di Maio premier. Tanto è vero che spuntano post Facebook di fedelissimi renziani in difesa del ministro degli Esteri “massacrato” per un congiuntivo. Ma per lui sostituire Conte avrebbe non pochi ostacoli: difficile da reggere per il Pd, insopportabile per parte del Movimento, ostativo per l’entrata di FI. E infatti dalla Farnesina smentiscono che quest’ipotesi possa mai realizzarsi.

La carta vera sarebbe un governo a guida Pd. I nomi che si fanno circolare sono quelli di Dario Franceschini e Lorenzo Guerini. Ma anche qui: M5S reggerebbe? Al Nazareno sanno che si tratta di un gioco pericoloso. Per questo, dopo aver mandato avanti per giorni l’ex premier, ieri Nicola Zingaretti l’ha stoppato: “Nessuno deve chiedere marcia indietro a nessuno”. Non è piaciuto al Nazareno l’attacco a Conte in pieno Consiglio, non è piaciuto il suo voler dettare le regole. Il Pd teme che il gioco gli sfugga di mano. E che magari anche un approdo “light” come il Conte-ter a più evidente trazione Pd ormai non sia più a portata di mano.

Perché Conte sbaglia

L’annunciata retromarcia di Conte, pressato dai presunti alleati, sul divieto di spostarsi fra comuni della stessa regione a Natale, Santo Stefano e Capodanno sarebbe un grave errore. Per tre motivi: uno vitale, gli altri due futili. Quello vitale riguarda il sicuro aumento di morti e contagi a causa di quella concessione demagogica. Col coprifuoco alle 22 e la raccomandazione di non superare i sei commensali, chi vuole festeggiare con nonni e zii fuori città lo farà in tre pranzi “diluiti” fra il 25 e il 26 dicembre e il 1° gennaio. Pranzi che diventeranno rave party dall’alba al tramonto, con scambi di doni, tombole o altri giochi e merende, prima del rientro serale. In tempi normali, è il bello del Natale. Ma quest’anno quei pranzi gioiosi con famiglie allargate rischiano di trasformarsi in camere mortuarie. Ce lo dicono i 7-800 morti al giorno, quasi tutti ultrasettantenni, quasi tutti contagiati in famiglia. In Italia il 20% degli anziani over 65 vivono con i figli, circa altrettanti in alloggi diversi ma nella stessa città o addirittura nello stesso stabile, e ben il 50% in comuni vicini nel raggio di un chilometro. Il che spiega – insieme al record di popolazione anziana, al ritorno del Covid nelle Rsa pure nella seconda ondata, alle falle delle Asl sulla diagnostica precoce e alla mancata distinzione fra morti per e con Covid – l’alto tasso di mortalità italiano rispetto ad altri Paesi.

Il 26 novembre gli Usa hanno festeggiato il Thanksgiving Day, che riunisce le famiglie come da noi il Natale: quel giorno i morti erano 1.443 e due settimane dopo – passata la fase di latenza – erano più che raddoppiati a 3.263; idem i contagi (161mila il 26 novembre, 227mila il 9 dicembre). Anche lo shopping natalizio incide, specie dopo il Black Friday, ma s’è fatto sentire più in Germania e Regno Unito che da noi. Che per ora, quanto a contagi, siamo in continuo calo (tasso di positività sotto il 10%). Vogliamo rovinare tutto? “Non ce lo possiamo permettere”, è il mantra di Conte su ogni misura restrittiva. Ecco, la giravolta sulle tre feste fuori porta non ce la possiamo permettere. Certo, il divieto crea disparità fra chi ha i parenti nello stesso comune e chi in quelli vicini: ma lo scopo è ridurre le occasioni di incontro e contagio, dunque è un prezzo che va pagato.

I motivi futili sono politici. Primo: un premier che fissa una regola, la spiega agli italiani e poi la cambia in corsa mentre la gente si organizza per rispettarla, perde credibilità e si espone agli strali dei professionisti del “Covid governo ladro” quando la curva risalirà. Secondo: dà l’impressione di piegarsi ai diktat di chi lo sta ricattando. Il racket è un crimine, ma pagare il pizzo è peggio di un crimine: è un errore.

A Santo Domingo mi ha salvato la vita (a sua totale insaputa)

Mano sul cuore. Devo molto a Paolo Rossi. Non solo i salti carpiati e susseguente afonìa per quei tre pallini al Brasile.

Gli devo la pelle.

1983, Natale a Santo Domingo con amici. Un postaccio. Americani bianchi ricchi su campi da golf verdi che manco in Northumbria. Accanto, le favelas dei neri, peggio di Rio. In mezzo i turisti, a fare i tuffi per non vedere, sindrome Christian De Sica.

Ramon, un nero che vendeva ostriche in spiaggia, ci invitò a casa sua, nella favela. Dibattito, due mozioni, “ci ammazzano” contro “sentirci meno coglioni”, vinse la seconda. Una discesa agli inferi. Fango, baracche, signorine che si offrivano.

Ramon ci accoglie tra trenta ragazzini non si capiva di chi. “Manco una birra, abbiamo portato!”, dico io “C’è un bar?”, ma per favore. C’era.

Ramon dice a un ragazzino di guidarmi fino a una baracca di legno, tenda uso porta. Entro. Al biliardo quattro neri cristoni brutti e cattivi come nei telefilm. Mi fissano in silenzio fino al bancone. Ordino le birre, il barman, diciamo così, mi guarda, non me le dà. Guardo il ragazzino. Se un nero può impallidire, ora era albino. E dietro di me, fiato caldo sul collo. “Vuelve a la America, gringo de mierda”. Mi giro, i quattro ce li ho sul naso, molto nervosi, alito distruttivo. Li odiavano gli americani. “No gringo! Yo italiano!” urlo. Si allargano quattro sorrisi, uno con un dente in meno. “Italia! Paolorossi! Mafia!” gridano strizzando un occhio. Paolo Rossi e la mafia m’avevano salvato il culo. Grido Paolorossibrasiletregol, la mafia la tralascio, finisce a pacche sulle spalla.

Il ragazzino torna nero, il mio sfintere si rilassa, il barman mi dà la birra gratis. Mi sarebbe piaciuto raccontartelo, Pablito. Molto.

“Io dietro la rete del campo da calcio, scopro un ventenne già fuoriclasse”

Giussy Farina era il presidente contadino del Vicenza. Non per abitudine a vanga o piccone, a terra e sementi, più per contrapposizione all’aristocrazia del pallone guidata dall’Avvocato, di nome Gianni Agnelli.

Giussy Farina era anche “contadino” per l’attaccamento ai suoi ragazzi, li seguiva nella crescita, “li andavo a vedere nei campetti delle giovanili, perché ero convinto di un dato: oltre a bravi con i piedi, dovevano formarsi con la testa”. E tra loro, il suo prediletto, era proprio Paolo Rossi, strappato alla Juventus grazie a un’offerta maggiore, e questa intervista non è più lunga, solo perché alla fine hanno vinto la commozione, le lacrime e lo stupore di un uomo di 87 anni che non credeva “di dover vivere un dolore così grande”.

Presidente, la prima immagine che ha di Rossi.

Lui giovanissimo, ventenne, che corre in mezzo al campo di calcio; io che lo guardo da dietro la rete e sorrido: avevo un fuoriclasse in squadra.

Lo stesso Rossi non si riteneva dotato di grandi doti fisiche.

In certi casi conta più la testa, associata al resto, e lui in questo era fortissimo, altrimenti negli anni non avrebbe retto a tutta la pressione.

Lo conosceva bene…

(Inizia a strozzarsi la voce) Lo volli anche al Milan; (pausa) sono sempre stato un presidente molto vicino ai miei ragazzi: come dicevo prima, uno deve capire qual è la loro età e seguirli, aiutarli. Paolo era veramente speciale.

Gli è stato vicino pure durante la squalifica?

Non ne aveva bisogno (si interrompe di nuovo); penso alle sue partite ai Mondiali…

E?

Mi rivedo davanti al televisore che mi emoziono, salto e grido, e mi escono le lacrime nel rendermi conto della sua felicità, della sua rivincita.

Vi sentivate?

Davvero, per me Paolo ha rappresentato qualcosa di speciale (la voce si spezza, cambia il respiro. E lo ringraziamo).