“In Spagna Bearzot disse: ‘Adesso tocca a voi due’”

“Oggi è una giornata molto triste. Paolino era una persona perbene, un uomo intelligente e a modo. Per me è stato più di un amico, è stato come un fratello più piccolo”. Sono queste le prime parole con cui Dino Zoff commenta la notizia della morte a soli 64 anni di Paolo Rossi, che sulla sua malattia (un tumore ai polmoni) aveva sempre mantenuto il più discreto riserbo. I due si conoscono dal 1973, ai tempi della Juventus: Zoff – friulano, 29enne – è già il portierone titolare della Signora e della Nazionale (nell’Europeo del ’68), Rossi, invece, è un giovane diciassettenne di Prato, e la Juve lo aveva comprato per 14,5 milioni di lire. Insieme, molte vittorie sul campo, ma soprattutto l’indimenticabile Mondiale del 1982 in Spagna, conquistato nella storica finale contro la Germania Ovest. Pablito – così era soprannominato da tutti – ne uscirà anche laureato da capocannoniere, e lo stesso anno si aggiudicherà il Pallone d’oro.

Che ricordo serberà di Paolo Rossi?

Moltissimi, e tutti belli. Faccio fatica a isolare un solo aneddoto di tutti questi anni di amicizia, perché stare con lui era un aneddoto continuo. Era molto ironico e simpatico, gli piaceva scherzare e prendere in giro se stesso e gli altri. Posso dire che stare con lui era davvero molto piacevole. Ci sentivamo spesso al telefono perché io sono poco tecnologico, quindi nella famosa chat dei campioni non ci sono.

Come calciatore?

Era un attaccante straordinario perché era soprattutto una persona equilibrata. Sapeva cogliere il momento giusto in cui fare le cose, sfruttando al massimo le sue qualità.

E di quell’estate del 1982?

Nello spogliatoio c’era un’aria straordinaria, come squadra ci volevamo bene ed eravamo molto legati, al di là delle critiche della stampa e dell’aria pesante che si era generata per i giudizi negativi sulle prestazioni poco belle del primo turno. Il gruppo, però, restava sereno: avevamo una fiducia totale nell’allenatore (Enzo Bearzot) e nella sua visione delle cose. Tuttavia, eravamo bersagliati.

Rossi soprattutto.

Rossi in modo particolare, sì. Sentiva molta responsabilità e pressione su di sé. Buona parte della stampa lo criticò, dicendo che veniva da poca attività e per questo i risultati campo non si vedevano.

Poi, il 5 luglio allo stadio Sarriá di Barcellona, arrivò la tripletta col Brasile.

Sì, Bearzot ci spronò, riteneva che noi due fossimo tra i giocatori che dovevano dare lo sprint per il cambio di direzione. In quella partita, all’89esimo io parai sulla linea di porta un colpo di testa a Oscar (José Oscar Bernardi) e Paolino, con la sua tripletta, dimostrò sul campo il campione che era e la fiducia ben riposta dell’allenatore. Fino alla finale contro la Germania, in cui il primo gol fu proprio il suo.

E Resterà per sempre Pablito. Nell’82 simbolo Nazionale

Dopo Diego, che fu il calcio, anche Paolo, che fu l’attimo. Aveva 64 anni, si è arreso a un tumore ai polmoni, a Siena, fra le braccia della moglie Federica: “Nessuno come te”. Paolorossi. Tutto attaccato, tutto attaccante. Lui che, toscano di Prato, nacque ala e centravanti diventò “solo” con Giovan Battista Fabbri, detto Gibì o Brusalerba, a Vicenza. Un Vicenza così brillante e frizzante che chiamavamo, non certo per vezzo, “Real”.

Paolino. Poi Pablito, soprannome datogli da Giorgio Lago, grande giornalista e direttore del Gazzettino. Quindi hombre del partido. Lo piangono tutti. Dentro quel fisico esile e quelle ginocchia che i chirurghi frugavano golosi, crebbe un cacciatore di episodi, dal carattere di ferro. Allegro, normale: per questo, a suo modo, rivoluzionario. La partita gli scorreva attorno, placida. Paolo era la cascata improvvisa, l’onda che gonfia gli argini e poi scompare.

La carriera è un libro che si legge in fretta, visto che già a 31 anni mollò, vincitore di tanto, vinto da troppo (e da troppi menischi). Juventus, Como, Lanerossi Vicenza, Perugia, ancora Juventus – con ingorgo di scudetti e coppe –, Milan, gli ultimi morsi a Verona. E la Nazionale, naturalmente. Soprattutto.

Ci ha portato, con il Mundial del 1982, fuori degli anni di piombo, oltre i nostri limiti, al di là dei nostri sogni. Aveva il numero 20, veniva da due anni di squalifica per il caso del toto-nero, gorgo nel quale era precipitato più per leggerezza che per complicità. Era esploso in Argentina, nel 1978, dopo che Giussy Farina ne aveva strappato la comproprietà a Giampiero Boniperti con una “busta” così esosa da spingere persino Franco Carraro alle dimissioni da commissario straordinario della Lega. Carraro, la poltrona fatta uomo. Sarebbe poi tramontato in Messico, nel 1986, sulle ceneri ancora calde e sempre tragiche dell’Heysel.

Spagna. Quell’estate che sembrava non cominciare mai, e che invece, per fortuna, mai finì. Sino alla corona di campioni del mondo, sino allo scettro di capocannoniere, sino al Pallone d’oro. Enzo Bearzot lo aspettò contro tutto e contro tutti, mezza Italia tifava per Roberto Pruzzo, ci prese per sfinimento, ci logorò finché non crollammo. E Paolo, il tacchino freddo di Vigo, non uscì dal tunnel.

La tripletta al Brasile, sentenza che a Rio fu scintilla di rivolta, di odio, a ogni livello e a ogni ceto, con i taxisti che, non appena lo inquadravano nello specchietto, lo scaricavano. Storia, non leggenda. La doppietta alla Polonia. Il primo gol alla Germania (Ovest, allora), spingendo via Antonio Cabrini. Ballò poche stagioni, ma furono stagioni ardenti. Giocò nella Juventus di Michel Platini e Zibì Boniek, un mazzo di rose e di spine. E declinò nel Milan: alla sua maniera, segnando due gol in un derby.

È stato, per noi, il buco della serratura attraverso il quale spiare un’Italia migliore, l’Italia di quel mese là, in fuga dai vecchi cliché. E per gli stranieri, la bilancia sulla quale pesarci e non trovarci poi così tirchi, così ambigui. Il suo opportunismo, tetto di un repertorio affinato in gioventù e più robusto dei luoghi comuni che lo decoravano, sarebbe piaciuto a Niccolò Machiavelli. Chi lo conosce, lo racconta buono e sorridente. Aveva un tono pacato, come il soffio dello spirito che lo guidò nella giungla del dopo calcio, fra telecamere e agriturismi. Secondo Jim Morrison “a volte basta un attimo per scordare una vita, ma a volte non basta una vita per scordare un attimo”.

Non basterà una vita per scordare i suoi attimi. Quei momenti. I frammenti di Paolorossi. Un ragazzo che, al bivio della pubertà, scelse di fare il calciatore, e di farlo, soprattutto, in quella sorta di Bronx in cui è complicato distinguere lo sbirro dallo sgherro; in cui le bolge, spesso, nascondono efferati regolamenti di conti; e in cui l’ambizione, gelosa, pretende ritmi perversi e impone approdi diversi dalle oasi che il campo offre ai turisti da cartolina. L’area di rigore. Là dove è pianto e stridore di denti. Là dove se decidi di viverci, devi sopravviverci. Là dove, per diventare qualcuno, devi sempre inventare qualcosa. E Paolo – che, ripeto, squalo all’oratorio non era – smise in fretta le sembianze del pesciolino rosso, ancorché gli facessero comodo, molto comodo, per trasformarsi nel “baleno” manzoniano.

Scaltro, posato, implacabile. Contribuì a fare, di una nazionale, una nazione. Ogni tanto pensava agli alti e bassi che l’avevano accompagnato, agli snodi del destino prima caro e poi baro. Non se la tirava. Era sempre quello. Un mito mite. “Con Paolo non ho semplicemente vinto: ho vissuto”, ricorda Boniek. C’è tutto.

“Misero Pinelli sul davanzale. Fu così che poi cadde e morì”

“Pinelli si rifiuta di rispondere alle domande. Gli interroganti ricorrono quindi a mezzi più forti e minacciano di buttarlo dalla finestra. Lo strattonano e lo costringono a sedere sul davanzale. A ogni risposta negativa, Pinelli viene spinto un po’ più verso il vuoto. Infine perde l’equilibrio e cade”.

Chi racconta è il generale Gianadelio Maletti, già numero due del servizio segreto del ministero della Difesa, il Sid, tra il 1971 e il 1975. Oggi ha 99 anni, è stato condannato in via definitiva a 12 mesi di carcere per i depistaggi sulla strage di piazza Fontana ed è latitante in Sudafrica dal 1980.

Oggi, a 51 anni dai fatti, accetta di dire la sua. Lo fa in un file audio di cinque minuti che abbiamo raccolto la scorsa primavera durante la produzione del podcast d’inchiesta 121269 (Audible), dedicato alla strage di piazza Fontana.

Maletti arriva al Sid due anni dopo la morte di Pinelli, dunque il suo racconto non nasce da una conoscenza diretta dei fatti, ma è una sua ipotesi. Getta comunque uno spiraglio di luce su uno degli episodi più bui e indegni della storia repubblicana: la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dal quarto piano della questura di Milano nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969.

Quando morì, Pino Pinelli aveva 41 anni, una moglie e due figlie piccole. Era stato fermato dal capo della squadra politica della questura Luigi Calabresi e dai suoi uomini nella serata del 12 dicembre, poche ore dopo l’esplosione della bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura che uccise 17 persone e ne ferì quasi 90.

La strage era stata organizzata dai terroristi neofascisti di Ordine nuovo, ma questo lo si sarebbe accertato solo nel 2005, dopo 36 anni d’indagini e sette processi. Subito gli inquirenti avevano puntato a incastrare i militanti del mondo anarchico. Decine di attivisti libertari erano stati portati in questura per essere interrogati. Il ferroviere Pinelli – ex staffetta partigiana, cultore dell’esperanto e sostenitore della resistenza antifranchista in Spagna – ci rimase per oltre tre giorni. La sera del 15 dicembre, quando il suo fermo, non convalidato dai magistrati, era ormai diventato illegale, fu portato nell’ufficio di Calabresi per l’ultimo interrogatorio. Di fronte a lui c’erano almeno quattro funzionari di polizia e un tenente dei carabinieri. Poco dopo la mezzanotte, il corpo dell’anarchico si schiantò 20 metri più in basso, nel cortile del palazzo di via Fatebenefratelli.

A oggi, nessuno sa con precisione che cosa accadde in quella stanza. La prima versione ufficiale fu quella del suicidio: “Il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa”, dichiarò ai cronisti il questore Marcello Guida, “e si è lanciato nel vuoto”. Ci credettero in pochi: del resto, perché mai un innocente avrebbe dovuto uccidersi? Nel 1975 il giudice Gerardo D’Ambrosio archiviò il caso con una sentenza secondo la quale non si sarebbe trattato né di omicidio né di suicidio: Pino Pinelli, mentre era affacciato alla ringhiera, sarebbe stato colto da una “alterazione del centro d’equilibrio”, avrebbe avuto insomma un malore. Anche questa ricostruzione è stata più volte messa in dubbio, in primis dai compagni e dai familiari del ferroviere anarchico. Oggi le parole del generale Maletti sembrano dare loro ragione.

Giuseppe Pinelli, secondo quanto detto dall’ex dirigente degli 007 italiani, sarebbe stato vittima di un “incidente” causato dai suoi inquisitori “durante l’interrogatorio”. “La morte dell’anarchico non era voluta – racconta il generale – tutti i presenti furono colti da sgomento e apprensione. La verità non li avrebbe sottratti da gravi sanzioni penali. Perciò si impegnarono ad avallare, per il bene proprio e delle istituzioni, la tesi del suicidio”.

Tale scenario sarebbe stato confermato a Maletti dal maggiore dei carabinieri Giorgio Burlando, responsabile del centro di controspionaggio di Milano, dal colonnello Antonio Viezzer, capo della segreteria del “reparto D” del Sid, ma soprattutto dal generale Vito Miceli, che fu a capo del servizio segreto militare tra il 1970 e il 1974. Lo stesso Miceli, durante un colloquio col suo vice Maletti, avrebbe affermato, testualmente, “che la storia del suicidio di Pinelli era una bufala”.

Oggi due degli uomini che si trovavano in quella stanza della questura sono ancora vivi. Uno di loro, l’ex brigadiere Vito Panessa, intervistato per il podcast 121269, è riuscito a dire: “Pinelli quella notte se l’è cercata”.

Gruppo San Donato, rimborsi gonfiati sulle protesi: “Una cresta da 34 milioni”

Prima i farmaci, poi le protesi endoscopiche pagate a prezzi scontati, ma fatte rimborsare dalla Regione Lombardia con un ricalcolo anche di 1.900 euro per protesi. Sotto la lente della Procura di Milano finisce il gruppo San Donato e otto aziende controllate. Tra queste anche l’ospedale San Raffaele. Colpiscono le intercettazioni. Quella del 2017, tra l’allora responsabile acquisti Massimo Stefanato (oggi indagato per truffa) e il responsabile dei servizi di farmacia Mario Giacomo Cavallazzi (non coinvolto in questo secondo filone). Parlano di ciò che durante un Comitato Etico ha detto l’allora primario di cardiologia del San Raffaele Antonio Colombo: “Il nostro Professor Colombo ha detto che l’ospedale fa la cresta sulle valvole aortiche per via delle note di credito. Non si spiega perché tale importo non venga girato alla Regione”. Così per i pm tra il 2013 e il 2019 otto società del gruppo avrebbero truffato 34 milioni. Cifra oggetto, ieri, di un sequestro d’urgenza. Il gruppo replica che “nessun vantaggio” è stato conseguito e che “ha sempre operato nel rispetto della legge”.

L’atto eseguito dalla Finanza segue una prima indagine sul rimborso di farmaci operato con lo stesso metodo. Fascicolo per cui è stato già chiesto il processo. Tra gli imputati lo stesso Cavallazzi e 5 società del gruppo. Truffa contabilizzata in 10 milioni già risarciti. Come per il primo fascicolo anche nel secondo sulle protesi l’accusa è di truffa. Indagate per la legge 231 sulla responsabilità oggettiva il San Donato e le controllate. Si legge nel decreto: “Il costo medio (delle endoprotesi) è 1.400 per il ginocchio. Tale riduzione di prezzo (che secondo il listino era di 1.900) scaturiva dalla emissione di successive note di credito annuali”. Insomma la “cresta” di cui parlava Colombo e che non veniva comunicata alla Regione. Del “metodo illecito” usufruivano, secondo il pm, alcune case produttrici (non indagate). Si legge nell’atto: “Stefanato (…) ha trattato l’acquisto e (…) ha promosso l’impiego delle stesse con i clinici favorendo le aziende per le quali era stato raggiunto (…) un accordo che prevedeva l’applicazione di scontistica, riconosciuta sotto forma di nota di credito, al raggiungimento di determinati volumi d’affari”. Ne parlano Stefanato e un manager del gruppo. Dice il secondo: “1.300 il primo impianto (…) attraverso (…) note di credito. Ho chiesto fatturazione a prezzo netto”. Stefanato: “Dobbiamo vederci (…) Meglio di persona”. L’altro: “Penso di aver capito senza tante parole”.

Violentò figlia e nipote: lo salvano età e prescrizione

Ha violentato la figlia per anni, e poi anche la nipote. Ma dopo 15 anni, sul caso non è stata ancora messa la parola fine. E ormai è quasi certo che l’imputato, che ha quasi 80 anni, non andrà mai in carcere. Sia per la sua vecchiaia, sia perché vari capi di imputazione sono prescritti. Accade a Torino, dove nel 2006 la figlia dell’uomo sporge denuncia in Procura contro gli abusi, in una fase in cui le sue attenzioni sono rivolte anche alla nipotina. La prima sentenza di condanna è del 2010, ma poi, per otto anni, il nulla: il processo d’Appello viene fissato nel 2018. L’uomo viene condannato a nove anni e quattro mesi, e ricorre in Cassazione. Cade intanto la prescrizione su abusi sulla nipote, maltrattamenti e violenze alla figlia. La Suprema corte ritrasmette gli atti in Appello, dove inizia in questi giorni il quinto processo. Ma comunque andrà, l’anziano non andrà mai in galera: restano in piedi solo la violenza sessuale di gruppo e il rapimento, e intanto, col passare del tempo, lui ha superato i 70 anni.

Uccisa Ylenia: nel 2017 il fidanzato cercò di darle fuoco (e la D’Urso la portò in tv)

Tre anni fa era riuscita a salvarsi dal fidanzato che le aveva dato fuoco. Ieri notte però non c’è stato nulla da fare per la 26enne Ylenia Bonavera. Morta all’ospedale Garibaldi dopo essere arrivata in gravi condizioni al Pronto soccorso con ferite di arma da taglio. La giovane, originaria di Messina, è stata accoltellata alla spalla mentre si trovava nel quartiere San Cristoforo di Catania. A terra è rimasta una chiazza di sangue e il manico nero di un coltello da cucina senza lama, dall’altro lato della strada una ciocca di capelli ma non è chiaro se appartenenti alla vittima. Due indizi che però potrebbero aiutare gli investigatori della Squadra mobile a risolvere il giallo. A questo si aggiunge il fatto che nella serata di ieri un transessuale di 34 anni si è presentato, accompagnato da un legale, negli uffici della polizia per essere sentito.

Secondo quanto ricostruito dal Fatto Quotidiano prima dell’accoltellamento c’è stata una violenta lite. Urla e spintoni con due macchine, tra cui la Smart della vittima, ferme lungo la strada. Improvvisamente una donna ha colpito con un fendente la 26enne, Bonavera ha iniziato a urlare e si è accasciata all’interno dell’auto con la maglia sporca di sangue. Subito dopo qualcuno l’ha accompagnata al Pronto soccorso. Bonavera non aveva un lavoro stabile e alternava periodi da cameriera a quelli da ragazza immagine nei locali notturni. Il suo era un volto noto alle cronache a causa di un’intervista rilasciata al programma Pomeriggio 5 di Barbara D’Urso. Dopo il tentato omicidio del 2017 la donna aveva difeso l’allora fidanzato Alberto Mantineo.

L’uomo è attualmente detenuto per una doppia condanna in primo e secondo grado.Pure la ragazza aveva rimediato un processo per favoreggiamento e falsa testimonianza ma l’ex convivente era stato comunque incastrato grazie alle riprese di una telecamera di sorveglianza che lo immortalò mentre riempiva una bottiglia di benzina. “La prima udienza del processo di Ylenia si è tenuta il 27 novembre – racconta al Fatto Quotidiano l’avvocata Rosaria Chillè – L’avevo sentita recentemente per chiederle di raggiungermi in studio e fare qualche chiacchiera. Era tranquilla”. Gli ultimi momenti in vita della 26enne sono stati immortalati in una diretta Facebook in cui Bonavera, a bordo della sua Smart, si muoveva tra le strade di Catania ascoltando musica.

Biden tra figlio, Texas e Giustizia

Joe Biden procede a ritmo serrato a riempire i ranghi della sua Amministrazione, ma non ha ancora scelto il Segretario alla Giustizia. A questo punto, ha un motivo in più per ponderare bene la scelta: il nuovo attorney general degli Stati Uniti potrà, infatti, avere un ruolo nella vicenda di suo figlio, Hunter, che è oggetto di un’indagine fiscale in Delaware, dove vive anche il padre, per oltre 30 anni senatore dello Stato. È stato Hunter a dare la notizia, dichiarandosi fiducioso di uscirne ‘pulito’. Ma i repubblicani sono già partiti all’attacco: il deputato Ken Buck chiede la nomina di un procuratore speciale, per evitare che l’inchiesta finisca sotto la competenza del ministro della Giustizia di Biden, che sarebbe incerto tra Sally Yates, già vice di Loretta Lynch, e Lisa Monaco, già zarina dell’anti-terrorismo – sempre con Barack Obama –. Ieri, Biden ha riempito nuove caselle del suo team, fra l’altro affidando a sorpresa a Susan Rice la guida del Consiglio di Politica interna della Casa Bianca. Donald Trump ritwitta un commento online: “Il 10% degli elettori avrebbe cambiato il proprio voto se avessero saputo” dell’inchiesta su Hunter. Salvo aggiungere: “Ma abbiamo vinto lo stesso.” Invece, Joe Biden reagisce da papà: fa sapere “d’essere profondamente orgoglioso di suo figlio, che ha combattuto sfide difficili, … solo per emergerne più forte.”

In campagna elettorale, Trump aveva accusato la famiglia Biden di essere “un’impresa criminale”, citando gli affari di Hunter in Ucraina e in Cina quando il padre era il vice-presidente di Obama. L’attenzione era soprattutto puntata sulla sua nomina nel board della società energetica ucraina Burisma a 50 mila dollari al mese. L’indagine del Delaware pare però concentrarsi più sugli affari di Hunter in Cina; e non è chiaro se l’inchiesta tenga o meno conto dei contenuti di un misterioso laptop, forse di Hunter, trovato in Delaware e utilizzato dalla campagna di Trump per alimentare sospetti sul figlio dell’allora candidato democratico. Hunter, 50 anni, socio fondatore d’una società d’investimenti e consulenza, ha un passato personale e coniugale travagliato, lottando a lungo contro alcol e droga. Il padre l’ha sempre difeso ed è molto legato a lui, dopo la morte nel 2015 dell’altro figlio Beau. Ma l’attenzione di Trump, in questo momento, è soprattutto puntata sulla Corte Suprema, che deve pronunciarsi sul ricorso del Texas, che vuole ‘congelare’ la vittoria di Biden, invalidando i risultati in quattro Stati: almeno 17 Stati si sono già uniti – scrive il magnate su Twitter –. “all’azione legale straordinaria contro la più grande frode elettorale nella storia degli Stati Uniti”. Il team di legali di Trump vuole inserirsi nel ricorso del Texas, che contesta i risultati di Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin – tutti Stati vinti da Biden –: il ricorso punta a ‘congelarne’ i 62 voti nel Collegio elettorale e a rinviare la riunione di lunedì 14 in cui il Collegio elettorale deve formalmente eleggere il presidente.

“Con la legge sulla laicità. Macron crea nuovi conflitti”

Il controverso disegno di legge sul “separatismo” diventato il cavallo di battaglia di Macron nella lotta al terrorismo, sarà discusso in Assemblée da febbraio. Introduce obblighi e divieti, tra cui la “neutralità” nei servizi pubblici, la fine dei finanziamenti esteri dei culti, ma anche l’obbligo scolastico dai tre anni, il divieto ai medici di rilasciare dei “certificati di verginità” e misure per evitare i matrimoni combinati. Alcuni giorni fa il politologo Olivier Roy, docente all’Istituto universitario europeo di Firenze, ha lanciato un appello, insieme ad altre personalità, perché il testo venga ritirato.

Professore, che cosa la preoccupa di più?

Intanto ritengo che questa legge non avrà nessun impatto nella lotta al terrorismo. Perché tornare a legiferare sulle prediche politiche e i discorsi di odio di certi imam? La legge sulla laicità del 1905 e le leggi seguenti degli anni 80-90 già li condannano. Che rapporto c’è poi tra terrorismo e istruzione a domicilio? Tutti i terroristi hanno frequentato la scuola pubblica. Che rapporto con i certificati di verginità? Dalle jihadiste ci si aspetta che abbiano uno o più mariti. Perché legiferare sulla poligamia? È già vietata e nessun terrorista proviene da famiglie poligame. Le leggi esistenti sono sufficienti. Ma c’è anche un altro problema: si confondono valori e principi. La laicità è un principio giuridico-costituzionale. Il governo lo vuole trasformare in sistema di valori, in ideologia. Rimproveriamo alla Polonia di fare del cattolicesimo un’ideologia di Stato, ma facciamo lo stesso con la laicità. La legge va ritirata, è la sola opzione possibile.

Eppure il premier Castex ne parla come di “legge di libertà”…

Al contrario, è una legge di censura, perché limita la libertà di espressione e la pratica religiosa. Ma i politici francesi, compreso Macron, soffrono di una profonda incultura religiosa che si trasforma in sospetto, per cui qualsiasi forma visibile del religioso viene giudicata integralista. Anche i cattolici del resto sono a disagio. Per via del Covid, le messe sono state vietate e i fedeli sono andati a pregare sui sagrati delle chiese. Il governo ha mandato la polizia. Non era successo neanche dieci anni fa con le preghiere di strada dei musulmani. Niente vieta di pregare negli spazi pubblici.

Questa legge è diventata urgente per Macron dopo la morte di un insegnante, Samuel Paty, per mano di un jihadista. La laicità può essere una risposta al terrorismo?

No. Dal 2015, e soprattutto dall’attacco al Bataclan, nessuno dei terroristi proviene da ciò che il politologo Gilles Kepel chiama “incubazione salafita”. Sono tutti individui isolati che vivono a margine della comunità musulmana. Nessuno era legato ad un gruppo religioso organizzato. Si sono radicalizzati su Internet, non in una moschea salafita. Se le misure di questa legge fossero state prese vent’anni fa, avremmo assistito allo stesso fenomeno terrorista.

Macron è stato attaccato dal mondo musulmano, ma anche anglo-sassone. Il New York Times ritiene che la legge alimenti il terrorismo invece di combatterlo. Come mai è difficile per la Francia far capire all’estero il concetto di laicità alla francese?

Non credo che questa legge nutrirà il terrorismo, ma credo che creerà tensioni, soprattutto tra comunità di fede, compresa la chiesa cattolica, e la grande maggioranza della società francese che è davvero laica. Gli anglo-sassoni hanno una chiave di lettura sbagliata, perché pensano in termini di razzismo e parlano di legge anti-musulmani. Invece in Francia i musulmani laici sono integrati. E se il razzismo esiste, la questione dell’integrazione non può essere ridotta al solo razzismo. All’estero è difficile capire il posto che il religioso occupa nella società francese. La laicità à la française è profondamente anti-religiosa, e innanzi tutto anti-cattolica, sin dalla Rivoluzione del 1789.

Macron sta cedendo alla destra?

Il presidente è già in campagna per il 2022. Tre anni fa è stato eletto su un programma liberale. Ora fa la corte alla destra e, come aveva fatto Sarkozy a metà mandato, orienta la sua politica su identità e sicurezza. Ma è un calcolo, a mio avviso, maldestro. Con Sarkozy non aveva funzionato.

Patti di Abramo. Pure il Marocco diventa amico di Gerusalemme

Il Marocco sarà il quinto paese arabo a normalizzare le relazioni con Israele, dopo Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan. Ad annunciarlo come “un’altra svolta storica!” è stato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, intermediario dei cosiddetti accordi di Abramo. “I nostri due grandi amici, Israele e il Regno del Marocco, hanno concordato di intrattenere piene relazioni diplomatiche. Un enorme passo avanti per la pace in Medio Oriente”, ha twittato Trump. “In cambio”, gli Stati Uniti riconosceranno la sovranità di Rabat sul Sahara occidentale. Subito dopo l’annuncio, il re del Marocco, Mohammed VI (in foto) si è subito precipitato a rassicurare i palestinesi che la posizione di Rabat sul conflitto israelo-palestinese non è cambiata: “Siamo sempre per una soluzione a due Stati”, ha giurato il sovrano in un colloquio telefonico con il presidente Mahmoud Abbas. Parlando con Abbas, il re “ha ribadito la sua immutata posizione a sostegno della questione palestinese” e ha sottolineato che i negoziati tra la parte palestinese e quella israeliana sono l’unico modo per raggiungere una “soluzione duratura, globale e finale al conflitto”. Mohammed, ha ricordato anche che “ha rapporti speciali con la comunità ebraica di discendenza marocchina, comprese centinaia di migliaia di ebrei marocchini in Israele”. Intanto la sera di mercoledì il Senato Usa aveva bocciato due risoluzioni, presentate da due senatori dem e un repubblicano, per fermare la vendita di 50 caccia F-35 Lightning II, droni Reaper e altri armamenti agli Emirati Arabi Uniti. Così di fatto gli Stati Uniti potranno fornire ad Abu Dhabi i cacci di quinta generazione prodotti da Lockheed Martin permettendo agli Emirati di diventare il primo paese arabo e il secondo della regione, oltre a Israele, a ottenere i velivoli. La possibilità dell’acquisto probabilmente era uno dei punti dell’accordo per la normalizzazione delle relazioni firmato il 15 settembre a Washington tra Emirati e Israele. Acquisto a cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Benny Gantz avevano dichiarato di non opporsi.

Re ed erede divisi sulla pace. Israele e la Dynasty del golfo

Nel Paese degli 11 mila principi e principesse, l’unico Stato-famiglia con un seggio all’Onu, si sta consumando una lotta di potere per influenzare i prossimi orientamenti della corona, specie in politica estera. In Arabia Saudita non c’è solo il dopo-Trump da digerire, ma ci sono anche le promesse del principe ereditario Mohammed bin Salman alla Casa Bianca e soprattutto a Israele per una normalizzazione delle relazioni, come già fatto da Emirati Arabi Uniti e Bahrein. La “Dynasty del Golfo” si arricchisce di nuove trame.

Tre settimane dopo il sorprendente incontro del premier israeliano Benjamin Netanyahu con Mbs, Turki al-Faisal, un importante principe molto influente a Palazzo, ha attaccato frontalmente Israele definendolo una potenza “colonizzatrice”, accusandolo di incarcerare i palestinesi “nei campi di concentramento con accuse insignificanti”. Il principe al Turki ha scelto la platea del Manama Security Dialogue in Bahrein, per dare voce al sentimento dentro il Palazzo reale, e le sue parole vanno considerate con attenzione. È stato capo dell’intelligence del regno per 20 anni, ambasciatore sia a Londra che a Washington incontrando anche, in via non ufficiale, molti israeliani nel corso degli anni. I suoi commenti a Manama sono in netto contrasto con le dichiarazioni fatte da un’altra eminenza grigia del Palazzo, il principe Bandar bin Sultan, che invece ha attaccato con durezza la leadership palestinese per la sua “riprovevole” opposizione alla normalizzazione Israele-Golfo.

A Palazzo al-Yamama, alla corte dell’anziano re Salman, lo scontro è aperto. I principi Turki e Bandar esprimono due scuole di pensiero contrastanti. Turki appartiene alla scuola del re Salman, aderendo alla visione tradizionale saudita, come espressa nell’Iniziativa di pace araba avviata da Ryad nel 2002. In questa prospettiva, il riconoscimento saudita di Israele si basa sulla contemporanea creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967, Gerusalemme Est come sua capitale, e su una soluzione concordata del problema dei rifugiati palestinesi. Custode dei luoghi sacri dell’Islam, La Mecca e Medina – che prima del Covid attiravano circa due milioni di pellegrini musulmani ogni anno – il re Salman non ha alcun interesse per una mossa diplomatica che potrebbe indebolire lo status di leadership dell’Arabia Saudita, alienandosi un numero considerevole di musulmani in tutto il mondo anche con serie ripercussioni economiche.

Al contrario del sovrano, il principe ereditario Mohammad bin Salman, è invece più spregiudicato, disposto a muoversi più rapidamente sulla questione della normalizzazione e sembra poco legato ai criteri del padre. L’incontro “segreto” con Netanyahu nel deserto doveva servire a stringere l’intesa, ma non è andata come speravano i due protagonisti. Non è ancora chiaro quale prezzo Mbs stia chiedendo per il riconoscimento di Israele, sicuramente vuole spazzare via la macchia dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi – spiato da Ryad con una tecnologia israeliana e ucciso nel consolato saudita di Istanbul – e poi Washington ha messo sul piatto anche un accordo “stellare” sull’acquisto di armi. Il fatto di essere stato designato dal padre “principe ereditario” non mette Mbs al sicuro. Lui teme il Palazzo, i suoi intrighi, le sue cospirazioni. Mbs ha alimentato il risentimento in alcuni importanti rami della famiglia rafforzando la sua presa sul potere. L’hanno scorso ha fatto arrestare suo zio, il principe Ahmed, ultimo fratello di re Salman e discendente diretto del fondatore del regno Abdulaziz. In manette anche suo figlio, l’ex principe ereditario Mohammed bin Nayef, l’uomo che decapitò al Qaeda nel Regno dopo l’11 settembre, ex capo degli 007, ex ministro dell’Interno, uomo di collegamento con Washington. Mbs lo costrinse alle dimissioni in diretta tv. Per tagliare quel ramo della famiglia in un campo di detenzione nel deserto è finito anche il minore dei principi bin Nayef, Nawaf. Per l’accusa stava tramando un colpo di palazzo “con l’aiuto di altre potenze”. Il conflitto dentro il Palazzo sulla questione palestinese significa che il treno di normalizzazione non si fermerà a Ryad, per ora. I sauditi vogliono vedere la posizione del presidente eletto Joe Biden sull’accordo nucleare con l’Iran prima di andare avanti. Ma il processo non può essere rimessa in bottiglia. Quando sarà tempo, il treno si fermerà anche a Ryad. Ma Israele dovrà pagare un prezzo, in valuta palestinese.