“Oggi è una giornata molto triste. Paolino era una persona perbene, un uomo intelligente e a modo. Per me è stato più di un amico, è stato come un fratello più piccolo”. Sono queste le prime parole con cui Dino Zoff commenta la notizia della morte a soli 64 anni di Paolo Rossi, che sulla sua malattia (un tumore ai polmoni) aveva sempre mantenuto il più discreto riserbo. I due si conoscono dal 1973, ai tempi della Juventus: Zoff – friulano, 29enne – è già il portierone titolare della Signora e della Nazionale (nell’Europeo del ’68), Rossi, invece, è un giovane diciassettenne di Prato, e la Juve lo aveva comprato per 14,5 milioni di lire. Insieme, molte vittorie sul campo, ma soprattutto l’indimenticabile Mondiale del 1982 in Spagna, conquistato nella storica finale contro la Germania Ovest. Pablito – così era soprannominato da tutti – ne uscirà anche laureato da capocannoniere, e lo stesso anno si aggiudicherà il Pallone d’oro.
Che ricordo serberà di Paolo Rossi?
Moltissimi, e tutti belli. Faccio fatica a isolare un solo aneddoto di tutti questi anni di amicizia, perché stare con lui era un aneddoto continuo. Era molto ironico e simpatico, gli piaceva scherzare e prendere in giro se stesso e gli altri. Posso dire che stare con lui era davvero molto piacevole. Ci sentivamo spesso al telefono perché io sono poco tecnologico, quindi nella famosa chat dei campioni non ci sono.
Come calciatore?
Era un attaccante straordinario perché era soprattutto una persona equilibrata. Sapeva cogliere il momento giusto in cui fare le cose, sfruttando al massimo le sue qualità.
E di quell’estate del 1982?
Nello spogliatoio c’era un’aria straordinaria, come squadra ci volevamo bene ed eravamo molto legati, al di là delle critiche della stampa e dell’aria pesante che si era generata per i giudizi negativi sulle prestazioni poco belle del primo turno. Il gruppo, però, restava sereno: avevamo una fiducia totale nell’allenatore (Enzo Bearzot) e nella sua visione delle cose. Tuttavia, eravamo bersagliati.
Rossi soprattutto.
Rossi in modo particolare, sì. Sentiva molta responsabilità e pressione su di sé. Buona parte della stampa lo criticò, dicendo che veniva da poca attività e per questo i risultati campo non si vedevano.
Poi, il 5 luglio allo stadio Sarriá di Barcellona, arrivò la tripletta col Brasile.
Sì, Bearzot ci spronò, riteneva che noi due fossimo tra i giocatori che dovevano dare lo sprint per il cambio di direzione. In quella partita, all’89esimo io parai sulla linea di porta un colpo di testa a Oscar (José Oscar Bernardi) e Paolino, con la sua tripletta, dimostrò sul campo il campione che era e la fiducia ben riposta dell’allenatore. Fino alla finale contro la Germania, in cui il primo gol fu proprio il suo.