Paradossi di Simpson. L’italia e la Cina

Il rapporto di causa ed effetto è, senza dubbio, il mezzo più convincente che abbiamo a disposizione per capire il mondo. Un modo di ragionare che sorge fin dalla più tenera età, quando “perché” diventa la nostra domanda preferita. Non vogliamo sapere cosa dobbiamo fare, vogliamo sapere perché succede. E per capire bene una causa, quasi sempre è necessario ricorrere al ragionamento astratto e chiedersi cosa accadrebbe se, o cosa sarebbe accaduto se non. La causalità, secondo il filosofo scozzese David Hume, era proprio questo: chiamiamo un evento “causa” e un altro, successivo, “effetto”, quando possiamo dire che, se avessimo potuto rimuovere la causa, l’effetto non avrebbe avuto luogo. Usando questo ragionamento controfattuale – cosa sarebbe accaduto se non – è possibile interrogare direttamente i dati per capire se ci sono relazioni di causa ed effetto. (…)

Il ragionamento controfattuale è molto potente: ma, di solito, lo possiamo applicare solo a partire da dati non solo inoppugnabili, ma anche confrontabili. Paragonare direttamente la mortalità dell’Italia a quella della Cina, per esempio, non ha molto senso: l’età media cinese è 38,5 anni, mentre quella italiana è intorno ai 46. Sono più di sette anni di differenza che possono contare parecchio. Da qualche anno, però, è possibile fare ragionamenti di causa-effetto anche su dati riguardanti situazioni diverse, grazie a una potentissima tecnica statistica nota come do-calculus, o calcolo obbligato. Usando questa tecnica, alcuni ricercatori dell’Università di Tübingen hanno spiegato un apparente paradosso riguardante la mortalità comparata Italia-Cina. Se guardiamo i dati totali, i morti per Covid sono maggiori in Italia che non in Cina: la mortalità italiana è di circa il 4%, quella cinese del 2%. Ma se guardiamo la mortalità in modo disaggregato, cioè per fasce d’età, la mortalità in Cina è maggiore di quella italiana per qualsiasi fascia d’età. Il fenomeno è noto agli statistici come paradosso di Simpson: un dato sembra avere un certo trend se guardiamo i casi totali, ma un trend inverso se suddividiamo i campioni in categorie. “L’idea è nata quando abbiamo notato il paradosso di Simpson nei tassi di letalità del Covid-19 rilevati in Italia e Cina” spiega Luigi Gresele, uno dei ricercatori che ha studiato il tema. (…) “A nostro avviso, è attraverso la causalità che il paradosso può essere compreso al meglio. La causalità aiuta a definire come si debbano interrogare i dati in base alle caratteristiche del processo che li ha generati”. Il paradosso di Simpson nasce dalla disomogeneità delle popolazioni: in Cina ci sono molti giovani e pochi ottantenni, mentre in Italia le proporzioni sono quasi invertite. Ma, una volta risolto il paradosso, non è chiaro quale dato bisogna guardare. Quello totale o quello per fasce d’età? La chiave sta proprio nel capire il processo che ha generato quei dati: in questo caso, l’essere in Cina o in Italia agisce come causa comune, che influenza sia la demografia (attraverso il controllo delle nascite) che la mortalità (attraverso il sistema sanitario nazionale e le condizioni di vita). L’età a sua volta influenza la mortalità: più facile soccombere a una malattia se hai 80 anni e non 20. In pratica, in questo tipo di processo (in cui una causa comune – lo Stato – influenza due variabili, Età e Mortalità, e l’Età a sua volta causa una diversa Mortalità), il dato corretto è quello disaggregato. Se il processo fosse differente, le cose andrebbero diversamente: se, per esempio, avessimo le variabili Età, Medicina, Mortalità, la decisione di quali farmaci somministrare è spesso causata dall’età di una persona (il contrario non è vero: nessun farmaco ti fa ringiovanire, o trasforma un ventenne in ottantenne). Il diagramma causale, la direzione delle frecce per intendersi, sarebbe diverso, e in questo caso il dato corretto da guardare sarebbe quello aggregato.

“Il paradosso – continua Gresele – fornisce un caso limite che motiva l’utilizzo di metodi di inferenza causale”. In pratica, il punto importante è che guardare la mortalità senza cercare di capirne il meccanismo non si limita a peggiorare quantitativamente il giudizio: ne inverte radicalmente il significato. Otteniamo la risposta contraria. Per questo è importante comprendere il processo che genera i dati: non è un aiuto, è essenziale. Non farlo sarebbe come sviluppare un’auto da corsa per farla andare sempre più veloce e poi non guardare qual è il senso della pista: puoi andare velocissimo, ma se vai al contrario…

Le diverse risposte ottenute da dati aggregati o disaggregati però sollevano una questione: qual è la giusta dimensione territoriale? Ha senso spingersi nel dividere una nazione in Regioni, e le Regioni in Province e Comuni? “Sarebbe interessante comparare diverse Regioni all’interno dello stesso Paese, e paragonarne la letalità in modo più accurato” conferma Gresele. (…) E questo ci fa cadere in un secondo problema, essenziale: la qualità dei dati.

“Quelli che abbiamo raccolto sono pubblici” riporta Gresele. “Per la maggior parte sono rilasciati dai governi o dagli istituti di sanità. La difficoltà deriva dal fatto che Paesi diversi abbiano modi diversi di aggregare o riportare i dati, il che rende faticoso accumularli e più difficile paragonarli”. Secondo Dino Pedreschi, uno dei responsabili dell’analisi dei dati nella task force governativa, il problema è emerso anche in Italia, per la mancanza di un valido sistema di raccolta dati. “Nella stragrande maggioranza dei casi, le persone che devono provvedere sono le stesse che devono gestire l’emergenza: medici e infermieri” spiega. “Non si può ragionevolmente pensare che uno il cui lavoro è prestare assistenza a dieci malati gravi quando ha le strutture e il tempo per gestirne cinque trovi anche modo di inserire i dati: il malato ha ovviamente la precedenza”. Il secondo problema riguarda la disponibilità di dati con un campionamento adeguato. Il team di Pedreschi si è concentrato, principalmente, sui dati di mobilità: quanto e come si spostavano le persone, in base a sistemi di tracciamento anonimi forniti dai gestori di telefonia mobile. (…) E qui emerge la prima incongruenza: perché i numeri dei positivi, invece, erano disponibili solo a livello provinciale, mentre quelli dei tamponi fatti venivano forniti a un livello ancora superiore, quello regionale. Quindi: dati di mobilità comunali, dati di positività provinciali, numero di tamponi regionali.

Che cosa comporta questa mancanza di condivisione? Innanzitutto, che con questo genere di dati i provvedimenti si possono prendere solo a livello regionale, mentre invece avendo a disposizione dati comunali e provinciali si potrebbero attuare misure restrittive in maniera più circoscritta e limitata. (…)

“Se si vuole una stretta, la scelta sia politica e non di un algoritmo” ha detto recentemente il governatore di una Regione italiana, dimostrando di non sapere bene che cosa sia un algoritmo. Un algoritmo è una ricetta. Vale a dire, è una procedura che viene programmata da esseri umani, al fine di trattare dati numerici ingestibili per gli umani stessi. La politica tanto cara ai governatori è già nell’algoritmo, nel modo in cui l’algoritmo è stato programmato.

Per questo motivo, affinché le scelte siano in linea di principio condivisibili da tutti, è necessario rendere trasparenti non solo i dati, ma anche l’algoritmo che li analizza. E rendere trasparente un algoritmo spesso significa spiegare come funziona. Altrimenti non si danno direzioni, ma ordini: una scelta che è giustificabile solo in rarissimi casi, e che porta sempre, sempre, delle conseguenze.

 

Achille Campanile, l’umorista cosmico

In un’intervista intercettabile su YouTube, Roberto Gervaso chiede ad Achille Campanile se sia d’accordo con il giudizio del critico Carlo Bo: “Campanile è un classico del Novecento”. L’anziano patriarca dalla fluente barba bianca, irriconoscibile rispetto al gentleman in papillon, monocolo e bastone da passeggio di un tempo, si schermisce: “Ma sa, non vorrei dare torto a Carlo Bo…”.

Anche noi non ce la sentiamo di dare torto a Bo (né a Umberto Eco, a Oreste del Buono, eccetera); anzi, aggiungiamo che Achille Campanile è il più sottovalutato tra i classici per via di quell’etichetta di “umorista” affibbiatagli fin dallo straordinario antiromanzo del debutto, Ma che cos’è questo amore? In un Paese dove le patrie lettere pullulano di doloristi, trombonisti, tremendisti, è facile rubricare un genio come umorista. “Umorista sarà lei!” avrebbe risposto il diretto interessato; e a fugare ogni dubbio è arrivato in libreria L’Umorismo cosmico di Rocco della Corte (Atlantide), una raccolta di saggi che sono altrettante istruzioni per l’uso e la rivalutazione di questo “Scrittore con la ‘esse’ maiuscola”.

Della Corte indaga in tutte le direzioni: la raffinatezza linguistica – l’umorismo antifrastico di Campanile non si recita, si legge, perché è splendidamente scritto –, i rapporti con Totò, l’antinomia gemellare con Leopardi, le proprietà psicoterapeutiche (“Disturbo?” “Gastrico.”), il gusto per la vita agreste che lo porterà nel buen retiro al confine tra Lariano e Velletri, circondato dalla moglie Pinuccia, dal figlio Gaetano, dalle nipoti; e incorniciato dalla fluente barba bianca da Tolstoj dei Castelli Romani. Classico e anticlassico, frequentatore della comicità cosmica dell’esistenza fino in fondo, quando la sera del 3 gennaio 1977 chiese una doppia porzione del suo piatto preferito, le seppie coi piselli, e fu la sua ultima cena. Ma quando Gervaso gli chiese cosa avrebbe voluto scrivere sulla sua tomba, fu profetico: “Torno subito!”.

“Stampubblica” e Lapo Elkann: quanto tempo è passato dal 2005

È La Stampa, bellezza. E la maiuscola è d’obbligo, senza volerne alla nota citazione. Il riferimento è infatti al gruppo Stampubblica (Stampa, Repubblica, Secolo XIX e tutto il resto), in mano alla famiglia Angelli/Elkann. Due giorni fa il Fatto ha scritto di una nuova indagine su Lapo Elkann, pizzicato con circa 4 grammi di cocaina. Notizia ripresa da diversi giornali, senza però che Stampa e Repubblica le dedicassero una riga. Una delicatezza nei confronti del rampollo? Forse. Ma sarebbe una novità. Nel 2005, quando Lapo fu ricoverato per overdose dopo la notte con la transessuale Patrizia, Repubblica e Stampa diedero ampio spazio alla vicenda in prima pagina. Direttore del quotidiano torinese era Giulio Anselmi, che di recente ha ricordato come John Elkann non glielo avesse mai perdonato. Oggi, coi due giornali sotto lo stesso tetto, su Lapo è calato il silenzio. Non del tutto, a dire il vero: ieri Huffington Post, altra testata di famiglia, ha pubblicato un articolo sul giovane Elkann: non sull’indagine, ma sulle minacce ricevute da Lapo per aver chiesto lo scioglimento di gruppi fascisti. Sempre meglio andare su qualcosa di edificante.

Il duo Salvini-Meloni e la strana visione dell’elettore di destra

Ma dove sta scritto che un cittadino che vota a destra debba per forza essere anti-tecnologico, insensibile nei confronti della collettività nazionale e a favore dell’evasione fiscale? È questa la domanda che prima o poi, se mi concederanno un’intervista, vorrei fare a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni. La vorrei fare non solo perché penso il contrario, ma anche perché proprio non capisco. Quando mesi fa fu rilasciata la app Immuni, un aggeggio che se fatto davvero funzionare da governo e regioni ci avrebbe permesso di rallentare i contagi, i due si schierano contro. “Io non la scarico” dissero all’unisono, sostenendo che violasse la privacy. Non era vero, come ampiamente dimostrato dal Garante per la protezione dei dati personali. Ma loro insistevano. Contribuendo all’insuccesso dell’iniziativa. Perché se da una parte il governo non ha spinto Immuni come avrebbe dovuto fare, con martellanti campagne stampa e tv, dall’altra le regioni – in prevalenza governate dal centrodestra – si sono attrezzate poco per utilizzarla o non lo hanno per nulla fatto, come è accaduto in Veneto. Il risultato, disastroso, è sotto gli occhi di tutti. Tanto che oggi nemmeno si ipotizza di poter usare Immuni per contenere la sempre più probabile terza ondata della pandemia. Perché l’ha scaricata troppo poca gente. Eppure io avevo capito che per i sovranisti la patria venisse prima di tutto. E pensavo che la patria non fosse solo la nostra terra. Pensavo invece che la patria fossimo pure noi cittadini e che quindi preservare la nostra salute, a partire da quella dei nostri anziani, fosse un principio caro a chi dice: “Prima gli italiani”. Certo, è possibile che io abbia capito male. Ma può essere pure che abbiano capito male loro, Matteo e Giorgia. Sì, perché quando vedo che lo stesso no riservato a Immuni è scattato pure per la lotteria degli scontrini e per il cashback sui pagamenti bancomat, qualcosa davvero non mi torna.

La lotteria degli scontrini fu proposta nell’ottobre del 2011 dal leghista Massimo Bitonci che considerava il sistema ideale per spingere i commercianti a registrare le proprie transazioni senza dover ricorrere alla Guardia di Finanza. Oggi invece Salvini sui social trasforma in eroina una parrucchiera che promette sconti del 20 per cento a chi userà i contanti e continua a evocare il grande fratello: “Non solo chiusi in casa, vogliono controllare quello che compriamo. Alla lotteria non mi registro”, twitta. Mentre Giorgia Meloni protesta perché “il governo amico delle banche e delle multinazionali promette ‘ricchi premi e cotillon’ a quei bravi cittadini che consentiranno allo Stato di conoscere le loro abitudini e che pagheranno con moneta elettronica per ingrassare le casse delle banche”.

Ora, che le commissioni sulle transazioni vadano ulteriormente ridotte è giusto. Ma che il sistema utilizzato permetta al governo di tracciare gli acquisti è falso. Mentre è vero che più scontrini verranno richiesti ed emessi e meno sarà l’evasione fiscale. In ogni caso, noi italiani (di destra, di centro e di sinistra) abbiamo compreso che il cashback e la lotteria convengono. Lo dimostrano i numeri impressionanti di quanti hanno scaricato l’app Io necessaria per partecipare. Perché, a parte Matteo e Giorgia, quando si parla di soldi, gente indignata per la privacy in giro non se ne vede. Fatti Chiari avanza quindi una proposta: signori del governo collegate a un gioco a premi (in denaro) pure Immuni. Alla faccia di Matteo e Giorgia anche gli elettori sovranisti ve ne saranno grati.

 

A parigi è entrato in campo il razzismo degli antirazzisti

Non c’è solo il fascismo degli antifascisti, ma anche il razzismo degli antirazzisti. È ormai noto ciò che è successo l’altroieri a Parigi durante la partita fra il borioso Paris Saint-Germain (conosciuto più che altro per aver acquistato dal Barcellona per 250 milioni di euro Neymar, uno pseudocampione che al Barça non serviva e poco di più ha fatto al Paris) e la squadra turca Basaksehir. Lo riassumiamo qui, in sintesi, per chi eventualmente non lo conoscesse. Si era attorno al quarto d’ora del primo tempo, un calciatore francese, Kimpembe, commette un fallo, dalla panchina turca si protesta chiedendo un’ammonizione, si agita in particolare Achille Webo, il vice dell’allenatore. Il “quarto uomo”, rumeno come tutta la quaterna arbitrale, che ha fra gli altri compiti quello di tenere a bada le panchine surriscaldate, si rivolge all’arbitro, il suo compatriota Hategan, per segnalargli il comportamento scorretto della panchina turca. L’arbitro chiede in rumeno chi sia il principale responsabile. “È quel negru”, risponde il quarto uomo. Apriti cielo. Un panchinaro turco grida “Why say negro!”, “Why say negro!”, “Why say negro!”, il poveraccio cerca di spiegare che negru in rumeno non ha alcun connotato spregiativo. Inoltre la panchina del Basaksehir è occupata da una maggioranza di giocatori bianchi e quindi l’espressione del quarto uomo va valutata come se fra un gruppo di tricofanti avesse indicato l’unico calvo. Niente da fare. Ne nasce un parapiglia, i calciatori turchi seguiti da quelli del Paris lasciano lo stadio per protesta. Il caso diventa politico e internazionale, interviene anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che condanna “l’episodio di razzismo”. Fa a dir poco sorridere, o per meglio dire pena, che questi candidi gigli dei giocatori turchi, che in patria accettano che il loro premier sbatta in galera decine di migliaia di oppositori (senza badare al loro colore, in questo il noto tagliagole è equanime) si scandalizzino per un insulto che non c’è mai stato.

Le due squadre si sono ritirate dal terreno di gioco senza il consenso dell’arbitro. Un fatto inaudito nella storia del calcio mondiale a livello professionistico. Uno scherzetto del genere costò al grande Milan del pur potentissimo Berlusconi un anno di squalifica da tutte le competizioni Uefa. Altro che rifare la partita.

Il rapporto calcio/razzismo è di lunga data. Il buon Bruno Pizzul, l’ultimo nostro grande telecronista che sapeva dare pathos alle partite senza scomporsi a ogni gol o parata, fu massacrato perché durante una partita a proposito di un’ala di colore disse: “Gioca bene quel negretto”. In realtà era un’espressione affettuosa in cui non c’era nulla di spregiativo.

Va bene, adesso tutti abbiamo imparato che si dice “persona di colore”. Però di fatto, nel libero Occidente, ormai non si può più dire nulla. Viene in mente uno sketch di Sordi dove l’Albertone nazionale sbeffeggiando il Duce gli fa dire: “Tutto si può dire e nulla si può fare”. Va capovolto: tutto si può fare, anche violare l’intero Codice penale, ma nulla si può più dire.

Per tornare al calcio, questo gioco ha assunto dimensioni così enfiate, economiche e tecnologiche, che qualsiasi cosa, anche la più innocente, può essere strumentalizzata ideologicamente (se un giocatore dopo un tremendo pestone dà in una sacrosanta bestemmia, la tecno ne riprende il labiale). Qualche giorno fa una calciatrice spagnola si rifiutò di aderire al minuto di silenzio in onore di Maradona. In linea teorica un gesto giusto, coraggioso, perché Maradona, fuori dal campo, non era da portare ad esempio. Ma, secondo me, l’ideologia dovrebbe restare fuori dai terreni di gioco. Sul campo si gioca e basta, altrimenti si perde il senso stesso del gioco. Il calcio a differenza del rugby, della pallavolo, dell’hockey, s’è gonfiato come la rana di Esopo e, come l’intera nostra società, farà la stessa fine.

 

Comitati d’affari e lobby sono contro il premier

Classificando i capi di governo che nel 2021 saranno più influenti, il giornale Politico mette Giuseppe Conte in cima ai politici più “attivi” (“The Doers”), accanto alla figura dominante che resta Angela Merkel. Fa una certa impressione se ripercorriamo con la mente gli ultimi dibattiti in parlamento, e le parole di disprezzo pronunciate non tanto da Salvini o Meloni quanto da rappresentanti della maggioranza come Matteo Renzi, che hanno giurato a sé stessi di affossare il premier a ogni costo: proprio nel mezzo della seconda ondata Covid, alla vigilia della terza ondata che ci aspetta, con più di 60.000 morti alle spalle. Un piccolo uomo, Renzi, che coltiva l’unica arte in cui eccelle: l’egolatria e l’invidia.

La classifica fa impressione, ma non stupisce: durante la fase più buia del confinamento, Conte è diventato molto popolare fra gli italiani. Adesso che siamo in piena seconda ondata la sua popolarità scende, ma quella delle sue politiche di contenimento e restrizioni (la sua figura di Doer) non scende affatto.

Simile consenso manda in bestia chi congiura contro di lui, nella maggioranza. Indispone non solo Renzi, ma buona parte del Pd e quasi tutti i giornali mainstream. Questo e non altro è stupefacente nella classifica di Politico: che Renzi, e chi dietro la sua persona si nasconde, siano così sconnessi dalla realtà, e lontani da quello che gli italiani percepiscono mentre traversano l’agonia del Covid.

C’era un tempo in cui erano molti in Europa a guardare Conte dall’alto, quasi fosse un quadrupede scimmiesco sceso or ora dall’albero. Il 12 febbraio 2019 a Strasburgo ero nei banchi del Parlamento europeo quando uno dei suoi più arroganti deputati, il liberale Guy Verhofstadt, inveì contro il presidente del Consiglio presente in aula come invitato. Lo prese a male parole: “Per quanto tempo ancora sarà il burattino mosso da Di Maio e Salvini?”. L’aggressione fu un evento inusitato, ma non meno inusitata fu la replica, lapidaria, del presidente del Consiglio: “Non sono un burattino. Forse i burattini sono coloro che rispondono a lobby e comitati d’affari”. Ricordo che provai vergogna: non come italiana, ma perché avevo conosciuto bene, e sistematicamente evitato, le lobby e i comitati d’affari cui Conte alludeva.

Quando sento Renzi, quando provo a immaginare che gli fa da sponda nella maggioranza e fuori, mi dico che è come se la classe politica italiana continuasse a essere quella descritta da Verhofstadt, mentre nel frattempo non solo l’Europa s’è ravveduta ma anche il popolo italiano. A cambiare i giudizi su Conte è stata una serie di sue iniziative: il suo agire durante il Covid, a partire dal primo lockdown; il suo affidarsi al Comitato tecnico scientifico; lo spazio riaperto alla programmazione, dopo quarant’anni di trionfo dei mercati. Le varie task force cui sarà affidata l’implementazione del Recovery Plan sono parte di questa svolta, che sta avvenendo in buona parte d’Europa (anche la Francia ha resuscitato il vecchio Commissariato al Piano e ha un Mister Covid che si chiama Alain Fischer. Anche Angela Merkel si appoggia sull’Istituto Robert Koch (RKI) e su virologi di prestigio come Christian Drosten). Ovunque parlamentari e presidenti di regioni sono chiamati a fare passi indietro, in maniera più o meno negoziata e faticosa. Non meno faticosa in Germania: mentre il Parlamento italiano s’infiammava, mercoledì, la Merkel pronunciava nel Bundestag una supplica disperata, perché nel suo Paese i contagi e i morti aumentano e una gran parte di Länder recalcitrano.

La tenacia di Conte durante il primo lockdown divenne così un modello, in Europa. Nei suoi podcast settimanali, il virologo Drosten citava ripetutamente i metodi italiani e in particolare lo studio su Vo’ Euganeo, la cittadina dove si era verificato il primo decesso per coronavirus in Italia (Crisanti era il coordinatore della ricerca) e dove era stata scoperta l’importanza dei contagiati asintomatici. Ancora di recente, quando la Francia annunciò il secondo confinamento, i governanti francesi accennarono all’assunzione di nuovi medici in Italia.

Il Recovery Plan è spesso descritto come iniziativa franco-tedesca e di sicuro lo è. Ma essa non avrebbe avuto luogo se Conte – con Madrid e Lisbona – non avesse spinto per ottenere il salto di qualità che l’Unione non aveva saputo fare dopo la crisi del 2008: l’indebitamento in comune, per fronteggiare la più grande sciagura abbattutasi nella storia del continente.

Non è detto che Conte supererà le faide della sua maggioranza. Ma una cosa è certa: esistono poteri che faranno di tutto per abbatterlo, e azzerare il cambio di rotta impresso alla politica e all’economia del paese. Sono forze indifferenti alla sciagura pandemica, che non ascoltano i moniti di Crisanti o Massimo Galli, che vogliono restituire prerogative alla politica classica: quella che si è resa responsabile della nostra gigantesca impreparazione sanitaria, che per anni ha mostrato di non saper spendere i soldi Ue permettendo che ne lucrasse la malavita. Quando penso a quel che accadde nel 2019 a Strasburgo, mi dico che le accuse di Verhofstadt dovrebbero oggi essere rivolte a chi vuol abbattere Conte. Mi chiedo a cosa mirino i disfattisti: di quali lobby, di quali comitati d’affari siano oggi i burattini. Sento risuonare un immenso “chi se ne frega” a proposito della pandemia, più che mai acuto da quando sono in arrivo i vaccini.

 

Addio a mio padre. È morto di Covid e lasciarlo da solo è stata un’atrocità

Vorrei solo raccontare la mia storia, per sentirmi meno sola. Mio papà, morto di Covid, domenica 29 novembre. Andato in ospedale (Giovanni Bosco) il 18 ottobre, e rimandato a casa con una polmonite da Covid. Mio padre cardiopatico con pregresse patologie. Riportato in ospedale il giorno 20 ottobre, dopo aver sollecitato più volte l’ambulanza. Il giorno stesso ha un infarto, terapia intensiva, intubato e sedato per 20 giorni. Cambia reparto, ne esce distrutto neurologicamente e fisicamente. Contrae parecchie infezioni batteriche ospedaliere che bisognava abbattere con antibiotici potenti, ma il suo cuore era già debole. Mi hanno fatto fare qualche videochiamata, mi telefonavano una volta al giorno. Il 29 novembre con una freddezza disumana, mi hanno solo detto “ci dispiace suo padre è mancato, condoglianze”. Mai visto, me lo hanno fatto vedere in una bara già chiusa da lontano, neanche una carezza alla bara. Verrà cremato. Non può avere neanche un saluto da tutti i suoi cari, i suoi amici. Tutte le persone che lo ricordano, ne parlano come una persona attiva, sempre in giro, al circolo e soprattutto un nonno eccellente. Ho 4 figli, la più grande ha 7 anni e il più piccolo, che si chiama come lui, 17 mesi. Lui andava a prenderli tutti a scuola e li portava al parco, in bici, a comprare gelati, regali a non finire, non gli faceva mancare niente, loro erano la sua gioia e i bambini ricambiavano con un sorriso. Io sono figlia unica e devo vivere questo dolore da sola, ma quel che mi pesa è non poter dare un nonno ai miei figli, volevo farglielo vivere ancora un po’. Ma non c’è più, è diventato un angelo, lo era già prima. Ho paura di affrontare il funerale per dirgli addio per sempre, piango nei miei momenti, non riesco a guardare una sua foto, perché sto male. Non si può morire così. Vorrei poter tornare indietro di due mesi, per poter prevenire tutto, per cercare di cambiare alcune cose. Questo è quel che succede oggi, i nonni che sono degli angeli in terra, in poco tempo, volano in cielo, senza poterli salutare. Mio padre mi ha insegnato ad amare le cose e ad averne cura, ho 33 anni e grazie a lui ho capito cosa era giusto e cosa no. Adesso dovrò pensare anche a mia madre. Prima ero solo una mamma casalinga, ora mi sono occupata di tutto l’iter burocratico, funerale, ritiro oggetti, fare avanti e indietro da casa mia a casa di mia madre: sono distrutta mentalmente, fisicamente, economicamente. Triste per il futuro. Il mio dolore, solo chi lo ha vissuto lo può comprendere. E mio padre, come tanti, non meritava questo e non così.

 

Mail Box

 

Per me, il cashback è una misura mistificatoria

Caro Travaglio, che senso ha il cashback di 150 euro a chi fa acquisti con mezzi elettronici? È di una grande stupidaggine e mistificazione. Si regalano soldi a chi dispone di un bancomat o di una carta di credito, quindi di un conto corrente in attivo, e che può permettersi un certo numero di pagamenti elettronici al mese per 1.500 euro, ed evidentemente non è alla canna del gas. Ciò nella speranza (vana) che aumentino i consumi; mentre i veri poveracci, quelli che un bancomat se lo sognano, sono esclusi da questo giochetto. La trovo una cosa disgustosamente stupida. E ideata da menti povere.

Enrico Costantini

 

Caro Costantini, a me invece pare un’ottima idea per convincere gli italiani che non evadere e pagare con carta conviene a tutti.

M. Trav.

 

Stare al governo implica responsabilità e coesione

Mi chiedo quando noi italiani riusciremo a ragionare con coscienza e responsabilità senza pensare agli interessi personali. Ora che i 5s sono al governo e potrebbero “fare”, si mettono di traverso e si fanno i dispetti con il Pd, dimostrando quella stupidità infantile che trovi solo all’asilo. Mi chiedo come, in questi momenti così tragici, non capiscano che l’unico modo per dare una svolta credibile alla nazione sia quella di essere coesi e responsabili. Anche se questo potrebbe scalfire la natura dei propri ideali.

Gianni Dal Corso

 

Ciao “Pablito”, simbolo dell’Italia nel mondo

In quegli anni 80, ero spesso in giro per il mondo e tutte le volte che pronunciavo Italia, la risposta era “Paolo Rossi”! Riposa in pace.

Gian Carlo Frigerio

 

L’atteggiamento dell’Ue è veramente nauseante

In Romania ha votato il 31% degli elettori e le elezioni sono legittime. In Venezuela stessa percentuale, ma questa inficia il valore del risultato. L’opposizione golpista di estrema destra si rifiuta di partecipare al voto, ma la colpa è del governo, che ha anche la colpa di avere indetto le elezioni nella data prevista dalla Costituzione venezuelana e non quando voleva l’Unione europea. Intanto Patrick Zaki resta in carcere senza processo e l’Unione europea intrattiene cordiali rapporti col criminale Al Sisi. Ho un vago senso di nausea.

Venanzio Antonio Galdieri

 

Gentile Direttore, in merito al suo commento titolato “Sottovuoto spinto”, senza entrare nel merito delle argomentazioni poste, mi preme sottolineare come il riferimento alla mia persona non solo sia improprio, cosa non infrequente quando Le capita di citarmi, ma rappresenti la dimostrazione contraria della tesi da Lei sostenuta.

Nello specifico, in occasione delle fasi preparatorie del Giubileo straordinario della Misericordia del 2015, non fu costituita alcuna struttura di missione e non furono assegnati poteri eccezionali ma, per quanto mi riguarda, fu affidato al Prefetto di Roma “il compito di realizzare il necessario raccordo operativo tra le varie Istituzioni interessate”. Al riguardo non fui destinatario di alcun budget aggiuntivo ed esercitai i miei poteri nell’ambito della missione propria di ogni Prefetto della Repubblica. Nella speranza di averLe fornito un opportuno contributo informativo, la saluto cordialmente.

Franco Gabrielli

 

Quella da me sostenuta, e cioè che Gabrielli fu nominato da Renzi commissario al Giubileo nel 2015 senza che nessuno ne sentisse il bisogno, non è una tesi, ma un fatto confermato dallo stesso Gabrielli. Resto in attesa di conoscere quali altri “riferimenti impropri” avrei fatto alla Sua Persona e quali sanzioni siano previste per il delitto di lesa maestà di chi nomina il Suo Nome invano.

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Ho avuto modo di leggere sul Fatto Quotidiano del 9 dicembre l’articolo, a firma Giacomo Salvini, pubblicato a pag. 4 con il titolo “C’è la finanziaria: è tempo di marchette. Ecco la lista”, nel quale vengo citata come prima firmataria di un emendamento alla legge di Bilancio che stanzia “4 milioni per gli Europei di Nuoto 2022 di Roma”.

Faccio presente che questo emendamento è finalizzato a finanziare l’abbattimento delle barriere architettoniche ancora presenti negli impianti sportivi che ospiteranno una manifestazione a cui prenderanno parte anche atleti paralimpici. Mi sono sempre impegnata, e la mia storia personale lo dimostra, per agevolare l’inclusione e per l’abbattimento delle barriere non solo architettoniche, ma anche culturali. Mi dica Lei se l’emendamento su esposto sia da considerarsi una “marchetta”.

Giusy Versace Deputata di Forza Italia

 

Ringrazio l’onorevole Versace per la gentile precisazione, ma non ho mai messo in dubbio le nobili intenzioni del suo emendamento (come anche di altri, ma non tutti). Purtroppo però questi emendamenti “localistici, ordinamentali e micro-settoriali” non potrebbero essere inseriti nella legge di Bilancio, per sua natura tabellare. Il termine “marchetta” era una sintesi per semplificare questo concetto.

Gia. Sal.

Matrimoni omosessuali, il papa, relazioni tossiche e le dimensioni (intime)

E per la serie “Tutte le nostre piante di plastica sono a km zero”, la posta della settimana.

Caro Daniele, insomma, il papa ha detto o no che è favorevole ai matrimoni omosessuali? (Stefano Scarpa, Venezia)

No, non l’ha detto, ma quello che è successo spiega molto bene come vengono annunciati i numeri spettacolari in questo Paese di imbonitori, trapezisti, domatori, leoni ed elefanti ammaestrati, ballerine in equilibrio su cavalli bianchi, giocolieri, clown e pubblico infantile. Un anno fa, rilasciando un’intervista a una tv messicana, il papa rispose a due domande distinte. La prima risposta riguardava la necessità che, in una famiglia, i figli omosessuali non siano discriminati. La seconda che gli omosessuali hanno diritto di avere delle coperture legali. Due ovvietà che un documentario recente, però, ha tolto dal contesto per divulgarle come una risposta unica, creando un falso da cui sembra che il papa sia a favore dei matrimoni omosessuali: “Le persone omosessuali hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo. Ciò che dobbiamo creare è una legge sulle unioni civili. In questo modo sono coperti legalmente. Mi sono battuto per questo”. La manipolazione, diramata come vera dalle agenzie (Ansa, 22 ottobre: “Il Papa apre alle unioni civili per le coppie gay”) e ripresa dai giornali senza alcuna verifica, ha funzionato così bene che ci ha creduto pure Renato Zero: “Non si può non essere d’accordo con l’apertura del Papa alle unioni delle coppie gay” (Ansa, 30 ottobre). Nell’intervista, però, il papa diceva: “È un’incongruenza parlare di matrimonio omosessuale”. E spiegava pure il metodo con cui era già stato equivocato altre volte: “Quando notate qualcosa che è fuori dal comune, non prendete quella parolina per annullare il contesto”. Conclusione: se lo fanno col papa, si salvi chi può. Del resto, nei Vangeli, Gesù predicò come se al mondo ci fossero solamente i buoni e i cattivi, dimenticando le teste di cazzo. Sappiamo com’è finita: ha dovuto farsi ammazzare, per finire in un film. Dice: “Non essere blasfemo. Cristo è morto in croce per i nostri peccati!” Uuh, ma così ci fa sentire troppo in colpa! Non poteva solo lussarsi un’anca, per i nostri peccati? Non poteva travestirsi da ballerina in equilibrio su un cavallo bianco, per i nostri peccati? Non poteva infilare la testa nelle fauci spalancate di un leone, per i nostri peccati? Non poteva fare il clown, per i nostri peccati? Un clown omosessuale, magari: perché no? È per i nostri peccati!

Il mio ragazzo ce l’ha troppo grosso. Non riesce a entrarmi dentro. Immagina la nostra frustrazione! Cosa ci consigli? (Valeria Randazzo, Palermo)

Una mia ex usava il calzascarpe.

 

Perché è così difficile troncare una relazione tossica? (Andrea Festuccia, Rieti)

Perché la natura ha previsto che un legame amoroso crei una dipendenza fisico-psichica analoga a quella delle droghe pesanti, che infatti agiscono attivando i recettori cerebrali del piacere sessuale. Fino a pochi anni fa, inoltre, era difficile troncare una relazione tossica poiché non potevi dire la verità (“Ti lascio perché sei una stronza”); ma adesso, grazie a Gabbani, hai la formula perfetta, se una ti chiede perché vuoi lasciarla: “Perché sei tu che mi fai stare male / quando io sto bene e viceveeeersaaaaa”. Funziona che è una meraviglia. Restano attonite.

Cercate anche voi una guida spirituale? Scrivetemi (lettere@ilfattoquotidiano.it)

 

Vaccini: molti soldi, poche certezze

Stiamo assistendo a un gioco di parole che offusca le notizie. Si succedono comunicati della Commissione europea e dei vari ministeri della Salute, sulle cifre versate alle aziende che stanno producendo il vaccino. Una volta si parla di finanziamento alla ricerca, altre volte di un contratto di fornitura, altre ancora di un non meglio precisato “sostegno”. Quali siano i termini degli accordi con le case farmaceutiche, non è dato sapere. Dagli Usa, invece, questi dati sono stati comunicati e qualcosa trapela dalla Germania. Come pubblicato in un dettagliato articolo sul Fatto Quotidiano il 18 novembre, Pfizer ha beneficiato di quasi 2 miliardi di dollari provenienti dall’operazione “Warp Speed” del governo Usa per la produzione di 100 milioni di dosi. Il partner BionTech ha invece ricevuto 445 milioni di dollari dal ministero tedesco della Ricerca. A questi 2,4 miliardi, ottenuti da Pfizer/BionTech, si aggiunge il prestito da 118 milioni di dollari dalla Banca europea degli investimenti a BionTech. La Commissione europea, invece, annuncia il contratto con Pfizer/BionTech per 300 milioni di dosi, menziona un sostegno, ma non specifica l’importo. Un capitolo a parte sono gli accordi “economici” che stanno siglando i vari Paesi. In occasione della 73ª Assemblea Oms, il 18 maggio si è richiesto che per terapie e vaccini anti-Covid non si concedano brevetti. In realtà questo avrebbe dovuto essere già assicurato da Covax, iniziativa lanciata dall’Oms ad aprile con l’obiettivo di riunire governi, organizzazioni sanitarie globali, produttori, scienziati, settore privato, società civile e filantropia, per fornire un accesso innovativo ed equo alla diagnostica, ai trattamenti e ai vaccini Covid-19. I brevetti, malgrado tutto, esistono ed escludono, di fatto, le popolazioni meno fortunate. E nel caso di effetti collaterali, grazie a una manleva europea, i risarcimenti saranno pagati dai governi, le aziende ne saranno “manlevate”.

Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano