Discriminati i ragazzi over 12? Per il Garante è colpa dei genitori

Chi deve spedire una lettera, in genere, va alla Posta. Se si rompe una gamba va in ospedale. E se ritiene che suo figlio stia subendo gravi discriminazioni, cosa fa? In Italia esiste un’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, che ha come funzione proprio quella di “tutelare e promuovere i diritti delle persone di minore età”. Sembra insomma il posto giusto per chi – ad esempio – ha minori non vaccinati (non chi scrive, precisazione noiosa ma in questi tempi necessaria). I quali, a causa del green pass più punitivo d’Europa rispetto proprio ai ragazzini, non possono, dai 12 anni, andare in biblioteca, dal parrucchiere, al cinema, in pizzeria, al bar, in libreria, nei musei e teatri, in nessun negozio che non sia alimentari, in gelateria. Non possono fare sport, prendere mezzi pubblici, fare corsi, andare dai servizi sociali e se in classe ci sono positivi restano a casa anche se sani e negativi, a differenza dei vaccinati. Non dovrebbe essere difficile capire perché l’Autorità Garante attuale, la magistrata Carla Garlatti, abbia ricevuto lettere da genitori che domandavano che chiedesse conto al governo di queste discriminazioni. E invece cosa accade? La Garante, in un comunicato, risponde dicendo che “l’esclusione è l’inevitabile effetto di una scelta operata dagli stessi genitori” e che non è suo compito esprimersi “su scelte di carattere sanitario attinenti alla salute pubblica”, fatte dal Cts. Tradotto in soldoni: “Non mi immischio in politica”. Ma se domani certi esperti e quella politica decidessero (è un paradosso) che possono uscire di casa solo i bambini coi capelli rossi?

Insomma: sicuri che prima dei genitori che non vaccinano i propri figli (non essendo neanche obbligatorio) non ci siano i diritti violati? E se pure si volessero proteggere i minori da quei genitori, che non cambieranno idea, non sarebbe meglio cambiare norme francamente persecutorie, che rischiano di aumentare dispersione e depressione, proprio i temi di cui l’Autorità si occupa poi in astratti convegni?

Scuole “sentinella”, un altro flop

Il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, può “vantare” un altro fallimento: il Piano scuole sentinella per il monitoraggio della circolazione del Covid-19, nelle scuole primarie e medie è praticamente scomparso. Nell’ultima sessione, quella che fotografa la situazione dall’8 al 16 gennaio, hanno partecipato solo otto Regioni su 21 facendo così naufragare il progetto per il quale è necessario un campione quindicinale di 54.663 di studenti testati.

Un insuccesso condiviso con il ministero della Salute e con l’Istituto Superiore di Sanità con i quali Bianchi aveva annunciato, lo scorso mese di settembre, la campagna di testing gratuiti agli alunni ogni 15 giorni. Una magra consolazione per il numero uno di Viale Trastevere che non può far altro che prendere atto dell’agonia di questo Piano mai partito con il piede giusto fin dall’inizio.

Le Regioni che hanno registrato i dati sulla piattaforma dedicata sono state solo dieci alla prima sessione; diciassette nella seconda; venti nella terza; ventuno nella quarta; venti nella quinta; diciannove nella sesta: quattordici nella settima e infine solo otto nell’ultima. Non solo. Liguria, Marche, Veneto ed Emilia-Romagna hanno comunicato la sospensione del monitoraggio “per la difficoltà a svolgere questa attività”.

Un’emorragia iniziata da tempo senza che vi sia stato alcun intervento del ministro Bianchi o di quello della Salute Roberto Speranza: il Molise e la Campania non partecipano più da novembre; Lazio e Puglia hanno dato forfait alle ultime tre sessioni.

A mandare in tilt l’iniziativa del governo è stato anche il fatto che negli ultimi monitoraggi, in alcune regioni sono stati fatti molti meno test rispetto a quelli che servono: da 39.192 si è passati a 26.142, meno della metà del campione che dev’essere raccolto. A gennaio si è arrivati, persino, a soli 4.311 alunni: un numero che incide in maniera pesante sulla mancata riuscita del Piano che non è più in grado di fornire una fotografia utile.

Numeri che non lasciano spazio ad alcuna speranza per il progetto scuole sentinella che avrebbe dovuto essere essenziale nella ripartenza delle lezioni: “Il Piano – spiegavano i promotori – consentirà di supportare le altre attività di monitoraggio della circolazione del virus sul territorio nazionale contribuendo, insieme alle misure già previste, a ridurre la circolazione virale e l’impatto negativo della pandemia nelle scuole campionate”.

Il calendario della campagna di testing prevede altre cinque sessioni fino al dieci aprile ma visto il defilarsi di molte Regioni, non ha più alcun senso la raccolta di dati eseguendo i test su un numero di studenti che non rispetta i requisiti stabiliti dall’Istituto superiore di sanità.

M5S contro il Green pass Conte stoppa la “fronda”

L’asse per abolire il green pass dal 31 marzo inizia a riscuotere consensi trasversali nella maggioranza. E tornano echi di maggioranza gialloverde del primo governo Conte, tornata in auge durante le votazioni per il Quirinale. Perché non c’è solo la Lega a cavalcare la battaglia per smantellare il pass “il prima possibile”, come ha detto Matteo Salvini. Da ieri anche parte del M5S spinge per l’abolizione con la fine dello stato di emergenza. Ma anche qui i 5Stelle si spaccano. Una fronda di deputati e senatori che ha firmato un ordine del giorno da presentare al decreto Covid in discussione alla Camera, è stata bloccata dal leader Giuseppe Conte: “Non possiamo smantellare e dismettere le misure di precauzione sin qui adottate”, li ha redarguiti l’ex premier durante l’assemblea congiunta dei parlamentari riuniti via Zoom. Conte predica cautela anche per il rischio di una nuova ondata nei prossimi mesi, ma si dice disponibile a valutare un possibile ritorno al green pass base se le condizioni sanitarie lo consentiranno. E si allinea alla posizione del governo: sia Mario Draghi sia Roberto Speranza non sembrano intenzionati a prorogare lo stato d’emergenza dopo il 31 marzo, ma nemmeno a smantellare il green pass. Tra un mese, è la posizione di Palazzo Chigi, si valuteranno i dati ma il pass al massimo sarà rimodulato. E comunque resterà in vigore almeno fino al 15 giugno, data in cui scadrà l’obbligo vaccinale per gli over 50.

Resta, però, la spaccatura nel M5S andata in scena ieri. Una lunga discussione iniziata proprio con gli interventi dei parlamentari a cui Conte ha replicato punto per punto. A chiedere la fine del certificato sono stati eletti di ogni “corrente” del M5S, da Mauro Coltorti a Federica Dieni, passando per Gabriele Lorenzoni, Antonella Papiro, Davide Zanichelli, Marco Bella e Alberto Zolezzi. Una fronda che ha alzato i toni contro il governo Draghi e la gestione della pandemia. Basti sentire Dieni, vicepresidente del Copasir, che apre il dibattito dicendosi contraria all’obbligo del green pass per lavoro e mezzi pubblici: “Siamo in uno Stato di diritto dove non si può discriminare, abbiamo creato una tensione sociale infinita – ha detto – Questa non è una battaglia che si può lasciare alla Lega”. “L’emergenza principale oggi è la situazione di molte famiglie che hanno persone a casa a stipendio zero”, le fa eco l’ex ministro Toninelli. “Il pass sul lavoro è una misura odiosa”, sostiene Gabriele Lorenzoni, mentre Alberto Zolezzi se la prende con il governo Draghi: “Non ha agito con adeguatezza e proporzionalità”. E così via, in un profluvio di sfoghi contro il pass e contro il premier.

Ma nel mirino, anche il sottosegretario alla Salute del M5S, Pierpaolo Sileri. “Il M5S deve avere una linea chiara – attacca Patrizia Terzoni – gli elettori dicono che siamo diventati gli zerbini del Pd e di Speranza. Perché Sileri va in tv a difendere la linea Speranza? Ci vada Speranza”. Pietro Lorefice insiste: “Disconosco molte dichiarazioni di Sileri”. A quel punto è lo stesso Sileri a doversi difendere: “Io vado in tv a difendere la linea del governo, prima di giocare e parlare coi numeri attenzione. Non siamo migliori dell’Oms”. A quel punto, i due capigruppo Crippa e Castellone attaccano i dissidenti e invitano alla calma (“La Lega cavalca l’insofferenza, ma noi non siamo sciacalli”), quindi è Conte a intervenire: difende Sileri (“non invidio la sua posizione”) e il green pass, perché le misure di contenimento “non sono à la carte”. Però poi si fa garante della richiesta di possibili allentamenti delle misure “per difendere il turismo”. Il primo banco di prova sarà il voto, probabilmente oggi, degli emendamenti leghisti in commissione per abolire il pass, accantonati per non spaccare la maggioranza.

Cingolani agli attivisti: “Clima, decide Draghi”

Il ministrodella Transizione ecologica Roberto Cingolani ha detto a una delegazione di attivisti di Extinction rebellion che “decide Draghi”. Lo riferiscono gli stessi attivisti di ‘Ultima generazione – assemblee cittadine ORA’ dopo l’incontro di ieri tra una loro delegazione e il ministro. “È per questo che – fanno sapere i giovani in presidio al Mite – “lo sciopero della fame, ormai in corso da 9 giorni, va avanti”. Le ragioni alla base rimangono invariate: “un incontro pubblico, richiesto sin dall’avvio della campagna lo scorso dicembre, in cui il governo presenti i provvedimenti urgenti e necessari che stanno attuando (o non attuando) per fronteggiare la crisi eco-climatica”.

ManifestA, nuova componente della sinistra alternativa

Sono contro le politiche neoliberiste del governo Draghi. Contro l’alternanza scuola-lavoro e i respingimenti dei migranti “nei lager libici”. E pensano che le voci del malessere sociale e delle istanze dei più deboli debbano essere portate all’interno del Palazzo. Così a Montecitorio 4 deputate ex M5S (sono state espulse perché contrarie all’ingresso nell’attuale maggioranza) hanno dato vita a ManifestA, nuova componente del gruppo misto, presentata ieri, che si definisce di sinistra, ambientalista, pacifista e antirazzista. “È la prima di sole donne”, hanno detto Simona Suriano, Yana Ehm, Doriana Sarli e Silvia Benedetti. A prestare il simbolo Rifondazione comunista e Potere al popolo, di cui la componente sarà l’emanazione. “Saremo un’aggregazione di movimenti, partiti e sindacati che si riconoscono in una sinistra alternativa non più presente in Parlamento. Ci sono istanze e proteste, come studenti e precari, che qui non hanno alcuna voce”, ha spiegato Simona Suriano. In Senato, per Potere al popolo, c’è Matteo Mantero.

Il TgMario come il Cinegiornale Luce: ossequi a chi ha promosso la direttora

Buon compleanno, Governo dei Migliori. È il 12 febbraio, Tg1 delle ore 20: la tv di Stato spegne le candeline all’esecutivo con qualche ora di anticipo. “Domani il governo guidato da Mario Draghi compie un anno”, annuncia il conduttore, “ripercorriamo questi 12 mesi, dalla lotta alla pandemia al rilancio del Paese”.

Segue un servizio di 75 secondi che somiglia a una parodia della propaganda di un regime: “Fare le riforme e affrontare le emergenze, a partire dalla pandemia e le sue conseguenze economiche”, esordisce il cronista. Poi la narrazione si fa incalzante. “È il 13 febbraio 2021, si insedia il governo di Mario Draghi”. C’è un breve, ma intenso interludio con la viva voce del premier appena incaricato: “Questo è lo spirito repubblicano”.

Non c’è spazio per le difficoltà, persino fisiologiche, nella gestione delle ondate di Covid o nella riapertura delle scuole, non c’è nemmeno una parola sulla battuta d’arresto personale per Draghi, che aveva puntato al Quirinale ma è stato respinto in Parlamento. C’è invece il racconto di una cavalcata epica: “L’Italia da fanalino di coda diventa modello per altri paesi grazie anche al green pass”, “un efficace piano di ripresa, il governo spinge su produzione e occupazione, realizza le riforme”, “Ursula certifica il via libera al piano italiano, nei prossimi 5 anni il nostro Paese dovrà investire fondi per 235 miliardi, la somma più alta dell’Unione”. Risultati sbalorditivi anche sul fronte internazionale: “Per l’Italia un riconosciuto successo la presidenza del G20, occasione per rilanciare il multilateralismo, la diffusione mondiale dei vaccini, l’aiuto all’Afghanistan, la lotta al cambiamento climatico. L’Italia torna leader in Europa, firma un trattato di cooperazione rinforzata con la Francia, rinsalda il legame transatlantico, avvia un piano d’intesa con la Germania”. Infine, una dolcissima chiusa: “Il Pnrr è una sfida da vincere per Draghi, teorico del debito buono”. Per chi era curioso di quale sarebbe stato il rapporto tra il primo tg della Rai e il governo che ne ha deciso il cambio di direzione – Monica Maggioni si è insediata a fine novembre 2021 –, il servizio di buon compleanno mandato in onda sabato scorso è illuminante. Il Tg1, filogovernativo per storia e natura, sotto i tecnici non ha affatto cambiato pelo. Maggioni aveva promesso un telegiornale “senza pastone”, cioè senza l’occupazione col bilancino dei partiti (e le dichiarazioni rilasciate di fronte a un giornalista ridotto a reggi-microfono). Invece l’equilibrio spartitorio degli spazi del Tg1 è sempre lo stesso: apre e domina il governo, seguono i partiti dell’immensa maggioranza e chiude in genere Giorgia Meloni, che da sola all’opposizione si prende uno spazio molto grande, in proporzione. Il racconto dei migliori è felpato, quando non espressamente celebrativo. Anche nei giorni della crisi russa, il lavoro della diplomazia italiana – difficilmente palpabile – viene accarezzato con parole morbidissime: “Il fermo sostegno all’integrità territoriale dell’Ucraina”, “l’intensa azione diplomatica espressa anche dal ministro degli Esteri”. Se c’è qualcuno, oltre a Draghi, ad aver beneficiato del cambio di direzione è proprio il super esposto Luigi Di Maio, unico 5stelle che può beneficiare di un’attenzione ancora vigile.

Questo il metodo generale, con alcune punte altissime come il citato servizio di compleanno oppure il Tg1 di ieri, ore 13 e 30, che ha dedicato l’apertura e i primi cinque minuti e mezzo all’incontro di Draghi con i ricercatori dei laboratori del Gran Sasso. Una visita di cortesia che somiglia molto a uno spot: “La ricerca deve essere al centro della crescita e va difesa da pulsioni antiscientifiche – dice Draghi e ripete il tg –. Con il Pnrr investiamo oltre 30 miliardi”. La cronaca è ancora una volta empatica, si apre con il premier sorridente, che si concede una rarità, una battuta quasi poetica: “È una visita nello straordinario”. Poi la promessa di interventi a pioggia, ripetuta come un fedele bollettino: “Nei prossimi anni 6,9 miliardi per la ricerca di base e applicata. Raddoppiato il numero delle borse di dottorato, guardando ai giovani e soprattutto alle donne”.

3 voti di fiducia al mese: Draghi governa con una sola Camera

È ormai diventata un’abitudine: il Consiglio dei ministri approva un provvedimento e un minuto dopo i partiti della maggioranza iniziano a smontarlo. È successo con la Giustizia, sta succedendo con il decreto sulle concessioni balneari di martedì sera. Su quest’ultimo provvedimento a Palazzo Chigi stanno già riflettendo sulla possibilità di mettere la fiducia. È il metodo scelto dal premier dopo l’elezione del capo dello Stato: arrivare a un punto di mediazione, approvare e poi lasciare che i partiti facciano quello che vogliono. Pronto a fermarli con la fiducia.

Con il governo che arranca, il Parlamento è sempre più svuotato. L’esecutivo le fiducie non se l’è fatte mancare: sono 17 alla Camera e 15 al Senato. La fiducia è stata posta su 22 provvedimenti, dei quali 19 sono leggi di conversione di decreti-legge e 3 sono disegni di legge governativi. In particolare, su 10 di queste leggi di conversione la fiducia è stata posta in entrambi i rami del Parlamento. In più altre sono già annunciate, come quella sull’ultimo decreto Covid e sul Milleproroghe.

Ieri è uscito il rapporto del Comitato per la Legislazione relativo ai primi 10 mesi del 2021 (quando era presidente Stefano Ceccanti) che ha evidenziato una serie di anomalie nel funzionamento del Parlamento. Tendenze già in atto prima del governo Draghi, ma con richieste di correzione non sempre accolte. E che vanno da un “monocameralismo di fatto” ai cosiddetti “decreti matrioska” per arrivare all’uso delle decretazione d’urgenza. Tra le proposte, l’inserimento del voto a data certa per i disegni di legge del governo (in modo che si evitino i decreti e per arginare in particolare la decretazione d’urgenza). E poi alcuni poteri al Parlamento in seduta comune (per esempio sul bilancio e sui decreti) per evitare che una Camera sia scavalcata: l’anomalia principale è infatti il cosiddetto “monocameralismo di fatto”, che è divenuta nell’emergenza una regola assoluta. Un provvedimento viene di fatto esaminato e modificato solo in uno dei due rami del Parlamento. Prassi ormai data quasi per scontata nella conversione dei decreti legge, anche con la trasmissione dei testi in seconda lettura a pochissimi giorni dalla scadenza dei 60 giorni. Peraltro, nella legislatura in corso il “monocameralismo alternato” si è esteso anche alla sessione di bilancio.

E poi c’è il problema dei decreti “minotauro” o “matrioska”, che durante l’esame finiscono per assorbirne altri in corso di conversione. Dall’inizio della legislatura al 15 gennaio 2022 il fenomeno ha interessato 33 decreti legge. La richiesta al governo di motivare adeguatamente il ricorso a essi è stata spesso elusa. Il Pnrr, infine: il Comitato sta spingendo l’esecutivo a non procedere per decreti, come all’inizio, ma con lo strumento della delega legislativa. Se e come la tendenza in atto verrà invertita è tutto da vedere.

La fine vita e l’aiuto al suicidio: adesso tocca al Parlamento

Eutanasia, suicidio assistito, omicidio del consenziente, testamento biologico. Le zone grigie tra una parola e l’altra fanno la differenza, soprattutto adesso che la Corte Costituzionale ha bocciato il referendum in materia e la Camera riprende la discussione sulla fine vita, votando gli emendamenti a partire da oggi. Col rischio che finisca come sul ddl Zan, ultima legge sui diritti impallinata dall’aula. Una circostanza che terrorizza il Pd, forse il più esposto in questa battaglia e dunque convintosi ad accettare qualche compromesso in più pur di non finire la legislatura a mani vuote.

Suicidio assistito. La legge di cui si discute alla Camera (già oggi il centrosinistra deve schivare un emendamento soppressivo) riguarda l’aiuto al suicidio. L’attuale progetto di legge è figlio della sentenza della Corte Costituzionale sul caso dj Fabo, il ragazzo accompagnato a morire in Svizzera da Marco Cappato. Quattro anni fa la Consulta, nel riconoscere che non è sempre punibile chi aiuta a suicidarsi una persona fragile, aveva chiesto al Parlamento di legiferare sul tema. Ecco allora il testo in discussione oggi, una mediazione non certo definitiva il cui obiettivo è eliminare il carcere per chi aiuta un malato ad auto-somministrarsi una sostanza letale. I partiti dovranno trovare un’intesa soprattutto su chi potrà favorire il suicidio (probabilmente soltanto un medico) e sulle condizioni che permetteranno di accedere al suicidio assistito (per ora è prevista una commissione che esamina le richieste, con la possibilità dell’obiezione di coscienza per i medici).

Testamento biologico. Qualcosa però nel nostro ordinamento già esiste. Si tratta del Testamento biologico, una possibilità consentita dal 2018 per chiunque voglia dare disposizioni sulle cure a cui (non) sottoporsi in caso di futura incapacità a decidere o comunicare. Chiunque può compilare il proprio testamento biologico, che però rimane un passo indietro rispetto al suicidio assistito e all’eutanasia: chi dispone il rifiuto ai trattamenti sanitari non consente a nessuno di provocargli la morte attraverso, per esempio, sostanze letali. Si può però chiedere di non essere più curati, lasciandosi morire.

Eutanasia. Il concetto di eutanasia fa riferimento a quando un medico somministra una sostanza letale al paziente (su richiesta sua o di un familiare, se non è cosciente). In Italia l’eutanasia è reato e non è su questo che è intervenuta la Corte: né nel 2019, quando si è occupata di suicidio assistito, né due giorni fa, quando ha bocciato il quesito sull’omicidio del consenziente.

Omicidio del consenziente. Il referendum si proponeva di abolire (pur con eccezioni) il reato di chi uccide qualcun altro “con il consenso di lui”. Un quesito troppo tranchant secondo la Consulta, perché abrogare il reato avrebbe creato un vuoto normativo: come si manifesta il “consenso”? In quali casi? In che modo avviene l’omicidio? Domande per cui serve una legge, più che un referendum.

Senza eutanasia né cannabis, Salvini spera nell’Election Day

Poco dopo le 18, quando il presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, annuncia in conferenza stampa la bocciatura dei quesiti su cannabis legale e responsabilità diretta dei magistrati, nelle chat leghiste cala il gelo. Interrotto solo dai primi messaggi di panico di chi, anche per non piegarsi allo zelo del capo che canta alla “vittoria”, è terrorizzato: “Guardate che così al quorum non ci arriviamo…”. E ancora: “Non riusciremo mai a portare metà degli italiani a votare sull’elezione dei componenti del Csm”. Anche Matteo Salvini è preoccupato. L’eutanasia, la cannabis e la responsabilità dei pm (forse l’unico quesito con un po’ di seguito tra gli italiani dopo gli scandali che hanno colpito la magistratura) sarebbero stati un traino fondamentale per gli altri quesiti sulla giustizia. E così il quorum diventa quasi un miraggio. La soluzione? Nei prossimi giorni la Lega chiederà in Consiglio dei ministri che i 5 referendum vengano accorpati con le Amministrative di primavera – 25 capoluoghi di provincia – in un election day per portare più gente possibile alle urne. Non è detto che questo accada visto che al Viminale siede Luciana Lamorgese che non ha grandi rapporti con Salvini (eufemismo) e che gli altri partiti di maggioranza che si oppongono ai referendum – Pd e M5S su tutti – vogliano concedere questo favore a Salvini. Il leader della Lega, in questo caso, sarebbe già pronto a urlare allo “spreco di denaro pubblico” nel caso di mancato accorpamento e ha già cerchiato la data del 22 e 23 maggio per l’election day.

Anche perché l’obiettivo di Salvini per recuperare consensi dopo il crollo nei sondaggi è quello di tornare il prima possibile in campagna elettorale. È pronto a un tour che inizierà a marzo in cui presenterà il suo processo a Palermo per sequestro di persona come il modello della “malagiustizia italiana”. Così, prima di cena, si presenta con Roberto Calderoli (che ha scritto materialmente i quesiti) davanti alla Consulta e prova a rialzare il morale dei leghisti. Salvini parla di “grande vittoria dell’Italia e della democrazia perché 5 quesiti su 6 sono in mano ai cittadini”, inizia con la propaganda sui quesiti (“la separazione delle carriere è una misura di civiltà”) e azzarda: “A 30 anni da Mani Pulite, possiamo fare una rivoluzione pacifica”. Il leghista vuole anche riprendersi coi referendum la leadership del centrodestra, appannata, apannata: “Festeggiamo quello che la destra non è riuscita a fare in 30 anni”, dice. Ma l’altro ostacolo del leader del Carroccio ora si chiama Fratelli d’Italia perché dovrà fare campagna proprio su quei quesiti che il partito di Giorgia Meloni non ha sottoscritto, cioè l’abolizione della legge Severino e la limitazione della custodia cautelare, su cui ci sono molti dubbi anche nella base leghista. E quindi FdI maramaldeggia sulle difficoltà del leader del Carroccio. Nel pomeriggio Meloni spiega che non sosterrà i due quesiti che non aveva firmato e in serata da FdI arriva la batosta: i meloniani non proveranno a far saltare il quorum disimpegnandosi, ma faranno proprio campagna per il “no” sulla Severino e la custodia cautelare. I due maggiori partiti del centrodestra, dunque, potrebbero trovarsi a fare campagna contro in primavera e, forse, ad andare insieme nelle città. Pericolo che Salvini fiuta e quindi provoca Meloni: “Mi aspetto i no dei 5stelle, dell’ultra sinistra ma su questo sicuramente un centrodestra nuovo, moderno, coerente, efficiente, liberale e garantista che mette in galera i colpevoli ma non persegue gli innocenti, può nascere”, conclude il leader della Lega.

Se Italia Viva sosterrà il quesito sul Csm ma lascerà libertà di coscienza sugli altri (ma Matteo Renzi li ha sottoscritti), il M5S consulterà i propri iscritti, ma alla fine si opporrà: “Sono quesiti inidonei a migliorare la giustizia – ha detto ieri Giuseppe Conte – ma l’orientamento è negativo. Su cannabis ed eutanasia invece sia il Parlamento a legiferare”. Silente il Pd che al suo interno ha diversi esponenti tentati dal “sì”. Ma la posizione del Nazareno l’ha data la capogruppo al Senato Simona Malpezzi: “Le riforme si fanno in Parlamento”.

Amato fa lo show: aneddoti, auto-spot e siluri a Cappato

“Mi pare che nessuno abbia cercato peli nell’uovo”. Si chiude così il cerchio costituzionale di Giuliano Amato, presidente della Consulta ma prima di tutto showman, al passo coi tempi al punto da cinguettare su Twitter gli orientamenti della Corte tre giorni prima della Camera di consiglio e da annunciare in diretta l’esito delle ultime due verifiche di ammissibilità.

Amato si presenta in conferenza stampa alle 18 e la cosa è già di per sé irrituale. Glielo fanno pure notare, ma lui gigioneggia: “Spiegare quello che facciamo lo considero un dovere della Corte. Quando non lo ha esercitato, mi è capitato di rimproverare amichevolmente i giudici per questo: ‘Meglio se parlassi un po’ di più!’”. È uno dei tanti ricorsi all’aneddotica di Amato che, tra un quesito e l’altro, trova pure il modo di raccontare di quando il professore di diritto internazionale pretendeva “che tutti indossassero la cravatta in aula”, pena il cartellino rosso dalla lezione.

Sciabola e fioretto. C’è bisogno di alternare il sorriso all’elmetto, soprattutto quando serve difendere le proprie decisioni più impopolari. Come quella sull’omicidio del consenziente, troppo spesso fatto passare per “eutanasia” da chi contesta la bocciatura imposta dalla Consulta: “Dire che questa Corte fosse maldisposta significa dire una cattiveria che Cappato si poteva risparmiare. Sarebbe stato meglio si interrogasse su ciò che stava facendo”. Tradotto: avete scritto coi piedi questo quesito e pure quello sulla cannabis, visto che “le tabelle” citate “includono droghe pesanti”. E pazienza se i Radicali, convinti che sulla storia delle tabelle abbiano ragione loro, rispondono a tono: “La scelta della Corte è tecnicamente ignorante e esposta con tipico linguaggio da convegno proibizionista”. Per non dire “da bigotti”, come suggerirebbe un sibillino riferimento di Amato alla formazione “religiosa” della Corte: “Sono 15 cristiani, non è detto che la pensino tutti allo stesso modo”. Frase pericolosa, se ad esser cassati sono due quesiti etici. Guai però a dubitare di una mancanza di sensibilità da parte del presidente: “Leggere che chi ha preso questa decisione non sa cosa sia la sofferenza mi ha ferito”.

E non si pensi neppure che la Corte abbia fatto pesare i “gli obblighi internazionali” solo per stroncare il quesito sulla cannabis, chiudendo un occhio nel caso dell’abrogazione delle Legge Severino, perché qui Amato interrompe l’allusivo cronista: “Attenzione, se lei prova a dire che abbiamo usato due pesi e due misure…”. Sui social però, dove si commenta in diretta la conferenza, l’accusa è proprio quella: tra omicidio del consenziente e cannabis fanno 3 milioni e mezzo di firme vanificate nel giro di qualche ora.

Amato è un due volte presidente del Consiglio, un quirinabile da almeno vent’anni, una riserva della Repubblica candidato perpetuo a qualsiasi ruolo. Sa stare al mondo, insomma, e soprattutto non ha perso il piacere di interloquire coi partiti, neanche adesso che occupa un incarico istituzionale di terzietà. Lo fa capire coi continui riferimenti al Parlamento: “Non dedica abbastanza tempo a cercare di trovare la soluzione a temi che possono alimentare dissensi corrosivi per la coesione sociale”. Quasi una insospettabile pulsione anti-casta. “Non dico che non lavora, il Parlamento lavora. Ma ha grossa difficoltà a mettersi d’accordo su questi temi”. Con un po’ di malizia, è già una candidatura per il dopo-Draghi.