La Bce in 2 anni farà più acquisti di quanti Draghi ne ha fatti in 8

Alla fine le decisioni prese dalla Bce sono andate nel segno di quello che si aspettava il mercato e che avevamo anticipato ieri. Nessuna novità. Il piano di acquisti di titoli (soprattutto di debito degli Stati) per l’emergenza pandemica viene esteso fino a marzo 2022 e aumentato di 500 miliardi, arrivando in totale di 1.850 miliardi. Viene inoltre esteso il periodo di tempo nel quale la Banca centrale rinnoverà i titoli in scadenza: tutti i titoli che scadranno fino alla fine del 2023 saranno reinvestiti in acquisti di pari ammontare. L’ultima novità, anch’essa attesa, ha riguardato il programma di prestiti mirati a lungo termine alle banche (Tltro), che viene esteso anche nel 2021, con tre nuove operazioni da effettuare tra giugno e dicembre. Anche il periodo nel quale verrà applicato su questi prestiti il tasso del -1% (che rappresenta un forte sussidio alla redditività delle banche dell’eurozona) viene esteso di un anno e terminerà a giugno 2022.

La conferenza stampa è andata via liscia senza grossi sussulti, Christine Lagarde ha ricordato che la Bce continuerà a monitorare le condizioni di finanziamento di tutti gli agenti economici, sia privati che pubblici, in modo che questo periodo di crisi pandemica possa esser superato senza tensioni sui tassi. Sui rischi di un euro troppo forte (il tasso di cambio cambio è tornato ai massimi da due anni) Lagarde ha ricordato che la Bce non ha come obiettivo il controllo del tasso di cambio e che interverrà solo se la cosa avrà effetti sul livello dei prezzi. Parole che hanno fatto apprezzare il cambio dell’euro fino a 1,22 sul dollaro. Insomma, chi si aspettava importanti novità è rimasto deluso. Anche i rendimenti dei titoli periferici che prima delle 14 avevano raggiunto i minimi storici, sono poi risaliti, riportandosi ai livelli di mercoledì. Considerando che all’Italia va circa il 17% degli acquisti, l’impatto complessivo del piano pandemico arriva a 315 miliardi (118 già eseguiti e 197 da eseguire). A questo si aggiungono gli acquisti del Quantitave easing tradizionale, che per l’Italia conta circa altri 40 miliardi l’anno. Nel 2021, dopo solo 2 anni di mandato Lagarde, l’eurosistema avrà acquistato più titoli di quanto fatto negli otto anni del precedente mandato Draghi.

I fondi in Europa. Tutti avranno la cabina di regia

Guardando a quello che fanno gli altri Paesi, la prima cosa che colpisce è l’assenza di un dibattito così furibondo sulla struttura di governance che dovrà decidere gli stanziamenti del Recovery Fund. Eppure i miliardi da distribuire sono tanti per tutti. Se guardiamo solo alla parte “Grants” cioè le sovvenzioni a fondo perduto, su 312,5 miliardi complessivi l’Italia con i suoi 65,4 fa la parte del leone, ma sono rilevanti anche i contributi alla Spagna, 59,16, quelli alla Francia, 37,1, alla stessa Germania che riceverà 22,7 miliardi quasi quanto la Polonia, che ne dovrebbe avere 23 e più della Grecia che si ferma a 16,2 miliardi. Gli altri sono tutti a seguire.

Il primo casoda notare è che la Germania non ha al momento un piano, ma sarà presentato mercoledì prossimo. E siccome a Berlino sono piuttosto abbottonati e non fanno trapelare indiscrezioni, non siamo in grado di sapere come spenderanno i loro fondi e soprattutto come li gestiranno. Quello che appare chiaro è che, a differenza di quanto sostenuto da Matteo Renzi in Senato, visto che i fondi complessivi non arrivano a 23 miliardi (la Germania avrà pochi prestiti), appare davvero complicato investire “35 miliardi nel turismo”.

Chi invece ha già presentato il suo piano è la Francia, tanto decantata dai vari liberisti nostrani. Parigi, però, ai 40 miliardi di fondi europei garantiti dal Next Generation Eu ha potuto aggiungerne altri 60 per arrivare così a un piano di 100 miliardi con cui permettersi misure come la riduzione delle imposte oltre a quelle di chiara impronta ecologica. Sul piano della gestione, però, la Francia è quella che più di tutti è andata sull’usato sicuro, rispolverando addirittura il Commissariat au plan, una struttura commissariale nata nel 1946 con l’obiettivo di accompagnare la pianificazione economica e l’ha affidata a una vecchia volpe, o una vecchia carcassa, della politica francese, il centrista François Bayrou. Un po’ come se in Italia avessero nominato un Bertolaso con la scorza di Pier Ferdinando Casini, emblema dei centristi nostrani. Il Commissario è stato nominato con decreto e avrà ampi poteri.

La Spagna ha presentato anch’essa il suo piano, 56 pagine in cui non si specifica molto di più delle linee strategiche che, come si può leggere nell’articolo a fianco, sono comuni a tutti gli Stati membri: il 37% dedicato all’ecologia, il 20% alla digitalizzazione e poi un po’ a tutto il resto. Il piano si basa su quattro assi “di trasformazione” articolati su dieci linee di interventi sulle quali sono distribuiti i fondi. Sul piano organizzativo viene istituita “una Commissione interministeriale presieduta dal capo del governo” con una “Unità” deputata a garantire il controllo del Fondo stesso. Con le Autonomie e le parti sociali si va a instaurare una “collaborazione specifica”, e una “interlocuzione” senza però approntare specifiche strutture (mentre, va ricordato, nel piano italiano è previsto un “Comitato di responsabilità sociale, composto da rappresentanti delle categorie produttive e sociali, del sistema dell’università e della ricerca scientifica e della società civile”.

La Spagna, però, ha previsto, al fine di “garantire l’agilità nell’assorbimento dei fondi”, una “riforma profonda” delle norme e delle leggi dell’Amministrazione in direzione di una maggiore efficienza, garanzia contro gli abusi e per eliminare “i colli di bottiglia” che rallentano l’esecuzione dei progetti.

In Grecia, infine, è stato istituito un Comitato per l’accelerazione e l’attuazione del piano che agirà sotto la supervisione del viceministro per la Politica fiscale, Theodoros Skylakakis.

Si tratta di un comitato direttivo di cinque membri che ha già cominciato a lavorare già alla fine dell’estate. Al capo della task force della Commissione, Céline Gauer, che si è premurata di far conoscere le proprie preoccupazioni, il ministro delle Finanze Christos Staikouras ha assicurato che i 32 miliardi di euro in sovvenzioni e prestiti dovuti alla Grecia costituiscono una grande opportunità per il Paese, assicurando che stavolta Atene non potrà fallire.

Le Balle di Renzi e le i riunioni di Amendola

Dopo i rischi di “dittatura sanitaria” si è passati ai rischi di dittatura da Recovery Plan. I fatti parlano di riunioni pubbliche, tante, di deliberazioni del Parlamento, di un dibattito alla luce del sole.

Eppure Matteo Renzi ha ventilato l’ipotesi di una “dittatura” via Next Generationriferendosi a riunioni di governo “tenute in uno stanzino”, invocando il dibattito parlamentare adombrando sospetti su “manager con poteri sostitutivi rispetto al governo” e sullo stesso governo “sostituito da una task force”. Ha fatto anche riferimento a “35 miliardi messi dalla Germania sul turismo” mentre noi ne mettiamo solo tre. E via di questo passo, prontamente assistito da una pattuglia di giornalisti compiacenti che su vari quotidiani fanno passare lo stesso messaggio.

Per capire che si tratta di propaganda basta leggere delle carte. Si scopre così che la struttura deputata al piano, presso il ministero degli Affari europei, ha lavorato con riunioni periodiche aperte a tutti, che il processo è controllato rigidamente dalla Commissione europea e che se qualche critica può essere mossa andrebbe senz’altro in senso contrario alle politiche difese da Renzi e soci.

La guida europea

Il controllo europeo è chiaro fin dalla Guida al Recovery plan (Guidance to member states, Recovery and Resilience Plans) redatta il 17 settembre, in cui oltre a ricordare le coordinate di fondo a cui il Recovery deve sottostare, si richiede affidabilità sull’uso delle risorse, sulle norme, soprattutto i dettagli sulle misure messe in atto “per evitare ogni rischio di frode, corruzione o cattiva amministrazione in genere nell’aggiudicazione dei contratti”.

Nelle linee guida si richiede l’indicazione di una “autorità politica” a livello ministeriale dotata delle necessarie misure di coordinamento e di applicazione delle riforme e degli investimenti. Guardando alla bozza di decreto che circola in queste ore, che probabilmente sarà rivista alla luce delle opposizioni renziane, lo schema scelto sembra esattamente quello richiesto dall’Europa.

L’autorità politica

Al vertice del piano c’è chiaramente una autorità politica, il Comitato esecutivo istituito all’interno del Ciae, il Comitato interministeriale per gli affari europei. Questo è l’organismo politico di riferimento “con compiti di coordinamento, vigilanza e supervisione”. Nel Ciae ci sono di fatto tutti i ministri e nel Comitato esecutivo il presidente del Consiglio, il ministro dell’Economia e quello dello Sviluppo economico.

Si sostiene che Palazzo Chigi centralizzi tutto con il decreto di nomina dei Responsabili di missione, ma questo avviene comunque “su proposta del Comitato esecutivo”. I famigerati Responsabili di missione, i manager che rischiano di sostituire il governo, “controllano l’attuazione dei progetti e delle opere necessarie per l’attuazione del Pnrr, anche mediante l’esercizio dei poteri di cui al comma 15”. Vediamo dunque questi poteri.

I poteri dei manager

“Poteri di impulso e coordinamento operativo per favorire la realizzazione, da parte dei soggetti attuatori, dei progetti al fine di garantire il rispetto dei tempi; poteri di vigilanza e monitoraggio nei confronti dei soggetti attuatori; poteri sostitutivi alle condizioni di cui al comma 16”.

I poteri sostitutivi sono i grandi inquisiti, anche perché vengono esercitati mediante “ordinanze” che rispettano, di fatto, solo il codice penale e l’antimafia. La loro ratio è quella di “risolvere situazioni o eventi ostativi alla realizzazione delle opere”, un modo per evitare “gli ingorghi” come dice il ministro degli Affari europei, Enzo Amendola, e che obbedisce alla logica europea che sta a monte.

Le coordinate Ue

Se Renzi avesse letto tutti i documenti saprebbe anche che la Commissione ha stabilito delle coordinate per lo stanziamento dei fondi. Il 37% del Recovery deve essere infatti destinato al settore “Green”, il 20 per cento ai piani di digitalizzazione. C’è una chiara spinta a garantire fondi all’ammodernamento delle imprese o alla Coesione sociale e le linee guida dettano in dettaglio anche i modi in cui i fondi possono essere impiegati. Ad esempio indicando come priorità “l’efficientamento energetico delle residenze private e pubbliche” a cui va la parte più rilevante pari a circa 40 miliardi.

I fondi per la Salute

Questo esempio aiuta a chiarire meglio il caso dei fondi per la Salute che secondo Renzi, ma anche secondo il ministro Roberto Speranza, sono sottodimensionati. Quando si parla di efficientamento energetico si indica la priorità “a scuole e ospedali” quindi in quella voce ci sono anche spese per la Sanità. Così come nella digitalizzazione. I dati riaggregati delle varie voci non sono disponibili, ma i conti andrebbero fatti in questo modo.

Il Parlamento ha discusso

Che ci siano delle coordinate europee da seguire sarebbe stato chiaro a Italia Viva se avesse preso sul serio il Parlamento che il 13 ottobre ha discusso e approvato le “Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Al Senato intervenne proprio Renzi che, a parte un po’ di battute e la solita sparata sul Mes, sul Recovery disse questo: “Noi abbiamo apprezzato i suoi toni, le affidiamo il messaggio che Alessandro Baricco lascia in Oceano mare, quando le due persone dialogano e lei dice a lui: ‘Ogni tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando’. E lui risponde: ‘Che sia troppo tardi, madame’”. Il personaggio è questo.

Incontri al ministero

Quello che però Renzi e i suoi non possono non conoscere è il percorso di costruzione del Piano con diversi appuntamenti, a partire dalle riunioni del Comitato tecnico di Valutazione costituito presso il Ciae, formato da rappresentanti dei vari ministeri, ma anche di Regioni, Comuni e Province.

Andando sul sito del ministero si possono leggere anche i resoconti. Dal 29 luglio al 2 novembre ci sono state ben 16 riunioni, l’ultima presieduta dallo stesso Amendola. In quelle occasioni, si è sempre discusso della struttura del piano, del crono-programma, delle richieste della Ue e di quelle delle varie amministrazioni. Se si fosse voluto discutere seriamente le occasioni di confronto non sono mancate.

Dàgli al premier: i discorsi fotocopia dei due Matteo

Poco prima delle otto di giovedì sera scrosciano gli applausi nell’aula del Senato. Ma non provengono dai banchi della maggioranza. Vengono dall’opposizione, da Italia Viva e anche da qualche sparuto Pd. Matteo Renzi ha appena finito di parlare e di attaccare a testa bassa il premier Conte sulla gestione del Recovery Fund. Si siede e si sente chiamare alle spalle: “Matteo, bravo. Hai ragione su quasi tutto!”. A complimentarsi non è un compagno di partito, ma Matteo Salvini, leader della Lega che condivide con l’ex premier un fervente spirito anti-Conte. E da lì a poco proprio Salvini prenderà la parola per attaccare a brutto muso il premier.

Ma un dato salta all’occhio: i due “Matteo” dicono le stesse cose, usano gli stessi toni. Eccezion fatta per la modifica del fondo salva-Stati (Renzi favorevole, Salvini contrario) i due discorsi sono esattamente sovrapponibili.

L’accusa principale rivolta a Conte è quella di voler esautorare il Parlamento. Il più duro è Renzi che attacca il premier sulla governance per gestire i 209 miliardi del Recovery Fund minacciando di uscire dalla maggioranza: “Il 22 luglio avevamo chiesto che il Parlamento facesse un dibattito vero – si infervora il leader di Iv –, non può arrivarci un progetto alle 2 di notte senza discussione parlamentare. Un governo non può essere sostituito da una task force e il Parlamento da una diretta Facebook. Questa è una battaglia di dignità che il Parlamento deve fare”.

Salvini invece si dice “pronto a confrontarsi” dopo che l’opposizione non è stata “ascoltata” sui vari Dpcm e arriva a tirare in ballo il Quirinale accusato di far trapelare “retroscena” sui giornali sullo scioglimento delle Camere: “Vedo Mattarella molto attivo – si agita il leader della Lega – mi auguro che sia altrettanto attento a difendere le prerogative del Parlamento che rappresenta la democrazia e l’unità di questo Paese”.

I due Matteo hanno un afflato comune che sa di concertazione. “Se questo è il piano Marshall del futuro, e non avrei mai immaginato di dirlo, dove sono le categorie sindacali?”, è la domanda retorica di Renzi. Salvini si accoda: “Vi invito ad ascoltare di più le richieste dei sindacati e da parte mia può sembrare una richiesta strana, ma non bisogna chiudersi in recinti ideologici”. Altri tempi quelli che “l’articolo 18 è come mettere i gettoni nell’iPhone” (Renzi nel 2014).

I due leader scelgono altri due temi per attaccare il governo: la sanità e la scuola. Sul primo, la richiesta è quella di investire di più. “Chi ha deciso di mettere 9 miliardi sulla sanità? – chiede Renzi – ce ne vuole il quadruplo”. “Parlare di infermieri eroi e non concedere loro neanche un euro di aumento è una presa in giro”, sentenzia Salvini.

Anche sulla scuola l’accusa è la mancata discussione. Dice il leader di Iv: “Le scuole sono chiuse da un anno, chi ha deciso di mettere una paginetta striminzita nel Recovery?”. Stessa musica dal leghista: “Non si può dire che si riapre il 7 gennaio se prima non si è fatto nulla su trasporti e sulla stabilizzazione degli insegnanti precari. Parliamone in anticipo”.

Per non parlare della conclusione, praticamente identica. Sembra scritta dallo stesso copywriter. Il primo affondo è di Renzi: “Signor Presidente, a chi dei suoi collaboratori chiama i giornali per dire che noi siamo alla ricerca di qualche poltrona, ce ne sono 3 in più a sua disposizione. Altrimenti spieghi loro che questo non è un talk show e non è il Grande Fratello ma il Parlamento”. Prosegue Salvini: “Presidente, se ha voglia di parlare dei temi e non di rimpasti e di poltrone, la Lega è a disposizione per il bene del paese”. Applausi.

Un senatore M5S che ascolta tutto dal salone Garibaldi sospira sconsolato: “Salvini parla come Renzi, o viceversa. Sono uguali”.

5Stelle, cicatrici da Mes Lasciano altri 4 deputati

Il M5S che ha dato altro sangue al governo si sfalda. Con Conte uscito incolume dal voto parlamentare e a riforma del Mes trangugiata, altri quattro deputati a 5Stelle sbattono la porta. Mara Lapia, Fabio Berardini, Carlo de Girolamo e Antonio Lombardo traslocano al Misto, urlando contro il Movimento “che ha tradito il programma”, proprio per aver accettato il compromesso sul fondo salva-Stati. Così gli ex 5Stelle nell’attuale legislatura diventano 48, proprio nel giorno in cui altri due esuli, Michele Nitti e Paolo Lattanzio, passano al Pd.

Ma il conto potrebbe salire. Perché altri meditano di andarsene, almeno a Montecitorio, dove si torna a parlare di un nuovo gruppo, tutto di fuoriusciti. Mentre il reggente Vito Crimi, assicurano, ha davvero voglia di far cacciare quanti hanno votato contro la risoluzione di maggioranza in Parlamento mercoledì, cioè 13 deputati e due senatori. Passo non facile, però. Perché non era un voto di fiducia sul governo, mentre “lo smantellamento del Mes era nel programma”, come ricorda una fonte qualificata. E poi i numeri del gruppo, soprattutto a palazzo Madama, potrebbero imporre cautela.

Così sta il M5S, che tra ieri e oggi voterà il nuovo tesoriere, il deputato Claudio Cominardi, ma soprattutto il documento di sintesi degli Stati generali sulla piattaforma web Rousseau, cioè la creatura di Davide Casaleggio, l’avversario dei big. Stanno tutti lì i 23 quesiti da approvare per costruire un nuovo M5S. Cominciando da quello con cui si prevede che “le funzioni oggi attribuite al capo politico siano affidate a un organo collegiale”, ossia una segreteria: da affiancare con “un altro organo ad ampia rappresentatività”. Per poi passare a “meccanismi di recall (cioè valutazione con voto sul web, ndr) per gli eventuali ruoli di una struttura organizzativa” e a “luoghi di incontro e confronto sia fisici che online per i gruppi”. Per arrivare a Rousseau: “Sei d’accordo che i rapporti con il gestore della piattaforma (Casaleggio, ndr) siano regolati da apposito contratto di servizio o accordo di partnership?”. Un altro nodo, da sciogliere votando proprio sul portale di Casaleggio. L’ennesimo paradosso di un Movimento che perde punti ed eletti, e a naso non è finita qui. “Se ne andranno altri da qui a breve” soffiano. Diversi tra quelli già fuori hanno ripreso a fare scouting. “Vogliono formare un gruppo autonomo almeno alla Camera, che porti avanti il programma del M5S ma che non sia ostile a Conte” raccontano. Ma come fermare l’emorragia? Aiuterebbe avere una nuova guida politica legittimata, cioè la segreteria. “Votiamo (su Rousseau, ndr) e ripartiamo, non c’è più tempo” ricorda l’ex capo, Luigi Di Maio, secondo cui “più aspettiamo più manca l’iniziativa politica sui temi più importanti”.

Pare la milionesima frecciata al reggente Crimi, ma è anche una cruda verità. Però bisognerà attendere gennaio per votare l’organo collegiale a cinque. E non è affatto detto che Di Maio corra. Perché Alessandro Di Battista, salvo sorprese, resterà fuori ad aspettare tempi più propizi. Così l’ex capo potrebbe anche rinunciare a marcarlo. Tanto più che anche Roberto Fico non ha deciso che fare. Cauto, visti i tempi che corrono.

Recovery, l’Europa dice sì Ma a Roma è guerra totale

L’accordo in Europa è raggiunto all’unanimità: sì al bilancio, al fondo di sviluppo e al meccanismo di condizionalità che è alla base del programma Next Generation. Dice Giuseppe Conte che adesso “bisogna solo correre”. Peccato che a Roma, per dirla con i suoi fedelissimi a Palazzo Chigi, abbiano messo i sacchi di sabbia vicino alla finestra: che l’alluvione di 209 miliardi sta arrivando e alcuni “sembra che non abbiano voglia di spenderli”. Il ragionamento è un po’ semplicistico, ma descrive molto dell’aria che si respira nella sede del governo. Dove raccontano di un premier che mercoledì sera era infuriato perché “gli stanno smontando tutto quello che aveva in testa”. E che dunque accusa piccato gli alleati di non aver capito quale sia la posta in gioco: “Quei soldi bisogna saperli usare – è il ragionamento che fanno tra i suoi –, altrimenti ci vengono a prendere con i forconi”.

Da qui discende la madre di tutte le questioni, ovvero chi sarà a doverli gestire, quei soldi. Il sogno di Conte, come noto, era quello di restringere a sé e ai ministri Gualtieri e Patuanelli, la regia politica dell’operazione, che nella pratica sarebbe stata affidata a una struttura di missione guidata da sei manager. Una squadra “agile” e ristretta che, sempre secondo l’idea iniziale del premier, ben si collocava anche nella scala del gradimento popolare. Dal fronte opposto – quello capitanato da Matteo Renzi, ma che dietro ha pure buona parte del Pd e dei 5 Stelle – chiedono collegialità e cabine di regia allargate, volgarmente riassunte nella formula “una fetta di torta per tutti”.

L’accordo trovato ieri al vertice di Bruxelles gli dà la carta necessaria a sedersi al tavolo con nuova forza. “Vediamo come se la rivende”, commentavano ieri a caldo nel governo. Che tradotto significa quanto Conte farà vanto del proprio ruolo nella trattativa che si è sbloccata in Europa, per provare a non farsi smontare del tutto l’impianto della governance che aveva in mente. Più o meno quel che fece a luglio, quando tornò vittorioso dal vertice che proprio al Recovery aveva dato il via libera, facendo cadere il veto dei cosiddetti Paesi “frugali”. Ma stavolta potrebbe non bastare aver superato le resistenze di Ungheria e Polonia sul Next Generation. E non perché il commissario Ue Paolo Gentiloni si affretta a chiarire che su questo successo “la firma è di Angela Merkel”. Ma perché a Roma gli alleati chiedono di ripensare del tutto lo schema immaginato dal premier. La bozza che era arrivata al Cdm di tre giorni fa, insomma, va riscritta daccapo. Tramontata definitivamente l’ipotesi di ricorrere a un emendamento da presentare in calce alla legge di bBilancio – un’altra delle proposte iniziali del premier – ora si deve scrivere un decreto legge fondato su tutt’altri presupposti. La cabina di regia verrà certamente allargata oltre Conte, Gualtieri e Patuanelli: ad altri ministri, sì, ma c’è la richiesta di coinvolgere anche i parlamentari, le Regioni, i Comuni. Quanto ai manager – che Conte immaginava avessero poteri di “impulso, coordinamento, vigilanza, monitoraggio” oltre che “sostitutivi” – il tentativo è quello di ridurli a meri gestori amministrativi e contabili. Raccontano che Conte sia disposto a trattare: “Ha capito che era andato oltre, lo schema era sbagliato: si sono sentiti tutti esclusi, anche a ragione”, dicono anche quelli più vicini a lui. Tra sabato e domenica dovrebbe tenersi il Consiglio dei ministri per formalizzare l’accordo, che però è ancora tutto da trovare. Basti pensare che ieri sera in tv a Quarta Repubblica Matteo Renzi ripeteva che “non possono immaginare di fare i magheggi (…) Hanno fatto una sorta di governo nel governo, e questo è pericoloso per il gioco democratico”. Anche il ministro Roberto Speranza alza la voce e dice che non bastano i 9 miliardi che la bozza di piano assegna alla Sanità. Il segretario del Pd chiede a tutti “un passo in avanti”. Perché, ragionano al Nazareno, si sono scocciati di fare i responsabili mentre tutti litigano. E non faranno da pungiball tra “chi fa gli show in Senato” (Renzi) e “chi manda il piano del Recovery via email alle 2 di notte” (Conte). La battaglia in Europa, di questo passo, la ricorderemo come una passeggiata di salute.

Gli ambientalisti al fianco del Fatto denunciato da Eni

“La notizia ve la diamo noi, perché non la troverete facilmente sui media: Eni ha citato in tribunale Il Fatto Quotidiano per 29 articoli indicati come diffamatori, con richiesta di 350.000 euro”. Così Greenpeace – definendo “inaccettabile” l’attacco di Eni “visto anche che il 30% di Eni appartiene allo Stato che dovrebbe difendere la libertà di espressione” – ha manifestato in una nota su Facebook la sua solidarietà al Fatto: “Il dovere di cronaca e il coraggio di raccontare vicende che spesso nessun altro affronta sono principi sacrosanti di una democrazia sana”. Ma il sostegno è arrivato da tutte le grandi associazioni ambientaliste. Legambiente lo ha fatto pubblicando questo tweet: “#Enienemyoftheplanet, nemico del clima, leader sulle fossili, riserva alle rinnovabili le briciole, multata per #greenwashing sul biodiesel ora attacca anche la libertà di stampa. Inaccettabile. Solidarietà al Fatto Quotidiano”. Anche il Wwf Italia, sempre su Twitter, si definisce “vicino al Fatto Quotidiano per la brutta storia della causa civile impiantata da Eni. Iil giornalismo d’inchiesta, in particolare sulle emergenze ambientali è un bene comune della nostra democrazia che va difeso”. L’altroieri, il movimento dei Fridays For Future aveva lanciato a sostegno del nostro giornale un tweet storm che ha fatto salire l’hashtag #eniricattoquotidiano nelle tendenze principali di Twitter. Anche Extinction Rebellion ha preso subito posizione: “Un giornale, Il Fatto Quotidiano, ha raccontato i fatti e allineato legittime opinioni: questo è ciò che un giornale fa ed è sancito dal diritto di informazione”. “L’atteggiamento di Eni”, concludono gli attivisti, “è ancora più grave se si pensa che il governo italiano è il principale azionista di Eni: ne va della credibilità internazionale dell’Italia in un momento in cui si discute sul rispetto dello Stato di diritto per avere accesso ai fondi dell’Eu Next Generation Fund”.

Al Sisi inviò due rogatorie-trappola: vuole i nomi di chi ha parlato coi pm

Mentre l’Italia è ancora in attesa di parecchie risposte dalle autorità egiziane, dal Cairo sono arrivate a Roma due nuove rogatorie. Risalgono alle scorse settimane e si trovano negli uffici del ministero della Giustizia. Gli investigatori egiziani pongono diverse domande, una in particolare: chiedono l’identità dei testimoni che hanno offerto un contributo importante nell’inchiesta della Procura di piazzale Clodio. Vogliono sapere i nomi di chi ha parlato della presenza di Giulio Regeni nella stazione di polizia di Dokki, come anche di chi ha dichiarato di averlo visto nell’ufficio 13 della struttura Lazoughly, dove, racconta il testimone, vengono portati gli stranieri sospettati “di tramare contro la sicurezza nazionale”. La rogatoria egiziana è rimasta senza risposta. “Per adesso è così, meglio non pregiudicare le indagini della Procura di Roma”, spiegano fonti del ministero guidato da Alfonso Bonafede. In realtà la sensazione che si ha è che dietro ci sia la volontà di allontanare anche il minimo dubbio di eventuali ritorsioni sui testimoni. La questione verrà affrontata nelle prossime settimane.

A due rogatorie del Cairo i magistrati capitolini avevano già risposto nel 2016 e nel 2017. Di contro hanno ottenuto che dal 28 novembre del 2018 – giorno in cui hanno comunicano di aver proceduto alle iscrizioni nel registro degli indagati degli agenti degli apparati di sicurezza – nessuna documentazione è più arrivata dal Cairo. Come ha spiegato Sergio Colaiocco, pm titolare dell’inchiesta, ieri in commissione parlamentare, l’Italia ha inviato all’Egitto quattro rogatorie.

Le richiestecontenevano 64 quesiti: “Abbiamo avuto 25 risposte, siamo in attesa delle altre 39”, ha detto il pubblico ministero. Tra le informazioni che non sono state fornite ci sono quelle su 13 persone che risultano collegate agli indagati. La mancata collaborazione non ha permesso di identificare questi soggetti, tanto che una parte delle indagini romane continua a rimanere aperta. Ed è figlia della mancata collaborazione anche la richiesta di archiviazione di uno dei cinque soggetti inizialmente indagati. Si tratta di Mahmoud Najem, per il quale, come spiega una nota della procura “non sono stati raccolti elementi sufficienti, allo stato, a sostenere l’accusa in giudizio”. E allo stesso modo non è arrivata dal Cairo neanche l’elezione di domicilio degli altri quattro indagati (richiesta anche questa contenuta in una rogatoria). Infatti la notifica della conclusioni delle indagini è avvenuta tramite il rito degli irreperibili direttamente ai difensori d’ufficio italiani. “Per l’omicidio di Regeni si svolgerà un solo processo e si svolgerà in Italia con le garanzie procedurali secondo i nostri codici”, ha detto ieri in commissione il procuratore capo di Roma Michele Prestipino. “Abbiamo acquisito elementi di prova univoci e significativi – ha aggiunto –. Questo è un risultato estremamente importante e non scontato. Abbiamo fatto di tutto per accertare ogni responsabilità”.

Per quanto riguarda i nuovi testimoni, l’obiettivo degli investigatori è quello di tutelarli, tanto che i loro nomi sono stati secretati. Per la Procura però si tratta di soggetti le cui parole hanno trovato riscontri nella collocazione spazio temporale e nelle consulenze medico-legali. Si tratta dunque, come ha spiegato ieri Colaiocco, di persone “di nazionalità diversa, di diversa estrazione sociale, con attività lavorative più disparate e che non hanno alcuna relazione tra loro”. Ora il Cairo chiede il nome dei testimoni chiave, una richiesta che ha il sapore dell’ennesima provocazione.

“Sevizie con lame e catene”. Così uccisero Giulio Regeni

Alpha, Beta, Gamma, Delta ed Epsilon. Lettere dell’alfabeto greco che celano i nomi veri e i volti di quei testimoni, che insieme ad altri atti d’indagine, hanno consentito, dopo quasi 5 anni di lavoro, alla Procura di Roma di mettere un punto al primo capitolo sulla morte di Giulio Regeni. Ieri il procuratore capo Michele Prestipino e il pm Sergio Colaiocco hanno chiuso le indagini nei confronti di quattro agenti degli apparati di sicurezza egiziani. Due uomini del dipartimento di sicurezza, Tariq Sabir e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e due agenti della National Security Agency, il servizio segreto interno egiziano, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, sono accusati del sequestro del ricercatore: il 25 gennaio 2016 lo hanno fermato all’interno della metropolitana del Cairo e lo hanno portato in due commissariati, privandolo “della libertà personale per nove giorni”. Il maggiore Sharif però è accusato anche di lesioni aggravate e omicidio. È lui l’uomo che, secondo la Procura di Roma, con altri soggetti ancora da identificare (su questo le indagini sono ancora in corso), “con crudeltà, cagionava a Regeni lesioni che gli avrebbero (…) comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi, seviziandolo, con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanza di più giorni”. Il tutto con oggetti affilati e taglienti e “attraverso ripetuti urti”, con bastoni e mazze e poi con calci o pugni.

Sono accuse pesanti a supporto delle quali, tra le varie prove, i pm riportano anche le parole di un testimone. Per tutelarlo lo chiamano “Gamma”: è l’uomo che racconta di aver sentito, mentre era in un ristorante in Kenya, la conversazione tra Sharif e un suo commensale. Dice di aver sentito “l’arabo” – che poi ha associato al nome di Sharif – parlare “uno studente italiano, un dottorando”. “L’egiziano – racconta il testimone – continuava dicendo che loro avevano scoperto che era appartenente alla Fondazione Antipode che spingeva per l’avvio di una rivoluzione in Egitto. A un certo punto, secondo quanto raccontava l’egiziano, loro ne avevano abbastanza, avevano anche avviato delle intercettazioni”. “Gamma” dice di aver sentito Sharif raccontare che Regeni era stato fermato mentre stava andando a una festa in zona Tahir. “Loro – continua il racconto – gli egiziani, erano molto arrabbiati e l’arabo, usando la prima persona singolare, affermava di averlo colpito”. A detta del teste, quando il commensale keniota gli chiedeva il nome del soggetto di cui parlava, “l’egiziano rispondeva Regeni”. Sono circostanze che la Procura di Roma, soprattutto alla luce di una serie di riscontri, ritiene veritiere. Come pure le altre testimonianze agli atti. Tra questi c’è un uomo chiamato “Alpha”: è colui che fornisce un elemento importante, la prova di come Regeni fosse controllato dagli apparati di sicurezza. La circostanza raccontata da “Alpha” risale al 23 gennaio 2016, due giorni prima del sequestro. L’uomo racconta di aver saputo da El Sayyad, coinquilino di Regeni, di una perquisizione della polizia nella stanza del ricercatore, con la polizia che “gli aveva intimato di ‘non raccontare nulla al Regeni della perquisizione’”.

C’è poi il testimone “Delta” che l’8 novembre 2019 riferisce agli investigatori di aver visto il 25 gennaio Regeni alla stazione di polizia di Dokki. Dice poi che il ricercatore era stato “bendato e condotto in un posto che si chiama Lazoughly; uno dei poliziotti che si trovavano lì veniva chiamato Sherif…”. Il ricercatore italiano, racconta il teste, “chiedeva un avvocato”.

È poi il 29 luglio di quest’anno che la Procura trova un altro testimone le cui dichiarazioni danno una svolta all’indagine. È un uomo che dice di aver lavorato per 15 anni nella sede della National Security “che si trova all’interno del ministero degli Interni e che prendeva il nome dalla via: si chiama struttura Lazoughly”. Quattro piani di edificio, dove al primo c’è la stanza 13. “Quando viene preso qualche straniero sospettato di tramare contro la sicurezza nazionale viene portato lì”, racconta. Ed è in “quell’ufficio 13”, che il teste “Epsilon” dice di aver visto Regeni. “Era il giorno 28 e 29” riferendosi sembra al gennaio 2016. “Entrando in quell’ufficio ho notato delle catene di ferro con cui legavano le persone… lui era mezzo nudo, nella parte superiore portava dei segni di tortura e stava blaterando parole nella sua lingua, delirava… era sdraiato steso per terra con il viso riverso… l’ho visto ammanettato con delle manette che lo costringevano a terra”.

“Non è una festa, ma una tappa importante per la democrazia italiana”, hanno detto ieri i genitori di Regeni. “Bisogna indagare su tutte le zone grigie… Cosa è successo nei palazzi italiani dal 25 gennaio al 3 febbraio 2016?”, si chiedono. “La stampa ‘buona’ – aggiungono – lavori sull’Egitto… Fate giornalismo investigativo, chiedete ai politici: ‘Presidente Conte che sta facendo per la verità su Giulio?’ E Di Maio? I rapporti bilaterali con l’Egitto sono divenuti sempre più un’amicizia’”.

Mistero Franco: gaffe dopo gaffe è sempre più blindato

Poi sono arrivati il naufragio di Titolo V – la trasmissione a cui il direttore aveva affidato il rilancio dell’approfondimento politico di Rai3 –, e la gestione inqualificabile del caso Morra.

Eppure la poltrona di Franco Di Mare – una lunga carriera prima da inviato di guerra, poi da conduttore salottiero – non si tocca e nemmeno vacilla. L’amministratore delegato Fabrizio Salini sembra appoggiarlo in qualsiasi decisione. Se Di Mare ha un problema con l’ospitata di Nicola Morra, chiama Salini e la fa saltare. Se ha una faida in corso con Bianca Berlinguer chiama Salini e l’ad non fa mancare il suo appoggio.

L’accanimento di Di Mare su Mauro Corona sembra un pretesto per regolare un vecchio conto con la Berlinguer, che deve risalire a un’epoca che precede di molto la recente scalata ai vertici di Viale Mazzini del giornalista napoletano.

Dopo la stagione dell’innamoramento renziano – un virus collettivo in Rai – Di Mare è passato con straordinaria naturalezza sotto l’ombrello dei Cinque Stelle: ha eccellenti rapporti con Luigi Di Maio e Vincenzo Spadafora (molto meno caloroso invece il rapporto con Rocco Casalino e quindi con Giuseppe Conte).

Si pensava fosse il “bambacione” che si faceva segnalare dall’ordine dei giornalisti per l’incredibile marchetta di sette minuti alla Fater, l’azienda produttrice di pannolini e detersivi (correva l’anno 2011). Invece Di Mare, altro che ingenuo, è un giornalista di relazione e quindi un uomo di potere. Uno di quelli a cui è concesso di fare il direttore di rete e di condurre una trasmissione (Frontiere), nonostante sia vietato da una circolare approvata in epoca Gubitosi.

Gaffe dopo gaffe, paradossalmente, Di Mare diventa più forte. Al punto che l’uomo dei Pampers non ha alcuna paura di fare a braccio di ferro con Berlinguer, che in Rai è un’istituzione – potente – da più di trent’anni.