Conti dei Servizi, cronisti a giudizio

Si terrà il 22 aprile 2021 davanti al giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Roma il processo con rito abbreviato per rivelazione di segreto di Stato a carico dei giornalisti Francesco Bonazzi e Nicola Borzi.

Tra il 15 e il 17 novembre 2017 i due cronisti scrissero per i rispettivi quotidiani La Verità e Il Sole 24 Ore alcuni articoli sui conti dei servizi segreti e della Presidenza del Consiglio in Banca Nuova, la controllata palermitana del gruppo Popolare di Vicenza. Bonazzi e Borzi rischiano una pena non inferiore ai cinque anni.

Il 25 giugno 2017 il governo, su richiesta di Banca d’Italia, mise in liquidazione coatta amministrativa la Popolare di Vicenza azzerando le azioni non quotate e illiquide di 120mila azionisti. Per oltre un decennio prima del crac segnalazioni, denunce e ispezioni sulla banca presieduta da Gianni Zonin erano cadute nel vuoto. Alla base degli articoli c’era un estratto conto con gli estremi di oltre mille operazioni del valore totale di oltre 600 milioni realizzate in Banca Nuova dal 2009 al 2013. Quella vicenda è stata poi approfondita da due servizi di Paolo Mondani per Report, che portarono alla luce connessioni con l’inchiesta su Antonello Montante, l’ex vicepresidente responsabile della legalità di Confindustria condannato in primo grado il 10 maggio 2019 a 14 anni perché ritenuto il capo di una rete di spionaggio parallela ai danni di magistrati e alte cariche dello Stato.

Su ordine dell’allora procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, le indagini contro i due giornalisti sono state condotte dal pm Sergio Colaiocco.

Il 17 novembre 2017 la guardia di finanza entrò nelle redazioni della Verità e del Sole e sequestrò ai due giornalisti alcune chiavette Usb. A Borzi furono sequestrati anche la memoria del computer, la casella di posta elettronica e l’agenda del cellulare, dissequestrati parzialmente solo due mesi dopo. Le indagini si sono chiuse l’8 febbraio 2019.

Sui social network i giornalisti si proclamano innocenti. Bonazzi scrive “Si tratta di un fanta-reato e ho chiesto l’abbreviato perché non ho violato alcun segreto di Stato, perché nessuno ha potuto smentire una riga della mia inchiesta su Banca Nuova e Popolare di Vicenza e perché ho fatto solo il mio dovere. La prossima udienza è fissata per il 22 aprile. Sarò assolto, quantomeno a Strasburgo”. Borzi afferma: “Non smetterò mai di ribadire che non ho commesso il reato per il quale sono imputato. Queste indagini hanno violato decenni di giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che vieta agli inquirenti di sequestrare ai giornalisti i loro archivi per cercare le loro fonti”.

Di Mare prova a tappare la bocca alla Berlinguer

Franco Di Mare sbatte i pugni sul tavolo in commissione di Vigilanza e il vertice Rai lo accontenta. Varando una stretta sulle interviste ai giornali e le ospitate in altre reti dei giornalisti della tv pubblica.

Ieri, infatti, Fabrizio Salini ha scritto ai direttori di rete e testata per chiedere “una più rigida applicazione delle regole a tutela dell’immagine della Rai, della sua programmazione e della sua identità di servizio pubblico”. Così d’ora in avanti le interviste dovranno essere autorizzate direttamente dall’ad e dal direttore editoriale dell’offerta informativa, Giuseppina Paterniti. Mentre prima bastava il via libera della direzione di rete. Tutto nasce dalle interviste rilasciate di recente da Bianca Berlinguer sull’allontanamento di Mauro Corona dal suo programma #Cartabianca. Interviste dove la conduttrice è andata all’attacco del direttore di Rai3, Di Mare appunto, ma ha pure riservato punture di spillo all’azienda. La prima è apparsa proprio sul Fatto Quotidiano, domenica 29 novembre. “Io l’ho già perdonato, per me può tornare, ma non può perché il direttore di rete si è impuntato e non lo vuole. L’unica offesa sono io, ma ora è diventata una questione tra uomini…”, ha detto l’ex direttrice del Tg3. Una settimana dopo, il 6 dicembre, la “zarina” (nomignolo che le affibbiarono quando dirigeva il Tg3) parla col Corriere della Sera. “A fronte di ripetute scuse si è intervenuti d’autorità sui contenuti del mio programma, mortificando la mia autonomia”, ha spiegato Berlinguer. Che poi mercoledì sera, raggiunta dal Tapiro d’oro di Striscia, è tornata all’attacco di Di Mare.

Il quale ieri in Vigilanza, sollecitato da Michele Anzaldi, si è sfogato, chiedendo all’azienda di intervenire, perché “la signora Berlinguer è stata più volte invitata da me a non rilasciare dichiarazioni, in base anche al codice interno, e non ha ascoltato”. Ancora: “Trovo indecente che un dirigente venga attaccato in questa maniera. Sono sicuro che i vertici sapranno cosa indicare alla signora Berlinguer sulla questione delle interviste”.

Già il “signora Berlinguer” fa capire molto sul rapporto tra i due. Corona era stato allontanato dopo che nella trasmissione del 23 settembre si era rivolto alla giornalista con un secco: “Stia zitta, gallina!”. Poi le scuse e Bianca che già due puntate dopo era pronta a riaccoglierlo. “Non interverrà mai più nella tua trasmissione!”, ha detto Di Mare a Berlinguer nell’unico incontro, finito molto male. Nel frattempo gli ascolti di #Cartabianca vanno giù: se a ottobre il programma è stato ben oltre il 5% di share, le ultime puntate hanno oscillato tra il 4 e il 4,4%. Con il calo maggiore proprio nella prima parte, ormai orfana del siparietto tra “Bianchina” e Corona. “Qui non si tratta del rapporto tra Berlinguer e Corona, la questione riguarda l’uso del linguaggio in un programma del servizio pubblico”, dice l’Usigrai, che ha chiesto al vertice Rai se le interviste siano state autorizzate. Intanto i veleni sono in circolo. E così Corona dice che “Di Mare usa lui per danneggiare Bianca”.

Mentre ad altri conduttori non sono piaciute le parole della Berlinguer sui giornalisti Rai “che vanno ospiti in altre reti mentre c’è in onda il mio programma, come Lucia Annunziata”. Viene a galla qualche vecchia ruggine, come quella con Maurizio Mannoni per gli “sforamenti”. “Tutta questa storia ha accentuato il mio senso di isolamento in azienda”, ha detto Berlinguer. E ora pure niente più interviste.

Länder come le Regioni Merkel: “Chiudete tutto”

La Germania sia avvia verso un nuovo lockdown duro per Natale: almeno su questo, a parole, concordano tutti. Tanto i “tentennanti”, 16 presidenti dei Länder tedeschi, quanto la cancelliera Angela Merkel. È piuttosto sul cosa si intenda con lockdown duro, secondo quali criteri e sui tempi di entrata in vigore che le opinioni variano. Lo si deciderà domenica.

Se fosse per Merkel la Germania sarebbe già tornata a richiudere tutto da un paio di settimane. Ma dall’inizio della seconda ondata, i vertici cancelliera-governatori sulla gestione del Covid replicano uno schema sempre uguale: Merkel interviene mostrando i dati, illustrando le conseguenze e i rischi. I presidenti ascoltano attenti e compìti e poi tirano dritto, depotenziando ogni misura. E visto che nel sistema federale sono loro a decidere, si procede per passi da formica. Certo, si è evitata la crescita esponenziale. Ma dai 15.000 nuovi casi a inizio lockdown soft il 2 novembre, al picco del 20 novembre con 23.648 contagi, la Germania si trova ancora lì: ieri era a quota 23.600 nuovi contagi e le vittime hanno superato per la prima volta quota 20.000. “Dobbiamo fare qualcosa e dobbiamo farlo insieme, cioè governo federale e Länder” ha detto Merkel al Bundestag. Parole che potrebbero sembrare scontate se non fossero tanto lontane dalla realtà: l’unità tra i Länder, a due mesi dall’inizio della seconda ondata, non c’è. Chi orienta le decisioni, allora?

“Se l’Europa è dove si trova oggi è grazie all’illuminismo e alla convinzione che esistono conoscenze scientifiche che sono reali” ha detto Merkel al Bundestag. Ma la sua dichiarazione è ignorata dall’ultradestra dell’Afd, che continua a dipingere il virus come un complotto per privare i cittadini della libertà, e dai deputati conservatori e liberali, che rimangono proni agli interessi dell’economia e delle lobby da cui dipendono.

Per Merkel basterebbe ascoltare il parere dell’Accademia delle scienze della Leopoldina, che ha chiesto di ridurre i contatti anticipando le vacanze scolastiche al 14 dicembre e allungandole al 10 gennaio, chiudere il commercio al dettaglio ed evitare i ritrovi familiari. Se incontrare i nonni per le feste può significare trascorrere l’ultimo Natale con loro, meglio non farlo, dice Merkel. Intanto al momento la domanda più pressante che si pone in Germania è: lockdown prima o dopo Natale? Il governatore del Nordreno-Westfalia, Armin Laschet, vorrebbe chiudere dopo Natale, per non danneggiare il commercio già in difficoltà. Sassonia e Baviera, invece, premono per un maxi-lockdown federale già dal 14 fino al 10 gennaio.

Intanto la Francia dal 15 dicembre non riapre come aveva sperato: “Non siamo ancora nella seconda fase dell’epidemia” e i risultati non sono soddisfacenti, ha detto il premier Jean Castex. L’apertura di teatri, cinema e musei è rimandata di tre settimane, mentre il coprifuoco fino alle 6 sarà anticipato dalle 21 alle 20. Liberi tutti invece per la notte della vigilia e per Natale quando tutti gli spostamenti saranno consentiti senza autocertificazione.

Ma se si allenta ora il rischio a gennaio è mille morti al giorno

“Il rischio è una nuova salita esponenziale delle curve dei contagi di SarsCov2 da metà ottobre, così rientrando in uno scenario catastrofico già a dicembre: ritorno nell’incubo di vittime per Covid-19 tra le 500 e le 700 al giorno fino al capodanno 2021”. Questo era l’attacco di un articolo pubblicato da questo giornale lo scorso 27 settembre, quando i nuovi casi registrati erano ancora sotto quota duemila al giorno. Non era frutto di doti divinatorie, ma dell’osservazione delle proiezioni statistiche di Worldometer, il sito web più importante al mondo di dati statistici elaborati da sviluppatori, ricercatori e volontari in tempo reale. In realtà le cose sono andate anche peggio, perché la curva è salita più velocemente.

Le proiezioni di Worldometer adesso sono ulteriormente indicative e dovrebbero essere considerate con attenzione dai politici che invocano frettolose riaperture. Prendiamo in considerazione i decessi giornalieri, l’unico dato reale che in questa fase appare indicare con certezza l’andamento della pandemia in Italia. Posto anche che il numero molto alto di vittime registrato ieri (887) possa esser il risultato di notifiche in ritardo (il giorno prima i morti erano stati 499). Secondo Worldometer almeno fino a martedì 22 dicembre l’andamento drammatico non cambierà molto, poi ci sarà un bivio. La “linea rossa” indica lo scenario peggiore rappresentato da allentamenti nei comportamenti individuali e dalla mancanza di misure governative: la curva schizzerebbe verso l’alto per arrivare entro i primi di gennaio a quota mille morti e poi superarla. Coincidono quasi fino a sovrapporsi del tutto, invece, le linee che indicano l’andamento in base a misure e comportamenti attuali, comportamenti ancora più stringenti e inizio in tempi brevi della campagna di vaccinazione: la curva comincerebbe a scendere lentamente, rimanendo su numeri comunque alti che ritornerebbero sotto quota 400 morti solo il 20 gennaio e sotto cento il 20 marzo.

La spia che le cose non vadano ancora per il meglio in questo incubo pandemico è al solito la Lombardia. Antonio Pesenti, primario di Anestesia e rianimazione del Policlinico di Milano e coordinatore delle terapie intensive in tutta la regione, spiega ieri all’Huffpost: “La discesa dei ricoveri in terapia intensiva in Lombardia è più lenta del previsto e di quanto sperassimo: pensavamo di arrivare a 500 letti verso Natale, ma con quest’andamento avremo bisogno di più tempo”. Ieri i ricoveri per Covid-19 nelle terapie intensive degli ospedali lombardi erano 748. Inoltre in Lombardia l’indice Rt – quante persone vengono in media contagiate da un individuo – è sotto l’1, intorno allo 0,8, ma non scende più dal 27 novembre.

È molto chiaro Roberto Cauda, ordinario di Malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore dell’Unità operativa di Malattie infettive della Fondazione Policlinico Gemelli Irccs di Roma: “Il rischio di una terza ondata esiste ed è concreto. Non siamo indovini, ma considerati i numeri attuali possiamo prevedere che eventuali disattenzioni a Natale le pagheremo con la terza ondata, che oltretutto rischia di sommarsi alla stagione influenzale. Non nego che la prossimità con il Natale preoccupi. Dobbiamo evitare l’effetto registrato l’estate scorsa e ricordare che questo virus non ammette distrazioni. Teniamo conto che la situazione è delicata e merita la massima attenzione”.

Spostarsi tra Comuni: Conte (pressato) apre a deroghe il 25, 26 e 1°

La marcia indietro che molti invocavano è lo specchio del momento. Perché la maggioranza di governo è diventata una trincea piena di botole, e sulla testa del premier incombe già una mozione in Senato: l’occasione perfetta per i nemici di vario ordine e grado. Così già in mattinata fonti parlamentari lo fanno trapelare: “Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha aperto una riflessione sull’opportunità di allargare le possibilità di spostamento tra Comuni a Natale”. Ma siamo già oltre la riflessione. Conte, raccontano, ha già deciso di rimuovere il divieto di spostarsi anche tra i singoli Comuni nei giorni cardine delle feste, il 25 e il 26 dicembre e il 1° gennaio. Se non interamente, stabilendo almeno dei tetti sotto i quali si potrà circolare liberamente, così da non penalizzare i piccoli centri.

Il premier lo ha confermato ad alcuni membri di governo. Ma c’è un ostacolo, il ministro della Salute, Roberto Speranza, assolutamente contrario. “Per me la linea è e resta quella della massima prudenza – dice a Porta a Porta –. Sarebbe un peccato incredibile sprecare il lavoro fatto in queste settimane e piombare tra gennaio e febbraio, proprio quando partiranno le vaccinazioni, in una nuova fase di recrudescenza”. Speranza non è l’unico spiazzato dal cambio di rotta, nel governo. Hanno molti dubbi anche i big del Pd, Nicola Zingaretti e Dario Franceschini. E più di un ministro del M5S è disorientato. Ma i favorevoli sono molti di più. Un bel pezzo del Pd, innanzitutto. E il leader di fatto del M5S, Luigi Di Maio, che ieri lo ha scandito in una diretta social: “Assurdo che non ci si possa spostare tra piccoli Comuni quando ci sono città con milioni di abitanti”. E ovviamente a favore dell’inversione a U c’è Italia Viva, la creatura di quel Matteo Renzi che ora minaccia di terremotare il governo e il suo timoniere, e stavolta hanno tutti l’impressione che faccia sul serio. Figurarsi poi il centrodestra, con Matteo Salvini che ieri ha rivendicato di aver chiesto degli spostamenti a Conte già mercoledì, in un breve colloquio in aula in Senato, e che ieri sera ha annunciato “un contatto telefonico” con il premier.

In questo scenario, Conte è pronto a rimuovere quella norma che pure aveva difeso anche nelle videoconferenze con sindaci e governatori, ribadendo che “si tratterà solo di pochi giorni”. Sente che deve concedere qualcosa. E forse non ha altra scelta, visto che dal Parlamento gli hanno mandato un chiaro segnale.

Ieri mattina la conferenza dei capigruppo a Palazzo Madama si è riunita per discutere di una mozione proprio sugli spostamenti, riaggiornandosi per lunedì. E a spingere per il testo non c’era solo il centrodestra, ma anche Iv e il Pd, con il capogruppo Andrea Marcucci che è stato chiaro: “Spero di riuscire a modificare il decreto per allargare il raggio degli spostamenti”. Proprio come la renzianissima ministra all’Agricoltura, Teresa Bellanova: “Leggo con piacere che anche colleghi di governo di partiti diversi dal mio finalmente danno atto che il divieto di spostamento dal proprio Comune è una misura incomprensibile e ingiusta”. Ma in serata è stata la presidente del Senato, la forzista Maria Elisabetta Casellati, a metterci il carico: “Ho disposto ai sensi del Regolamento che la mozione si discuta in aula mercoledì 16 dicembre dopo l’approvazione del decreto Ristori. Ritengo fondamentale che su un argomento così vitale per le famiglie italiane anche il Senato si possa esprimere”. Un modo per mettere fretta al governo, prima di uno scivolosissimo voto parlamentare. Però ora Conte deve convincere Speranza e quella parte del governo che non vorrebbe cambiare. Non solo. Va anche individuato lo strumento tecnico per intervenire, e non è un dettaglio.

E l’idea di partenza è un Dpcm che sostituisca e integri il decreto ora in vigore. Mentre modificare il dl in Parlamento potrebbe essere molto rischioso, visto che andrebbe convertito in legge entro Natale.

Ieri fonti parlamentari ipotizzavano anche di introdurre la modifica in un emendamento al decreto Ristori, ora a Palazzo Madama. Ma sembra un’altra via piuttosto stretta. Invece da Palazzo Chigi smentiscono un’altra ipotesi circolata ieri sera: ossia che il dl venga lasciato intatto, inserendo la deroga solo tra le Faq di Palazzo Chigi, le risposte alle domande più ricorrenti pubblicate sul sito della Presidenza del Consiglio.

Il Mes tangentario

Al cabaret permanente della politichetta italiota si aggiunge una nuova gag: la campagna del Pd per scongelare il vitalizio a Ottaviano Del Turco, sospeso nei giorni scorsi in base a una norma voluta e approvata nel 2015 da Pd, Sel, Scelta Civica, Fd’I, Lega e contestata dai 5Stelle perché troppo blanda e piena di scappatoie. Cioè alla delibera degli uffici di presidenza di Camera e Senato che, ai tempi del governo Renzi, stabilì di levare la pensione ai parlamentari condannati a più di 2 anni per mafia, terrorismo e reati contro la Pa. Ora si dà il caso che Del Turco, arrestato nel 2008 da presidente Pd dell’Abruzzo, sia stato condannato definitivamente nel 2018 a 3 anni e 11 mesi per induzione indebita (la vecchia concussione) per aver estorto almeno cinque mazzette per un totale di 850mila euro al ras delle cliniche private Vincenzo Angelini. Dunque per due anni ha percepito indebitamente 5.500 euro mensili. Il fatto che la presidenza del Senato abbia posto fine a quell’ulteriore latrocinio di denaro pubblico scandalizza il Riformista, che è un po’ l’ora d’aria dei quotidiani italiani e vaneggia di “grida polpottiane dei 5 Stelle”, come se la norma fosse loro e non di Pd&C.

Segue un esilarante articolo dell’avvocato di Del Turco, Gian Domenico Caiazza che, avendo perso il processo, si rifà sul Riformatorio insultando i pm che l’hanno vinto. Titolo: “È innocentissimo” (infatti è stato condannato). La comica finale viene presa molto sul serio dall’ineffabile capogruppo del Pd Andrea Marcucci, quello che parla come un liderino di opposizione e invece pare stia in maggioranza. Il Marcucci esprime “profondo sgomento per la decisione di privare Del Turco del vitalizio” in base a una norma voluta dal suo partito, perchè il condannato è “gravemente ammalato”. Il che ovviamente dispiace, ma purtroppo la norma non prevede eccezioni per motivi di salute. Fra l’altro, sarebbe interessante sapere se l’ex sgovernatore abbia mai risarcito con i 700mila euro previsti dalla sentenza le parti civili, cioè alla sua Regione e alle Asl abruzzesi. Già, perché oltre alle mazzette ci sono i gravi danni inferti dalle sue politiche sanitarie a quella che ora è guardacaso la Regione peggio messa col Covid. Pochi mesi fa l’Abruzzo ha pagato l’ultima rata dell’enorme buco creato da Del Turco&C. con la folle cartolarizzazione dei crediti farlocchi della sanità, ceduti a banche estere mentre i vertici di Regione e Asl incassavano mazzette sui tagli dei posti letto negli ospedali pubblici e sui regali alle cliniche private. Così, quando certi impuniti invocano con la bava alla bocca i 37 miliardi di Mes sanitario e più soldi alla sanità nel Recovery Plan, possiamo facilmente immaginare cosa vogliono farne.

“Una passeggiata d’inverno” col guru Thoreau, il più selvaggio dei poeti

Era il 1817, un’epoca travagliata per gli Stati Uniti d’America. Da poco era stata sancita la vittoria sugli inglesi. La colonizzazione delle terre indigene si estendeva a macchia d’olio. Quell’anno, a Concord, in Massachusetts, nacque Henry David Thoreau. “Al momento giusto”, disse. In tempo per schierarsi contro la schiavitù e contro il governo americano che di lì a poco avrebbe intrapreso la guerra in Messico.

Thoreau fece della resistenza contro ciò che riteneva ingiusto una ragione di vita. Si ribellò anche alle tasse, perché servivano a finanziare le armi. Per questo trascorse una notte in carcere. Teorizzò la disobbedienza civile non violenta, da cui hanno tratto ispirazione in tanti, inclusi Gandhi e Luther King. Fu riformatore sociale, poeta, scrittore, scienziato, filosofo e naturalista. Una vita breve – aveva 44 anni quando morì di tubercolosi – ma ricca di stupore, riflessione e ricerca. Sin da bambino visse un rapporto simbiotico con la natura. Guardava le stelle per scorgere Dio. Studiò a Harvard, lavorò come geometra, aiutò suo padre nella produzione di matite, amava i lirici greci e latini, tuttavia la più grande passione era la natura.

Viaggiò nei boschi del Maine e a Cape Code. Il luogo forse più caro era il lago di Walden, dove Ralph W. Emerson – massimo esponente del trascendentalismo americano, suo mentore – aveva una proprietà. Fu qui che il 4 luglio del 1845 – anniversario della Dichiarazione d’indipendenza – si trasferì. Era da poco morto suo fratello. Vi restò due anni, due mesi e due giorni. In una capanna. Fu uno scrittore prolifico, ma in vita non godette di particolare fama. Arrivò dopo, quando il pubblicò scoprì che nelle sue opere era racchiuso un vademecum sempiterno della coscienza civica. Se in Resistance to civil government c’è il cuore pulsante dei movimenti per i diritti umani dal 900 a oggi, in Walden, ovvero La vita nei boschi c’è il Thoreau degli ecologisti.

L’opportunità di averne una visione d’insieme la offre Una passeggiata d’inverno, riedito da La Nuova Frontiera. Contiene il racconto omonimo del 1843 e un saggio filosofico Camminare, scritto tra il 1851 e il 1860, ma pubblicato postumo. Alla società americana, lo scrittore contrappone l’armonia della natura così placida, generosa, riparatrice. “Ci ridestiamo nella realtà immobile di un mattino d’inverno. La neve si è posata sul davanzale, come una calda coltre di cotone o lanugine”. Prosa e poesia si fondono. Alla solitudine della passeggiata si frappone la coralità del “noi”. C’è una vita brulicante là fuori. Una sinfonia di “forme fantastiche” in un paesaggio fosco: “Il terreno risuona come legno stagionato e anche i rumori campestri più banali risultano melodiosi”. La natura riequilibra gli squilibri umani. Il vento spazza la corruzione. C’è dolcezza nella serietà della tormenta. Spiritualità nell’inverno. Coerenza, che la società non è in grado di eguagliare.

Al cospetto delle cinciallegre e dei picchi muratori, gli statisti e i filosofi per lui sono una compagnia più volgare. Infatti il saggio successivo si apre con “una dichiarazione estrema e categorica”: alla civiltà dei paladini preferisce la vita selvatica e quell’arte del camminare che consente al male “di curarsi da sé”. Non serve una meta: c’è “un sottile magnetismo in Natura, che ci guiderà nella nostra direzione”. Il selvaggio è all’origine di tutto, anche dello Stato. “Più si è selvaggi, più si è vivi”. Di land grabbing e consumo del suolo non se ne parla ancora, ma Thoreau è lungimirante: “Guai alla cultura umana! – scrive – C’è poco da attendersi da una nazione, una volta che il sostrato vegetale è andato esaurito e a far da concime non restano che le ossa dei padri”. Una passeggiata d’inverno è un libro che, parafrasando l’elegia che Emerson gli dedicò, “dovunque ci sia conoscenza, virtù e bellezza, troverà casa”.

Fotografia, un’arte mortale. Il lutto visto da Rotoletti

Verrà la morte e avrà i suoi occhi, quelli di un fotografo. La fotografia è l’arte per eccellenza gemellata con la morte: ce l’hanno detto Susan Sontag e Roland Barthes, e ora ce lo ripete – a parole sue, ovvero per immagini – il fotografo Armando Rotoletti, una lunga carriera alle spalle come reporter e ritrattista.

“La fotografia in sé è morte, attimo cristallizzato di una cosa, di un gesto, di un’intenzione, che non sarà mai più. Ma è anche vita eterna, memoria, perché consegna al futuro un’immagine che non potrà più perdersi”, così spiega l’artista introducendo la sua ultima opera per l’editoria: Morte in Sicilia, un’incantevole antologia fotografica con 56 scatti d’autore, collezionati in quasi tre anni di lavoro, dal 2017 all’inizio del 2020 pre-pandemia (con introduzioni firmate da Dacia Maraini e Ignazio E. Buttitta).

“Da oltre quarant’anni, quasi senza saperlo, fotografo per sublimare la paura della morte”, scrive Rotoletti, figlio di una terra – la Sicilia – che è “una mischia di luce e di lutto” (© Gesualdo Bufalino). Poetica e tragica, lacrimosa e dura, arcaica e feconda, l’isola coltiva ancora gelosamente i propri riti, culti, messe e messe in scena: è l’obbiettivo della macchina a immortalarli così, questi spettri mortali, a cui il fermo-immagine dona imperitura immortalità.

Qui, nel teatro in bianco e nero di Rotoletti, vanno in scena le prefiche velate e lamentose intorno al cadavere; l’imbellettamento della salma; i monumenti ai caduti di guerra, come Borsellino; Cristi lignei, candele, processioni e fumi d’incenso; altarini kitsch, immaginette sacre e cimeli profani. E profanati, come gli scatti dei defunti staccatisi dalle tombe, sparsi per terra abbandonati al cimitero di Santa Maria dei Rotoli di Palermo. Disperse vanno pure le ceneri di un’urna in mare, mentre a un morto si dà la mano e a un altro una bara vestita di fiori. Non manca nulla, tutto è pronto per l’aldilà; c’è persino un camposanto per i cani e una lapide per i migranti morti tra i flutti: i primi hanno nomi bellissimi, da Puch a Gip; i secondi solo un numero.

Ma qui si porta rispetto per ogni defunto, come recita “u mottu anticu: Si nun vennu li morti, nun caminanu li vivi”. Se non si lasciano tornare i morti, i vivi non possono camminare, andare avanti, continuare a vivere. D’altronde, nell’obbiettivo gli spettri si confondono: chi va e chi resta, chi è seduto e chi sdraiato, un corpo che lacrima e un altro che si secca, ma tutti irrimediabilmente fermi, in posa, i vivi come i morti. La foto li ha resi tutti invariabilmente immortali.

Merkel commossa: “Inaccettabile avere 590 morti”

Le mani giunte, la voce che a tratti le si spezza. Il discorso “più emotivo di sempre”, come l’ha definito Bild, Angela Merkel l’ha pronunciato ieri davanti al Bundestag, il Parlamento tedesco, per dire che se il “prezzo” del clima natalizio sono 590 morti di Covid al giorno, “questo è inaccettabile”. “Se la scienza ci supplica di fermare le scuole e ridurre i contatti una settimana prima – ha detto – va trovata una strada”.

“Il numero dei contatti è troppo alto. La riduzione non è sufficiente. Siamo in una fase decisiva, forse la più decisiva della lotta alla pandemia”, ha spiegato Merkel che da settimane si scontra coi Länder nel tentativo di imporre una stretta ulteriore per alleggerire il carico sul sistema sanitario. Ha chiarito di condividere le indicazioni dell’istituto scientifico Leopoldina, il quale suggerisce di chiudere le scuole (rimaste in Germania sempre aperte) una settimana prima del previsto, e di procedere a un lockdown più duro dal 24 dicembre al 10 gennaio, con la serrata dei negozi. In Germania anche ieri si sono registrati 20.815 nuovi casi in 24 ore. Le misure scattate il 2 novembre – quando sono stati fermati ristoranti, locali, turismo, istituzioni culturali e centri sportivi – non sono bastate per ora a far invertire la rotta. E dunque sale la pressione nello scontro con i Länder, più restii di fronte all’opzione di ulteriori restrizioni. Si invoca anche un vertice Stato-Regioni straordinario: ma non potrà tenersi prima del fine settimana per via del Consiglio europeo sul Recovery Fund.

Nel suo appello, la Cancelliera-scienziata è tornata a invocare l‘iIluminismo, ma stavolta ha anche portato la mano al petto: “Mi dispiace, mi dispiace di cuore, perché so quanto amore c’è dietro ogni iniziativa – ha detto –, ma gli stand per il vin brulè non sono compatibili con quel che abbiamo concordato sulla possibilità di portare il cibo a casa. E se il prezzo sono 590 morti al giorno, questo è inaccettabile”.

“Quando per Mosca l’arma letale Usa era uno scarabeo”

“Il complottismo è sempre esistito. Sarebbe errato pensare che siano gli Stati Uniti la patria della disinformazione solo perché Qanon negli ultimi tempi ha conquistato popolarità. In Russia, l’ex Unione sovietica, hanno una lunga storia su questo tema: la cospirazione sul 5G di oggi corrisponde all’invasione degli scarabei del Colorado di ieri”.

A parlare è Alexandra Arkhipova, docente universitaria all’Università statale di Mosca. La sua specialità si chiama konspirologjia.

Professoressa, ci racconti la storia degli scarabei del Colorado…

Nell’Unione Sovietica, ai tempi della Cortina di ferro, una delle teorie del complotto più comuni era questa: i soldati americani, col favore delle tenebre, cospargevano i campi di patate con gli scarafaggi della California, particolarmente aggressivi; il fine era quello di rovinare i raccolti, per sterminare i sovietici.

Altri ‘pericoli’ provenienti dal nemico di sempre, l’Occidente?

Il complotto delle Olimpiadi di Mosca nel 1980: le maestre in aula dicevano ai bambini di non accettare le gomme da masticare dai turisti stranieri perché erano avvelenate col fine, di nuovo, di eliminarci in modo sistematico e inesorabile.

Torniamo al presente. In Russia sono iniziate le vaccinazioni: che storie circolano?

La più comune è che il vaccino sia un’arma biologica affinata dal Cremlino prima sull’esercito, per ottenere sulle persone una risposta immediata, da automi. Ecco, il vaccino anti Covid per i complottisti russi serve a questo, ad aggiogare al potere i cittadini; infatti, secondo questa visione, non è un caso che dopo i militari, il vaccino toccherà agli impiegati statali, agli insegnanti. Così tutta la popolazione sarà sotto controllo.

Lei ci può fornire un identikit del complottista russo?

Ha dai 30 ai 50 anni; al contrario di quel che si può pensare una laurea, o comunque nel 70% dei casi un buon livello di istruzione. Nel caso del Covid-19, questi individui costituiscono una minaccia sanitaria per la società: non usano mascherina e distanziamento sociale, negano l’esistenza stessa del virus, che sarebbe un’arma di un governo – a volte russo, a volte estero – per renderci schiavi. Il 64% dei due milioni di messaggi da noi analizzati è basato su nozioni inventate per giustificare i loro ragionamenti.

Ci faccia qualche esempio.

I ‘consigli’ sul Covid sono svariati: alcuni ritengono che il rimedio migliore siano le cipolle. All’inizio dell’emergenza il 35% dei complottisti era concentrato a Mosca e San Pietroburgo, epicentri dei focolai della malattia. Adesso sono soprattutto in Siberia e negli Urali, dove mancano dottori e medicine negli ospedali.

Torniamo agli scarabei del Colorado e ai giorni nostri con la pandemia di coronavirus: a che conclusioni è giunta?

Che ogni decennio ha le sue teorie del complotto. Nell’ex Unione Sovietica si diceva: ‘Non credere a ciò che dice il governo’ e una domanda che spesso un sovietico poneva all’altro era: ‘Tu cosa hai sentito?’; perché le dicerie, sempre in contrasto con la versione ufficiale della propaganda, erano la prima risorsa di informazione per i cittadini. La maggior parte delle teorie del complotto si sono registrate nella Prima e Seconda guerra mondiale, ed è da quel momento che psicologi, antropologi e altri specialisti hanno cominciato a studiare il fenomeno.

Qanon, che sostiene il complotto globale delle élite pedofile americane come una minaccia per il mondo, ha presa anche in Russia?

Le teorie di Qanon hanno iniziato a diffondersi in Russia alla fine della scorsa estate, e fanno parte del più complesso universo della cospirazione che è apparso sui social network. Ma quelle ad alto potenziale sono le teorie del complotto domestiche.

Qual è la ‘cospirazione’ più in voga a Mosca attualmente?

Una delle storie che circola di più in rete è quella che i residenti a Mosca sono obbligati a indossare le mascherine perché il sindaco Serghey Sobjanin ha fabbriche segrete per produrle, e così si arricchisce in modo smisurato sulla credulità di chi vuol proteggersi dal virus.

Lei è diventata esperta di kospirologjia; come definirebbe questa disciplina?

Lo studio di una galassia delle teorie della cospirazione, attraverso cui si connettono le persone più diverse, con alle spalle esperienze, culture, nazionalità, ceti eterogenei. In momenti bui, di incertezza, alcuni soggetti vi ricorrono per dare risposte semplici a situazioni complesse. Non senza creare danni, per calcolo o ignoranza.