Brexit, tante spine nella cena di pesce fra BoJo e Von der Leyen

Cena a base di pesce, quella di ieri fra il primo ministro britannico Boris Johnson e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ieri a Bruxelles, e a nessuno è sfuggita l’ironia, visto che il contenzioso sui diritti di pesca è uno dei tre nodi negoziali rimasti fra Uk e Ue, insieme alla concorrenza e alla governance. Sulle quote di pescato ci si può mettere d’accordo, magari con una transizione graduale che attutisca le perdite economiche ed occupazionali. Solo che in ballo c’è altro, in quello che qualcuno definisce, a soli 23 giorni dalla scadenza finale, il momento della verità. In un tweet, sulla scaletta dell’aereo per Bruxelles, Boris si è fatto ritrarre sorridente, con valigetta rossa in mano. Il messaggio: “Possiamo ancora fare un buon accordo. Ma qualunque intesa troviamo, australiana o canadese, il Regno Unito prospererà come nazione indipendente”. Segue emoji della Union Jack. Il Regno Unito non ha accordi commerciali con l’Australia, quindi un accordo australiano significa nessun accordo. E il Canada rispetta gli standard europei, cosa che Londra non vuole impegnarsi a fare. Insomma, la coreografia di questa zona Cesarini dei negoziati richiede, da parte britannica, che il primo ministro si mostri rilassato di fronte alla prospettiva che un accordo non si trovi affatto, a costo di una profonda, ulteriore incertezza economica in cambio del progetto di Global Britain, con sfumature sovraniste, che sembra essere il grande ostacolo politico ad una intesa. Da parte sua Bruxelles non intende, a nome dei 27 paesi membri, cedere in un nessuno modo sull’integrità del mercato europeo che un’uscita non controllata di Londra potrebbe compromettere. Di conseguenza pone questa condizione: se decidesse di inasprire la propria legislazione su, per esempio, questioni ambientali o di diritti del lavoro, il Regno Unito non sarebbe obbligato ad adeguarsi, ma Bruxelles dovrebbe accettare un meccanismo di arbitrato internazionale che valuti se da questo mancato adeguamento Londra abbia vantaggi concorrenziali e, nel caso, imporre tariffe ai prodotti britannici. E quindi i due leader devono trovare un compromesso su una questione esistenziale per entrambe le parti.

Il Libano rischia la carestia. Governo, clan Hariri diviso

L’orizzonte politico, economico e sociale libanese rimane fosco e nebuloso come se i fumi tossici che hanno oscurato il cielo di Beirut dopo la devastante esplosione dello scorso 4 agosto aleggiassero ancora, non solo sulla Capitale, ma su tutto il Paese dei Cedri. La nomina in corner dell’ex premier Saad Hariri alla guida del futuro governo, avvenuta tre settimane fa dopo le dimissioni dell’indipendente Mustapha Adib, che aveva a sua volta sostituito Hassan Diab già sostituto di Hariri, non sembra avere finora convinto i donatori internazionali ad accordare gli aiuti economici fondamentali per rimettere in piedi il Libano che lo scorso marzo dichiarò default. Del resto fu proprio la gestione della cosa pubblica portata avanti da Hariri ad aver scatenato nell’ottobre dello scorso anno le proteste di massa che lo costrinsero a dimettersi.

La sua terza nomina è la dimostrazione che in questa piccola terra tra le più conflittuali e martoriate del mondo, anche a causa della sua posizione geostrategica, tutto cambia per non cambiare. La decisione ‘gattopardesca’ di riportare Hariri al vertice del prossimo esecutivo, sempre che riesca a formarlo date le imposizioni ricattatorie dei potenti rivali sciiti di Hezbollah sostenuti dall’Iran, è la prova provata che la piattaforma realizzata dalla società civile scesa nelle piazze per chiedere la sostituzione della vecchia guardia non è stata ascoltata dalle cosiddette autorità. A partire dal presidente cristiano Michel Aoun, leader del movimento patriottico libero, asceso alla presidenza grazie ai voti di Hezbollah e dell’altro partito sciita Amal, la vecchia guardia si è ricompattata tirando nuovamente fuori dal cappello lo stesso ‘coniglio’ nella speranza di convincere i donatori. Come se un anno di proteste e fame non fossero serviti a nulla. Nella seconda conferenza internazionale avvenuta da remoto il 2 dicembre scorso, presieduta dal presidente francese, Emmanuel Macron e dal Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, con la partecipazione di 32 Paesi, 12 organizzazioni internazionali e 7 organizzazioni non governative libanesi, è stato ribadito che gli aiuti verranno accordati solo se verrá costituita una squadra di governo affidabile per mettere a punto le riforme a lungo auspicate. A parte la mancata presentazione dei risultati dell’indagine sull’esplosione di agosto, i paesi donatori si sono detti molto preoccupati a causa del costante deterioramento delle condizioni di vita della popolazione libanese, peraltro gravemente colpita anche dal Covid. In soli 12 mesi il tasso di povertà è aumentato dal 28% al 55% costringendo molti libanesi a emigrare. Inoltre i partecipanti alla conferenza si sono detti concordi con le recenti dichiarazioni della Banca mondiale, secondo cui quella vissuta dal Libano è una vera e propria “recessione deliberata”, ovvero provocata dall’inerzia e insipienza delle autorità.

La prima conferenza dei paesi donatori era stata organizzata da Parigi subito dopo l’incidente al porto di Beirut. Allora i partecipanti avevano accettato di fornire circa 300 milioni di dollari in aiuti urgenti, sotto la supervisione delle Nazioni Unite. La direttrice del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) Kristalina Georgieva ha reso noto che il Fondo si è impegnato ad aiutare il Libano nell’attuare le riforme necessarie, ma il Paese è tuttora privo di un quadro finanziario coerente e di una strategia affidabile per riabilitare il settore bancario.

La traduzione sul campo di queste trattative è la carestia. Una condizione che fa immediatamente pensare all’Africa e non all’ex Svizzera del Medio Oriente. Il pericolo più urgente è infatti la sicurezza alimentare e sanitaria. “Il Libano presto potrebbe non essere più in grado di nutrirsi da solo e curarsi” visti i crescenti tassi di povertà e di inflazione, ha affermato il ministro britannico James Cleverly, ribadendo che si tratta di una problematica causata dalla classe dirigente.

Non sarà facile comunque per il rampollo Saad formare il governo. Tra coloro che stanno facendo di tutto per impedirglielo c’è il fratello maggiore, il ricchissimo Baaha, colui che nelle intenzioni del padre , l’ex premier Rafik, assassinato nel 2005 da esponenti di Hezbollah, avrebbe dovuto prenderne il posto per garantire il mantenimento al potere della propria stirpe, cioè la famiglia sunnita più potente del Libano. Da un anno Baaha sta costruendo la propria entrata in scena, con tv e giornali acquistati per l’occasione.

Petrolio & lusso. L’islam tacco 12

I sovrani delle petromonarchie sono prosperati nel luogo forse più arido e inospitale del pianeta, il Golfo, epicentro di un capitalismo finanziario mondiale che è nel contempo anche il guardiano, il custode di un’ortodossia islamica sempre più contesa e insanguinata.

La doppiezza di queste petromonarchie rappresenta un vero e proprio enigma. Pensiamo al Louvre di Abu Dhabi, un museo che custodisce il quadro più costoso del pianeta: il Salvator mundi attribuito a Leonardo da Vinci che all’asta di Christie’s è stato pagato dagli Emirati Arabi Uniti 450 milioni di dollari; o al Museo Nazionale del Qatar, nella Capitale, a Doha, costruito da un’archistar a forma di rosa del deserto, nel quale verrà a breve esposto un quadro di Gauguin pagato più di 200 milioni di dollari. Tutto ciò in Paesi islamici la cui la dottrina ufficiale vieta la rappresentazione per immagini, essendo rigorosamente iconoclasta. Tale doppiezza di cultura e di relazioni economiche racchiude l’enigma del loro futuro: l’enorme ricchezza e al tempo stesso la fragilità di questa nuova forma di capitalismo cresciuto lontano da ogni concezione democratica di società liberale.

Prima della pandemia, Dubai, città degli Emirati Arabi Uniti, è stata la quarta città più visitata del mondo dopo Bangkok, Londra e Parigi. Tanti occidentali hanno trovato qui la meta dei loro affari, si potrebbe dire la Mecca degli affari. È grazie all’oro nero, al petrolio, che si è verificata la trasformazione radicale dei regimi semifeudali del Golfo, che hanno potuto costruire innaturali metropoli e allestire un sistema raffinatosi anche nell’utilizzo degli strumenti finanziari. Un mondo che sembra annunciare una possibile separazione dei destini futuri del capitalismo dall’idea della società liberale che a essa si pretendeva connaturato. Lasciando immaginare una globalizzazione che preveda una futura crescita economica, un futuro arricchimento senza diritti. Ma su che cosa si fonda questa crescita, questo arricchimento senza precedenti?

Le società del Golfo restano semifeudali. Si fondano su un rapporto “uno a dieci” tra i cosiddetti nationals, cioè i fortunati cittadini residenti titolari di passaporto, molto spesso nullafacenti, in grado di vivere di rendita, “seduti” su una condizione di privilegio che si fonda sullo sfruttamento degli altri dieci: i non cittadini immigrati. Soltanto nella città di Dubai si contano 300 mila nationals e 3 milioni di immigrati che vivono in una condizione semplicemente servile. Sono emigrati per lo più dallo Sri Lanka, dalle Filippine, dall’India, dall’Asia, dall’Estremo Oriente per svolgere le mansioni più umili, sia nell’edilizia che nella cura domestica e che vengono retribuiti mediamente 300/400 dollari al mese lavorando spesso fino a 60 ore alla settimana. Quando ho visitato in Qatar, a Doha, i cantieri per la costruzione degli stadi di calcio e delle linee di trasporto veloci per i Mondiali del 2022, mi ha impressionato vedere quanto spesso venisse violata la regola secondo la quale è proibito lavorare dalle 11 del mattino alle 16, cioè nelle ore della canicola più assoluta. Ma i lavoratori edili non hanno altra scelta, il loro passaporto è nelle mani del datore di lavoro che di fronte alla minima manifestazione di indisciplina può prenderli e sbatterli fuori. Questo è qualcosa di molto diverso dallo sviluppo capitalistico di una società liberale così come noi pensavamo fosse naturale e auspicabile. La differenza, è chiaro, la fa in qualche modo l’impronta di una dottrina ufficiale che si impersona nella figura del Monarca, perché il petromonarca è anche il custode dell’Ortodossia islamica e gode di una legittimazione dall’alto, cioè di una trasformazione degli equilibri interni al mondo islamico che un secolo fa ha spostato da Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, alla Mecca il fulcro della legittimità religiosa. […]

Vedere cosa è diventata oggi la Mecca, capitale dell’Islam mondiale, fa impressione perché le trasformazioni sono state radicali creando uno stridente accostamento fra materialismo edonistico e misticismo e fede religiosa. Sulla grande spianata dove ha sede la Kaaba, cioè dove è custodita la Pietra Nera, sorge uno dei grattacieli più alti del mondo, il Royal Hotel Clock Tower, 610 metri di altezza, 120 piani con delle suite di gran lusso, affiancate dalle boutique degli stilisti di tutto il mondo. Naturalmente molti fedeli ne sono infastiditi e accusano il sovrano saudita di strumentalizzare la fede religiosa ai fini del proprio potere e del proprio arricchimento. Eppure il compromesso sembra reggere. Per mantenere il potere, i ricchi hanno bisogno della religione, e quindi non possono dichiararsi meno osservanti di prima. Al massimo possono fare il doppiogioco. I Paesi del Golfo un tempo erano luoghi misteriosi, dove era molto difficile accedere per i non musulmani. Ma oggi il turismo di massa e il business hanno cambiato tutto. A Dubai non esiste quasi nessuna limitazione anche nel consumo dell’alcool, nell’indossare abiti succinti. Non esiste neppure un vero severo divieto della prostituzione in pubblico se non per l’eccezione dell’omosessualità che resta perseguita in maniera categorica. Poi ci sono le situazioni opposte. Entrare in Arabia Saudita, i veri Guardiani del Santuario, implica normative molto severe nell’abbigliamento delle donne, nella loro separazione dagli uomini in diverse attività. E poi c’è la via intermedia, quella che io chiamo del “doppio binario” che ho potuto personalmente incontrare visitando il Qatar che può già fare a meno del petrolio perché ha ancora da estrarre moltissimo gas naturale che però condivide con l’Iran, che sta dall’altra parte del Golfo, quasi visibile. E dunque, pur essendo uno Stato islamico a maggioranza sunnita e pur essendo viceversa l’Iran il capofila degli sciiti, sono costretti ad avere buoni rapporti. Il Qatar si è proposto infatti come mediatore in varie circostanze, lo ha fatto anche con i talebani che hanno un’ambasciata a Doha. Qualsiasi negoziato sull’Afghanistan passa di lì, così come sono passati di lì gli emissari israeliani ben prima della firma del cosiddetto Patto di Abramo. [..] Lo sceicco Al Thani, il signore del Qatar, con le sue quattro mogli e tutta la dinastia, continua a richiamarsi con estrema severità all’Islam wahabita, ma allo stesso tempo è protagonista di un business globale, di cui i Mondiali di calcio 2022 sono soltanto un simbolo. E allora per strada incontri delle donne che indossano il niqb, una mascherina di stoffa venduta abitualmente nei mercati, simbolo di un’oppressione medievale della donna che quando lo indossa sul volto porta anche l’abaya, cioè l’abito nero che la copre e l’avvolge completamente.

È vero, ma quante volte mi è successo, entrando in albergo, di vedere queste signore di cui già avevo scrutato il tacco 12 sotto l’abaya togliersi di dosso questi ingombri e apparire discinte in abiti sexy, e magari andare al bar a chiedere un bicchiere di whisky perché lì, nel bar del grande albergo, gli alcolici sono consentiti così come sono rigorosamente vietati altrove. Ci si adatta: è il doppio binario che naturalmente vige in ambiti ben più delicati. Il rapporto uomo-donna resta parametro fondamentale per definire i codici di una civiltà che non promette niente di buono per il futuro: non è solo una dottrina ufficiale di Stato, è l’inquietante visione di un mondo senza libertà.

 

Gualtieri, la fortuna e il contropaccotto

Nella lontanabattaglia di El Alamein, almeno così recita la targa, ai soldati italiani “mancò la fortuna, non il valore”. Ecco per il valore non sappiamo, ma certo la fortuna non è mai stata amica del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri nelle sue battaglie in Europa: non un bel pensiero mentre il nostro s’appresta a garantire al Paese la mitica “logica di pacchetto”, ancorché a scoppio ritardato. Riassumendo, l’idea è che ora Gualtieri debba portare a casa da Bruxelles – così dice la risoluzioni di maggioranza – un’assicurazione comune sui depositi bancari non penalizzante per l’Italia, un bilancio comune dell’Ue non estemporaneo (il Recovery Fund dura sei anni), modifiche sensate al Patto di Stabilità (i vincoli di bilancio) e altre cosette. Lasceremo da parte ogni valutazione su una tattica negoziale basata sull’approvare prima delle altre la cosa che non ci piace/non ci interessa e ci concentreremo invece su Gualtieri. Dieci anni e tre mandati a Strasburgo, il nostro è spesso finito nella classifica degli eurodeputati più influenti stilata da Politico (all’ultimo giro era terzo). Tutta quell’influenza, però, non è che abbia prodotto grandi risultati: nel 2011, per dire, Gualtieri era nel Comitato ristretto a quattro che negoziò a nome dell’Europarlamento il Fiscal compact. Mancò la fortuna. Più o meno come sulla direttiva Brrd, quella del bail-in che alle banche italiane ha fatto più danni della grandine: in realtà il 2 luglio 2015, in una nota Ansa, il nostro si difendeva il bail-in come fosse un’idea sua, poi nel 2016 in un’intervista a Report disse “è una direttiva fatta male” e sostenne di averla votata “perché era l’indicazione di tutti i partiti”. Nel 2018, cogliendo fior da fiore, la sua pugnace azione da relatore sul calendar provisioning – con cui la Bce impone la copertura a passo di carica delle “sofferenze bancarie” – portò il grande risultato di spostare da 7 a 8 anni il tempo limite per alcuni Npl: Mediobanca l’ha definito “una bomba atomica nel post-Covid” e infatti entra in vigore a gennaio. Insomma, di sicuro a Gualtieri mancò la fortuna e quanto al valore non si sa: ora lo mandiamo a garantirci il nuovo “pacchetto”, ma senza dotarlo né di doppio pacco, né di contropaccotto. Un atto di ottimismo forse eccessivo.

Mail box

 

I femminicidi non sono mai accettabili

Gentile Marco, abito a poche centinaia di metri da quei poveri genitori a cui è stata assassinata la figlia, madre di due bambini, uccisa dal proprio marito addirittura nello stesso giorno dedicato alla violenza sulle donne. Ora che lo sconforto e il dolore che noi tutti stiamo provando mi pare pure normale che ci cresca sempre più nella nostra testa quell’odio verso l’omicida tanto da evocare il ripristino della pena di morte. Certo nella vita ci si deve aspettare di tutto, posso accettare le disgrazie causate dalla natura tipo terremoti, malattie, ma questi fatti no.

Ermes Zille

 

L’inguaribile epidemia delle polemiche in tv

Le epidemie nel nostro paese sono almeno due: la prima, impossibile da debellare, è la peste delle polemiche in televisione. Poi c’è il Covid-19, che presto riusciremo a sconfiggere con i vaccini. Anche la peste della polemica colpisce tutti: nonne salviniane, primari, tronisti, ecc., tutti con un’opinione e un insulto da sputare in un microfono contro il governo. Poi si spegne l’apparecchio per andare a dormire e tutte le discussioni si tramutano in un rumore di fondo, presente ma inconferente.

Gualtiero de Filippis

 

Concordo con Regasto sull’abuso d’ufficio

Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un intervento del professore Saverio Francesco Regasto dal titolo “L’abuso di ufficio non esiste più: ha vinto l’impunità di gregge”. Concordo con le critiche fatte dal giurista alla legislazione di urgenza che, con il pretesto della “semplificazione”, ha prodotto questa nuova inaccettabile mutilazione del codice penale.

Desidero sottolineare che nel tentativo di questo scempio, avevo revocato su Il Mattino del 9 luglio 2020 il lungo iter di riforma di questo reato contro la Pubblica amministrazione (ne ero stato il relatore nel lontano 1997 in Commissione Giustizia della Camera). Il prof. Regasto auspica un intervento della Corte costituzionale che metta le cose a posto. Sono pienamente d’accordo e spero che la questione venga sollevata da qualche magistrato.

Vincenzo M. Siniscalchi

 

Iv, mosca cocchiera dell’attuale governo

Cosa ci fa l’Innominabile ancora sugli scranni del Senato a capo di un partito del 3% scarso? La mia risposta è “La mosca cocchiera”. Incomprensibile. Giura di ritirarsi dalla politica. Non lo fa. Fa il senatore nelle compagini del Pd. Promuove l’alleanza con i 5S e poi con una mossa fonda il partitino Iv. A questo punto, decide che tutto ciò che di positivo va dato al governo, è tutto o in parte merito suo, ma se qualcosa va male: dàgli al governo! E se non succede niente? Tranquilli… ci pensa il senatore a fare un po’ di casino per mettersi in luce.

Giorgio Di Mola

 

Anch’io sono dalla parte della stampa libera

Mi associo nuovamente a tutti i lettori che in forme diverse, anche “all’attacco”, si sono proposti per sostenere le cause civili contro la stampa libera.

Colecchia Zanello F.

 

Ospiti dei “talk show” insipidi e poco credibili

Nei quotidiani talk show che infestano la tv, c’è una cosa che mi colpisce negativamente: la ripetitività trasversale degli ospitati. Spesso persone che non hanno nulla di interessante da dire, o che ripetono a pappagallo, se politici, le direttive di partito. Però con un denominatore comune: per il fatto di essere sempre nella magica scatoletta della tv, trasmettono ai telespettatori la falsa immagine di autorevolezza e professionalità che in genere non hanno.

Enrico Costantini

 

Il sindaco Sala è fiero della sua guida di Milano

Gentile Travaglio, Sala ha detto: “Fiero di come ho guidato Milano e di averlo fatto”. Mi sarebbe gradito un suo commento.

Giampiero Bonazzi

Il mio commento è una risata.
M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Leggo l’articolo di ieri, dal titolo “Lombardozzi, dal caos-mascherine al piano-antidoti: scelta da Zingaretti” a firma del bravo Vincenzo Bisbiglia, e desidero fare alcune precisazioni. La dottoressa Lorella Lombardozzi è da anni la dirigente responsabile dell’area farmaci e dispositivi della Regione Lazio, con ottimi risultati; se pensiamo ad esempio, alla copertura vaccinale in età pediatrica da O a 24 mesi, la Regione è tra le prime a livello italiano. Così come l’uscita da una lunga stagione di commissariamento è legata anche ai risultati ottenuti nella gestione della governance del farmaco. Non vi è alcuna scelta politica, ma dettata esclusivamente da motivi professionali e da un profondo senso del dovere che caratterizza la nostra dirigente. La dottoressa Lombardozzi dirige la Task force del vaccino Covid-19 in quanto responsabile dell’area farmaci e dispositivi, così come, nei singoli territori, sono stati chiamati i rispettivi dirigenti farmacisti delle aziende sanitarie e degli ospedali. È una scelta meramente funzionale, legata alle specifiche competenze tecniche e professionali e nulla ha a che fare con gli altri temi inseriti nell’articolo.

Alessio D’Amato, assessore Sanità Regione Lazio

Covid-19 “Io, sopravvissuto grazie all’amore dei medici e della famiglia”

“Amore, credo di avere la febbre…”. È cominciato così il mio incubo e la mia lotta con il Coronavirus, durati oltre due mesi. Una febbre strana, diversa da quelle che solitamente capitano, una febbre che ti brucia dentro e ti spezza, ti debilita, ti stanca, ti rende inerte rispetto a qualsiasi stimolo vitale; perché il virus non ha pietà, crea il caos e prende tutti gli organi. Il corpo cerca di reagire, ma non riconoscendo il nemico risponde in maniera disordinata. I medici, ho imparato successivamente, la chiamano “tempesta di citochine” e contribuisce a distruggerti… Subdolo, il maledetto semina il panico nel tuo esercito immunitario trasformandolo in un alleato… una guerra interna che ti consuma come un cerino… La scommessa è riuscire a non spegnersi, magari per mancanza di ossigeno, trombosi o qualche altro disastro. E così rimani angosciosamente sospeso tra speranza e preoccupazione, fiducia e paura. Tanta paura, quella che cerchi di mascherare soprattutto a chi ti vuole bene e magari dovresti proteggere: “Vado in ospedale per i controlli, mi raccomando non fate arrabbiare la mamma”. “Va bene, ciao papà”. E poi solo il tonfo cupo della portiera dell’ambulanza che ti chiude al mondo.

Da quel momento sei solo. E ti ritrovi in un letto d’ospedale a cercare Dio, tra il rumore dell’ossigeno e il silenzio di chi si trova nella tua stessa condizione o magari peggio; tra una luce che proprio non riesci a vedere in fondo al tunnel e i neon del pronto soccorso accesi anche di notte. E mentre le crisi respiratorie diventano sempre più frequenti, e ti rubano fino al 60 per cento dell’ossigeno, l’angelo del Signore si avvicina a te e ha il volto coperto dai dispositivi di protezione e la voce calma e assertiva di un medico che ti chiede il consenso per una terapia sperimentale dicendoti: “Hai le caratteristiche adatte”. Bisogna saper riconoscere Dio, e dirgli di sì. Ed eccomi qui a scrivere queste poche righe, dopo un lungo e sofferto percorso ospedaliero e di quarantena, che ti devasta fisicamente e mentalmente e che ti segna nell’anima, che ti ricorda quanto siamo fragili e quanto dovremmo saperci amare l’un l’altro piuttosto che combatterci. Perché al di là di tutto quello che più riscopri dopo tanta paura e sofferenza, è il valore dell’amore, quell’amore che dopo due mesi di naufragio leggi su una vela bianca con al centro un cuore e l’arcobaleno, tenuta dalle tue bambine. Quell’amore che rivedi negli occhi e nel sorriso di tua moglie quando, aprendo la porta della camera, lo incroci dopo avergli detto: “Sono negativo, Amore!”.

Sandro Cacciatore

Milano, con il virus è finita la retorica. Ed è arrivata la realtà

Il soufflé si è sgonfiato. Milano è rimasta senza storytelling. La pandemia ha ucciso la stucchevole retorica della “città dell’Expo”, bella, ricca e cool, tutta grattacieli, finanza, locali, brand, stilisti, chef stellati, food e movida. Diventata capitale della seconda ondata Covid, si è trasformata in una città chiusa, silenziosa e deserta, sfiduciata e impaurita. Qui la crisi da virus pesa più che in ogni parte d’Italia: senza più la melassa retorica con cui si è raccontata negli ultimi anni, Milano è restata senza le parole per dirsi, preda di uno smarrimento più grande. Si credeva metropoli europea, efficiente e vincente, felice dispensatrice di successo e di eccellenze. Si è scoperta invece incapace di proteggere i suoi vecchi lasciati morire nelle case di riposo, di curare a domicilio famiglie intere infettate e abbandonate per mesi a se stesse, di riorganizzare i suoi trasporti in sicurezza, perfino di garantire un normale piano di vaccinazioni anti-influenza. Tutto era smart, scintillante, positivo, innovativo, affluente, glorioso. Il livello era alto, dunque la caduta è stata più dolorosa. Il soufflé si è sgonfiato e sono apparse impietose le rughe e le crepe di un sistema che si mostrava invincibile ed era invece fragile e friabile, più narrazione che sostanza, più marketing che realtà. Nascondeva le lacrime e la rabbia delle disuguaglianze crescenti dietro il make up del successo che crea successo e dei soldi che creano soldi.

La città ha perso da decenni la sua anima industriale e produttiva, ha da tempo smarrito il suo orgoglio di capitale morale. Li ha sostituiti con una fantasmagorica ma incerta identità neo-terziaria, con i rider colonna portante loro malgrado del nuovo sistema, sotto cui riposa una rendita antica e ricchissima e sopra cui svettano le torri dei nuovi Signori della città, i grattacieli con il logo ai led dei nuovi Capitani di ventura (Unicredit, Paribas, Generali, Allianz…).

Milano merita una rinascita. Potranno mai realizzarla gli uomini della vecchia narrazione, dei magheggi Expo replicati con il banchetto delle Olimpiadi? Il “ritorno alla normalità” – come diciamo nella pubblicità del Fatto – non potrà essere un ritorno alla normalità di prima. Ma non si vedono uomini nuovi, solo i vecchi più intristiti e stanchi, meno entusiasti, con addosso il peso dei grandi affari già avviati che devono portare a compimento. Non si vedono punti di riferimento, personalità capaci di parlare allo smarrimento e indicare il cammino per la ripresa, come furono in passato – per buttare qualche nome alla rinfusa – Antonio Greppi e Raffaele Mattioli, Carlo Maria Martini e Leopoldo Pirelli, Italo Pietra e Camilla Cederna, Paolo Grassi e Giorgio Strehler, Dario Fo ed Enzo Jannacci. Il socialismo ambrosiano, quello della Società Umanitaria che piaceva perfino al conservatore Carlo Emilio Gadda, è dimenticato. Riformismo è diventata una parola vuota, uno slogan da agitare, niente a che vedere con il riformismo vero che tirava su in pochi anni interi quartieri di case popolari per accogliere a Milano migliaia di terroni del Sud e del Nord (tra cui i miei genitori friulani, fieri di essere diventati milanesi).

Oggi si cerca invece di consolarsi accontentandosi di poco, di Ursula von der Leyen che ripete “Milan l’è on gran Milan”, dei droni che volano tra i grattacieli e la Madonnina nel giorno di Sant’Ambrogio per la prima volta senza Opera. Milano intanto resta con l’aria avvelenata, mentre aspetta i grandi affari che porteranno nuovo cemento per nutrire la prossima bolla immobiliare e soldi anonimi arrivati dall’estero, anch’essi a loro modo covidizzati, perché non hanno odore. Si cerca di tornare, senza nemmeno più crederci troppo, alla stessa retorica magniloquente del passato. Ma il soufflé, una volta smontato, non si può ricreare.

 

L’ex ad Bernabè smentisce l’Eni: non ero ad quando entrò Amara

Riceviamo e pubblichiamo la lettera indirizzata all’Eni dall’ex Ad Franco Bernabè in riferimento a un passaggio del libro “Magistropoli” di Antonio Massari (edito da Paper First).

Nel libro di Antonio Massari Magistropoli da pochi giorni nelle librerie, è descritto tra l’altro come Eni avrebbe avviato nel 2003 rapporti con l’avv. Piero Amara. Si fa cenno al fatto che l’avvocato Amara fu incaricato di assistere Syndial nell’indagine denominata “mare rosso” avviata nel 2003 dal pm Musco della Procura della Repubblica di Siracusa. Secondo quanto risulta dal libro, Eni, interpellata espressamente da Massari, gli avrebbe inviato una nota sulla vicenda che ora appare pubblicata, peraltro anonima, anche se “virgolettata”, come nota 1 al capitolo secondo del libro. In questa nota Eni avrebbe tra l’altro scritto che “tutta la vicenda (mare rosso) venne gestita dal prof. Federico Stella incaricato direttamente dall’ex Ad Franco Bernabè”. Suppongo che sia noto a Eni che nel 2003 non ero più amministratore delegato di Eni da 5 anni e che, quindi, nulla ho mai avuto a che fare con la suddetta indagine della Procu ra di Siracusa e tantomeno con l’avv. Piero Amara di cui ho sentito parlare solo nelle recenti cronache giudiziarie che hanno riguardato e riguardano Eni. Non mi è facile capire le ragioni – sempre che, ovviamente corrisponda al vero che la nota sia di effettiva provenienza di Eni – che potrebbero aver indotto Eni a usare il mio nome in modo del tutto gratuito per diffondere una notizia che Eni stessa non può non sapere essere falsa. Mi limito a osservare che il lettore del libro, proprio a seguito della nota Eni, è naturalmente portato a credere in modo falso che io possa aver avuto un qualche ruolo nella decisione di Eni e dei suoi legali, interni ed esterni, di cominciare ad avvalersi dei servizi di Piero Amara. Costui già risulta aver patteggiato la corruzione giudiziaria di un altro Pm di Siracusa per affari apparentemente correlati a Eni, ed è tuttora indagato dalle Procure di Milano e Roma ove gli si contesterebbe, così si legge nel libro e così risulta dalle cronache, di aver costituito una “piattaforma nazionale di corruzioni giudiziarie”. Non posso tollerare che il mio nome sia stato accostato proprio da Eni a tale personaggio e attendo che Eni provveda immediatamente e con tutta l’evidenza richiesta dalla larga diffusione del libro Magistropoli, a ristabilire la verità, altrimenti, non potrò che agire in ogni sede, penale e civile, a tutela della mia reputazione di ex amministratore delegato di Eni, dal 1992 al 1998, da sempre impegnato in prima linea contro la corruzione.
Franco Bernabè

 

Confermo che la nota in questione è stata redatta, riproducendo alla lettera, fra le numerose altre, la segnalazione, inviatami da Eni, in risposta alla mia richiesta di fornirmi la sua versione, riguardo alcuni fatti riportati nel libro. Avevo offerto la massima disponibilità a inserire nel testo le annotazioni che Eni avesse ritenuto necessarie dal suo punto di vista, inviando addirittura il capitolo sul quale stavo lavorando, senza porre peraltro alcun limite alla lunghezza che avrebbero avuto le risposte che avrei ricevuto ed ovviamente inserito in quel testo. È una circostanza che Eni stessa conferma, anche se mi contesta di aver riportato la nota in questione, nonostante la raccomandazione dell’off the record, del tutto incompatibile con lo scopo che quella precisazione, al pari delle altre, avrebbe dovuto avere. Tengo a precisare, perciò, che mai ho chiesto a Eni o ho inteso ricevere annotazioni off the record, che ho, dunque, utilizzato com’era nelle cose che facessi; e, perciò, che non ero tenuto a tenere riservata la fonte, perché non ho mai interpellato Eni in qualità di fonte, che avrebbe potuto chiedere di rimanere segreta. L’ho interpellata per iscritto, così che le mie intenzioni risultassero chiare, in via assolutamente ufficiale e in palese contraddittorio rispetto alle tesi – non mie – emerse nel corso di svariate indagini tuttora in corso, perché Eni potesse, se avesse voluto, dare voce alle proprie tesi, con la mia più ampia collaborazione, il tutto nell’esclusivo intento di fornire un’informazione corretta e completa, tanto più perché relativa a una società quotata in borsa. Le ho, dunque, utilizzate nello stesso interesse di Eni, poiché è indubitabile – o così avrebbe dovuto essere, nelle mie intenzioni – che nessuna delle loro informazioni fosse tesa a danneggiare l’Ente ma, come è agevole comprendere, a tutelarlo. Ovviamente, vista l’autorevole provenienza dell’informazione e il fine condiviso che ci proponevamo, evitare imprecisioni, dare voce a Eni e fornire ai lettori un testo completo, mi ha sorpreso molto e mi è dispiaciuto constatare, piuttosto, che l’informazione fornitami da Eni, relativa al dottor Bernabè, non fosse corretta. L’errore è imputabile in via esclusiva a chi me l’ha fornita, ma ovviamente, per quanto nelle mie possibilità, in una eventuale ristampa, provvederò a correggere l’errore, sebbene non sia mio, per ristabilire la verità dei fatti.
Antonio Massari

 

C’è logica e complicità nel ricatto renziano

Non c’è persona sana di mente e con la testa sulle spalle che possa augurarsi una crisi di governo dagli esiti oscuri nel bel mezzo della pandemia, nella stretta sul Recovery, con l’avvio del piano antivaccini. Forse neppure tra le opposizioni. Ancor più sconcertante che le insidie vengano da dentro la maggioranza. Rientrate quelle dei “ribelli” del M5S sulla riforma del Mes, a minacciare la crisi, puntuale, ci si è fiondato Renzi. Oggetto: la regia del Recovery. Il soggetto, non il progetto, il chi non il cosa. Un problema di potere, non di contenuti. Naturalmente, figurarsi, nobilmente rivestito con alte ragioni costituzionali: il primato della politica, il rispetto dovuto a governo e Parlamento che non possono essere prevaricati dai tecnici, la reazione all’asserita pretesa dei pieni poteri da parte del premier. Conte fa bene a portare pazienza, a non cadere nelle provocazioni. Sia perché l’Europa ci osserva, sia per smascherare l’ipocrisia. Di più: egli faccia un sincero, estremo tentativo di recepire l’eventuale anima di verità dei rilievi critici. Si corregga ciò che merita, si chiarisca ciò che va chiarito e si smonti l’alibi di chi eccepisce strumentalmente. Del resto, è cosa nota e persino dichiarata che, a precedere il soprassalto di oggi, è stata la richiesta di un rimpasto di governo. Ciò detto e auspicato, giova interrogarsi sull’attendibilità di chi bolla Conte come un autocrate e solleva problemi di conformità costituzionale. Renzi? Basterebbe un briciolo di memoria: come ignorare teoria e prassi della sua smodata personalizzazione della politica e del potere? Sia come segretario del Pd, al punto da condurre gli osservatori a rappresentare il Pd – il più partito tra i partiti – come PdR, il partito di Renzi; sia come Presidente del Consiglio circondato da fedelissimi, prodigo di nomine fiduciarie e di commissari deputati a bypassare ruoli e procedure amministrative codificate (vedi lo “sblocca Italia”); sia nell’ispirazione della riforma costituzionale poi provvidenzialmente bocciata ma – come rilevato da tanta parte della comunità dei costituzionalisti – caratterizzata da una concentrazione dei poteri in capo a maggioranza e premier. Un’architettura costituzionale disegnata su misura per se stesso. Renzi è notoriamente un politico spregiudicato, un giocatore d’azzardo. Ma sa fare i suoi conti, risponde a una logica. Sotto due profili. Il primo: a torto o a ragione, egli fa conto che, a dispetto della voce secondo la quale, in caso di crisi, il Quirinale scioglierebbe le Camere, sarebbe invece più probabile un nuovo governo. Auspicabilmente (da parte sua) senza Conte, un ingombrante competitor politico. Una rassicurazione sussurrata ai suoi parlamentari, come e più degli altri terrorizzati dalla prospettiva che si precipiti a elezioni. Una pattuglia che a lui si affida, ma che egli sa bene di che pasta è fatta: potrebbe lasciarlo se davvero si prospettasse il voto. Qualcuno si chiede: come può pensare Renzi di trarre vantaggio dal suo ruolo di Ghino di Tacco? Non decollando il suo partitino tra gli elettori, egli tuttavia si fa forte del potere di ricatto nel Palazzo e della visibilità assicuratagli dai giornaloni espressione dei gruppi interessati a mettere le mani sui 209 miliardi Ue. Altro che primato della politica. Il secondo profilo, va detto, riguarda le tribù di cui si compone il Pd. Il solo Franceschini sembra responsabilmente impegnato a puntellare Conte e il governo. Anche da quelle parti si è sensibili all’obiettivo di partecipare al nucleo stretto della cabina di regia che presiederà alla destinazione delle ingenti risorse europee. Evidentemente Gualtieri non basta, troppo leale al premier e comunque non li rappresenta (e accontenta) tutti. Un indizio? Non è sfuggita la circostanza che, non solo Renzi, ma anche altri, nel Pd, da settimane, premevano per un rimpasto: da Bettini a Orlando per non parlare di Marcucci. Tutti, naturalmente, raccontandoci e raccontando di volere rafforzare Conte. Ora si vede la loro lungimiranza… Dunque, Conte fa bene a non precipitare le cose, a mostrarsi responsabile anche per chi non lo è, a mediare ancora, se possibile. Con un’avvertenza: che sia l’ultima volta. Pena passare di ricatto in ricatto. A danno non del governo, ma del Paese. Poi – Travaglio ha evocato il precedente – faccia come Prodi all’epoca: sfidi partiti e singoli parlamentari a sfiduciarlo alle Camere mettendoci la faccia. Gli italiani giudicheranno. A Bertinotti e Mastella non è andata benissimo. Meglio perdere che perdersi.

 

Feltri figlio, la Boldrini e come colpevolizzare una vittima di stupro

Ancora sulla censura di Mattia Feltri a Laura Boldrini. 17) “Alcuni mi hanno persino spiegato che di mio pugno avrei dovuto aggiungere in coda al suo pezzo due righe di dissenso, ma temo sarebbe stata un’innovazione un po’ brusca e vagamente comica nella plurisecolare storia del giornalismo” (Sarebbe stato comico non quel dissenso da Boldrini, ma la pregiudiziale familista che lo informa e che è emersa. La storia dei blog non è plurisecolare, puoi essere creativo). 18) “In ogni caso lasciar correre sarebbe stato un tradimento verso gli altri blogger” (No, è un tradimento – dei tuoi blogger, dei tuoi giornalisti e dei tuoi lettori – la censura a Laura Boldrini). 19) “L’onorevole Boldrini mi ha avvertito che, se non avessi pubblicato il blog, avrebbe reso pubblica la nostra telefonata. Ricordo di essere stato zitto un secondo, di avere valutato la violenza della minaccia, poi ho preso la decisione che continuo a considerare la più dignitosa: allora non pubblico, ho risposto” (È sempre opportuno rendere note le ragioni di una censura subita. Parlare di “minaccia” trasforma il censore in vittima. La censura non è mai una “decisione dignitosa”) 20) “La censura è la pratica di controllo del potere sulla stampa, per esempio di un’ex presidente della Camera che si arroga il diritto di prevalere su un direttore e decidere che cosa va pubblicato e che cosa no” (Si ha censura quando viene impedita una libera manifestazione del pensiero, come in questo caso. Boldrini non si “arroga” nulla, altro vittimismo: difende la propria libertà di espressione. Darle dell’arrogante è fare il lupo della favola. Il potere ce l’ha il direttore, non la blogger: infatti il pezzo è stato censurato).

Conclusione. Perché scrivere di Mattia Feltri? Perché so che ci tiene. Anche se non importa: il Fatto non lo legge nessuno. Comunque, ho messo una buona parola per lui con Jaki. Vedrete che Mattia si troverà bene, a dirigere la Sentinella del Canavese.

Sulle difese d’ufficio. Gettato il cuor nella procella, i famigli baldanzosi han difeso la cappella. Mughini contrappone “la banal grande Laura Boldrini” a Vittorio Feltri il direttore di successo: “Portò l’Indipendente che vendeva a stento 18mila copie a 120mila copie” (quindi può colpevolizzare una vittima di stupro?); “divenne il giornalista più pagato d’Italia perché aveva accettato di prendere il posto di Montanelli che non ne voleva sapere di venire a patti con il suo editore, il Silvio Berlusconi che aveva permesso al Giornale di sopravvivere in un’Italia in cui il pubblico di lettori di destra era striminzito” (Montanelli poteva diventare ricco accettando di venire a patti con l’eroe Berlusconi e invece rifiutò, che fesso, mica come Feltri); “Vittorio fece di Libero uno dei quotidiani più vivi e pugnaci d’Italia urlando titoli quanto di più politicamente scorretti” (banalizzazione: colpevolizzare una vittima di stupro non è “politicamente scorretto”), “lisciando il pelo al pubblico più rabbioso della destra italiana, un pubblico che esiste e che va all’edicola” (quindi è giusto colpevolizzare una vittima di stupro?); “anche in quella occasione fu così gentile da telefonarmi, io che non avevo più un giornale di carta su cui scrivere e di cui campare” (vittimismo, per rendere Feltri un paladino); “Vittorio è così, coriaceo, leale” (quindi può colpevolizzare una vittima di stupro?); “C’è da dire qualcosa sul fatto che una donna se non ci sta non deve essere sfiorata con un dito mignolo per nessuna ragione al mondo?” (sì: che non deve neppure essere colpevolizzata in caso di stupro).

(6. Continua)