Ecco i giacobini del Covid-19: c’è poco da ridere

Liberté, contagé, trapassé: guidati dal Robespierre lombardo Attilio Fontana (“comprendo chi viola divieti incomprensibili e assurdi”), i giacobini del Covid inneggiano alla rivoluzione contro le limitazioni festive del perfido Conte. Sventolano copie di Libero

che incitano (istigano?) alla rivolta tuonando: “Importante è disobbedire”. Pendono dall’ugola sdegnata di Mario Giordano (e di Iva Zanicchi). Riscoprono gli affetti più cari, a cominciare dai nonnini di cui ignoravano l’esistenza in vita, e che adesso come non mai bramano di sbaciucchiare cantando Che sarà sarà.

Purtroppo c’è poco da ridere, e speriamo che non ci sia molto da piangere quando il 6 gennaio si faranno i conti con gli intrepidi patrioti del virus natalizio. Con l’augurio che non sia un bilancio salatissimo in termini di vittime, come dopo la scatenata estate del contagiatevi allegramente e così sia. C’è del metodo in questa follia, a cominciare dal presidente della Regione Lombardia, ormai sovrapponibile (col degno sodale Gallera) alla macchietta che ne fa Maurizio Crozza. Travolto dai camici del cognato, dai soldi nei paradisi fiscali, dal flop dei vaccini antinfluenzali, Fontana cerca rifugio presso il ribellismo di più bassa Lega, indegno di chi ricopre una così importante carica istituzionale.

Quanto poi all’odio per il premier, si può comprendere che si usino tutti i mezzi, anche i più biechi per disarcionarlo e mandarlo a casa. Si resta però di sasso quando per fomentare l’implacabile crociata ci si percuote appassionatamente gli zebedei. Perché, cari colleghi di Libero, si ha un bel dire che “basta il buon senso per evitare norme incomprensibili”.

Purtroppo il buon senso è criterio abbastanza opinabile. Così come tutto può essere “incomprensibile” per chi non possiede capacità di giudizio e di comprendonio. Dio non voglia che pur di ottemperare al vostro appello alla disobbedienza, qualcuno un giorno non vi (ci) starnutisca in faccia, sostenendo che la mascherina comprime i diritti costituzionali (sì, abbiamo letto anche questo). Infine, a sostegno del facciamo come ci pare, citate una frase di Indro Montanelli: “Più che comandare io preferisco disobbedire”. Che però risulta abbia anche detto: “Non c’è alleato più prezioso di un nemico cretino”.

Sospese impiegato. “Dal Trivulzio atto antisindacale”

Da oggi il tecnico di farmacia Pietro La Grassa, coordinatore Cgil e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, torna in servizio al Pio Albergo Trivulzio. Il giudice Luigi Pazienza del Tribunale di Milano ha riconosciuto il carattere antisindacale della sospensione di un mese a lui comminata dalla direzione del Pat poche ore dopo la pubblicazione sul Fatto di un articolo in cui La Grassa denunciava il vero e proprio “clima di terrore” instaurato nei confronti dei dipendenti da un manager, Giuseppe Calicchio, indagato per epidemia colposa e omicidio colposo.

Il giudice ha disposto la revoca immediata del provvedimento disciplinare, “finalizzato unicamente a limitare l’operato di un sindacalista particolarmente attivo”, e definisce “evidente il carattere ritorsivo della sospensione”, oltre che “la sua oggettiva efficacia intimidatoria nei confronti di tutti i lavoratori”.

C’è di che esultare per il coraggioso La Grassa, 31 anni di anzianità alla Baggina. È sempre il giudice a far notare come egli sia divenuto oggetto di una raffica di provvedimenti disciplinari solo da quando è scoppiata l’epidemia Covid e lui ha scelto di denunciare la malagestione interna del più grande polo geriatrico italiano. Il sindacato della Funzione Pubblica Cgil, che ha promosso il ricorso, chiede al Pat di “tornare sulla strada del dialogo e del confronto tra le parti sociali” dopo che, come denunciato da La Grassa, in soli due mesi erano stati emessi 120 provvedimenti disciplinari – quasi il doppio di quelli intrapresi nei cinque anni precedenti – nei confronti di medici e infermieri.

La sentenza non manca di segnalare come la sospensione cautelare del rappresentante sindacale fosse avvenuta, con procedura inusuale, “solo poche ore dopo la pubblicazione”, il 12 novembre scorso, delle dichiarazioni rilasciate al Fatto da Pietro La Grassa. Viene riconosciuto pretestuoso il riferimento a un diverbio con la dottoressa responsabile della farmacia interna, scoppiato dopo l’esclusione del sindacalista da una riunione del reparto in cui lavora e ingigantito evocando minacce mai profferite.

L’esito positivo della causa non può esimerci dal constatare con preoccupazione il ritorno – per di più in un ente pubblico destinato a delicati compiti di cura degli anziani – di comportamenti autoritari e repressivi tipici di un’epoca che si sperava archiviata per sempre. Al Pio Albergo Trivulzio si calpestano i diritti dei lavoratori e dei sindacati; così come si sono emarginate professionalità importanti solo perché non allineate ai fedelissimi del direttore Calicchio; e si continua a rifiutare il confronto con l’associazione dei familiari.

L’emergenza Covid ha indotto i vertici ad asserragliarsi in una difesa personale che ha avvelenato le relazioni tra i dipendenti, eretto barriere di reticenza, suscitato interrogativi sulla stessa gestione dell’istituto che oggi opera a ranghi ridotti, con forte calo di ospiti e degenti.

“Pochi controlli alla Jolly nero”. Nelle carte l’ipotesi corruzione

Ad aprire un’ipotesi completamente nuova su una tragedia italiana costata 9 morti è la traccia trovata nel computer di un militare della capitaneria di porto: biglietti omaggio per le vacanze. Traghetti gratis per la Sardegna offerti al controllore dal potenziale controllato, la compagnia di navigazione. Una prassi che, è il sospetto di chi indaga, potrebbe non essere affatto limitata a un episodio isolato, ma una pratica più diffusa. Per questo gli inquirenti che indagano sugli strascichi dell’incidente della Jolly Nero, che sette anni fa abbatté la Torre Piloti di Genova, hanno ipotizzato per la prima volta l’esistenza del reato di corruzione.

Una delle domande che fino ad oggi non ha ancora avuto una risposta definitiva riguarda le condizioni in cui salpò la portacontainer: guasti diffusi a vari macchinari, alcuni dei quali ritenuti dai pm determinanti per spiegare la successiva avaria. Come è possibile che nessuno se ne accorse? E come poteva aver passato le ispezioni e le successive certificazioni una nave in quello stato? È seguendo questo filone che i magistrati hanno scoperto quelli che considerano decine di controlli addomesticati, avarie insabbiate, rimettendo in discussione verifiche su altre imbarcazioni che in alcuni casi hanno avuto incidenti mortali, come la Norman Atlantic. Un lungo elenco di episodi raccolti in un rapporto di un centinaio di pagine, contenuto nell’ultima parte di questa inchiesta ancora aperta della Procura di Genova. Di quel fascicolo, fino ad ora, erano note solo le ipotesi di falso, che avevano portato a misure cautelari nei confronti di due ufficiali della capitaneria addetti ai controlli, e altrettanti funzionari del Rina, il Registro navale italiano, colosso mondiale nel campo delle certificazioni. In tutto sono oltre una trentina gli indagati.

I fatti risalgono alla notte del 7 maggio 2013. Poco dopo le 23 la Jolly Nero, cargo della compagnia Messina, colpisce la banchina durante le manovre per uscire dal porto. La collisione provoca la morte di nove uomini: Francesco Cetrola, 38 anni, Marco de Candussio, 3, Davide Morella, 33, Giuseppe Tusa, 30, Daniele Fratantonio, 30, Giovanni Iacoviello, 35, (tutti militari della capitaneria); Sergio Basso, 50 anni, e Maurizio Potenza, 50 (operatori radio); Michele Robazza, 44 anni (pilota). L’inchiesta principale sulle responsabilità si concentra subito sul comandante della nave Roberto Paoloni (condannato a 9 anni e 11 mesi in appello), e sui suoi due più stretti collaboratori, il primo ufficiale Lorenzo Repetto (8 anni e 6 mesi) e il direttore di macchina Franco Giammoro (7 anni) e sulla responsabilità amministrativa della Messina. Ai marittimi vengono contestati molti errori di manovra e l’imprudenza di essere partiti con una nave che aveva molte irregolarità. Su tutte: il contagiri rotto, un motore che aveva già dato prova di incepparsi, la comunicazione interrotta fra plancia e sala macchine. Un allarme segnalò addirittura la defaillance del motore, ma fu spento senza effettuare alcuna verifica. Il processo è approdato in Cassazione pochi giorni fa e la Suprema Corte, pur riconoscendo le responsabilità ha restituito gli atti alla Corte d’Appello per abbassare le pene.

A spiegare questa decisione potrebbe essere la parallela apertura di un processo bis a carico dei tecnici che progettarono la torre a filo banchina, senza alcuna protezione. Funzionari e datori di lavoro sono stati condannati in primo grado e questo potrebbe suddividere la responsabilità generale dell’incidente, inizialmente imputata solo agli autori della manovra. Ma un ulteriore problema riguarda proprio uno degli imputati eccellenti di questo secondo filone: l’ammiraglio Felicio Angrisano (condannato a 3 anni), allora comandante della capitaneria di Genova, e poi ammiraglio generale del corpo. Non va dimenticato, infatti, che è proprio la capitaneria ad aver svolto le indagini, ed è probabile che questo elemento sarà sottolineato negli appelli dei legali che assistono l’equipaggio.

A complicare il quadro si aggiungono ora i nuovi elementi emersi. In tema di controlli falsi la Procura aveva già affiancato alla capitaneria lo stesso pool della Guardia di finanza che indaga sulla strage del Ponte Morandi. Anche in questo caso da un disastro le indagini sono passate in fretta a un sistema di controlli fallati. A novembre i militari hanno completato la copia forense di un computer sequestrato presso il Rina. Anche se approfondire il sistema dei “regali”, a sette anni di distanza, rischia di essere un’impresa tutt’altro che semplice.

Uccise la moglie, assolto: “Delirio di gelosia”. Il pm voleva l’ergastolo: “Messaggio grave”

Assolto perché in preda a delirio di gelosia. E quindi incapace di intendere e di volere quando ha impugnato un mattarello da cucina e per tre volte ha colpito in testa la moglie che dormiva a letto, accoltellandola poi alla gola e accanendosi infine su altre parti del corpo, con la stessa lama lasciata vicino al cadavere. Parla di “caso unico di assoluzione per gelosia dall’accusa omicidio” la giovane pm di Brescia, Claudia Passalacqua, che aveva chiesto l’ergastolo per Antonio Gozzini, l’80enne docente in pensione, assassino un anno fa della moglie Cristiana Maioli, di 16 anni più giovane.

Sulla base di una doppia consulenza psichiatrica, firmata dal perito di parte e da quello della difesa, la Corte d’assise ha pronunciato una sentenza di assoluzione, “per totale vizio di mente” disponendo il trasferimento dell’imputato in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Temeva che la moglie lo tradisse. “Convinzioni che si erano riattivate bruscamente in forma di un vero e proprio delirio di gelosia”, scrive il consulente della Procura, Sergio Luca Monchieri, inquadrando “il disturbo delirante” che è stato determinante per escludere totalmente la capacità di intendere e volere e quindi portare all’assoluzione. “Sentenza giusta visto quanto emerso durante il dibattimento. Parliamo di un uomo malato”, ha commentato l’avvocato Jacopo Barzellotti, legale del docente in pensione che da anni soffriva di depressione. Per la Procura invece Gozzini era da condannare al fine pena mai perché “era lucido, ha agito per vendetta nei confronti della moglie che voleva farlo ricoverare a causa della depressione e in tutto questo tempo non ha mai chiesto scusa ”. L’anziano aveva vegliato il cadavere della moglie per oltre 24 ore, avendola, come da sua confessione, ammazzata tra mercoledì 3 e giovedì 4 ottobre, salvo lanciare l’allarme solo il venerdì dopo con una telefonata alla donna di servizio. “Non c’era un motivo particolare per cui ho deciso di uccidere mia moglie. So solo che stavo malissimo: in depressione possono succedere queste cose”, aveva detto l’uomo alla polizia giudiziaria.

Per il pubblico ministero, che ha già annunciato ricorso in appello, “è pericoloso far passare il messaggio che in quel momento, quando ha ucciso la moglie, non era capace di intendere e volere perché geloso”. E le polemiche non mancano. “Ci sembra che con questa sentenza la gelosia e la depressione diventino condizioni legali per compiere impunemente un femminicidio”, commenta la presidente della Rete D.i.Re Antonella Veltri. “Una sentenza che dice in sostanza che se si è depressi e gelosi si possono anche ammazzare le proprie compagne”.

Eni, la solidarietà di Fridays mostra il ruolo del Fatto

“La libertà di stampa in Italia soccombe alle mire pubblicistiche e di greenwashing di @eni. Solidarietà a @ilfattoquotidiano contro il quale ha indetto una maxi-causa! #eniricattoquotidiano #ciavvelEni”. È solo il primo dei vari tweet con cui ieri Fridays for Future, il movimento contro il riscaldamento del pianeta, ha attaccato la compagnia energetica protestando per la causa monstre intentata al Fatto esprimendoci piena solidarietà”.

La richiesta di risarcimento che ci è pervenuta non è avvenuta per un singolo articolo ritenuto diffamatorio, ma per tutti i vari articoli, inchieste, cronache e commenti pubblicati negli ultimi anni. Citati per avere scritto, quindi, articoli sgraditi a Eni. Come si vede, e come abbiamo già rilevato con l’articolo di Gianni Barbacetto, è un attacco mai visto prima e che proviene da una società a controllo pubblico. Anzi, da una società la cui presidente, Lucia Calvosa, è stata indicata da quel nugolo di giornali e giornalisti a guardia dei poteri forti come, addirittura, espressione del Fatto a causa della sua precedente presenza nel Cda di Seif, il nostro editore.

Più che manovrieri occulti delle nomine nelle compagnie di Stato, la campagna dei giovani ambientalisti dimostra invece che siamo in sintonia con il movimento giovanile che ha a cuore l’ambiente.

Nonostante la giovane età, non sfuggono loro alcuni fondamentali dei rapporti tra i poteri e il ruolo dell’informazione. Per il Fatto ancora una prova della sua collocazione in questa battaglia.

“Interventi inutili, 6 morti sospette”. Arrestato primario

Il picco dei morti nella clinica privata “Tortorella” di Salerrno avvenne dopo l’assunzione del dottore Carmine Napolitano a primario di Chirurgia generale e Oncologica. Il contratto fu firmato il 2 novembre 2017 e da quel momento la clinica “svoltò”: aumentarono i ricoveri e gli interventi ad alta specialità chirurgica. Pure i decessi, però. “Ispirati da una fede incrollabile che in alcuni casi li ha condotti a intraprendere iniziative particolarmente rischiose”, scrive il Gip di Salerno Anna Zambrano nell’ordinanza a proposito di Napolitano e del suo collaboratore Marco Clemente. Un modus operandi “spregiudicato” e una gestione “imprudente” dei pazienti sottoposti a interventi chirurgici invasivi, sproporzionati per le loro patologie, e pagati anche 14mila euro a intervento. Sei le morti sospette, tra novembre 2017 (subito dopo l’assunzione di Napolitano) e marzo 2018, finite al centro delle indagini della Procura guidata da Giuseppe Borrelli.

Da ieri Napolitano è agli arresti domiciliari con accuse di omicidio colposo; un altro chirurgo, Clemente, assunto nello stesso reparto e nella stessa data, è stato sospeso dalla professione medica. Ai pazienti poi deceduti Napolitano diceva che era pericoloso aspettare, bisognava intervenire subito. In qualche caso saltando le liste di attesa. Come suggerì ai familiari di un paziente che bonificarono 7.000 euro per fissare un appuntamento in sala operatoria il più presto possibile. L’uomo morì e dieci giorni dopo alla figlia arrivò una telefonata di una dipendente del Tortorella che reclamava il saldo degli altri 7.000 euro pattuiti. “Risposi che ero ancora in attesa della ricevuta del primo versamento”.

Non è oggetto della misura cautelare, ma i pm ricordano che Napolitano è indagato anche per un settimo caso, avvenuto nel luglio 2018: l’omicidio colposo di un professore universitario di Medicina legale, morto dopo un banale intervento di colecisti.

Evasione, nei guai. Forchielli e l’ex rettore di Bologna

“Muovete il culo!”, diceva Alberto Forchielli nel titolo di un suo libro e nei talk televisivi dove era spesso ospite. Ora la Procura di Milano gli comunica di aver concluso le indagini su di lui e lo accusa di evasione fiscale per 3,9 milioni di euro. Due società del suo gruppo finanziario (la Mandarin capital management sa e la Mandarin capital management II sa) secondo il pm Stefano Civardi tra il 2013 e il 2016 hanno sottratto all’erario italiano 1,8 milioni di imposte la prima e 2,1 milioni la seconda. Sono entrambe basate in Lussemburgo, ma per la Procura milanese si tratta di “esterovestizione”, perché “il luogo di svolgimento effettivo” del loro business e della sua “gestione strategica” era Milano. Le attività finanziarie della Mandarin, è la tesi dei pm, si svolgevano in Italia e in Italia dovevano essere tassate.

Forchielli, 63 anni, studi alla Business School di Harvard, esperto di economia cinese, è il fondatore della Mandarin Capital Partners, un fondo d’investimento che si offre come collegamento tra le aziende europee e le società commerciali e industriali cinesi. Memorabili le sue esternazioni da talk show: “Più della metà degli italiani è costituita da analfabeti funzionali. Siamo il Paese più ignorante d’Europa. È chiaro che le istituzioni e i partiti riflettano lo stato demenziale di questo Paese”. Con Forchielli sono indagati i suoi soci e amministratori Enrico Ricotta, l’ex rettore dell’Università di Bologna Fabio Roversi Monaco e il finanziere lussemburghese Alexandre Charles Joseph Schmitt. È una delle indagini realizzate dalla Procura milanese in collaborazione con la Gdf e l’Agenzia delle entrate, secondo il cosiddetto “modello Milano”, che punta più al recupero delle tasse non pagate che alla contestazione dei reati penali. Gli indagati avrebbero infatti già raggiunto, al termine di un procedimento tributario amministrativo, un accordo con il fisco per il versamento delle imposte dovute.

Sciopero degli statali: pochi disservizi ma i sindacati litigano con la ministra

Nessun grosso disservizio segnalato, ma lo sciopero di ieri degli statali per il rinnovo del contratto è comunque riuscito a scaldare gli animi. Provocando un duro scambio di commenti tra i sindacati e la ministra Fabiana Dadone: “Se la questione si riassume in dare o non dare più risorse – ha detto – trovo riduttivo anche l’effetto dello sciopero stesso”; parole “inaccettabili” per Cgil, Cisl e Uil. Oggi la partita si trasferisce al ministero, dove sono attesi anche i segretari generali Maurizio Landini, Anna Maria Furlan e Pierpaolo Bombardieri. Pochi però i margini di trattativa: lo stanziamento non supererà i 3,8 miliardi attualmente previsti per le funzioni centrali (che si riversa a cascata sugli altri comparti). Durante la manifestazione di ieri, sotto la sede del dicastero, il segretario della Fp Cgil del Lazio, Giancarlo Cenciarelli, ha fatto i conti: “Con l’attuale dote l’aumento per un non dirigente sarà di 70 euro lordi, e quelli che con questo incremento supereranno i 28 mila euro di reddito si vedranno anche ridurre il bonus fiscale da 100 euro in busta paga”.

Nuovo studio: “L’Rna del virus era già a Milano a novembre ’19”

Un bambino di 4 anni portato al pronto soccorso a Milano il 30 novembre 2019 potrebbe essere il primo caso italiano di Covid-19. Aveva i sintomi tipici del morbillo ma un tampone, il 1° dicembre, aveva escluso l’ipotesi. Riprocessato in laboratorio, il campione conteneva l’Rna del SarsCov2. Lo studio, condotto da ricercatori della Statale di Milano e della Memorial University of Newfoundland canadese, è pubblicato sulla rivista Emerging Infectious Diseases. Lo firmano Antonella Amendola, Silvia Bianchi e altri. Hanno riprocessato 39 tamponi di pazienti con sintomi sovrapponibili al Covid-19 risalenti al periodo novembre 2019- febbraio 2020.

Il virus dunque circolava nell’area di Milano ben tre mesi prima del cosiddetto paziente 1, Mattia Maestri, trovato positivo a Codogno (Lodi) il 21 febbraio. Non c’è dubbio che la trasmissione fosse in corso da settimane. Autorevoli studi hanno stabilito che il ceppo isolato in Italia fosse entrato attorno al 27 gennaio. Ma poi nelle acque reflue di Milano erano state trovate tracce del virus risalenti a metà dicembre. E adesso si va ancora più indietro: il bambino stava male almeno dal 21 novembre.

L’epidemia prosegue il suo lento calo in Italia, ieri sono stati notificati dalle Regioni 12.756 nuovi casi con 118.475 tamponi, per un rapporto di positività del 10,8 per cento. I 499 decessi confermano l’ipotesi che anche la mortalità, per quanto molto alta, abbia iniziato a scendere. Meno pazienti negli ospedali, che restano però sopra le soglie critiche. Entro il fine settimana la Lombardia e quasi tutte le Regioni in fascia arancione dovrebbero passare al giallo.

Piani pandemici, i pm risentiranno Speranza a Roma

Verranno nei prossimi giorni a Roma i magistrati di Bergamo per acquisire documenti e risentire il ministro della Salute Roberto Speranza e altri responsabili del ministero e della Protezione civile sulla gestione iniziale dell’epidemia da Covid-19. Al centro delle indagini ora c’è il Piano pandemico antinfluenzale, non tanto le sue revisioni mancate quanto l’applicazione, fin da gennaio, delle prescrizioni del testo del 2006 tuttora linkato sul sito del ministero con la dicitura “ultimo aggiornamento 15 dicembre 2016”. Secondo la Procura, che indaga sugli oltre tremila morti nella Provincia di Bergamo, sulla mancata istituzione della zona rossa di Alzano e Nembro e la riapertura dell’ospedale di Alzano trasformatosi in focolaio, il piano era vigente e doveva essere applicato fin dal 5 gennaio, quando l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) diramò l’allerta globale per “44 pazienti con polmonite di eziologia sconosciuta” a Wuhan in Cina.

L’ipotesi è che fosse “sufficiente per avviare la fase 3.1 del piano”, relativa al “Periodo di allerta Pandemico”, che si apre appunto in “presenza di intensi collegamenti o scambi commerciali con Paesi affetti”, come si legge a pagina 9 del Piano. Da lì derivano adempimenti di “sorveglianza epidemiologica”: dal “controllo di qualità dei laboratori di 1° e 2° livello” per analizzare i tamponi all’implementazione di “nuovi metodi di diagnosi rapida e differenziale”, dalla “definizione di caso possibile, probabile e confermato” ai controlli sui “viaggiatori provenienti da aree affette”. Si aggiungono ad altri, previsti per il “Periodo Interpandemico”, cioè prima dell’allerta: “approvvigionamento dei Dpi (dispositivi di protezione individuale: mascherine, occhiali, camici, guanti, calzari, ndr) per il personale sanitario, controllo del funzionamento dei sistemi di sanificazione e disinfezione, individuazione di appropriati percorsi per i malati o sospetti tali, censimento delle disponibilità di posti letto in isolamento (…), censimento delle disponibilità di dispositivi meccanici per l’assistenza ai pazienti”, cioè i ventilatori per le terapie intensive che in effetti non erano sufficienti.

Che il piano sia stato sostanzialmente ignorato il Fatto Quotidiano l’ha scritto fin dal 22 marzo scorso (Marco Palombi, “I piani pandemici c’erano: nessuno, però, li ha seguiti”). Non che il governo e le Regioni non abbiano fatto nulla, il 30 e il 31 gennaio fu dichiarato lo stato d’emergenza sanitaria, fu incaricata la Protezione civile e furono bloccati i voli dalla Cina, poco dopo fu istituito il Comitato tecnico scientifico, ma gli interventi sul servizio sanitario sono arrivati dopo che il virus era stato scoperto a Codogno (Lodi) e a Vo’ Euganeo (Padova) intorno al 20 febbraio, quando ormai il SarsCov2 aveva circolato per settimane nel Nord Italia. Nessuno lo cercava anche perché, su indicazione dell’Oms, la prima circolare che definiva il caso sospetto sulla sola base dei sintomi è stata corretta il 27 gennaio per richiedere il link epidemiologico con la Cina. Il reato ipotizzato a Bergamo è epidemia colposa, anche per le presunte negligenze delle autorità regionali.

Il ministro Speranza, che era e resta persona informata sui fatti, è già stato sentito a giugno e come lui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e altri. Allora però il tema era la mancata istituzione della zona rossa nella Bergamasca, dopo quelle decise il 23 febbraio nel Lodigiano e a Vo’. Ora invece i magistrati si concentrano sul Piano pandemico. Hanno lavorato anche sul suo aggiornamento, richiesto dal cambiamento delle linee guida dell’Oms nel 2013 e nel 2017: al di là del link ministeriale, il testo ha ancora riferimenti al 2006 con il verbo al futuro. Ieri è stato sentito il generale in pensione Paolo Lunelli, già comandante della Scuola per la difesa nucleare, batteriologica e chimica: secondo lui il mancato aggiornamento del Piano sarebbe costato 10 mila morti. Il tema si intreccia con quello del dossier dell’Oms, moderatamente critico verso l’Italia, pubblicato e ritirato in 24 ore a maggio dall’agenzia Onu.