La destra applaude Renzi: “I ministri Iv pronti a dimettersi”

“Dica ai suoi collaboratori che chiamano le redazioni dei giornali per raccontare che Iv è in cerca di poltrone, che se ha bisogno di qualche poltrona ce ne sono tre a sua disposizione, due da ministro e una da sottosegretario”. Termina in un crescendo l’intervento di Matteo Renzi in Senato. L’attacco a Giuseppe Conte è violento, l’ultimatum stavolta è più di una minaccia. L’ex premier non sta bluffando, è pronto a ritirare la sua delegazione al governo e dunque ad aprire la crisi. La road map è in via di definizione, ma intanto ieri rimanda la palla al premier: sta a lui trovare una soluzione, intestarsi il processo. Il leader di Iv dice no non solo alla struttura di governance del Recovery Fund, ma anche alla Fondazione sulla Cybersicurezza. Avverte che non voterà la legge di Bilancio se ci sono emendamenti su quei temi. Nel muro contro muro, stavolta Renzi non è disposto a indietreggiare. Anche se ieri la riforma del Mes l’ha votata. Mentre si risiede al suo posto in Senato, FI gli tributa la standing ovation. Tutto il centrodestra applaude, Matteo Salvini compreso, che poi gli si avvicina per complimentarsi. Ma gli applausi arrivano anche dai banchi del Pd, guidati da un veterano come Luigi Zanda.

Sono giorni che Renzi tesse la sua tela. E stavolta non da solo. Il malcontento nel Pd è ormai diffusissimo. Di fatto, al Nazareno gli hanno fornito una pistola carica e sta a lui premere il grilletto. Tanto è vero che ieri Zingaretti, dopo il voto sul Mes, invita il governo a “sciogliere i tanti nodi”.

La giornata di ieri va avanti tesissima, tra colloqui e trattative a tutti i livelli. Più volte a Renzi viene recapitata da sherpa di Conte la richiesta di dare il via al Recovery Plan in un Consiglio dei ministri prima della partenza del premier per il Consiglio europeo oggi. Con l’offerta di discutere la struttura di governance successivamente. Trattativa a vuoto. Il Cdm viene sconvocato, Renzi si prende la soddisfazione di mandare il premier a Bruxelles con un governo che non approva il suo piano.

Ma la sostanza (e pure la road map) della crisi è tutta nell’intervento del leader di Iv. “Non scambieremo il nostro si alla proposta di governance con uno strapuntino. Non stiamo chiedendo che nella cabina di regia ci sia uno nostro. Di fronte ai 200 miliardi da spendere o il Parlamento fa un dibattito vero, oppure perdiamo la dignità delle istituzioni”, scandisce con il piglio dei momenti cruciali. Dal Mef di Roberto Gualtieri, che sta cercando soluzioni di compromesso da giorni, fanno sapere che quella del Recovery è una proposta offerta al Parlamento. Eppure nelle intenzioni doveva essere un emendamento alla legge di Bilancio. “Se è dentro la legge di bilancio, Iv vota no”, chiarisce Renzi. Conte sta già ragionando su un decreto o addirittura un disegno di legge. Anche se ormai è piuttosto chiaro che il merito delle questioni c’entra molto relativamente. Tanto è vero che apre subito un altro fronte: “Se c’è una norma che mette la governance con i Servizi votiamo no”. Il riferimento è all’Istituto per la Cybersicurezza cui il premier tiene moltissimo. “La task force non può sostituire il governo”, scandisce Renzi. Ma “non è solo un problema di metodo, anche di merito”. Non secondaria la sponda fornita a Roberto Speranza, che ieri ha criticato il Recovery Plan per i soli 9 miliardi previsti per la sanità: “come si fa a dare 9 miliardi alla Sanità?” Sabato l’ex premier è stato ospite di un convegno organizzato dalla Fondazione dalemiana Italianieuropei. Convergenze che saltano agli occhi.

Ma ora? Che accade ora? Renzi dice a tutti che dopo la legge di bilancio comunque l’esperienza del governo Conte così com’è si chiuderà. Dunque a gennaio. “Non si va a votare”, è il mantra che ripete. Nei confronti del premier in privato ha espressioni quantomeno colorite. E infatti, a questo punto “il piano inclinato” – come dice un senatore dem – è partito. E va oltre il rimpasto: può portare al Conte ter ma, vista l’accoglienza dell’opposizione, anche a un governo tecnico. Ieri sera intanto Renzi ha sondato i gruppi di Iv per capire fino a che punto si può spingere.

Riforma Mes, Conte strappa il sì. Però ora non vuole vivacchiare

Il fazzoletto nel taschino è meno ricercato del solito, il tono meno dritto, lo sguardo velato dalla fatica. “Il governo ha bisogno della massima coesione delle forze di maggioranza per continuare a battersi in Ue”, ricorda il presidente del Consiglio Giuseppe Conte al Parlamento nel giorno del giudizio, quello del voto sulla risoluzione di maggioranza che contiene una mina chiamata Mes. Conte e il governo lo superano, perché la fronda a 5Stelle da ordigno si tramuta in mortaretto. Così alla Camera la risoluzione passa con 297 voti a favore, nove astenuti e 256 contrari, 13 dei quali grillini (10 hanno disertato il voto). Mentre in Senato i sì sono 156 e i contrari 129, di cui due grillini, Crucioli e Granato.

Ma il premier che oggi andrà a Bruxelles per il Consiglio europeo parte con le retrovie in fiamme. Dopo essere stato quasi processato in aula in Senato da Matteo Renzi. E dopo un altro Consiglio dei ministri saltato. Ieri Iv non ha voluto neppure discutere delle risorse del Recovery Plan, lasciando da parte il cuore del problema, la cabina di regia. Quindi niente Cdm. “Renzi questa volta non bluffa”: lo pensano quasi tutti nella maggioranza. Ma soprattutto lo pensano a Palazzo Chigi. “Vuole un Conte-ter da qui a gennaio”, sussurrano ambienti vicini al premier. Un rimpasto profondo per depotenziare il presidente del Consiglio, anche se dal microfono l’ex sindaco giura che “le tre poltrone di Iv” sono a disposizione. “A occhio vuole proprio la testa di Conte”, scuote la testa un ministro del M5S.

Di certo ha alzato l’asticella. E forse lo snodo è stato l’incontro con il premier Conte a Palazzo Chigi, pochi giorni fa. “Un colloquio dove Renzi e il presidente hanno parlato di tutto” raccontano. Ma non di rimpasto. E di fronte alla saracinesca l’ex premier forse ha deciso per la guerra. Anche perché la struttura pensata da Conte per gestire i 196 miliardi del Recovery non piace quasi a nessuno dei giallorosa. “Bisogna cambiare” dicono. Lo fa trapelare anche il leader di fatto del M5S Luigi Di Maio, convinto che “il nodo sulla struttura possa facilmente risolversi in Cdm, dialogando tra persone adulte si trova una soluzione”. Ma il senso è che il premier deve rassegnarsi a cercarla. E chissà quanto è disposto a concedere. Nelle sue comunicazioni all’aula parla innanzitutto ai 5Stelle, quindi di Mes: “L’Italia si farà promotrice di una proposta che riconsideri in modo radicale funzioni e strutture di questo strumento, legato a un paradigma ormai obsoleto”. E comunque “la riforma del fondo salva Stati è stata migliorata grazie all’Italia”, e sulla sua ratifica “resta la responsabilità delle Camere”. Ma poi Conte si rivolge alla sua maggioranza: “Il confronto dialettico è segno di vitalità e ricchezza, ma va fatto con spirito costruttivo, senza distrarsi dagli obiettivi”.

Però ora la mossa sta a lui. Sorpreso dalla rivolta contro la cabina di regia. Conte lo ha spiegato nelle scorse ore in colloqui riservati: “La norma che prevede la struttura di gestione passerà per il Parlamento, e le decisioni non le prenderemo io e i tre ministri della cabina. Il nostro compito sarà informare i ministri del Ciae, il comitato interministeriale per gli Affari europei”. E i manager, con i loro poteri sostitutivi? “Quelli spettano ai ministri, i manager possono intervenire solo in ultima istanza”. Casomai, “a proporre commissari onnipotenti sui cantieri era stata Iv, con il suo piano Italia Shock” ricorda un 5Stelle vicino al premier. Ma ora? Membri di governo hanno proposto a Conte di inserire la norma sulla cabina di regia in un emendamento alla legge di Bilancio, cioè quello che Iv non vuole. “Vediamo se Renzi ha il coraggio di non votare la manovra” hanno suggerito. Ma da Chigi hanno detto no.

Conte non può andare allo scontro. E dovrà trattare. Però non vuole smontare tutto. Soprattutto, non è disposto a vivacchiare. “Potrebbe anche non accettare un Conte-ter”, raccontano. E cimentarsi anche nel voto anticipato, puntando sul consenso ancora alto. Non è la prima carta, per il premier, ma neppure la più remota. Anche perché ritiene che costruire una nuova maggioranza “non sarebbe affatto facile”. Ma è ancora presto. “Sono tranquillo” giura Conte uscendo dal Senato. Perché deve dirlo.

Sottovuoto spinto

Èpassato un altro giorno e l’Innominabile e i suoi cari non sono ancora riusciti a spiegare ai cittadini cosa contestano davvero al governo, al punto di minacciarne la crisi. L’altra sera, mascherine abbassate e fidanzato a parte, è bastato che la Gruber chiedesse lumi alla Boschi per squadernare coram populo il sottovuotospinto dell’ex ministra e del suo non-partito col suo non-programma, i suoi non-ideali e il suo esercito di non-elettori. Ormai l’hanno capito tutti che gli italomorenti non minacciano il governo per “difendere la democrazia, il governo e il Parlamento” dalla cabina di regìa voluta da Conte per monitorare le opere pubbliche del Recovery Plan, renderne conto all’Ue ed evitare i soliti sprechi, ritardi, truffe e intoppi all’italiana. Non certo per deliberarle (lo fanno governo e Parlamento) o per attuarle (lo fanno ministeri, regioni, province e comuni). Il motivo è un altro, ma se non lo dicono dev’essere perché non possono. Altrimenti gli scapperebbe dal ridere quando fanno i partigiani della democrazia violentata dal tiranno Giuseppi. Quando purtroppo contava – leggere Giacomo Salvini a pag. 4 per credere – l’Innominabile fece esattamente ciò che rimprovera falsamente a Conte: riempì Palazzo Chigi di “strutture di missione” (ben 7, ridotte da Conte a 3) e l’Italia di commissari ad (suam) personam: Sala a Expo, Piacentini al Digitale, Nastasi a Bagnoli, Gutgeld e Perotti alla spending review, Gabrielli al Giubileo.

Quanto al suo rispetto per il governo e il Parlamento: teneva Consigli dei ministri di 2-3 minuti; imponeva trucchetti da magliari tipo “tagliole”, “canguri” e “supercanguri” per silenziare le opposizioni e cancellarne gli emendamenti; minacciava i dissidenti del Pd di “usare il lanciafiamme” e di non ricandidarli e, quando si mettevano di traverso nelle commissioni, li sostituiva con dei camerieri per far passare la controriforma costituzionale, cioè il piedistallo e il monumento equestre al suo ego; insultava chi lo criticava, inclusi i migliori costituzionalisti, come “soloni”, “professoroni”, “gufi” e “rosiconi”, lasciandoli poi finire da orde di manganellatori da social. Varò 54 decreti in 32 mesi senza emergenze paragonabili al Covid. Impose una legge elettorale incostituzionale (l’Italicum) a colpi di maggioranza (che poi era una minoranza drogata dal premio illegittimo del Porcellum) e financo a botte di fiducia. Poi nel maggio scorso, quando per fortuna non contava più nulla, presentò un “Piano choc per le opere pubbliche” da 180 miliardi con “100 commissari” dai pieni poteri – progettazione, attuazione e controllo – in barba alle leggi, al governo e al Parlamento. Ma ormai gli si perdona tutto, perché ci fa tanto divertire.

Dopo oltre 12 anni di silenzio, la divina Birkin torna a cantare

Inglese d’origine, ha finito per incarnare l’ultima icona francese. 74 anni, ma le semidee non invecchiano mai. Il sex symbol che tra gli anni 60 e 70 ha rovesciato certi canoni ormai frusti di bellezza giunonica, lei sensuale, sottile e androgina. Chic e bohémien, ribelle e charmant, al di là dei tabù. Torna, l’11 dicembre, Jane Birkin, con un nuovo album di canzoni. Il precedente era di dodici anni fa. La musa e diva audace sempre coerente a se stessa, generatrice automatica di mode e modi d’essere. Nulla di natalizio: si intitola Oh! Pardon tu dormais ed è, in parte, un adattamento musicale del film omonimo. Tredici canzoni prodotte da Etienne Daho e Jean-Louis Piérot in cui si specchia, introspettivamente, umanissimamente, nella sua esistenza formidabile. Aleggia l’assenza-presenza della primogenita, la fotografa Kate, avuta dal primo marito, il compositore britannico e premio Oscar John Barry, morta suicida nel 2013. Presentando l’album, spiega: “Mi ha salvato da una vecchia ferita, mi ha liberato dalla malinconia e dall’inerzia”. Cresciuta nella Swinging London, già con l’apparizione (in topless) in Blow-Up di Michelangelo Antonioni conquista più di un quarto d’ora di celebrità. Aria imbronciata e frangetta spartiacque, si trasferisce in Francia in pieno 1968. Conosce Gainsbourg, sul set di Slogan. I due diventano la coppia da paparazzare. Si sposano, e saranno un mito ambulante, maudit e ultra-affascinante, per tutti i Settanta. Saint-Germain centro di gravità e mondanità dell’universo, e le notti officiate a ballare, litigare, desiderarsi. “Ha un aspetto molto bizzarro, ma lo amo. È diverso da tutto ciò che conosco, un po’ degenerato ma al contempo puro”. Durerà fino al 1980.

In questo mezzo secolo Jane B. è stata mille cose. La cantante sussurri e gemiti di brani come Je t’aime moi non plus, inizialmente pensata per Brigitte Bardot. L’attrice di pellicole importanti come L’amore in pezzi di Rivette, Cura la tua destra di Godard, La Piscine di Deray e per Resnais, Tavernier. La modella e l’influencer ante litteram con le sue maglie lunghe senza gonna, le camicie jeans e le t-shirt basiche. È legata alla sua figura anche l’invenzione involontaria di una borsa che ha fatto scuola. Va ancora a ruba, e a prezzi stratosferici. L’aneddoto: 1981, a bordo di un aereo, Jane è seduta per caso accanto al Ceo di Hermès. Una turbolenza, e le si rovescia il contenuto della borsetta. Lui le avrebbe detto: “Le sarebbe stata utile una con le tasche”. E lei: “Quando ne produrrete una, l’acquisterò”. Realtà e leggenda si confondono, in dive del genere. E la nuova borsa Hermès, raffinata e a suo modo rivoluzionaria, non poteva che essere chiamata Birkin.

Diffamato, dimenticato, cieco, ma che “Bravo”. Mercadante

Almeno fino alla metà dell’Ottocento i grandi operisti italiani furono, sul piano europeo, non quattro ma cinque. A Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi, si deve aggiungere Saverio Mercadante. Egli si spense il 17 dicembre del 1870, divenuto del tutto cieco ma ancora autorevolissimo direttore del Conservatorio di San Pietro a Majella.

Nato ad Altamura nel 1795, si trasferì a Napoli ov’ebbe ottimi maestri nelle materie basilari. Ricevette l’insegnamento della Composizione da Nicola Zingarelli, arido e passatista. Occorre pur dire che, come didatta, costui fosse assai superiore all’artista; gli fu discepolo anche Bellini, oltre che l’inqualificabile Florimo, a cui dobbiamo la distruzione volontaria della gran parte dell’epistolario di Bellini, e la diffamazione del nostro Saverio – solo, però, post mortem: prima si metteva paura.

Per comprendere quanto diffusa sia la dolosa ignoranza di chi dovrebbe governare le istituzioni musicali, alcuni anni fa, molto prima che l’epidemia mettesse sottosopra tutta la vita civile, io rammentai alla rag. Rosanna Purchia, soprintendente del San Carlo di Napoli, che saremmo caduti nel Venti nel centocinquantenario di uno dei Maestri nazionali italiani e napoletani. Non l’aveva mai inteso nominare. L’ultima volta che il San Carlo echeggiò delle note del Grande fu nel 1970, nel centenario della morte; io c’ero. Si allestì una delle sue più fresche Opere giovanili, l’Elisa e Claudio. Quando si pensava ancora, ecco il giudizio che di Mercadante dava – dico – Liszt: traduco dal francese le parole del genio ungherese.

Prima ripeto che fino agli anni Cinquanta riscosse fama europea; giunse a Parigi e vi pubblicò: pur se, a differenza di Bellini, che stava per pervenirvi, di Donizetti e Verdi, non approdasse mai all’Opéra. Ma i suoi Briganti, rappresentati senza successo agli Italiens, presaghi dei Masnadieri di Verdi, non sono loro inferiori né per concisione né per profondità. Nel 1838 Liszt, che nel 1840 pubblicherà le Soirées italiennes. 6 amuséments pour piano sur motifs de Mercadante, scrive: “Le sue Opere sono, di là da ogni confronto, le meglio concepite e meglio strumentate di tutte quelle da me ascoltate. Le ultime composizioni di Mercadante sono, senza possibilità di contraddittorio, le meglio pensate del repertorio attuale”.

Sigismund Thalberg, Autore di parafrasi non meno celebri di quelle di Liszt su Motivi di Rossini e Bellini, nella sua opera didattica fondamentale, nonché una delle più importanti dell’intera storia della didattica pianistica, L’art du chant appliqué au Piano, scrive una Parafrasi d’un’Aria del Giuramento. Il classico ductus melodico, l’eleganza dell’armonia di Saverio, non hanno rivali.

Il quale Giuramento, insieme con Il Bravo, è rapinosamente scritto sotto il profilo drammatico ed espressivo. E tocchiamo un forte ossimoro: Saverio è il compositore più conservatore (è rettamente figlio di Rossini, pur seguendogli di soli tre anni) e insieme ricercatore di nuove forme, e nuovi strumenti espressivi. Dissento nettamente dalla letteratura la quale sostiene non esservi evoluzione stilistica in lui, a partire da I Normanni a Parigi (1832) per giungere all’estrema, e meravigliosa, Virginia, del 1866. Invero egli lasciò Opere bellissime, più che non si sappia: per i titoli, basta aprire un’enciclopedia. E quali sapienza e genio nelle sue creazioni strumentali! Ce n’è una, la Seconda sinfonia caratteristica napoletana, ch’è un Poema Sinfonico sulla Tarantella: riesce a battere sul suo terreno il Saltarello della Sinfonia Italiana di Mendelssohn…

E perché, allora, quasi scomparve ancora in vita? Non vi sono risposte più facili al quesito: nel 1829 Rossini aveva abbandonato per sempre il teatro musicale; e qualche anno dopo, con il Nabucodonosor (1842), era arrivato Verdi.

 

In cucina una mano Benedetta

La cifra di Benedetta Rossi la dà una risposta. Cosa porterebbe su un’isola deserta? “Il ciambellone. La sera, quando magari non stai un granché, ti sistema lo stomaco”.

Benedetta Rossi è un mix di celebrità di nuova generazione – tutto social, quotidianità social, interazione social – e uno stile da Prima Repubblica televisiva, quando le parole andavano pesate, l’immagine doveva risultare pulita, il messaggio finale aveva una freccia (metaforica) verso il positivo.

Lei, con l’aiuto del marito Marco, cucina da anni, da molto prima di diventare una celebrità: “Quando i clienti dell’agriturismo di famiglia andavano via, mi chiedevano sempre le ricette di quello che avevano assaggiato. A quel punto pubblicavo un video su Internet”. Da lì, con il tempo, come la cottura lenta di un buon brodo, ha scoperto di venir letta e seguita anche all’estero, ha visto moltiplicarsi i contatti fino a domandarsi “e ora? E sono andata in ansia”.

Superato lo stato interrogativo, oggi è una guru da milioni di follower attivi: quando le è morto il cane c’è stato un lutto collettivo con disperazione altrettanto collettiva; i suoi libri sono primi in classifica, decine di migliaia di copie e, nelle ultime settimane, è stata superata solo da Barack Obama.

A differenza di altri chef, le sue ricette sono fattibili…

Prima di pubblicare provo e riprovo, fino a ottenere la giusta semplificazione: questa è un po’ la mia forza.

L’inizio di questa avventura.

Sono sempre stata attratta dai nuovi canali di comunicazione, così nel 2008 ho provato a caricare i tutorial delle mie ricette e davo il link a chi mi chiedeva informazioni; all’improvviso, senza che me ne accorgessi, avevo superato le 100 mila visualizzazioni, con commenti da tutto il mondo.

Pure dall’estero?

Ricordo gli interventi dall’Argentina.

È timida?

Non poco: per questo il mio viso l’ho mostrato dopo svariati anni, prima inquadravo solo le mani.

Qual è stato il punto di rottura?

(Interviene il marito) Fino al 2015/2016 abbiamo solo lavorato e prodotto contenuti rifiutando ogni proposta di collaborazione, a noi interessava solo consolidarci, diventare credibili; poi sono arrivate richieste importanti.

E lì…

(Torna Benedetta) Non è stato facilissimo, per me: quando ho iniziato ero spinta solo dal piacere di condividere, poi all’improvviso i contatti si sono moltiplicati, aprivo Facebook e ogni volta ne scoprivo 300 in più, fino a quando la notte ho iniziato a non dormire.

Come mai?

Per l’ansia e il senso di responsabilità: una cosa è sbagliare quando hai davanti mille persone, un’altra quando sono un milione.

Soluzione?

Considerare chi mi segue come un amico.

Per la morte del cane gli amici vi sono stati vicini.

Abbiamo ricevuto oltre 300 mila commenti; tra noi c’è un continuo scambio: se cado in errore mi correggono immediatamente. (Abbaia il nuovo cane).

In vacanza ci andate?

No, da tanto tempo.

Giudizio su MasterChef e similari.

(Marco) Non ci siamo mai voluti andare, sono il nostro contrario, ma non li sto giudicando male: in quel contesto si punta sempre a mettere a disagio chi partecipa, la preparazione non è centrale, conta più la reazione del concorrente o del giudice (ci pensa). In questi casi pongo sempre la stessa domanda: dimmi una ricetta.

Risposta?

Nessuno se ne ricorda una.

Mentre voi…

In cucina Benedetta mette a proprio agio le persone.

Uno dei parametri centrali degli chef è la “croccantezza”. Anche per voi?

(Ridono) No! (Benedetta) Non ricordo nessuna scena in casa mia, con mamma che si scorda di mettere il sale e papà che la rimprovera; alle brutte uno lo aggiunge.

Però lei è molto precisa in cucina.

Quello è fondamentale, altrimenti si cade in errore, e questa lezione l’ho imparata ai tempi dei miei studi in Biologia.

Laureata con?

110 ma senza lode.

Torniamo alla cucina: critiche ricevute?

Anni fa ho postato un video con la pasta frolla realizzata con l’olio al posto del burro: è successo l’impossibile, eppure sono andata avanti.

Vi vengono a trovare i fan?

Eccome! Ci vengono a cercare di continuo, soprattutto in estate: magari arrivano mentre stiamo girando, tre o quattro macchine in contemporanea, pure in camper. Una volta da noi mica li mandiamo via, sono di famiglia, così ci prendiamo una pausa caffè e due chiacchiere.

Tanti fan…

Secondo una classifica siamo altissimi, sopra quasi tutti i politici.

I colleghi dei ristoranti come vi trattano.

In alcune situazioni sono andati in crisi, escono dalle cucine e dicono “oddio, e ora cosa cucino?”; quando in realtà sono una semplice, una felice con una bruschetta e due fette di pomodori tagliati.

Il suo mito da ragazza.

Franco Battiato: a 12 anni sono andata a Roma e solo per vederlo.

Su un’isola deserta…

Porto il ciambellone, è il mio comfort food: quando sei in crisi, ne mangi una fetta con una bella tisana e ti senti subito rassicurata.

 

La quarantena di Twain affumicato contro il colera

Il confinamento, lockdown per chi preferisce l’inglese, le misure restrittive, la sospensione di attività professionali tra le più varie: non la faccio lunga, ma insomma, tutte le misure più o meno drastiche con le quali ci siamo e ci stiamo confrontando in questi mesi, mi hanno permesso di riallacciare rapporti con un vecchio amico. L’amico ritrovato, si potrebbe dire, ma senza alcun sentore di tragedia come nel romanzo di Uhlman. Anzi, perché con lui ho condiviso gli anni più belli, e anche un po’ stupidi, della gioventù, quelli in cui dentro di noi permane ancora un residuo del senso di infantile onnipotenza e il doversi calare nella realtà pare faccenda di secondo piano. Poi la vita ci ha diviso, frase un po’ enfatica, ma non saprei come altrimenti dire che ci siamo allontanati dovendo raggiungere i rispettivi obiettivi. È il suo quello che conta di più in queste righe, poiché ambiva farsi fotografo, ma non di matrimoni o fototessera. Fotografo di grandi eventi, sportivi e non. Tra i primi, la vela. E tanto ci ha dato che infine ci è riuscito, così che ora è uno dei fotografi più richiesti in questo campo. Ma il virus ha impedito anche a lui per lunghi mesi di andarsene di qua e di là, confinandolo nel paesello e consentendomi così di ritrovarlo.

Anche se sembra banale dirlo, lo spirito di quei tempi sciocchi ma divertenti è balzato fuori all’istante, come uno di quei gioppini che, spinti da una molla, fanno capolino non appena si apre la scatola dentro la quale sono stati chiusi. Un bagno di gioventù con qualche trascurabile differenza quale, valga per tutti, i capelli un po’ bianchi (più i suoi che i miei). La parentesi si è chiusa, temporaneamente mi auguro, qualche giorno fa quando è partito per la Nuova Zelanda, Paese che stenterei a individuare anche con sotto gli occhi la cartina del mondo, dove finalmente può riprendere il suo lavoro. Certo deve sottostare alle regole del momento: tampone e quarantena. Quest’ultima mi ha fatto impressione: 14 giorni chiuso in una camera d’albergo, solo e con un’ora d’aria a disposizione da trascorrere praticamente sotto scorta.

Non so come, ma quando mi ha messo al corrente di ciò che lo attendeva mi sono ricordato di quanto avevo letto nel libro di Pietro Dettamanti, edito dal Centro Interuniversitario di ricerche sul “ Viaggio in Italia”, intitolato Viaggio al Lago di Como – Letterati e viaggiatori dell’Ottocento sul Lario. Riguarda l’avventura occorsa a Mark Twain nel 1867 quando in qualità di corrispondente si imbarcò per una crociera che aveva lo scopo di far conoscere ai viaggiatori il Vecchio continente e la Terrasanta. Tra le tante tappe di quel viaggio, ci fu anche una piccola sosta dello scrittore sul lago di Como e segnatamente nella sua “perla”, Bellagio. Ora, come riferisce l’autore del volume, Twain vi giunse già di malumore, o comunque non esattamente ben predisposto verso di noi, se è vero che annota come “deformità e donne barbute sono in Italia troppo comuni per destare attenzione”. Ma non sa ancora cosa lo aspetta in quel di Bellagio, sorta di quarantena ante litteram visto che in quell’anno il territorio lariano era interessato da una forma di colera asiatico che aveva provocato già centinaia di decessi.

Quando il nostro scende sulla riva, viene immediatamente preso in consegna da poliziotti e, come lui stesso riferisce, chiuso in una cella di pietra insieme con gli altri compagni di viaggio. Chiuso in quel buco privo di luce e finestre, dove non circola nemmeno un filo d’aria, lui e gli altri subiscono un processo di fumigazione allo scopo di eliminare l’eventuale presenza del mortifero batterio. Quando ne esce, vivo ma puzzolente, Twain è irritatissimo e la sua penna diventa ancora più graffiante contro gli italiani. Perché non badare più all’igiene dei luoghi e della persona onde scongiurare il colera, si chiede? Perché, scrive “parecchi membri delle classi più umili preferirebbero morire piuttosto che lavarsi…”. Per fortuna il successivo soggiorno in albergo, la vista di lago, monti e ville, lo riconciliano con il luogo. Quando ho raccontato questo aneddoto al mio amico avevamo sotto gli occhi un novembrino tramonto di rara bellezza. Volevo farlo sorridere e invece siamo rimasti lì, a guardare e basta.

Le strane fortune di Shamalov, ex genero di Putin

Kirill Shamalov è un uomo silenzioso, ricchissimo e fortunato. Nato nel 1982 a Pietroburgo, compiuti i 32 anni, è diventato l’oligarca più giovane della Federazione russa quando è entrato in possesso di quote d’amore e di azioni: entrambe considerevoli. Nel 2013 Shamalov ha sposato Katerina Tikhonova, la figlia minore di Putin mai riconosciuta in pubblico dal presidente e, qualche mese dopo, per soli 100 dollari, è diventato uno dei soci della gigantesca azienda petrolchimica Sibur. Valore stimato: 380 milioni di dollari. Dopo la luna di miele, il giovane magnate ha acquisito altre fette dell’industria, pompando dollari da società offshore intestate a prestanome. Lo ha svelato l’Occrp, ‘Progetto report corruzione e crimine organizzato’, entrato in possesso di migliaia di email dell’ormai ex genero di Putin: si tratta di 10mila messaggi scritti dal tycoon e dai suoi collaboratori dal 2003 al 2020, un archivio che i giornalisti hanno analizzato per un anno intero. Dopo aver incrociato informazioni di registri delle aziende, database, notizie di fonti aperte, hanno concluso che i messaggi appartengono realmente al giovane miliardario , finito nella lista di Forbes nel 2016. Laureatosi in Legge a 25 anni, Kirill è figlio di Nikolay, proprietario di Bank Rossya, e, come suo fratello Yuri, amministratore e proprietario di tv e banche russe, faceva già parte di quel “circolo di oligarchi di Pietroburgo” vicini a Putin. Per quella prossimità di Kirill al presidente molte compagnie gli hanno chiesto negli anni di divenire partner in affari: la Rostelcom, Tele2-Russia, la Vsmpo, primo produttore di titanio al mondo. Nel 2018 Shamalov viene sanzionato dagli americani come tutta la squadra di Putin e divorzia da sua figlia: solo sei mesi dopo cederà, inspiegabilmente, le quote della Sibir di cui era diventato intanto vicepresidente.

“Il Niger fra virus e jihadisti, ma accoglie lo stesso gli sfollati”

“Immaginate il Sahel centrale in fiamme tra jihadisti, al-Shabaab, mafia locale, rifugiati, sfollati, fame e cambiamenti climatici. A tutto ciò aggiungete il Covid: questo è il Niger in questo momento: un Paese sotto lockdown nel deserto. E la scuola, spesso unico riparo, argine alla violenza e alla fame, è colpita dal terrorismo e abbandonata a causa della pandemia”.

Alessandra Morelli è la Rappresentante dell’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati (Unhcr) in Niger, è in lockdown anche lei, in quarantena: “La seconda ondata di coronavirus qui sta correndo molto più velocemente della prima, anche tra gli operatori internazionali”, racconta. “Siamo molto preoccupati, anche perché qui c’è assoluta negazione della pandemia: il Covid è un’invenzione dei bianchi, mentre in Europa pensiamo che lo portino gli immigrati…”.

Cosa fa più paura della pandemia?

Ciò che fa paura è il terrorismo di matrice islamica che in comune con il Covid ha l’annientamento della quotidianità. In più, la violenza jihadista ha la peculiarità di prendere di mira tutti i punti di riferimento di una comunità: dall’imam agli insegnanti del villaggio. I terroristi colpiscono ciò che rinsalda la società e mettono in fuga gli altri, anche se ormai si è assuefatti alla morte, come per il Covid.

L’obiettivo dei jihadisti qual è?

Il fine è fare terra bruciata per ricostruire tutto secondo le regole proprie: la sharia. Per farlo, dopo la violenza, c’è l’abbattimento dell’istruzione, dei libri, come nel caso di Boko Haram (l’istruzione occidentale è vietata).

È vero che è l’Africa, in particolare il Sahel, il punto in cui più rapidamente si sta diffondendo il jihadismo?

Assolutamente sì. Rapidità è il termine giusto. Abbiamo scoperto un jihadismo africano estremamente violento nel destabilizzare lo spazio vitale degli individui: agisce entrando nei villaggi frontalieri, spaventando la gente, bruciando e urlando ‘se rimani ti sgozzo’. Come la pandemia – che può diventare il metro di misura per capire cosa sta accadendo qui – il terrorismo cambia tutto all’improvviso e milioni di persone si ritrovano senza casa, a camminare scalzi nel deserto. In Niger si sommano gli sfollati interni, con i rifugiati dal Mali, dalla Nigeria dove a mettere in fuga le persone è Boko Haram. Dalla Soma- lia, dove si scappa da al-Shabaab. Tutto questo crea una forte pressione sul Paese. In tutto sono 3,5 milioni fra sfollati interni e rifugiati che l’Unhcr assiste insieme al governo nigerino perché non si traduca nella più grande crisi umanitaria del mondo.

Il Niger accoglie tutti?

Sì. Alla base dello Stato nigerino, nel suo dna, c’è l’accoglienza. Me l’ha spiegato il ministro degli Interni: il curriculum scolastico di un bambino rifugiato, ad esempio, è inserito in quello del governo. Neanche il Covid ha spinto ad alzare barriere. Il Niger ha chiuso gli aeroporti, gli scambi commerciali, ma non i confini a chi scappa da guerre e terrore, un terrore sempre più frammentato e fluido e per questo difficile da combattere. I terroristi si fanno la guerra per poi allearsi contro l’eterno nemico comune: lo straniero. Così il 21% del budget finisce alla Difesa e per Istruzione e Sanità resta ben poco.

Nel Sahel centrale ci sono anche le forze internazionali in guerra contro i terroristi.

Sì, ci sono i francesi, gli americani, ora sono arrivati anche gli inglesi, i belgi, c’è anche il contingente italiano: ma la soluzione ai conflitti è lontana. Per fare la pace c’è bisogno di dialogo e qui la situazione è ancora troppo frammentata, le varie organizzazioni terroristiche non hanno una rappresentanza politica con la quale dialogare. Se pensa che abbiamo iniziato solo ora a negoziare con i talebani…

Quindi qual è la soluzione?

Noi siamo un’agenzia di prossimità, stiamo con il governo per sostenere i rifugiati e gli sfollati. Per il 2021 la priorità dell’Unhcr è riportare in aula bambini e ragazzi del Sahel che frequentavano le 4.000 scuole chiuse o distrutte: in tutto 700 mila studenti e i loro 20 mila insegnanti. Riaprire le scuole significa ridare speranza per il futuro e punti stabili alla comunità, e restituire loro un luogo dove non solo imparare a leggere e scrivere, ma anche a prendere coscienza della propria dignità.

Usa, a Natale il regalo è la fame

Nel Paese più ricco al mondo, gli Stati Uniti, la fame è una dura realtà. Anche quando tutto va bene e non c’è la pandemia, le scuole assicurano un piatto caldo ogni giorno a milioni di bambini e ad anziani disperati che devono talora scegliere tra il cibo e le medicine. Ma ora che il virus ha contagiato oltre 15 milioni di americani, ne ha uccisi oltre 280 mila e ne ha lasciati senza lavoro, e quindi senza assistenza sanitaria, decine di milioni, milioni di americani hanno il problema del frigo vuoto.

Un’analisi dei dati dell’Ap, la maggiore agenzia di stampa statunitense, offre il quadro di un’Unione che ha tratti dell’America degli anni Trenta, quelli della Grande Depressione, dei libri di Steinbeck e dei film di John Ford e Frank Capra, che si risollevò con il New Deal di Franklyn D. Roosevelt. “Le banche del cibo – scrive l’Ap – erogano pasti a ritmo serrato e con numeri molto superiori all’anno scorso”. Chi è alle prese con la fame dice di non avere mai visto nulla di simile, neppure durante gli anni della Grande Recessione dal 2007 al 2009. È la testimonianza di Aaron Crawford, 37 anni, reduce della Marina, moglie e due bimbi di 5 e 10 anni: lui senza lavoro, Sheyla, la moglie, ammalata, Aaron si vergogna a chiedere da mangiare, perché si sente addosso sguardi che dicono: “Tu sei quello che non riesce a mantenere la famiglia, sei un fallito”; come è proprio di una società che tende a fare coincidere prestigio personale e successo economico. Ogni giorno, tonnellate di cibo raggiungono i centri di distribuzione e i centri di quartiere. Quello dei Crawford è solo a 15 minuti a piedi dal loro alloggio di Apple Valley, in Minnesota: qui ogni mese ricevono di che tirare avanti, alimenti di base, prodotti freschi, latte, carne, dolci.

È con questa America sofferente – e spesso insofferente di limitazioni anti-coronavirus, avvertite come ostacoli al lavoro – che dovrà confrontarsi il 20 gennaio, appena insediatosi alla Casa Bianca, il presidente eletto Joe Biden, che sta completando la sua squadra. Biden ha già scelto il team che s’occuperà d’economia, con alla testa una donna, Janet Yellen, e l’incarico precipuo di affrontare e ridurre le disuguaglianze sociali inasprite dalla pandemia. E ha pure fatto scelte cruciali in ambito sanitario: Xavier Becerra, procuratore generale della California, sarà il primo ispanico a guidare il ministero della Sanità. Il virologo Anthony Fauci sarà il consigliere medico sulla pandemia del nuovo presidente. Il generale in congedo Lloyd Austin, afroamericano, sarà il Segretario alla Difesa. Austin ha comandato per tre anni lo Us Central Command, da cui dipendono le operazioni nei principali teatri di guerra che coinvolgono gli Usa, Afghanistan, Yemen, Iraq, Siria, ed è stato vice-capo di Stato Maggiore delle Forze Armate. Se confermato dal Senato, Austin, 67 anni, congedatosi nel 2016 come generale a quattro stelle dopo 41 anni di servizio attivo, sarà il primo funzionario di colore nella storia a guidare il Pentagono. I nuovi poveri dell’Unione, dove, prima dell’adozione dell’Obamacare, c’erano 47 milioni di persone senza assistenza sanitaria, hanno spesso storie simili: la loro attività collassa, perdono il lavoro o si vedono ridurre le ore di lavoro, talora si ammalano e perdono occasioni di guadagno. In primavera il tasso di disoccupazione arrivò al 14,7%, un livello che non si toccava da quasi un secolo.

Le banche del cibo avvertirono immediatamente la pressione. Feeding America, la più grande organizzazione statunitense contro la fame, si diede da fare per essere all’altezza delle esigenze mentre fabbriche chiudevano, attività cessavano, ristoranti e negozi calavano la saracinesca, talora per sempre, e le scuole lasciavano a casa i bambini, che spesso vi facevano colazione e pranzo.

A marzo, il 20% delle 200 banche del cibo di Feeding America rischiavano di restare senza rifornimenti, perché la domanda cresceva, mentre la disponibilità diminutiva. In otto mesi, l’organizzazione ha distribuito 4,2 miliardi di pasti – il 57% in più che nello stesso periodo 2019 –, con un aumento degli assistiti del 60%; quattro su dieci non avevano mai dovuto rivolgersi prima a una banca del cibo. Nel 2020, un americano su sei avrà conosciuto la fame: dai 35 milioni del 2019, oltre il 10% della popolazione, a più di 50 milioni quest’anno, oltre il 15% della popolazione. I bambini sono più colpiti: uno su quattro. Alcuni Stati sono stati danneggiati più di altri dagli effetti della pandemia: il Nevada, una Mecca del turismo, ha avuto hotel, casino, ristoranti chiusi e balzerà dal 20° al 5° posto nella classifica degli Stati dell’Unione insicuri dal punto di vista alimentare.