Nella carne morta della sinistra

Quella di Bruno Trentin (1926-2007) è una delle voci che mancano di più, nell’Italia senza pensiero politico di oggi. La sua voce di segretario generale prima della Fiom e poi della Cgil; la sua voce, concretissima e radicale, di partigiano di Giustizia e Libertà; la sua voce di coltissimo, e libero, intellettuale.

Se oggi possiamo tornare a udirla è grazie ad Andrea Ranieri e Ilaria Romeo, che hanno appena pubblicato (dopo quella uscita nel 2017) una nuova scelta di estratti dal diario quotidiano di Trentin, spingendosi fino all’ultimo tempo (B. Trentin e l’eclisse della Sinistra. Dai Diari 1995-2006, Castelvecchi).

In queste pagine, scritte solo per sé, Trentin scava a fondo: nella sua anima tormentata, innanzitutto. E poi nella carne morta della Sinistra: restituendoci una galleria di protagonisti drammaticamente incapaci di essere all’altezza delle enormi responsabilità che si assumono davanti al Paese e alla storia: Veltroni, D’Alema, Prodi, Fassino e molti altri. La loro inadeguatezza è innanzitutto culturale: hanno elevato il cinismo della ‘governabilità’ (“scambiata per etica della responsabilità”, annota Trentin) a unico valore, educando – scrive Ranieri – “i giovani più brillanti all’esercizio del potere, invece che a rappresentare i senza potere”. Mentre Trentin si impegnava in Europa, come sindacalista prima e poi come eurodeputato, convinto che solo lì sarebbero state prese le decisioni fondamentali, i capetti di ciò che restava del Partito comunista si scannavano in provincialissime lotte per il potere personale.

Come non di rado succede, la lucidità dello sguardo costava carissima all’autore: “Quanto tempo è trascorso, e quanta riluttanza a riprendere questi appunti. Forse questa fase è dovuta al precipitare di uno stato di depressione acuta, di sconforto e di impotenza, determinato da una situazione politica sempre più torbida, nella quale la sinistra, o quel che ne rimane, ha registrato un distacco radicale, mi sembra senza precedenti, dalle tensioni del Paese reale”. Era il 14 febbraio 1996, e Trentin commentava “la fine del grande accordo fra D’Alema e Berlusconi”, che aveva “distrutto Prodi e frammentato l’Ulivo”. La flebile speranza che quella fine potesse “ridare un po’ di ossigeno a una riflessione strategica dei vari pezzi della sinistra” si univa alla certezza per cui sarebbero rimasti incancellabili “i guasti compiuti, le ferite devastanti che si sono aperte e le macerie che sono ammonticchiate: si tratta, infatti, soprattutto di rotture culturali ed etiche”. Nell’estate precedente, Trentin aveva annotato di essere “ancora sotto il trauma che mi ha procurato l’assistere a due giornate della kermesse organizzata dal Pds per sancire… la scelta del centrosinistra come la nuova identità del partito: perché di questo si è trattato: l’assunzione del centrosinistra come l’orizzonte… Solo questo spiega una relazione come quella di D’Alema, puramente orientata a definire i traguardi metodologici di un’alleanza fine a se stessa: la normalità, ossia la governabilità dell’esistente con regole più puntuali e con maggiore efficienza, la sicurezza, il nuovo o vero liberalismo per giocare sul terreno della nuova destra, e sconfiggerla in termini di credibilità e di professionalità”. Sotto gli occhi di Trentin nasceva la Sinistra-che-fa-la-Destra, dicendo a se stessa che lo fa per battere la Destra vera, ma in realtà per andare al potere, e fare le stesse cose. Una strategia in cui i contenuti sono secondari, irrilevanti: inutilmente frenanti. Per questo nella relazione di D’Alema “era assente una lucida analisi delle trasformazioni della società civile in Italia e in Europa, e quindi le ragioni possibili di una ritrovata identità della sinistra in Italia e in Europa, e un suo progetto di società da mettere al servizio di una coalizione democratica”.

La diagnosi, acutissima, resta valida per i successivi venticinque anni, cioè fino al Partito democratico di oggi: “In questo pasticcio di modernismo pseudoliberale e di caccia alle alleanze in nome del principio del fare numero, fare voti, rimane soltanto integra la parte peggiore della strategia comunista della transizione: prima andare al governo, e poi creare le ragioni per rimanere al governo in attesa del grande mutamento (che oggi non è più all’orizzonte)”.

Arrivati al secondo congresso del Pds, il 25 febbraio 1997, i diari registrano lo sconcerto di Trentin di fronte alla pochezza, anzi all’inesistenza culturale, di Walter Veltroni: autore di un discorso “indecoroso”, intessuto di “banalità” alla “[Claudio] Martelli”. La “mutazione genetica di una sinistra in cerca di identità” sconcerta Trentin: perché il mondo, con le sue ingiustizie, è là fuori, basterebbe saperlo leggere, volerlo davvero cambiare.

Arrivati al 2006, la diagnosi non può che essere infausta: “La corsa verso il Partito democratico appare sempre di più una bandiera logora, costruita sul nulla e sulle beghe personali, una deriva che è solo fondata sull’impotenza di confrontarsi con i problemi della società civile”. Altro che corpo estraneo: Renzi e il renzismo erano già tutti qua.

Nel 2001, Trentin riflette sui fatti di Genova: sul “neoautoritarismo che libera l’impresa di qualsiasi responsabilità”, portando a un “inquinamento violento del territorio”. La sfida è fermare “un capitalismo selvaggio che sprigiona autoritarismo e dominio unilaterale sulle persone”. Ma la Sinistra è del tutto incapace di comprenderlo: “Sintomatica l’affermazione di Fassino: ‘A quanti chiedono più libertà non possiamo limitarci a rispondere con più regole, a meno di diventare dei conservatori’”. Un Fassino, e una sinistra, che non riescono proprio a vedere che “le regole sono soltanto le libertà altrui: il diritto alla conoscenza, all’informazione e alla formazione, il diritto al controllo sull’oggetto del lavoro, il diritto a governare il proprio tempo, il diritto alla certezza del rapporto di lavoro”.

Meno capiva, ed era capito, dalla cosiddetta classe dirigente della Sinistra, più Trentin guardava lontano, certo che il problema centrale fosse “la modifica dei rapporti fra governanti e governati, nello Stato, nella società civile, nell’impresa, nella nazione e nel mondo: questa è, nel nuovo millennio, l’unica ragione d’essere della politica”. Aveva ragione: per questo non fu ascoltato. Per questo ci manca.

 

Veltroni inventa il triplete di Vespa

Se devo pensare a qualcosa di straordinario, io personalmente, qualunquemente, penso a Walter Veltroni. Scoppia una pandemia, ti chiudono in casa, perdi il bandolo della matassa, ti distrai un attimo e quando ti volti W.V., l’uomo che inneggia a se stesso fin dalle iniziali, ha già prodotto un giallo sulla pandemia, un saggio sulla pandemia, vari paginoni per il Corriere della Sera sugli effetti della pandemia, presentazioni televisive a catena di giallo, saggio e articoli sulla pandemia. Nei ritagli di tempo, W.V. prepara un film o un documentario, come questo Edizione straordinaria dedicato ai telegiornali Rai di evidente ispirazione autobiografica (se fosse un tg, Veltroni sarebbe un’edizione straordinaria).

Un come eravamo affidato al puro flusso temporale dagli anni 50 a oggi, senza accostamenti vezzosi alla Techetecheté, né sulfurei alla Blob. L’effetto è quello di una lastra, l’immaginario collettivo passato ai raggi X. Salvo qualche eccezione delegata allo sport, l’edizione straordinaria che irrompe nell’oratorio di Fabrizio Frizzi o di Fabio Fazio è sinonimo di sfiga straordinaria; in nove casi su dieci, è una morte straordinaria. Pensa te: se c’è nella vita una non notizia, nota fin dai primi vagiti, quella è proprio la morte. Invece è vero il contrario, e questo spiega perché fin dalle origini della Rai il primo requisito per un mezzobusto è stato avere un volto di circostanza. Oppure, meglio ancora, una faccia da funerale. Nella fisiognomica come nella memoria, i mezzibusti col risvolto umano scorrono afflitti e interscambiabili: Nuccio Puleo, Massimo Valentini, Michele Mangiafico, Mario Pastore… a ognuno la sua calamità. Tra loro c’è tuttavia un capocannoniere, Bruno Vespa, che in Edizione straordinaria riesce a siglare un triplete. Inviato sul rogo di Primavalle, poi dietro la scrivania sia per il ritrovamento di Moro, sia per le dimissioni di Di Pietro. Chissà cosa ci porterà il domani; però Vespa è sicuro.

La Poesia. L’attesa e il ritorno più forti del virus

Se volete potete stampare questa poesia e magari mandarla a qualche parente che sta in ospedale. È una poesia semplice, una piccola forma di attenzione a chi soffre. Un pensiero da parte mia e da parte vostra.

Presto tornerai a casa,
la tua vita sarà bellissima
ogni giorno, ogni minuto.

Noi siamo insieme a te

in ogni secondo, non c’è nessun tempo

in cui sei solo, non c’è niente

che ci può separare.

Respira, è un gesto che non ci ha insegnato

nessuno, ci viene consegnato

per fare i nostri giri in mezzo al mondo.

Ti vogliamo bene, qui ogni sera

sentiamo il tuo respiro,

sentiamo che tutte le cose della casa

ti aspettano, ti aspetta la tua piazza

la tua strada.

Ora fatti luce col batticuore.

Nessun virus è potente

come il nostro amore.

MailBox

 

I ricchi non intendono farsi toccare le tasche

Non comprendo perché non passi giorno senza che gli imprenditori, Carlo Bonomi in testa con il Sole 24 Ore e il codazzo dei giornali a sostegno del padronato, si straccino le vesti perché profondamente preoccupati del destino dei lavoratori, dei disoccupati, dei licenziati, ecc.: mi domando se, per un minimo di coerenza, non dovrebbero invocare loro l’applicazione di una qualche forma di “patrimonializzazione” o comunque di contributo per le grandi ricchezze a sostegno delle classi povere di cui si preoccupano. Sarebbe bene infatti, anche smettere che loro chiamino in causa i poveri commercianti, artigiani, professionisti solo per tutelare i grandi patrimoni.

Salvo Maffei

 

Il pallone è un’arma di distrazione di massa

Giovenale: “[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera: pane e giochi circensi”. I Romani erano dei veri maestri nelle tecniche di distrazione di massa: organizzavano grandiosi spettacoli pubblici da dare in pasto al popolino, che così volentieri si disinteressava della politica per lasciarla gestire alle élite dominanti. Dopo duemila anni niente di nuovo sotto il sole, anzi, la situazione è ulteriormente peggiorata: il morbo infuria, il pan ci manca, ma il mito di “un calcio al pallone” resta saldamente al vertice della scala dei valori, tanto che la delirante dichiarazione del sindaco De Magistris, “Maradona è stato il riscatto di un popolo”, viene accolta con una standing ovation. O tempora, o mores!

Maurizio Burattini

 

Serve un assestamento delle strade romane

Da pensionato non mi capita spesso di usare l’automobile per le vie di Roma, ma quando succede sono costretto a pentirmene. Non tanto per il traffico, che dopo una certa ora si dirada, quanto per la sconnessione del manto stradale ormai patrimonio dell’Unesco. Sono consapevole che la colpa dell’attuale giunta comunale sia piccola cosa rispetto alla situazione ereditata di estremo degrado e di casse comunali vuote. Per di più i cosiddetti “giornaloni dei padroni” ci sguazzano per dimostrare l’incapacità dell’attuale sindaca. Quello che non mi spiego è perché il governo nazionale, considerata la valenza internazionale della “Città eterna”, non rediga un piano straordinario d’investimenti per Roma, Capitale di tutti gli italiani.

Gian Carlo Lo Bianco

 

Raggi almeno ha messo a nudo il malaffare

I miei 75 anni hanno visto passare sotto gli occhi svariate e multicolore giunte comunali; dai democristiani in poi, i vari onorevoli Antonio La Trippa facevano a gara a superarsi nelle promesse, ma i risultati erano gli stessi di sempre: deludenti! Roma, ahimé, è andata sempre più verso il degrado, ferita dalle camarille dell’Atac, dell’Ama, dei taxi, abilmente pilotate dai “pupari” del “generone romano” in cui abbondano i palazzinari che corrompono e distribuiscono “mazzette” a destra e a manca. Ho votato Raggi, che rivoterò, se non altro perché ha messo a pane e acqua proprio il generone degli affaristi che le fanno una guerra spietata.

Maurizio Dickmann

 

Non dimentichiamoci chi è Antonio Bassolino

Il “calvario” di Bassolino dopo 19 assoluzioni è finito. E il nostro calvario che per anni ci ha costretti a convivere con cumuli di immondizia che a volte arrivavano al secondo piano degli edifici, era frutto della nostra immaginazione? E chi era il “governatore” della Regione Campania, come gli piaceva farsi chiamare? E l’immondizia inviata per nave in Olanda con costi esorbitanti all’inizio della prima consiliatura De Magistris una fake news? Qualcuno mi chiarisca questi dubbi in attesa che il nuovo soggetto si candidi a sindaco di Napoli il prossimo anno.

Salvatore Griffo

 

Perché Di Maio va contro il governo giallorosa?

Sono un sostenitore di Beppe Grillo, dei 5S fin dal 2009. Ero un fan di Di Battista e gli sono grato per il suo impegno accanto a Di Maio per portare il Movimento 5 Stelle a essere guida del governo e ottenere leggi mai neppure pensabili prima. Adesso però che assieme a Casaleggio, sembra voler mettere a rischio la stabilità di Conte e consegnare l’Italia al tandem Salvini-Meloni, mi chiedo: a che pro? Forse perché vuole rientrare in Parlamento con nuove elezioni e magari cercare un accordo con Salvini? Vorrei evitare ai miei figli e nipoti una simile disgrazia peggiore del Coronavirus.

Giuseppe Dolce

 

Saremo sempre al vostro fianco contro i potenti

Ho letto l’articolo di Barbacetto che ripercorre i tentativi di Eni, Renzi, Casellati di mettere a tacere uno dei pochi se non l’unico giornale “libero” del panorama informativo italiano. Credo che come affezionati e consapevoli lettori di questo giornale non possiamo accettare che il Fatto Quotidiano sia tenuto sotto scacco da società o personaggi che coperti dalla potenza economica o dallo status parlamentare cercano di impedire la divulgazione di notizie scomode. Non dobbiamo permettere che l’abbiano vinta e sono convinto che sia una battaglia da combattere senza arretrare di un millimetro. Loro non si arrenderanno? Nemmeno noi!

Leonardo Gentile

Ambiente. Il Nord Europa stopperà le auto a benzina tra 5 anni. E noi?

 

Buongiorno, vorrei fare una domanda anche a voi su un importante argomento ambientale. Giorni fa, in un paio di Tg, ho sentito che ben sei Nazioni del Nord Europa hanno preso la decisione di abolire le auto a benzina e gasolio: mi sembra di ricordare che la Norvegia si è data tempo 5 anni assieme a Danimarca, Olanda, Svezia, mentre ultima sarà la Gran Bretagna, tra 10 anni. E l’Italia? Perché non ne parlate? Grazie.

Athos Cristiani

 

Gentile Athos, siamo sempre attenti alle questioni ambientali, e abbiamo trattato ripetutamente temi come la mobilità sostenibile e i provvedimenti presi dai vari Paesi del mondo. Sono stati molti gli articoli pubblicati, con argomenti che spaziano dalle nuove tecnologie, in riferimento a vetture ibride ed elettriche (ma anche fuel cell a idrogeno), fino alle politiche messe in atto dai diversi governi, come ad esempio gli Ecobonus nel nostro Paese.

Entrando nello specifico della sua richiesta, pure nel caso dei provvedimenti (e delle semplici proposte fatte da governi o parti politiche) riguardo alla messa al bando di motori termici la copertura è stata costante, anche perché nel corso degli ultimi anni se ne è parlato molto. Recentemente anche in Italia si comincia finalmente a pensare a provvedimenti simili. Basta una semplice ricerca su Google per trovare tutti i nostri pezzi, sulla situazione nazionale e internazionale: chiare e precise, come ricorda lei, sono le scelte dei Paesi del Nord Europa, mentre la decisione più recente della Gran Bretagna – con la presa di posizione del suo premier Boris Johnson sul divieto di vendita dei propulsori termici (con deroga fino al 2035 per i mezzi ibridi) – ha suscitato tante polemiche in quel Paese sia tra gli industriali sia tra gli accademici. Nel nostro piccolo, ci siamo occupati, qualche giorno fa, anche di Giappone, un Paese che – pare, da più fonti e media locali – sta per sposare la stessa linea inglese, anche se manca ancora la conferma ufficiale da parte del primo ministro Yoshihide Suga. La conferma è attesa entro la fine di quest’anno.

Marco Scafati

L’assessore alle gaffe e il presidente emulo del Berlusca

I lettori di questa ormai decennale rubrica avranno intuito che chi la scrive ha il cuore tenero e mai si sognerebbe di partecipare a un’indecente “campagna mediatica” contro qualcuno, alimentando l’odio e incitando la gente a scrivere cosacce sui muri delle città o su quei muri virtuali che rispondono al nome di social network. Tuttavia, vivere in Lombardia di questi tempi non favorisce l’indulgenza: i nostri amministratori ne combinano una ogni cinque minuti (per la gioia di Crozza). L’altro giorno l’assessore al welfare Giulio Gallera ha sconfinato (in ogni senso) e, preso dalla passionaccia per il jogging, è scivolato sui limiti in vigore nelle zone arancioni (quale la Lombardia è tutt’ora). Il nostro atletico assessore ha deciso di condividere sui social la morale della lunga corsa: “Oggi 20 km lungo il Naviglio Martesana. La maratona è maestra di vita. Stringere i denti e non mollare mai”. Rocky, scansati. Sarebbe buona regola contare sempre fino a cento prima di postare: purtroppo i cittadini non hanno gradito e gli hanno fatto una maratona così a suon di imperativi hashtag (#vergogna). Allora lui ha tentato un’imbarazzata spiegazione (“Ero sovrappensiero, non ho visto il cartello di confine comunale”). Ma ormai la frittata era fatta, tanto che il virologo Andrea Crisanti, ormai politologo e tuttologo, ha sentenziato: “Per una cosa simile in Inghilterra si sarebbe dovuto dimettere. Ma siamo in Italia e questo non succederà. Comunque, non è un bell’esempio”.

Ecco, a proposito di esempi, lunedì il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha concesso una lunga e virtuosa intervista a Libero. Quotidiano a cui da giorni, spiega l’intervistatore, giungono bellicose missive degli ammutinati del 25 dicembre. Persone che annunciano di voler violare “i divieti previsti dal governo per Natale”. “In particolare, chi abita nei piccoli Comuni non capisce perché sia vietato andare a trovare parenti che abitano a pochi chilometri di distanza”. Fontana non mostra alcun imbarazzo dovuto, vedi mai, al ruolo istituzionale: “Sono d’accordo con loro. Mi auguro che il Parlamento abbia un sussulto e sistemi questa norma, che mi sembra veramente una sciocchezza. Dal punto di vista epidemiologico non ha senso che sia considerato sicuro muoversi per le visite nel proprio Comune e sia definito pericoloso andare a trovare qualcuno che abita nel paese di fianco”. In attesa del sussulto parlamentare (che poi: un sussulto di che cosa?) c’è tempo perfino per parlare delle ormai arcinote inchieste giudiziarie sui camici di famiglia. Domanda: “Il suo nome è comparso in tante inchieste. Ritiene che l’appartenenza politica alla Lega abbia reso più complicati i suoi rapporti con la magistratura?”. La risposta a un interrogativo tanto violento è: “Con la magistratura non lo so, con la stampa di sicuro”. Tutto questo ci fa tornare in mente il caro vecchio Berlusca. E no, non per le inchieste! Ma per quel poco velato invito a trasgredire le leggi. Come ricorderete, Silvio – oggi padre della patria, prudentissimo sulle norme antivirus – più volte ha esternato le sue probissime opinioni sulle norme tributarie: “Se si chiede una pressione del 50% ognuno si sentirà moralmente autorizzato a evadere’” (febbraio 2004). La “giustificazione morale” dell’evasione è una verità insita nel “diritto naturale” (secoli di positivismo giuridico buttati alle ortiche). Quattro anni dopo, in campagna elettorale: “Le tasse sono tra il 50 e il 60%, è troppo e così è giustificato mettere in atto l’elusione o l’evasione”. Abbiamo capito il senso di tutto quando B. è stato condannato in via definitiva per frode fiscale. Ma questa volta, ne siamo certi, non finirà così.

 

Risse a palazzo 209 miliardi di motivi per spararsi sul piede. Seguono clown

Camminare su una corda tesa tra due montagne, sfidare il vento tenendo l’equilibrio, bilanciare i pesi, avanzare a piccoli passi prudenti. E poi, quando meno te lo aspetti, estrarre una pistola e spararsi in un piede. Ecco, in sintesi, la questione politica che va in scena oggi, a cura degli antigovernativi che stanno al governo, mentre le opposizioni un po’ ci sperano e non credono ai loro occhi per l’occasione.

Non succederà, dicono gli esperti. Prevarrà il buonsenso. Arriverà qualche adepto della setta di Silvio a dare una mano, oppure Renzi dimostrerà ancora una volta di essere solo chiacchiere e distintivo, oppure i 5stelle affetti da masochismo compulsivo si ridurranno di numero… Insomma, i bookmaker ci credono poco, ma tra gli scenari possibili c’è anche quello “fine di mondo”: una bella campagna elettorale in piena pandemia, la povertà che avanza, i licenziamenti che ripartono in tromba, i nervi a brandelli e 209 miliardi sul tavolo che fanno gola a molti.

Scenario interessante, e dopo entrano i clown.

Certo, è umano preferire il certo all’incerto. E vuoi mettere la rassicurante ripetitività immutabile di qualche mese di liti parossistiche, affermazioni assurde, campagne debilitanti, slogan, simboli, stracci che volano? Cose a cui siamo abituati, che hanno il caro sapore di casa. Uno, poverino, che dovrebbe tornare a baciare salami, agitare rosari e consumarsi il pollice a furia di selfie; l’altra che si sbraccerebbe come da un banco del pesce con il suo repertorio di patria e famiglia, attenta a nascondere i suoi arrestati per ‘Ndrangheta e altre faccenduole, oltre ai soliti camerati “boia-chi-molla” che spuntano come funghi a ogni appuntamento elettorale.

Poi ci sarebbe la compagine del cosiddetto centrosinistra, con il Pd eternamente in mezzo al guado, un po’ lib, un po’ lab e un po’ vattelapesca; i 5 stelle che si menano come fabbri tra governisti e movimentisti in perenne odore di scissione; los renzistas (anche quelli “in sonno” nel Pd) che cercano di capire cosa gli convenga, ammesso che superino la soglia e riescano a entrare nel gioco. Aggiungete le varianti del caso, le tifoserie schierate, le giravolte estreme che già sappiamo – “Chiudere tutto!”, no, “Aprire tutto!”, a seconda dei sondaggi del giorno – il profluvio di puttanate sui social, ed ecco un quadretto del deplorevole spettacolo di arte varia che ci aspetterebbe. Unica consolazione: le care vecchie risse tra capataz dei partiti sostituirebbero temporaneamente gli incontri di wrestling tra virologi, un piccolo sollievo. Meglio, finché si può, non pensarci, e la speranza è che il voto di oggi allontani uno scenario tanto grottesco.

Solo una nota in margine. È prassi in questi casi dire che “la gente non capirebbe”, altro rassicurante topos delle fibrillazioni pre-crisi, frase sempre buona alla bisogna. Ma questa volta non è vero: la gente capirebbe, e forse ha già capito benissimo, che i mal di pancia forti arrivano insieme ai soldi, tanti soldi, abbastanza soldi da cambiare un Paese. E che sulla gestione di quei soldi si ridisegna non solo l’Italia (cioè, speriamo) ma anche il futuro degli equilibri politici e dei pesi che attualmente li garantiscono. I veti incrociati, i piccoli partitini del 2 per cento sempre più simili a lobby personali, gli aghi della bilancia, le furbizie da Prima, Seconda, Terza Repubblica, verranno messe alla prova nel voto di oggi, e si potranno vedere in filigrana tutti i 209 miliardi di motivi per cui c’è chi sega il ramo su cui sta seduto.

Alessandro robecchi

Patrimoniale per evitare possibili disordini sociali

L’ultimo rapporto Censis ci dice, in sostanza, che nel periodo Covid i poveri sono diventati più poveri, i ricchi più ricchi. In realtà il Covid non fa che evidenziare un fenomeno, quello del progressivo aumento delle disuguaglianze fra ceti ricchi e ceti poveri, che ha inizio praticamente col capitalismo (al punto in cui siamo arrivati siamo costretti a riutilizzare il linguaggio di Marx). In un documento della Fao che risale a metà degli anni Settanta si dice: “L’analisi storica dello sviluppo dimostra che l’accumulazione del capitale privato o statale, il passaggio dall’economia contadina all’economia industriale e urbana, ha avuto in un primo tempo come conseguenza un aumento delle disuguaglianze”. Del resto Alexis de Tocqueville che visse il passaggio dal mondo contadino a quello industriale nel saggio Il Pauperismo (1835), dopo un viaggio in Europa constata, con una certa meraviglia, che nei Paesi che hanno già imboccato la via dello sviluppo industriale, per esempio l’Inghilterra, ci sono più poveri che nei Paesi che quella strada non l’hanno ancora iniziata. Ma c’è molto da discutere sul fatto che solo “in un primo tempo”, come scriveva la Fao, il capitalismo industriale abbia prodotto un aumento delle disuguaglianze. Se nei Paesi europei si è potuto affermare per più di un secolo e mezzo un forte ceto medio, che faceva da cuscinetto fra i più ricchi e i più poveri, è perché erano da poco risuonate le sacre parole della Rivoluzione francese liberté, égalité, fraternité che proprio la Francia, l’Inghilterra, il Belgio davano inizio al colonialismo sistematico. Cioè rapinavano le risorse dei Paesi terzomondisti. Questa pacchia ebbe fine col declinare del colonialismo dopo la seconda metà del Novecento. È in questo periodo che riemergono nei Paesi europei fortissime disuguaglianze di classe. Prendiamo l’Italia, che è poi il Paese che qui ci interessa. Ne La Ragione aveva torto? (1985), che fotografa la situazione dell’Italia degli anni Ottanta, scrivevo: “Il decile più ricco, cioè il 10% che sta alla sommità della piramide sociale, ha il 29,9% del reddito complessivo rispetto al 2,4% del decile più povero, i ricchi cioè hanno un reddito che è 12,5 volte quello dei più poveri”. Ma il dato più sconcertante lo si ha se si mettono a raffronto le ricchezze invece dei redditi. Nell’Italia degli anni Ottanta il 6,7% delle famiglie deteneva il 42% della ricchezza totale e il 15,8% si spartiva il 66% della ricchezza. Per contro il 47,8%, cioè quasi la metà della popolazione, aveva lo 0,8%. Da allora la situazione in Italia, ma il problema è mondiale, non ha fatto che peggiorare. Secondo un rapporto della Banca d’Italia del 2018, “Nel decennio tra il 2006 e il 2016, i due decili più bassi della ricchezza netta sono passati, rispettivamente, da 2.300 a 1.100 euro e da 12.000 a 6.200 euro”.

Il problema, dicevamo, è mondiale. Forbes pubblica ogni anno un elenco degli uomini più ricchi del mondo che, rappresentando nei rispettivi Paesi l’1% della popolazione, detengono la metà e oltre della ricchezza nazionale. Per esempio negli Stati Uniti l’1% dei più ricchi detiene circa il 38% della ricchezza Usa. Lo stesso fenomeno si riscontra peraltro nei Paesi cosiddetti terzomondisti. La Nigeria, che è il Paese più ricco di quella che una volta chiamavamo Africa Nera, ha il più alto numero di poveri. Ma per tornare in Italia assistiamo, proprio in base ai dati che abbiamo fornito, a una progressiva scomparsa del ceto medio: alcuni entrano a far parte dell’empireo dei ricchi, ma molti di più scendono nella caienna della semipovertà o della povertà tout court i cui livelli si sono ulteriormente abbassati (quelli che nell’Italia di oggi sono sotto i livelli ufficiali di povertà, negli anni Ottanta sarebbero stati considerati dei benestanti o quasi). Le democrazie occidentali dovrebbero essere molto più attente a questo fenomeno perché il ceto medio è storicamente il collante fra i ceti ricchi e i ceti poveri, dando a questi ultimi la speranza di accedere, grazie alla mobilità sociale, a livelli superiori. Fra le cause che portarono al Fascismo ci fu anche il forte indebolimento nel dopoguerra del ceto medio (i ricchi, speculando, erano diventati ancora più ricchi e i poveri ancora più poveri). Ecco perché la proposta di Beppe Grillo di una “patrimoniale” non ha solo un senso equitativo, ma anche l’obiettivo, molto poco rivoluzionario, di evitare disordini sociali che in Italia, ma prima ancora in Francia, hanno fatto capolino col Covid. In Spagna il governo socialista di Pedro Sánchez e di Podemos una “patrimoniale”, della cui complessità non è il caso di rendere conto qui, l’ha varata. Perché in Italia al solo sentire il termine “patrimoniale” si fa il ponte isterico come le prefiche d’antan?

Feltri figlio, la Boldrini,l’Huffpost e il tentativo di rifugiarsi nei paradossi

Ancora sulla censura di Mattia Feltri a Laura Boldrini e ai lettori di HuffPost. Ieri dicevamo del sorite, il trucco argomentativo che sfrutta la vaghezza di un’espressione. L’esempio classico è quello del termine “mucchio” (soros, in greco). Mille chicchi di grano sono un mucchio. Anche 999 chicchi lo sono. Anche 998. E 997. Se proseguiamo in questa direzione, però, si arriva alla conclusione che zero chicchi di grano sono un mucchio, il che è un paradosso. Non appena si definisce la parola “mucchio” in modo preciso, però, il paradosso cade. Del sorite si abusa nei dibattiti etici, come può esserlo una questione di deontologia professionale. Scrivendo dei direttori che buttano articoli “per mille motivi, di opportunità, di linea politica, di convenienza, di gusto”, Mattia Feltri ha tentato il sorite. 13) “Dentro queste regole, i blog di Huff hanno prosperato e costituiscono una comunità ricca, plurale e libera. Ma non licenziosa” (Ma denunciare chi attribuisce la responsabilità di uno stupro alla vittima non è una licenza: è un obbligo morale, perché chi assiste a un’ingiustizia senza opporvisi non è migliore di chi la fa). 14) “Dunque avrei potuto cestinare il blog e lasciare l’onorevole ai suoi fantasmi, nella piena legittimità di direttore” (Non si tratta di “fantasmi”: Laura Boldrini faceva il nome del giornalista che aveva attribuito la responsabilità di uno stupro alla vittima. E quella censura non è affatto legittima. Per questo la tua decisione ha fatto scalpore). 15) “Ma mi sembrava sgarbato. Avrei potuto chiamare l’onorevole Boldrini e restare sul vago, ma mi sembrava disonesto. Invece sono uno stupido, e le ho detto le cose come stavano, nella fiducia di trovarmi a confronto con una persona con cui intrecciare un ragionamento” (La censura non è un mero “sgarbo”, altra banalizzazione. Il punto è che la colpevolizzazione di una vittima di stupro non è qualcosa di negoziabile, come ben sottolinea Giulia Siviero nel suo blog sul Post di Luca Sofri, il quale non l’ha certo censurata, anche se una pregiudiziale familista poteva avercela: Mattia Feltri è sposato con Annalena Benini, giornalista del Foglio, la quale è nipote di Daria Bignardi, ex moglie di Luca Sofri. Inoltre Mattia Feltri continua la tattica vittimistica: lui è “stupido” perché ha “detto le cose come stavano”. No: sei stupido perché pensi sia legittimo negoziare la colpevolizzazione di una vittima di stupro). 16) “Lei ha rifiutato e, sul sottofondo delle sue proteste, pensavo che mi ero intrappolato con le mie mani, e all’impossibilità di uscirne: se avessi pubblicato, si sarebbe detto ecco anche il figlio scarica il padre eccetera; se non avessi pubblicato si sarebbe detto censura, e infatti l’hanno detto, senza conoscere il significato di censura” (Boldrini ha giustamente rifiutato e protestato. Non ti era affatto impossibile uscirne, bastava riconoscere che Boldrini aveva ragione, e pubblicarla. Non ti eri “intrappolato”: eri solo dinanzi alla tua contraddizione. Hanno detto censura perché lo è: hai impedito una libera manifestazione del pensiero. Si sarebbe detto “anche il figlio scarica il padre”? Ma se un blog è solo “un ospite”, come hai improvvidamente sostenuto, che c’entri tu? Del resto, se sei in disaccordo con tuo padre, che c’è di male? Specie quando, come vedremo, attribuisce la responsabilità di uno stupro alla vittima. Se dissenti, cosa succede? Ti dà le totò? Anzi, è grave che tu non abbia ancora preso esplicitamente le distanze dal suo articolo: implicitamente lo avalli. A proposito: neanche Annalena può dissentire da tuo padre? Così, per sapere qual è il range del veto).

(5. Continua)

 

Destra comoda sul divano: eppure è prima

Ogni lunedì, davanti al sondaggio politico del tg di Enrico Mentana mi faccio sempre le stesse stupide domande a proposito di quegli zero virgola in più, o in meno dei partiti che a distanza di una sola settimana fanno un passo avanti, o uno indietro al ritmo del cha cha cha. Vorrei tanto conoscerli quei decimali così variabili e volubili, indagare sui loro repentini sbalzi d’umore, come innamorati capricciosi che la mattina si fanno le coccole con Zingaretti e Salvini, e alla sera mettono il muso. In questo quadro vagotonico abbiamo appreso che mentre un italiano su tre chiede di andare avanti con il governo Conte (altri vagano tra il rimpasto e il non so), un italiano su quattro o giù di lì vuole le elezioni a primavera. A questo punto la schermata successiva ci conferma ciò che sapevamo: in caso di voto, il centrodestra unito (Lega, FdI, Forza Italia) viene accreditato del quasi 47%, e forse qualcosa di più contando gli spiccioli.

È vero che nel centrosinistra la somma di Pd e M5S, con Sinistra Italiana, Italia Viva, Verdi, Più Europa, Azione, e frammenti vari potrebbero arrivare non troppo lontano. Però, immaginare Renzi, Bonino, Calenda che fanno blocco con Zingaretti e Di Maio (e perfino con se stessi) ci introduce direttamente all’angolo del buon umore. A differenza del fronte opposto la destra italiana sa come unirsi elettoralmente, accordo che scatta sempre e comunque, soprattutto quando non sono d’accordo su nulla. Infatti, checché ne dicano, anche per loro le poltrone costituiscono i veri valori per cui battersi. Come dimostra l’aver saputo conquistare 15 regioni sul totale di 20. Se fosse una squadra di calcio il Salvini&Meloni (Berlusconi gioca per sé) potrebbe vantare il massimo risultato con il minimo sforzo. Non toccano palla e passano tutto il tempo a protestare con l’arbitro Mattarella e a sollecitare l’espulsione dell’intera squadra avversaria (il leader leghista ha chiesto le dimissioni praticamente di tutti i ministri, ultima Luciana Lamorgese colpevole di essere positiva al Covid). Ultimamente hanno cambiato tattica, sono usciti dal campo e se ne stanno sul divano con un pacco gigante di popcorn aspettando fiduciosi che Matteo Renzi, con l’apporto di qualche grillino in cerca d’autore, mettano in rete l’autogol decisivo. Così finalmente si saranno meritati Salvini a Palazzo Chigi, Meloni al Viminale e, perché no, Berlusconi al Quirinale.