Quella di Bruno Trentin (1926-2007) è una delle voci che mancano di più, nell’Italia senza pensiero politico di oggi. La sua voce di segretario generale prima della Fiom e poi della Cgil; la sua voce, concretissima e radicale, di partigiano di Giustizia e Libertà; la sua voce di coltissimo, e libero, intellettuale.
Se oggi possiamo tornare a udirla è grazie ad Andrea Ranieri e Ilaria Romeo, che hanno appena pubblicato (dopo quella uscita nel 2017) una nuova scelta di estratti dal diario quotidiano di Trentin, spingendosi fino all’ultimo tempo (B. Trentin e l’eclisse della Sinistra. Dai Diari 1995-2006, Castelvecchi).
In queste pagine, scritte solo per sé, Trentin scava a fondo: nella sua anima tormentata, innanzitutto. E poi nella carne morta della Sinistra: restituendoci una galleria di protagonisti drammaticamente incapaci di essere all’altezza delle enormi responsabilità che si assumono davanti al Paese e alla storia: Veltroni, D’Alema, Prodi, Fassino e molti altri. La loro inadeguatezza è innanzitutto culturale: hanno elevato il cinismo della ‘governabilità’ (“scambiata per etica della responsabilità”, annota Trentin) a unico valore, educando – scrive Ranieri – “i giovani più brillanti all’esercizio del potere, invece che a rappresentare i senza potere”. Mentre Trentin si impegnava in Europa, come sindacalista prima e poi come eurodeputato, convinto che solo lì sarebbero state prese le decisioni fondamentali, i capetti di ciò che restava del Partito comunista si scannavano in provincialissime lotte per il potere personale.
Come non di rado succede, la lucidità dello sguardo costava carissima all’autore: “Quanto tempo è trascorso, e quanta riluttanza a riprendere questi appunti. Forse questa fase è dovuta al precipitare di uno stato di depressione acuta, di sconforto e di impotenza, determinato da una situazione politica sempre più torbida, nella quale la sinistra, o quel che ne rimane, ha registrato un distacco radicale, mi sembra senza precedenti, dalle tensioni del Paese reale”. Era il 14 febbraio 1996, e Trentin commentava “la fine del grande accordo fra D’Alema e Berlusconi”, che aveva “distrutto Prodi e frammentato l’Ulivo”. La flebile speranza che quella fine potesse “ridare un po’ di ossigeno a una riflessione strategica dei vari pezzi della sinistra” si univa alla certezza per cui sarebbero rimasti incancellabili “i guasti compiuti, le ferite devastanti che si sono aperte e le macerie che sono ammonticchiate: si tratta, infatti, soprattutto di rotture culturali ed etiche”. Nell’estate precedente, Trentin aveva annotato di essere “ancora sotto il trauma che mi ha procurato l’assistere a due giornate della kermesse organizzata dal Pds per sancire… la scelta del centrosinistra come la nuova identità del partito: perché di questo si è trattato: l’assunzione del centrosinistra come l’orizzonte… Solo questo spiega una relazione come quella di D’Alema, puramente orientata a definire i traguardi metodologici di un’alleanza fine a se stessa: la normalità, ossia la governabilità dell’esistente con regole più puntuali e con maggiore efficienza, la sicurezza, il nuovo o vero liberalismo per giocare sul terreno della nuova destra, e sconfiggerla in termini di credibilità e di professionalità”. Sotto gli occhi di Trentin nasceva la Sinistra-che-fa-la-Destra, dicendo a se stessa che lo fa per battere la Destra vera, ma in realtà per andare al potere, e fare le stesse cose. Una strategia in cui i contenuti sono secondari, irrilevanti: inutilmente frenanti. Per questo nella relazione di D’Alema “era assente una lucida analisi delle trasformazioni della società civile in Italia e in Europa, e quindi le ragioni possibili di una ritrovata identità della sinistra in Italia e in Europa, e un suo progetto di società da mettere al servizio di una coalizione democratica”.
La diagnosi, acutissima, resta valida per i successivi venticinque anni, cioè fino al Partito democratico di oggi: “In questo pasticcio di modernismo pseudoliberale e di caccia alle alleanze in nome del principio del fare numero, fare voti, rimane soltanto integra la parte peggiore della strategia comunista della transizione: prima andare al governo, e poi creare le ragioni per rimanere al governo in attesa del grande mutamento (che oggi non è più all’orizzonte)”.
Arrivati al secondo congresso del Pds, il 25 febbraio 1997, i diari registrano lo sconcerto di Trentin di fronte alla pochezza, anzi all’inesistenza culturale, di Walter Veltroni: autore di un discorso “indecoroso”, intessuto di “banalità” alla “[Claudio] Martelli”. La “mutazione genetica di una sinistra in cerca di identità” sconcerta Trentin: perché il mondo, con le sue ingiustizie, è là fuori, basterebbe saperlo leggere, volerlo davvero cambiare.
Arrivati al 2006, la diagnosi non può che essere infausta: “La corsa verso il Partito democratico appare sempre di più una bandiera logora, costruita sul nulla e sulle beghe personali, una deriva che è solo fondata sull’impotenza di confrontarsi con i problemi della società civile”. Altro che corpo estraneo: Renzi e il renzismo erano già tutti qua.
Nel 2001, Trentin riflette sui fatti di Genova: sul “neoautoritarismo che libera l’impresa di qualsiasi responsabilità”, portando a un “inquinamento violento del territorio”. La sfida è fermare “un capitalismo selvaggio che sprigiona autoritarismo e dominio unilaterale sulle persone”. Ma la Sinistra è del tutto incapace di comprenderlo: “Sintomatica l’affermazione di Fassino: ‘A quanti chiedono più libertà non possiamo limitarci a rispondere con più regole, a meno di diventare dei conservatori’”. Un Fassino, e una sinistra, che non riescono proprio a vedere che “le regole sono soltanto le libertà altrui: il diritto alla conoscenza, all’informazione e alla formazione, il diritto al controllo sull’oggetto del lavoro, il diritto a governare il proprio tempo, il diritto alla certezza del rapporto di lavoro”.
Meno capiva, ed era capito, dalla cosiddetta classe dirigente della Sinistra, più Trentin guardava lontano, certo che il problema centrale fosse “la modifica dei rapporti fra governanti e governati, nello Stato, nella società civile, nell’impresa, nella nazione e nel mondo: questa è, nel nuovo millennio, l’unica ragione d’essere della politica”. Aveva ragione: per questo non fu ascoltato. Per questo ci manca.