L’esame di linguas italianas dell’uruguaianos Suárez

Si pensava che lo spiritoso espediente di aggiungere le “s” alla fine delle parole per far finta di parlare spagnolo fosse materiale da serata alcolica o da commedia nazionalpopolare. Qualcosa che esiste solo in Non ci resta che piangere (Benigni e Troisi: “Son de Madrids, nativos… ugualos”). O nel Ciclone di Pieraccioni, dove Massimo Ceccherini, consumato dalla foia e sdraiato dentro a una bara, si interroga su come rimorchiare le ballerine di flamenco: “Chissà come si dice in spagnolo ‘do il ramato’? Dos los ramatos”. Invece l’esame di italiano di Luis Suárez è andato davvero così: una macchietta, una caricatura della realtà.

La storia è nota: il forte centravanti uruguaiano quest’estate sta per essere acquistato dalla Juventus, ma prima deve ottenere la cittadinanza italiana e superare un esame di lingua. L’Università (pubblica) per Stranieri di Perugia prepara una sessione ad hoc per Suárez con la scusa del Covid. La prova è una farsa colossale. Giorno dopo giorno si aggiungono dettagli imbarazzanti.

La pronuncia. Proprio come nella commedia di Pieraccioni, Suárez ha passato il suo esame aggiungendo le “s”. Lo scrivono i magistrati perugini: il miliardario attaccante dell’Uruguay ha ottenuto l’idoneità linguistica con “una pronuncia stentata e chiaramente ispanofona caratterizzata dalle ‘s’ in fondo alle parole”.

Chi doveva interrogarlo lo sapeva già. Sull’italiano di Suárez, in privato, si facevano grasse risate: “Parla italiano para amigos” ghignava l’esaminatore Lorenzo Rocca la sera prima della prova. La frase con cui il calciatore esordisce all’esame è bella come un tiro sotto l’incrocio dei pali: “Mi chiamo Luis, sono uruguaianos. Gioco spesso alla Playstation, mi piace fare il barbecue con la famiglias e gli amici”.

Questa frase – escluse le “s” di troppo – gli era stata dettata dagli stessi esaminatori, come anticipato dal quotidiano Domani. L’intero esame di Suárez è una recita, scritta a tavolino dalle stesse persone a cui era stato chiesto di promuoverlo.

L’avion. L’autrice della conversazione posticcia è la professoressa Stefania Spina, che si “confessa” in un’intercettazione: “Insieme abbiamo costruito questo testo… gliel’ho scritto, gliel’ho mandato e gli ho detto ‘Luis studia questo’”. L’attaccante promette di prepararsi (nei ritagli di tempo): “Stai tranchilla porché io lo estudio in l’avion”.

Assisi. Il testo dell’esame di Suárez è una perla letteraria, sembra scritto dagli sceneggiatori di Boris per una puntata de Gli occhi del cuore.

Rocca: “Ciao Luis come va?”. Suárez: “Ciao Lorenzo tutto bene. E tu?”. R: “Tutto bene grazie. Come ti trovi a Perugia? E tua moglie e i tuoi figli?”. S: “Anche loro stanno bene, i bambini vanno a scuola. R: “Dovresti portarli a fare una gita. Qui vicino ci sono dei posti bellissimi da visitare”. S: “È vero Lorenzo, è una buona idea. Mi potresti consigliare un bel posto per fare una gita con loro domenica prossima?”. R: “Potete andare ad Assisi: è una piccola città vicina a Perugia, e ci sono moltissime cose da visitare”. S: “Perfetto, allora domenica andremo ad Assisi! Grazie Lorenzo, vado subito a dirlo a mia moglie!”.

Maledetta spesa. Al numero 9 viene chiesto anche di confrontare i costumi del suo Paese con l’Italia. Un breve trattato triste di antropologia: “In Uruguay le famiglie sono numerose. Nella mia famiglia facciamo tutto insieme. Tutti possono fare tutto. Ma a me non piace fare la spesa, la spesa la fa sempre mia moglie”. Adios.

A processo per tangenti, ufficiali reintegrati

Sono tornati a indossare la divisa due ufficiali della Marina militare ancora sotto processo con l’accusa di aver intascato tangenti dagli imprenditori dell’indotto. Nonostante le accuse, il Tar di Lecce ha accolto la loro richiesta di tornare in servizio.

I due capitani di fregata, Giovanni Cusmano e Giuseppe Coroneo, erano stati sospesi dal servizio dopo il loro arresto nella prima inchiesta sulla tangentopoli nella base militare di Taranto: le accuse mosse dal pm Maurizio Carbone, che aveva coordinato l’indagine dei carabinieri guidati all’epoca dal capitano Pietro Laghezza, era di aver costituito un sistema che imponeva agli imprenditori locali il pagamento di un pizzo pari al 10% dell’appalto per ottenere in cambio il pagamento delle fatture. Un pizzo che per i magistrati era paragonabile a quello imposto dalla malavita. Alcuni di loro, come Cusmano, nel corso delle indagini preliminari hanno persino confermato l’esistenza di una sorta di struttura militare che raccoglieva le tangenti dagli imprenditori e poi divideva il denaro tra diverse figure del- l’apparato della Marina.

Da allora, però, sono trascorsi oltre 5 anni senza che nei loro confronti si sia giunti a una sentenza di primo grado e così quando gli organi militari hanno disposto una nuova sospensione dal servizio, i due hanno presentato ricorso ai giudici amministrativi che hanno accolto la richiesta. Nelle carte visionate dal Fatto si legge che la Marina militare aveva spiegato, nel caso di Coroneo, che “anche se impiegato in diverso incarico” il suo ritorno sarebbe stato “di pregiudizio per il prestigio della Forza armata e per il regolare andamento dell’attività di servizio”. Nel caso di Cusmano, dopo la decisione del Tar, la Marina aveva presentato ricorso anche al Consiglio di Stato per ottenere l’allungamento della sospensione, ma anche il massimo organo amministrativo ha dato ragione al- l’imputato: i giudici avevano ammesso che l’ipotesi di un’ulteriore sospensione non appariva “del tutto insufficiente”, tuttavia Cusmano doveva essere reintegrato poiché “non sussiste un danno grave e irreparabile per l’Amministrazione”.

Per un terzo imputato, Marco Boccadamo, invece, le cose sono andate diversamente. I giudici del Tar del Lazio, a differenza dei colleghi salentini, hanno respinto la sua domanda di ritorno in servizio sostenendo che “le gravissime accuse mosse al dipendente, anche se non definitivamente accertate, rendono inopportuna la presenza in ufficio”.

Corse e coca, Lapo ci ricasca: quella notte folle a Portofino

È una notte di metà settembre e sul lungomare fra Portofino e Santa Margherita, una Ferrari sfreccia ad alta velocità. Viene intercettata dai carabinieri che fermano l’autista, gli fanno la ramanzina e una multa salatissima. È l’una di notte. Più tardi, intorno alle 3, una seconda pattuglia incappa in una coppia di uomini che si muove in modo furtivo. Questa volta nel centro di Rapallo, a dieci chilometri di distanza. Alla vista dei militari uno dei due si allontana in fretta. L’altro prova a sbarazzarsi di qualcosa in modo piuttosto plateale, poi si incammina velocemente verso la macchina. A terra i carabinieri recuperano alcune dosi di cocaina, così bloccano e identificano il proprietario dell’auto: è Lapo Elkann. Ed era sempre lui, due ore prima, il pilota spericolato che aveva scambiato il lungomare per il circuito di un Gran premio.

Le follie di quella nottata sono diventate un’inchiesta della Procura di Genova. I magistrati hanno iscritto l’ereditiero di casa Agnelli nel registro degli indagati per detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio. È il reato contestato dai carabinieri della compagnia di Santa Margherita per il quantitativo di droga che aveva con sé, fra i 3 e i 4 grammi, e per il fatto che era in compagnia di un amico. Sul caso il pm Silvia Saracino ha chiesto l’archiviazione, convinta che quella quantità, vista la storia personale del rampollo tormentato più famoso d’Italia, possa essere considerata a tutti gli effetti una quantità compatibile con un consumo personale. Se il giudice accettasse questa interpretazione, per Elkann resterebbe solo la segnalazione al Sert come tossicodipendente. L’episodio era rimasto finora inedito, avvolto dal riserbo delle indagini. I fatti risalgono al 12 settembre scorso. Lapo è in vacanza in Liguria assieme a un amico. In quegli stessi giorni è spesso ospite di studi televisivi e intervistato da vari giornali per raccontare la sua ultima fatica letteraria, W l’Italia insieme a Lapo. Il controllo della pattuglia è del tutto casuale. E forse dipende più dalla reazione goffa alla vista delle divise. Fatto sta che a un certo punto le cose sembrano mettersi davvero male. I carabinieri si fanno accompagnare all’alloggio di Elkann, una suite dell’esclusivo Hotel Splendido di Portofino. La camera viene perquisita in piena notte e per qualche ora il rischio è che la serata si concluda davvero male. È il pm di turno a indirizzare la vicenda verso una denuncia a piede libero. Sul caso adesso c’è una richiesta di archiviazione.

La vita del nipote dell’Avvocato è costellata di eccessi finiti sulle cronache dei giornali. L’episodio più noto resta quello dell’11 ottobre 2005, quando arriva in fin di vita all’ospedale Mauriziano di Torino per un’overdose causata da un misto di oppio, eroina e cocaina. A salvargli la vita Patrizia, una delle trans con cui aveva passato la serata. A quella vicenda seguono le dimissioni dagli incarichi ricoperti fino a quel momento in Fiat e un periodo di disintossicazione in una clinica riabilitativa texana. Nel 2016 un nuovo caso: a New York inscena il proprio rapimento, con l’obiettivo di ottenere 10mila euro dalla famiglia. Un piano escogitato dopo aver finito i soldi, in due giorni di festini a base di cocaina con una trans in un albergo di Manhattan. Il finto riscatto viene richiesto dalla escort, ma viene subito scoperta dalla polizia. Stanchi dei continui scandali, i familiari prendono le distanze pubblicamente.

L’ultimo incidente risale invece a dicembre 2019, a Tel Aviv: Lapo si schianta a bordo di una fuoriserie, finendo al pronto soccorso con fratture in tutto il corpo. Dal letto dell’ospedale israeliano annuncia di voler cambiare vita: “Voglio ringraziare Dio di avermi dato la possibilità di ridarmi la vita. Voglio dedicare il mio tempo, il mio cuore e risorse economiche a fare del bene occupandomi della mia onlus, che non è un capriccio da bambino viziato. Lapo Elkann non è come lo descrivono gli altri, ma un uomo con il cuore aperto e che ha voglia di fare del bene: questo il mio nuovo motto di vita”. Nuovi guai, invece. E problemi vecchi, auto e droga.

Previsioni sbagliate e il Mose resta fermo: Venezia e Chioggia finiscono sott’acqua

È come avere un idrante vicino a una casa che brucia, ma non usarlo. A Venezia ieri è accaduto questo. La marea è salita, ma le paratoie del Mose non si sono alzate. E così la città è finita sott’acqua, con una situazione ancor più drammatica a Chioggia. Inevitabili le polemiche: perché il Mose non è stato messo in funzione? Il sistema è come una Ferrari che resta in garage, è costato più di 6 miliardi di euro (con corollario di tangenti), ma viene utilizzato a singhiozzo. Ieri sarebbe servito, ma la previsione di marea era di 120 centimetri, dieci in meno rispetto ai 130 fissati per la fase di rodaggio. Così i portelloni sono rimasti sul fondo, al mattino il vento ha superato gli 11 metri al secondo e si è capito che si sarebbe arrivati almeno a 140 centimetri. A quel punto le sirene erano ormai inutili. Piani terra, negozi e Basilica di San Marco totalmente allagati. Alla Punta della Salute, massima di 138 centimetri alle 16.20, ma dalle 15 alle 17.30 non si è mai scesi sotto i 130 centimetri. Ancora peggio a Chioggia, con una massima di 146 centimetri e 4 ore oltre i 130 centimetri.

“È drammatico e vergognoso non considerare un’acqua alta eccezionale di questo tipo, prevista da lunedi”, denuncia Claudio Venier, presidente dell’Associazione Piazza San Marco. E pensare che nelle 48 ore precedenti il Mose aveva tenuto Venezia all’asciutto, nonostante onde marine alte fino a 7 metri. Chi ha deciso che per l’8 dicembre non serviva? Le previsioni sono del Centro maree del Comune, ma la decisione è stata presa dall’architetto Elisabetta Spitz, commissario straordinario per il Mose, e Cinzia Zincone, provveditore alle Opere pubbliche del Triveneto. Sono loro, in base a un protocollo del 4 settembre, ad aver fissato il limite dei 130 centimetri per la fase di rodaggio del Mose (fino a dicembre 2021, poi si dovrebbe scendere a quota 110). Per sollevare le paratoie occorrono dai 25 ai 50 minuti. Serve poi un arco di ore per l’ordinanza che blocca il traffico marittimo e per convocare le squadre di tecnici. Il provveditore Zincone si è giustificata: “Il vento è un elemento imprevedibile. I tempi tecnici richiedono un preavviso di 48 ore”. Di fronte alle previsioni dovrebbe comunque esistere una possibilità di adattare gli interventi alle esigenze. Sullo sfondo, il paradosso del Mose che funziona. Commercianti e cittadini si augurano previsioni di marea oltre i 130 centimetri. Gli operatori portuali sperano il contrario, ogni alzata causa disagi e costi ai traffici navali. Mors tua, vita mea.

Fs, nomine ferme. Il presidente vota contro l’azionista

Una roba così non si era mai vista in una partecipata statale: il presidente che vota contro l’azionista, cioè il Tesoro. È successo lunedì nelle Fs, quando Gianluigi Castelli, nominato nel 2018 in quota Lega, ha votato in cda contro le liste presentate dall’ad Gianfranco Battisti per le controllate Trenitalia e Rfi. I nomi erano Michele Meta, deputato Pd, alla presidenza e Luigi Corradi come ad in Trenitalia. In Rfi era prevista la promozione della Cfo, Vera Fiorani. Castelli, già responsabile dei sistemi informativi delle Fs, ha bocciato le nomine insieme ai due membri in quota Lega. È finita 4 a 3 dopo il voto contrario anche della consigliera Vanda Ternau, entrata in Cda ai tempi del governo Renzi e poi riconfermata, che però venerdì aveva dato l’ok alle liste nel comitato nomine. La mossa ha fatto infuriare il Tesoro e si inserisce nel clima di assalto alle Fs dei renziani che non hanno digerito la cacciata nel 2018 dell’ad Renato Mazzoncini perché imputato per truffa a Perugia. Il blitz, guarda caso, è scattato dopo le tensioni politiche nella maggioranza.

Tav, entro Natale parere della commissione. Il dossier torna ad agitare 5S e maggioranza

Considerato il clima appena sopito dentro i 5 Stelle con il compromesso trovato sulla riforma del Mes, proprio non ci voleva. E così il dossier Torino-Lione che lo scorso anno aveva dato il pretesto a Matteo Salvini per innescare lo showdown del governo gialloverde, rischia di riaccendere le polemiche. Specie al Senato dove sarà proprio la Commissione Lavori pubblici presieduta dal pentastellato Mauro Coltorti a dover esprimere il parere sullo schema di contratto di programma per il finanziamento della parte comune della nuova linea ferroviaria, ultimo step prima della firma del contratto tra ministero delle Infrastrutture, Ferrovie e Tunnel Euralpin Lyon Turin (Telt).

Tra le file dell’opposizione e pure, per la verità, della maggioranza, si ricorda con un certo sadismo la mozione dell’estate calda del 2019 vergata dallo stato maggiore del M5S che chiedeva la cessazione delle attività legate al progetto e una diversa allocazione delle risorse stanziate per il finanziamento della linea. Ovviamente tra le firme c’era pure quella di Coltorti. “Allora era uno dei più agguerriti, ma adesso che potrebbe essere decisivo se ne guarda bene” sottolinea più di qualcuno che vuole infierire. Il parere va dato entro il 25 dicembre, ma si punta a chiudere in fretta dopo una serie di audizioni tra giovedì e venerdì, destinate a non avere troppa pubblicità. Mentre è l’emergenza coronavirus a mettere la sordina ai No Tav che ieri, nel quindicesimo anniversario dello sgombero del presidio di Venaus, hanno potuto manifestare con un picchetto pressoché simbolico. “Che strano tutto questo improvviso silenzio attorno alla Torino-Lione. Staremo a vedere se la sindaca di Torino al Senato metterà in mora il suo collega Coltorti ribadendo il no secco all’opera che ha espresso pochi giorni fa in consiglio comunale”, suggerisce un senatore dem di fede ancora renziana mettendo il dito nella piaga, certo che la sordina messa ai lavori della Commissione Lavori pubblici del Senato sia la prova provata delle contraddizioni pentastellate. E alla Camera? Anche lì si fa ironia sul pragmatismo a 5 Stelle sul dossier Torino-Lione della Commissione Trasporti. Che è presieduta da Raffaella Paita, esponente di Italia Viva, da sempre favorevolissima all’opera su cui ha ripetutamente infilzato il Movimento. Quando si dice la nemesi.

Controlli prenatali in calo: bimbi nati morti + 400%

È una tragedia che nessuna madre vorrebbe vivere. Vedere il suo bambino venire alla luce senza vita. “Nato morto”, così viene definito nelle cartelle cliniche un bambino che alla nascita non presenta segni di vita dalla 28ª settimana di gravidanza in poi. E proprio il Covid-19 potrebbe far crescere questo fenomeno. Durante la prima ondata, molte donne incinte non si sono recate in ospedale per effettuare i controlli prenatali, i famosi monitoraggi, per paura di essere contagiate. Ed è questa, secondo i ginecologi, la prima causa del vertiginoso aumento delle morti fetali. In Italia, fino a quasi il 400% in più, secondo due ricerche.

Una è quella condotta sulla regione Lazio da Mario Curtis, docente di Pediatria all’Università Sapienza e direttore del reparto Neonatologia del policlinico romano Umberto I. Tra marzo e maggio 2020, i bimbi nati morti nei vari punti nascita della regione sono quasi triplicati rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: 26 contro 10 (+260%). Un aumento persino maggiore – in termini percentuali, non in numeri assoluti – nelle rilevazioni dell’ospedale Mangiagalli di Milano che dispone del più grande reparto di maternità del capoluogo lombardo. Qui, nel periodo compreso tra febbraio e giugno 2020, si sono verificati cinque casi di morte endouterina: quattro in più rispetto allo stesso periodo del 2019 (+500%). “Un aumento che verosimilmente si può rilevare in tutte le regioni maggiormente colpite dalla prima ondata – spiega la ginecologa Alessandra Kustermann, primario del pronto soccorso della clinica Mangiagalli – e questo nonostante la morte endouterina sia, di norma, un evento molto raro”. L’anno scorso nel nostro Paese i bambini nati morti sono stati 1.070 (con un tasso di morti fetali di 2,4 su 1.000 nascite, secondo l’Unicef: uno dei dati fra i più bassi al mondo, ci sarebbero solo la Norvegia e la Svezia al pari dell’Italia).

Ma non è purtroppo un’emergenza solo italiana. Uno studio relativo al St. George university hospital di Londra, e pubblicato sulla prestigiosa piattaforma scientifica Jama, ha registrato durante la pandemia un tasso di morti fetali, stillbirths in inglese, del 9,3 su 1.000 nascite: quattro volte in più del periodo pre-pandemia (2,4 ogni 1.000 nati). Il fenomeno delle morti fetali, spiega Henrietta Fore, Unicef, “avviene nell’84% dei casi, in Paesi a reddito basso o medio-basso. Per molte di quelle madri, un dolore che poteva essere evitato con un monitoraggio di qualità della gravidanza, con delle cure prenatali adeguate e un’assistenza qualificata al parto”. Ora, secondo una valutazione effettuata dai ricercatori della Johns Hopkins Bloomberg School of public health, l’effetto del Covid sull’erogazione dei servizi sanitari di base potrebbe causare, nell’arco di un anno, un aumento delle morti fetali dell’11% in 117 Paesi in via di sviluppo: parliamo di circa 200mila bambini nati morti in più. E in 13 Stati l’incremento potrebbe superare anche il 20%.

“Il timore del contagio in pronto soccorso ha persino indotto donne con emorragie importanti a rivolgersi a noi in Mangiagalli – racconta ancora la dottoressa Kustermann – solo quando erano già in condizioni così critiche da dover essere sottoposte a trasfusioni”.

E al dramma del picco di morti fetali si è aggiunta la sospensione, in tutta Italia, di molte attività di assistenza ginecologica, nonostante la circolare ministeriale di fine marzo li abbia inseriti tra le prestazioni non differibili. “Stiamo riscontrando una grande sofferenza in tutto l’ambito ginecologico”, dice Antonio Chiantera, presidente della Sigo, Società italiana di ginecologia e Ostetricia. Il risultato è che tutto si sta spostando verso il privato, come denuncia Nicola Colacurci, direttore del reparto di Ginecologia del policlinico Vanvitelli di Caserta e presidente di Agui, associazione dei ginecologi universitari italiani. “Oggi assistiamo o chi ha il Covid o la donna che partorisce o, se va bene, il malato di tumore – osserva Colacurci – mentre tutto il resto è sempre più delegato al privato”. Con buona pace del diritto alla salute.

L’onda lunga del covid: s.o.s. prevenzione. Salta 1 visita su 3. 1,5 mln di tumori non diagnosticati

L’altra faccia dell’emergenza sanitaria si è palesata all’inizio dell’estate. Screening oncologici saltati, visite specialistiche rinviate, ricoveri per interventi chirurgici sospesi: è la paralisi delle cure delle patologie non Covid. Travolto dall’epidemia, il sistema sanitario ha messo in stand by la prevenzione e ha congelato l’assistenza ai pazienti affetti da altre malattie, risparmiando solo le urgenze.

Tra gennaio e giugno 2020, rispetto agli stessi mesi del 2019, sono crollati del 40% i ricoveri programmati: 309mila in meno (oltre 230mila sono le operazioni chirurgiche non eseguite). Gli screening oncologici, per diagnosticare tumori, si sono dimezzati. Le prescrizioni mediche per le visite specialistiche: giù del 58% (il che equivale a quasi 29 milioni di prestazioni in meno, tra accertamenti diagnostici e visite).

Nessuna regione è riuscita a sottrarsi allo stallo. E – paradossalmente – non sempre i ritardi e le cancellazioni sono stati proporzionali all’intensità di diffusione dei contagi, al numero dei malati Covid ricoverati, alla fortissima pressione sulle terapie intensive. Sì, perché anche nelle aree del Paese maggiormente risparmiate dalla prima ondata epidemica, è stata issata la bandiera bianca. Parliamo di regioni come la Basilicata, dove le prestazioni specialistiche, da gennaio a maggio, sono diminuite di oltre il 60%. Come la Puglia (meno 30%) o la Sicilia (un crollo del 28%). Oppure, ancora, come la disastrata Calabria (meno 41%) e la Sardegna, dove le prestazioni specialistiche hanno subito una flessione del 32%.

Secondo le stime dell’Osservatorio nazionale screening anti tumori, il blocco non ha consentito di diagnosticare quasi 4.300 carcinomi, tra quelli al seno (oltre duemila), alla cervice (1.675), al colonretto (611). I numeri, impressionanti, arrivano dal report di Salutequità, l’associazione – appena costituita – nata per monitorare la qualità delle politiche pubbliche in ambito sanitario e sociale. E con l’arrivo della seconda ondata epidemica – che ha stoppato il recupero delle liste d’attesa accumulate in primavera – difficilmente si potrà tornare alla normalità prima della fine del 2021.

“Si è di nuovo fermato tutto”, conferma Tonino Aceti, presidente di Salutequità. “Dovranno essere aumentate le risorse per il personale. Ma anche con un rafforzamento ci vorrà comunque almeno un altro anno per recuperare”.

I medici, in realtà, segnalano il problema da tempo. Dicono che, di fatto, è stato compromesso il diritto costituzionale alla salute, che il Covid ha alzato barriere nell’accesso alle cure, penalizzando le categorie più deboli. “La pandemia non ha mandato in lockdown le altre malattie”, dice Filippo Anelli, presidente nazionale della federazione degli Ordini dei medici. “Al contrario, sottraendo risorse organizzative, finanziarie e umane alla loro cura, ha aumentato le disuguaglianze. Per questo, oltre alle vittime dell’epidemia, dobbiamo cominciare a contare anche tutte le vite perse in maniera indiretta, per patologie non curate in tempo o nel modo più appropriato”. Patologie – si va dai tumori alle malattie a carico del sistema circolatorio e respiratorio – che ogni anno uccidono mediamente (dati Istat), 650mila persone. “Sono in gioco – prosegue Anelli – la tenuta stessa del sistema sanitario, la salute di 26 milioni di malati cronici, quella di tutti gli italiani colpiti da altre malattie”.

Nemmeno regioni con sistemi sanitari considerati da sempre delle eccellenze ce l’hanno fatta a contenere i danni. In Emilia-Romagna le prestazioni specialistiche sono diminuite del 33%, in Veneto del 23%, in Lombardia del 39%. Solo la Campania è riuscita a fermarsi a un meno 10. Quanto agli screening oncologici si sono sommati mesi di ritardo. Nessuna regione è riuscita a mettere un freno alla rovinosa riduzione degli esami per diagnosticare i tumori alla mammella (si va dal meno 40% della Toscana a un crollo di oltre il 70% in Calabria), né a quelli relativi al carcinoma al colonretto: la flessione media nazionale sfiora il 55%, con punte superiori al 60% in Liguria, Piemonte, Calabria. A loro volta gli screening per il tumore alla cervice si sono più che dimezzati in quasi tutte le regioni. Alcune, come la Lombardia, l’Emilia-Romagna, la Liguria, hanno anche superato la soglia di una contrazione oltre il 60%. “La mancata correlazione tra la diffusione dei contagi e lo stop alle attività ordinarie di prevenzione e assistenza – spiega Aceti – si può spiegare in molti modi, che vanno dalla scarsità del personale sanitario a disposizione, tra medici e infermieri, all’incapacità dell’amministrazione regionale. Anche se alcune regioni meno colpite dalla pandemia potrebbero aver bloccato ricoveri e visite non Covid in previsione di un’ondata. Ma dobbiamo pensare anche al resto”.

Alla paralisi si aggiungono i ritardi di non poche regioni nella presentazione al ministero della Salute dei piani operativi per il recupero delle liste d’attesa, sulla scorta del decreto legge 104, con il quale il governo, in agosto, ha stanziato quasi 500 milioni di euro per sostenere il ritorno alla normalità. In estate, prima che arrivasse la seconda ondata, il ministero pensava di recuperare terreno entro la fine dell’anno. Così non è stato. E va detto che da molte Regioni il piano non è arrivato affatto entro la metà di settembre, come stabilito. Non lo hanno inviato, entro quella data, né la Puglia, né la Sardegna (l’approvazione, in quest’ultimo caso, è arrivata venerdì scorso). Non è stata puntuale l’Emilia-Romagna, che lo ha presentato il 7 ottobre. Ha fatto slittare tutto al 30 novembre la Basilicata. A sua volta il Lazio ha dato il via libera il 27 novembre. La stessa relazione al Parlamento della Corte dei conti, in novembre, ha certificato che “dato l’attuale andamento dei contagi è difficile che si possa effettivamente compiere il recupero delle prestazioni mancate nei mesi” del primo lockdown. “Abbiamo tra le mani – dice Aceti – una bomba innescata che può esplodere da un momento all’altro”.

“Per evitare la terza ondata, tutta l’Italia sia arancione”

“Spero che il sistema del semaforo dopo la pausa natalizia venga messo in soffitta. Il virus è daltonico”. Pier Luigi Lopalco, epidemiologo e assessore alla Salute nella Puglia ora gialla ha fatto ritornare all’arancione 20 Comuni: “La classificazione su base regionale in un tono unico di colore è molto limitante. Se fasce di colore devono essere è meglio essere precisi. Abbiamo applicato un parametro: il rapporto fra incidenza nel Comune (casi/popolazione) e incidenza media regionale”.

Insomma, è contrario alle regioni a colori?

Le misure severe servono quando il virus non circola ancora in maniera importante, invece adesso la regione rossa viene istituita in un momento già di crisi. Il problema dei colori è anche l’aspetto comunicativo perché chi sta in zona gialla è portato a pensare che non ci sia più pericolo.

Quindi che farebbe?

Dobbiamo stare attenti a che cosa succederà durante le feste di Natale e a gennaio, al primo segnale di ripresa dell’incidenza nella circolazione del virus, chiudere tutto, ma a livello nazionale.

Un nuovo lockdown?

No, mi limiterei alle misure che ora definiscono le regioni arancioni: se applicate precocemente bastano.

Le scuole?

In quel caso le terrei aperte al 50%, con i turni o con metà studenti in didattica a distanza. Di ogni ordine e grado, esclusa la scuola dell’infanzia, a cui va garantita la presenza dei bambini, come stiamo facendo tuttora in Puglia.

Terza ondata?

La quantità di persone portatrici del virus è alta, allentare potrà esser peggio della scorsa estate. Quando finirà la seconda ondata l’unico modo per evitare la terza sarà un’Italia tutta arancione per due settimane già al primo aumento di ricoveri anche solo in una parte circoscritta del Paese: SarsCov2 dilaga in un attimo.

Lombardozzi, dal caos-mascherine al piano-antidoti: scelta da Zingaretti

La dirigente che in primavera ha creato il link fra la Protezione civile e una delle società accusate di aver truffato la Regione, ora si occuperà della distribuzione del vaccino nel Lazio. Lorella Lombardozzi, già a capo dell’area politica del farmaco, dal 2 dicembre è la nuova responsabile operativa per i vaccini anti-Covid, nominata dall’unità di crisi regionale guidata dall’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato. La dirigente sarà a capo di una task force di 20 referenti, responsabili delle farmacie ospedaliere, allo scopo di mettere a punto “il piano per la logistica, la distribuzione e la somministrazione del vaccino secondo le caratteristiche tecniche e di conservazione”. La Lombardozzi non è indagata nè a Roma nè a Taranto, le due procure che stanno svolgendo approfondimenti su Internazionale Biolife, la società che doveva fornire le mascherine alla Regione Lazio. A lei e all’ex direttore della sanità laziale, Roberto Botti – da qualche settimana a capo dell’ospedale Gaslini di Genova – erano indirizzate le mail arrivate fra il 27 e il 30 marzo, contenenti le proposte d’acquisto della società pugliese. Lombardozzi è stata sentita come persona informata sui fatti a Roma: agli inquirenti ha spiegato di essersi limitata, in una fase di estrema emergenza, a produrre una scrematura sommaria delle proposte e poi ad inoltrare i preventivi al capo dell’Agenzia di protezione civile, Carmelo Tulumello, per le necessarie valutazioni. Gli inquirenti stanno verificando, fra le altre cose, gli eventuali collegamenti personali fra Botti e Lombardozzi e gli emissari della società tarantina. La Internazionale Biolife è al vertice della catena dei fornitori che avrebbero dovuto portare nel Lazio i 7,5 milioni di mascherine Ffp2 e Ffp3 mai arrivate, nonostante i 14 milioni di euro sborsati in anticipo dalla Protezione civile regionale su una commessa totale di 35,8 milioni. Una vicenda per la quale i pm romani ipotizzano il reato di inadempimento di contratti di pubbliche forniture a carico dei vertici di Ecotech srl. È questa una piccola società di Frascati che, chiusi i canali con la Cina, aveva provato a reperire i Dpi dalla svizzera Exor Sa che, a sua volta, li aveva chiesti dalla società tarantina. Ma le mascherine a Roma non si sono mai viste, fra certificati falsi, polizze non valide e voli fantasma. Non solo. La Biolife ha bucato anche la consegna – attesa per l’8 aprile – di 2 milioni fra camici e tute, contratto grazie al quale aveva ottenuto dalla Regione Lazio un anticipo di 2,8 milioni di euro sui 17 milioni totali. Su questo è stato aperto un fascicolo a Taranto: i pm indagano per truffa. L’unica commessa andata a buon fine riguarda 6 milioni di mascherine per 8,6 milioni di euro, cifra che ora la Regione Lazio si rifiuta di pagare. Sulla società pugliese indaga anche la Dda tarantina, in virtù delle informative che collegherebbero alcuni ex amministratori alla criminalità organizzata.