Media settimanale dei morti in calo (però molto lento)

Da qualche giorno, facendo i conti su base settimanale, comincia a diminuire anche il dato più spaventoso dell’epidemia, quello dei decessi. In tutto il Paese, secondo i dati delle Regioni che non brillano per accuratezza e tempestività, sono morte 4.879 persone affette dal nuovo coronavirus (ieri 634, lunedì 528) per una media di 697 al giorno contro le 5.055 dei sette giorni precedenti (media giornaliera 722,1). La mortalità, ultimo dato a diminuire, resta comunque “molto elevata”, sottolinea il professor Gianni Rezza, direttore della Prevenzione al ministero della Salute. Gli esperti non prevedono un calo rapido. In totale le vittime salgono a 61.240, solo la Gran Bretagna nell’Europa occidentale ne ha contati di più (61.434) ma ha un maggior numero di abitanti e, come rilevato dal professor Andrea Crisanti, ordinario di Microbiologia a Padova, con questi numeri “la prossima settimana saremo il Paese con più morti in Europa”. Negli ultimi 14 giorni infatti (fonte Ecdc, Centro europeo per la prevenzione delle malattie) l’Italia ha contato 16,8 decessi ogni 100 mila abitanti, seconda solo all’Austria (17,3) contro i 9,4 della Francia, i 7.5 della Spagna, i 9.3 Gran Bretagna e i 6 della Germania.

I contagi rilevati continuano ma più lentamente di prima, la media settimanale ieri era a 20.148,8 e cioè il 16,9% in meno rispetto ai sette giorni precedenti. A metà novembre eravamo a 35 mila. “C’è una tendenza a una lieve diminuzione ma non particolarmente veloce o accentuata – sintetizza il professor Rezza – Bisogna proseguire con misure di contenimento”. Ieri le Regioni hanno comunicato 14.842 nuovi casi con 149.232 tamponi, i positivi sono il 9,9% dei test effettuati ed è la prima volta da ottobre che si scende sotto il 10%. Ma è un dato da prendere con le molle innanzitutto perché il calcolo comprende i tamponi di controllo e poi perché, come sottolinea ancora Crisanti, si fanno meno tamponi di qualche settimana fa: “La stessa percentuale con più test darebbe un numero di casi più alto” osserva il professore di Padova, che dà per certa la “terza ondata” dopo le feste di Natale.

Peraltro, non tutte le Regioni vedono i contagi diminuire. Se nelle ex zone rosse il calo è di circa il 30% su base settimanale, in quelle arancioni la media si ferma al 9% e nelle gialle supera appena il 5%. “Migliora la Lombardia, meno il Veneto”, ha osservato Rezza. Da cinque giorni è la regione con il maggior numero di nuovi casi, oltre tremila in media al giorno, nell’ultima settimana sono aumentati del 12,6% rispetto alla precedente. Sono aumentati anche in Sardegna (+11,8%) e in Puglia (+3,6%). Occorre anche segnalare che l’Istituto superiore di sanità, nell’ultimo report pubblicato il 2 dicembre, ha messo in evidenza un ritardo delle Regioni nella comunicazione dei dati individuali dei pazienti. Negli ospedali la situazione migliora, ieri i ricoverati nei reparti ordinari erano 30.081 (meno 433 rispetto a lunedì) e nelle terapie intensive 3.345 (meno 37 in 24 ore, ieri l’altro meno 72). Ma ora che le Regioni forniscono anche gli ingressi nelle Rianimazioni sappiamo che entrano quotidianamente circa 150 persone (ieri 192, ieri l’altro 144) e molti, purtroppo, non ce la fanno. Le terapie intensive a questo punto sono occupate al 39% da pazienti Covid-19, i reparti di area medica al 46% (dati Agenas al 7 dicembre): siamo dunque tornati più vicini alle soglie d’allerta (rispettivamente 30 e 40%) ma sempre al di sopra. Tutte le regioni ne superano almeno una con punte del 57% nelle terapie intensive della Lombardia e del 73% nei reparti ordinari di Bolzano, mentre il Piemonte è al 55 e al 73%, Trento al 53 e al 70%.

Il Vaccino è vicino. Uk: si inizia. Usa: il primo sì. Altre cure, nuovi passi avanti

Vaccinata numero 1: Margaret Keenan, 90 anni. E, per fare le cose in grande, vaccinato numero 2: William Shakespeare, 81 anni. Solo un omonimo del leggendario scrittore, ma non poteva che essere così trattandosi del Regno Unito. Nello stesso giorno in cui Oltremanica è cominciata la somministrazione del vaccino Pfizer Biontech, dagli Stati Uniti arriva la notizia dell’ormai imminente approvazione dello stesso, questione di giorni, da parte della Fda, l’agenzia del farmaco: “È efficace e sicuro”. Mentre in Europa si attende il verdetto dell’Ema. Intanto in questa corsa della scienza contro il coronavirus un altro vaccino, quello di Oxford Astrazeneca, realizzato in collaborazione con l’italiana Irbm di Pomezia, è il primo a pubblicare su una prestigiosa rivista scientifica, Lancet, i dati di efficacia e sicurezza: funziona in una media del 70% dei casi, con un’efficacia del 62% a chi ha ricevuto due dosi piene e del 90% nel campione che ha ricevuto prima mezza e poi una dose piena, “dati che però suggeriscono la necessità di ulteriori studi”, riporta il Washington Post.

Esempi C’è pure Mattarella

Se in Inghilterra sono già state annunciate le vaccinazioni della regina Elisabetta II e del principe Filippo, in Italia è dal Quirinale che arriva la notizia dell’intenzione del presidente Sergio Mattarella di vaccinarsi, senza precedenze e rispettando le file, ma dando rilievo mediatico alla scelta per sensibilizzare gli italiani. Intanto nel mondo, vaccini a parte, la comunità scientifica discute su altri rimedi contro SarsCov2.

Altre cure Lo spray nasale

Un semplice spray nasale, non tossico, a basso costo e con un solo spruzzo al giorno, potrebbe proteggere dall’infezione da SarsCov2 agendo di fatto come un vaccino contro la diffusione del contagio. Proprio quello che mancherebbe ai vaccini che le agenzie del farmaco europea e americana stanno valutando per la prima approvazione al commercio – Pfizer, Astrazeneca e anche Moderna –: assicurare la protezione dall’infezione, non solo dal contrarre la malattia Covid. Lo studio di ricercatori della Columbia University di New York è basato su un peptide, cioè una catena breve di aminoacidi, che blocca il virus appena si affaccia nelle prime vie respiratorie, impedendogli di infettare l’organismo. Uno spruzzo basta a proteggere per 24 ore molto più di una mascherina, sostengono gli autori. Ma si tratta di un risultato ottenuto solo su animali per ora. I furetti, “che mimano l’infezione asintomatica umana”, spiega Matteo Porotto di Genova e virologo alla Columbia, co-autore dello studio: a un gruppo di furetti è stato somministrato lo spray e ad un altro un placebo. Sono stati poi messi in gabbia con altri esemplari infettati. “Nonostante l’estesa co-abitazione nessuno dei furetti trattati coi peptide si è infettato”, spiega Porotto. Invece, gli altri, si sono contagiati tutti. “Lo spray non dovrebbe entrare in circolo nell’organismo” così da evitare effetti collaterali importanti. Ora servono fondi “che speriamo di ottenere,” spiega Porotto. “Finora abbiamo anticipato i soldi di tasca nostra”.

L’antivirale Il Molnupiravir

Un’altra ricerca simile, sempre sui furetti, ha ottenuto risultati incoraggianti. Un farmaco antivirale, il Molnupiravir, ha soppresso la trasmissione del virus dopo 24 ore dall’assunzione — per ingestione, questa volta — secondo i risultati di ricercatori della Georgia State University pubblicati dalla rivista Nature Microbiology.

L’ipotesi L’anti-tubercolosi

C’è poi l’ipotesi in discussione sulle maggiori riviste scientifiche internazionali: quella dell’effetto che il vaccino contro la tubercolosi del 1921 avrebbe contro il Covid. Alcuni studi riportano che nei Paesi dove la vaccinazione anti-Tbc è ancora attiva, come l’Africa subsahariana, questa starebbe assicurando una certa protezione anche contro il SarsCov2. L’ultimo studio apparso è quella di ricercatori dell’Università di San Pietroburgo, presentato lo scorso 6 dicembre in una conferenza internazionale: la diffusione del virus sarebbe più lenta dove c’è un’alta percentuale di persone vaccinate per la Tbc. Ma la rivista Nature si è espressa in modo critico: non ci sarebbe alcuna correlazione tra programmi vaccinali anti-Tbc e minore incidenza del Covid. “Sappiamo che l’anti-Tbc può indurre il sistema immunitario ad attivarsi anche contro infezioni per cui non siamo stati vaccinati – spiega Maurizio Bonati, direttore del dipartimento di Salute pubblica dell’Istituto Ircss Mario Negri di Milano –. Ma per ora i dati a disposizione non sono solidi. E un conto è studiare se offre una qualche protezione laddove i programmi vaccinali sono già in uso, un altro è pensare di ricominciare a usare quel vaccino, che ha anche molti effetti collaterali, contro il Covid nei Paesi dove non si utilizza da decenni: è una totale assurdità”.

“La patrimoniale è necessaria e molto più equa di Imu & C.”

La patrimoniale proposta in Italia? “È ottima, perché prevede aliquote modeste fino a un patrimonio di 5 milioni di euro e aliquote più significative per i super-ricchi”. La benedizione arriva da Gabriel Zucman, docente alla University of California, economista francese che già in epoca pre-Covid aveva teorizzato la wealth tax, un’imposta progressiva sul patrimonio personale dei super ricchi.

L’idea è diventata la principale proposta economica della sinistra americana alle ultime elezioni, ripresa in forme diverse sia da Bernie Sanders che da Elizabeth Warren, e adesso sta facendo proseliti in mezzo mondo. Tre giorni fa il governo argentino ha introdotto una patrimoniale per recuperare risorse da usare nella lotta contro il Covid. In Italia la proposta lanciata su ilfattoquotidiano.it in pochi giorni ha raccolto oltre 25mila adesioni, e un gruppo di parlamentari di LeU e Pd sta proponendo in Commissione Bilancio un’imposta che ricalca quella di Zucman, anche se parte da cifre più basse: aliquota dello 0,2% con un patrimonio netto tra 500mila e 1 milione di euro, 0,5% tra 1 milione e 5 milioni, 2% sopra i 50 milioni, 3% sopra 1 miliardo (eliminando però contestualmente tasse sul patrimonio già esistenti come l’Imu sugli immobili e il bollo sui titoli).

Da noi c’è chi assimila una patrimoniale del genere a una nuova tassa sulla casa?

In realtà è infinitamente migliore di qualsiasi imposta fondiaria, perché è molto più equa: includerebbe tutti gli asset, non solo quelli immobiliari, darebbe la possibilità di dedurre i debiti e sarebbe progressiva. Per esempio, una persona proprietaria di una casa da 700mila euro di valore, ma indebitata per 200mila euro, non pagherebbe nulla, mentre oggi la stessa persona paga tasse significative su quel bene immobiliare.

Perché secondo lei è così necessaria la patrimoniale?

Il motivo è che le persone molto ricche possono avere un patrimonio molto grande, ma allo stesso tempo avere un reddito tassabile molto piccolo o addirittura assente. Senza la patrimoniale continueranno a esserci persone che non pagano tasse, perché il loro reddito è basso o nullo. Stiamo parlando di persone veramente ricchissime, che hanno la capacità di creare delle strutture per i loro affari in grado di fargli pagare pochissime tasse. Sono i super milionari, gente che magari ha un patrimonio di oltre 100 milioni di euro. Per loro la patrimoniale è fondamentale.

I suoi critici dicono che con la patrimoniale i miliardari Usa sposterebbero la loro residenza all’estero, e così non dovrebbero pagare nulla.

Questo non è vero, perché negli Stati Uniti, se sei cittadino americano e sposti la residenza all’estero, sei comunque tassabile dagli Stati Uniti fino a quando muori. L’unico modo per evitare di pagare la patrimoniale è di rinunciare alla cittadinanza americana. Sia nella proposta di Sanders sia in quella di Warren era prevista un’imposta del 40% sulla rinuncia della cittadinanza. Vuol dire che se sei Jeff Bezos, hai un patrimonio di 100 miliardi di dollari e decidi di rinunciare alla cittadinanza americana, prima di andartene devi pagare 40 miliardi di dollari. La logica alla base di tutto questo è forte. Ti sei costruito un’enorme fortuna, sei stato bravo, ma l’hai potuto fare in parte anche grazie alle infrastrutture pagate dai contribuenti americani, ai lavoratori americani istruiti da insegnanti pagati dai contribuenti. Quindi se te ne vai devi prima pagare le tasse sul patrimonio che hai accumulato. Questo limita molto il rischio che persone molto ricche rinuncino alla cittadinanza americana per evitare la patrimoniale.

Non è estremo chiedere a un cittadino di pagare una patrimoniale prima di rinunciare alla cittadinanza?

Ma anche quello che stanno facendo in Italia, in Francia e negli altri Paesi europei è molto estremo. Se sei un italiano molto ricco e ti trasferisci in Svizzera o in Belgio, dal primo gennaio dell’anno dopo non devi più pagare tasse in Italia.

Le leggi attuali in Europa permettono a un miliardario italiano di spostare la residenza altrove prima dell’entrata in vigore della patrimoniale.

Penso si dovrebbe trovare un compromesso, in cui se sei un italiano molto ricco e trasferisci la residenza all’estero, ancora per qualche anno dovrai pagare le tasse in Italia, magari per 5, 10 o 15 anni, a seconda di quanti anni hai vissuto in Italia e hai beneficiato di tutti i beni pubblici.

Cosa pensa dei politici che sostengono la flat tax?

Continuare a dire che queste politiche hanno un effetto benefico a cascata su tutti, alla luce della lezione della storia significa dire semplicemente una bugia, e questo deve essere detto. Non c’è dimostrazione empirica per sostenere che queste politiche siano in grado di innalzare lo standard di vita della maggioranza della popolazione. Chi lo sostiene oggi, vista l’esperienza di Stati Uniti e Regno Unito, dice il falso, e questa bugia deve essere smascherata.

La sua patrimoniale che fine farà ora che alla Casa Bianca c’è Joe Biden?

Potrebbero essere necessari diversi anni prima che una legge venga approvata dal Congresso, ma visto l’enorme aumento di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, sostenuto anche dal Covid, una patrimoniale negli Usa è sempre più possibile.

Primo giorno del cashback: ma la app “IO” non funziona

Un’intera giornata fuori uso e, in serata, mentre il giornale andava in stampa, ancora non si riusciva a utilizzare a pieno l’applicazione “IO”, necessaria per accedere al programma Cashback che permetterà di ricevere il 10 per cento di quanto speso per gli acquisti fatti con pagamenti elettronici. Ieri, infatti, ha preso il via la fase “extra” del cashback sugli acquisti di Natale con un “rimborso” fino a 150 euro. Ma i tentativi degli utenti di registrare nell’applicazione le carte di credito, i bancomat o le modalità di pagamento elettronico scelti non sono andati a buon fine. Un film già visto, questo dei problemi con la Pa digitale, ma almeno per i bonus bici c’era la fila, seppur virtuale.

L’iniziativa è stata ben accolta da quasi un italiano su sei già nel primo giorno, con 7,6 milioni di download: un record se si tiene conto della poca reattività mostrata finora dai cittadini nei confronti dei servizi digitali della Pa. L’idea – come succede d’altronde da inizio pandemia – ha fatto registrare picchi anche per le identità digitali (SPID) che dal 2016 si cerca di implementare senza grande successo: gli ultimi dati, a fine novembre, parlano di più di 13 milioni di identità digitali rilasciate, raddoppiate rispetto a gennaio. Insomma, le premesse per incentivare quella “cultura del digitale” di cui pure si parla tanto ci sono tutte, eppure la macchina dello Stato si è fatta trovare impreparata, con il rischio che ci si rivolga ai circuiti privati che offrono lo stesso servizio Difficile dire quale sia il problema: gli osservatori più esperti parlano di una applicazione (“IO”) ben realizzata e della probabilità che il “cortocircuito” sia nel dialogo tra le varie parti che compongono il sistema. PagoPA – insieme a SIA S.p.A., il partner tecnologico che gestisce la sezione Portafoglio – per tutta la giornata ha continuato a “potenziare l’infrastruttura” e “effettuare interventi mirati” e a partire da oggi dovrebbero esserci meno disagi. Ieri sera, il totale degli strumenti di pagamento elettronici già attivati erano poco più di 2.2 milioni “malgrado i rallentamenti riscontrati”. È stato però rilasciato un aggiornamento “per tenere informati i cittadini sull’ avanzamento della manutenzione”. Nella speranza che non si stanchino.

C’è la finanziaria, è tempo di marchette: ecco la lista

Sarà che l’occasione fa l’uomo ladro. O, più prosaicamente, che davanti al ricco piatto da 800 milioni per far fronte alle “esigenze indifferibili” dei parlamentari per il 2021, resistere è difficile. Mai prima d’ora deputati e senatori, avidi di accontentare i propri elettori sul territorio, avevano avuto a disposizione un bottino così cospicuo: si era partiti nel 2015, governo Renzi, da poco più di 100 milioni e oggi il conto viaggia verso il miliardo. In attesa di capire dove andrà a finire il grosso (se ne sta discutendo), è comunque già arrivata la vagonata degli emendamenti “localistici, ordinamentali e micro-settoriali” (quelle che sbrigativamente si definiscono “marchette”) che per legge sarebbe vietato inserire nel ddl Bilancio. Anche quest’anno, infatti, basta sfogliare il fascicolo degli oltre 800 emendamenti “segnalati” – quelli che i partiti ritengono prioritari – per incontrare normette, commi bis-ter-quater, stanziamenti a pioggia, micro-finanziamenti e chi ne ha più ne metta. Non tutti, ovviamente, saranno approvati. Ma la speranza, si sa, è l’ultima a morire.

Lega agricola. Tra i primi emendamenti a saltare all’occhio c’è quello di Guglielmo Golinelli, 33enne deputato leghista, che ha propone di alzare la compensazione dell’Iva sulle carni bovine e suine dal 2021 al 2023. Peccato che lo stesso Golinelli allevi suini nel modenese e sia “invitato permanente” di Confragricoltura Modena. Attento alla famiglia, in un altro emendamento chiede che le agevolazioni sull’Imu agricola riguardino un terreno concesso “fino ai parenti di terzo grado”. E chissà se Marzio Liuni, anche lui del Carroccio, mentre scriveva il suo emendamento per detrarre il 36% delle imposte sui redditi “per l’acquisto di fiori e piante da interno” a favore dei vivaisti, s’era scordato del suo secondo mestiere: il vivaista nell’azienda “Vivai Liuni e Greppi” nel novarese.

Interesse privato. Nelle pieghe del “librone” degli emendamenti, i battitori liberi del conflitto d’interesse spuntano come funghi. C’è la meloniana Maria Cristina Ceretta, cacciatrice ed ex presidente della Confederazione delle Associazioni Venatorie, che propone di ridurre del 50% la tassa sul porto d’armi: è appena il caso di ricordare che a maggio 2018 l’Associazione Cacciatori Veneti aveva fatto un bonifico da 70mila euro a Fratelli d’Italia. Il settore dei lavoratori autonomi dello spettacolo è stato pesantemente colpito dalla pandemia e l’ex M5S Nicola Acunzo firma allora una norma per concedere loro norme fiscali vantaggiose. Oltre al deputato, che lavoro fa Acunzo? L’attore. Il renziano Mattia Mor, ex cervello in fuga tornato in Italia “per amore del mio paese”, si ricorda invece del suo passato: prima di innamorarsi della Leopolda, Mor aveva creato un marchio di Made in Italy (Biomor), chiuso nel 2015, per poi diventare Executive director per l’Europa di Mei.com, store della moda con cui diffondeva “il made in Italy nel mondo”. Non poteva quindi mancare il suo emendamento in favore delle aziende del made in Italy che potranno usufruire del credito d’imposta sulle consulenze contro la contraffazione dei marchi.

Cinque cerchi. L’attrazione tra parlamentari e sport è antichissima e questa manovra non fa eccezione. Il deputato lombardo di “Cambiamo” Stefano Benigni vuole 90 milioni in tre anni per riqualificare gli “impianti sportivi degli sport invernali nei piccoli comuni montani” della Lombardia in vista delle olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026. La leghista Silvia Comaroli vorrebbe invece 75 milioni per i “XX Giochi del Mediterraneo 2026” di Taranto, mentre la forzista Giusy Versace 4 milioni per gli Europei di Nuoto 2022 di Roma.

Ponti, strade, musei, etc. Anche le autostrade sono un classico e ai tempi della Dc si facevano le cose in grande: da quella tra l’Abruzzo e Roma che aveva uno svincolo a Gissi, patria natale di Remo Gaspari, alla famosa “curva Fanfani” che conduce la A1 nella Arezzo di Amintore. Oggi, per accontentare i propri collegi, si lavora molto più in piccolo. Raffaella Paita, proconsole di Renzi in Liguria, chiede di assumere un contingente di 263 persone all’arsenale di La Spezia, il leghista Claudio Borghi propone l’istituzione di un “Museo nazionale dell’astrattismo storico e del razionalismo architettonico” a Como, la leghista Rebecca Frassini un fondo da 50 milioni per l’aeroporto di Orio al Serio (Bergamo) e il calabrese Domenico Furgiuele 3 milioni per lo scalo di Lamezia Terme. Non mancano i ponti (il M5S chiede 100 milioni per mettere in sicurezza quelli sul Po), le strade (FI 50 milioni per la Statale Ionica nel tratto Crotone-Catanzaro, mentre FdI 100 per la Salaria e l’Appia Antica) fino al completamento dell’idrovia Padova-Venezia di cui si parla dal 1955 e per cui sono già stati spesi 200 miliardi di vecchie lire. Ergo: 100 milioni di euro. Il deputato forzista Roberto Caon ne vorrebbe altri 200 per i prossimi tre anni per finire l’opera. Difficile che sia la volta buona.

Il dem Salizzoni si candida a Torino

A Torino – e non solo – lo conoscono tutti come “il mago dei trapianti”. E ancora oggi, quando qualche primario piemontese deve commentare la buona riuscita di un’operazione, o complimentarsi con un collega, afferma: “È della scuola Salizzoni”.

Nell’anno della pandemia mondiale, e in un contesto storico in cui la sanità è diventata la priorità – e il primo argomento di discussione – per la maggioranza dei cittadini, scende in campo per le prossime amministrative a Torino Mauro Salizzoni, il medico più famoso della città. Settantadue anni, originario di Ivrea, Salizzoni è sponsorizzato dalla “vecchia guardia” del Pd. A suo modo ha fatto la storia della sanità piemontese. Dal 1975 al 2018 ha lavorato alla Città della salute di Torino e dal 1990 ha diretto il Centro trapianto di fegato, la sua creatura, che lo ha reso celebre a livello internazionale.

Primario di Chirurgia generale 2, dal 2006 professore all’Università di Torino, Salizzoni è transitato nel Consiglio superiore di sanità e, da sportivo qual è, nel ciclismo, come responsabile della Commissione antidoping della Federazione ciclistica italiana. A chi lo prende in giro perché sarebbe troppo vecchio, Salizzoni risponde che non ha problemi a correre la maratona e che batte molti cinquantenni. Una metafora ironica della competizione interna al Pd che ha portato alla sua discesa in campo.

Storicamente vicino al Pci, Salizzoni, negli anni della carriera, ha sempre mantenuto ottimi rapporti con Sergio Chiamparino. Più vicino alla sinistra che al centro, il professore nel 2018 si è candidato con il Pd in consiglio comunale a Ivrea. Nel 2019 è stata la volta delle regionali. Attualmente è vicepresidente del “parlamentino” piemontese e, ovviamente, si occupa principalmente di sanità.

Covid a parte, Salizzoni è un grande difensore del progetto della nuova Città della Salute – chiacchierato da vent’anni, tuttora arenato – e per questo piace molto ai medici e al mondo dell’imprenditoria. Non solo alla sinistra ma anche al centro. Non piace invece a una parte del Pd “giovane” che lo definisce troppo vicino alla vecchia classe dirigente. In ambienti dem si dice che la sua grande sponsor sarebbe Anna Rossomando, vicepresidente del Senato. Salizzoni potrebbe non dispiacere al Movimento Cinque stelle: dalle voci raccolte a Palazzo civico, il suo nome non risulterebbe sgradito e potrebbe unire più anime della politica. Anche perché, al contrario dei candidati alle primarie del Pd (congelate da un mese), ovvero i quarantenni Stefano Lorusso e Enzo Lavolta, Salizzoni non ha dato battaglia contro la giunta di Chiara Appendino negli ultimi cinque anni.

“Dall’Abruzzo alla Val d’Aosta solo pericoli incostituzionali”

L’ultima volta che abbiamo parlato con il professor Ugo De Siervo, presidente emerito della Consulta, era la vigilia del Referendum costituzionale. Alla fine dell’intervista ci aveva detto: “Penso, e non da oggi, che il bicameralismo vada rivisto nel senso di dare una rappresentanza alle Regioni in Senato, in modo che possano contribuire al funzionamento del sistema attraverso la legislazione nazionale”.

Professore, sarebbe stato il completamento della riforma del titolo V?

Le Regioni devono trovare una collocazione definitiva, tale da permettere al Parlamento di essere davvero il centro dell’intero Paese. La riduzione del numero dei senatori dà l’occasione, storica, di riuscire a rappresentavi il nostro pluralismo territoriale. Presso questo Senato delle autonomie troverebbero anche casa tutti gli organi, finora sorti in modo episodico, che raggruppano i presidenti delle Regioni, gli enti locali e il governo. Per rappresentare nel Senato al meglio il pluralismo territoriale occorre però rinunciare all’inconcludente tentativo di portarvi i rappresentanti dei vari enti (non siamo uno Stato federale; e poi perché alcuni sì e altri no?), mentre potrebbe bastare che i vari candidati nelle elezioni per il Senato potessero documentare una loro significativa esperienza di amministratore locale.

Qualcuno pensa di abolire le Regioni.

Sarebbe una follia antistorica, così come lo erano le proposte federalistiche di trent’anni fa: dopo più di settant’anni dalla Costituzione e cinquanta da che esistono le Regioni su tutto il territorio nazionale, queste istituzioni, pur con tutte le delusioni che hanno prodotto, hanno messo radici nel Paese. Ma soprattutto è assurdo sperare che le cose possano migliorare trasferendo più poteri alla burocrazia statale.

Oggi il rapporto tra centro e periferia è sotto accusa, a causa dell’emergenza Covid: dovrebbe essere rimodulato?

Il malfunzionamento deriva anche da un rapporto sgangherato tra Stato e Regioni, con precise responsabilità dello Stato, protagonista di legislazioni farraginose, di ricorrenti tagli finanziari, di controlli inefficaci. Anche il contenimento del virus è affidato essenzialmente allo Stato (malgrado le ondate di pubbliche dichiarazioni di alcuni amministratori regionali, alla spasmodica ricerca di visibilità politica). Poi le Regioni hanno le loro specifiche responsabilità, come reso evidente dalle troppe gestioni deficitarie, da non pochi fenomeni clientelari, da inefficienze clamorose (dalla Lombardia alla Calabria). Il vero problema è che occorre rimetter mano sistematicamente al titolo V, con conseguenti attuazioni e finanziamenti.

Andrebbe abolita la legislazione concorrente?

Si tratta di uno slogan astratto. Certamente è necessario chiarire in modo preciso il perimetro dell’azione dello Stato e delle Regioni. In parte ha tentato di farlo la Corte costituzionale, che ha cercato di mettere un po’ di pezze alle tante contraddizioni della riforma approvata nel 2001: una riforma che va quindi profondamente rivista, ma che va però anche resa più efficace.

I “governatori” sono quotidianamente sotto i riflettori: troppo protagonismo?

Con un sistema politico nazionale in crisi, troppi amministratori locali cercano di farsi strada accentuando il loro ruolo, anche dove non hanno alcun potere. Che i presidenti di Regione (non chiamiamoli “governatori”!) facciano dichiarazioni perfino sull’efficacia dei vaccini o delle cure è un non senso.

È opportuno, in questo quadro, andare avanti con l’autonomia differenziata?

Assolutamente no: abbiamo già 5 Regioni a Statuto speciale e bisognerebbe semmai domandarsi se ha ancora senso per alcune tra le Regioni speciali mantenere un’autonomia che spesso è restata sulla carta. Per le altre 15 Regioni serve una forte revisione dei poteri, ma soprattutto un’attuazione coerente di ciò che scriviamo in Costituzione.

In questo lungo anno crede si sia accentuato il sentimento separatista?

Tutto si è drammatizzato, ma non su questa linea. Per mesi i giornali hanno furiosamente criticato i Dpcm, anche raccontando balle clamorose. Adesso quasi nessuno si riferisce ai Dpcm in quei termini, ma nel contesto sovreccitato del Paese e con il degrado delle classi politiche, alcuni approcci localisti si sono accentuati.

A proposito di Dpcm. La Val d’Aosta ha approvato una legge che rivendica l’autonomia nella gestione della pandemia, in senso più “aperturista” e più di recente l’Abruzzo si è autoproclamato arancione. Il governo deve reagire?

Mi sembra del tutto pacifico che entrambe le iniziative siano costituzionalmente illegittime in un contesto di grave emergenza sanitaria. I dirigenti di queste Regioni si sono assunti una seria responsabilità in una fase così pericolosa.

Mes, ultima lite sul testo. Oggi il voto sul governo

Conte dovrebbe scamparla. Anche se Italia Viva non ha ancora firmato la risoluzione di maggioranza – deciderà solo oggi in aula – e ieri faceva trapelare di non essere per nulla entusiasta del testo. Mentre nel M5S restano alcuni irriducibili, ancora in trincea nonostante gran parte della fronda sia rientrata.

Oggi il presidente del Consiglio farà le sue comunicazioni al Parlamento in vista del Consiglio europeo di domani, e le due Camere voteranno le risoluzioni che in pancia portano una mina capace di far saltare il governo, la riforma del Mes, quel fondo salva-Stati che per i 5Stelle è eresia. I rischi erano e sono in Senato, dove la maggioranza non ha larghissimo margine. Ma già ieri mattina alcuni dei dissidenti hanno deposto le armi. Prima tra tutti, Barbara Lezzi, soddisfatta dall’esito della lunghissima trattativa interna con i capigruppo sul testo della mozione: “Si è trovato un punto di caduta, è venuta fuori una risoluzione che almeno rivendica il ruolo del Parlamento in sede di ratifica e avverte che non sarà disposto al voto finale se non ci sarà l’avanzamento significativo del resto del pacchetto di riforme”. Nell’assemblea dei senatori a 5Stelle invece il presidente dell’Antimafia, Nicola Morra, lo ha detto così: “Domani (oggi, ndr) vedrò, ascolterò e poi deciderò”. Ma un suo no pare difficile. Conti alla mano, i voti contrari dovrebbero essere rimasti 3 o 4, tra cui quello del ligure Mattia Crucioli. Invece alla Camera i no dovrebbero essere almeno una decina. Ma a Montecitorio nel pomeriggio si voterà anche il decreto sicurezza. “E lì i no e le assenze nel gruppo potrebbero essere tante” spiega un grillino di peso. Non tali da affondare il provvedimento, caro al Pd: ma in teoria sufficienti da suscitare malumori e magari reazioni da parte degli alleati di governo.

La corda è tesa, su qualsiasi argomento. E ieri pomeriggio l’ala governista del Movimento ha cominciato presto a celebrare “i risultati” raggiunti sul Mes. Per dirla come il deputato Francesco Silvestri, ” abbiamo ridotto le distanze e raggiunto una sintesi”. Perché nel testo che oggi Conte dovrebbe presentare in aula – ma fino all’ultimo suscettibile di modifiche – c’è il riferimento alla “logica di pacchetto” chiesta dai Cinque Stelle: ovvero che “la ratifica parlamentare” della riforma del trattato europeo sia subordinata allo stato di “avanzamento dei lavori” per la “realizzazione del sistema europeo di assicurazione dei depositi bancari” (Edis), per il superamento del “carattere intergovernativo dello stesso Mes” e per “la profonda modifica del patto di stabilità e crescita prima della sua reintroduzione”.

Certo, resta il via libera alla riforma del trattato – quella per cui il ministro Gualtieri già si era speso all’Eurogruppo della settimana scorsa – che per alcuni cinquestelle resta fumo negli occhi. Mentre si è volutamente lasciato solo nelle premesse il cenno a un eventuale “ricorso alla linea di credito sanitaria del Mes”, comunque sottoposto ad apposito dibattito parlamentare. Un dibattito che, ripetono ancora oggi dal Movimento, finché loro sono al governo non ci sarà mai.

Il silenzio del Pd e di Zinga: vanno dietro a Matteo

“Noi non parliamo del Recovery Fund”. Al Nazareno lo ripetono ossessivamente, più o meno tutti i giorni. E infatti Nicola Zingaretti ieri è intervenuto solo sui vaccini. Si è ben guardato anche dal prendere una posizione sui continui ultimatum di Matteo Renzi a Giuseppe Conte.

Il segretario del Pd pensa che toccherebbe al premier risolvere questo problema. Come tutti quelli davanti ai quali si trova di fronte il governo. Ma intanto mantiene una posizione quantomeno ambigua rispetto alle manovre del fu Rottamatore. “Va dietro a Matteo a giorni alterni”, ironizza un big del Pd. “Non ha ancora deciso che vuol fare da grande”.

Le scelte che ha davanti il segretario non sono poi molte: o insiste per un rimpasto e entra in un Conte ter come capo delegazione, oppure rischia di trovarsi costretto ad accettare la candidatura a sindaco di Roma, per mancanza di altri concorrenti. Cosa che non vuole assolutamente. Dunque, potrebbe finire per intestarsi del tutto il gioco di Goffredo Bettini, che invece Renzi lo asseconda, il rimpasto lo vuole e vede tutto questo come la premessa a un altro paesaggio politico, nel quale un centro responsabile (con dentro pezzi di FI) si amalgama a un Pd perno del sistema e a un M5s “normalizzato”.

Il silenzio del segretario Pd sul Recovery Fund era stato già di per sé abbastanza eloquente, dopo che dal quartier generale dem continuavano a filtrare le perplessità dei vertici sulla struttura di governance (dal fatto che si tratti di un governo parallelo al numero eccessivo dei membri delle task force). Perplessità che ha colpito in un primo momento i due ministri più impegnati nel dossier, Roberto Gualtieri (Mef) e Enzo Amendola (Affari europei), per inciso tra i dem quelli di cui Conte si fida di più. Erano convinti che il segretario fosse d’accordo. Andando avanti con i giorni, Zingaretti non solo non ha sconfessato Renzi, ma in qualche modo lo ha mandato avanti. Quanto meno per far capire a Conte che deve tenere più in considerazione il Pd. Ieri ufficialmente per il Nazareno ha parlato il vice segretario, Andrea Orlando. “Abbassare i toni, pesare le parole, coinvolgere e includere. Il Paese è già molto provato e non ha bisogno di altri conflitti. Lavoriamo insieme per spendere bene e rapidamente tutte le risorse disponibili”. Se la prima raccomandazione è indirizzata al leader di Iv, la seconda sembra tutta per il premier. Al Nazareno ci tengono a far sapere che stanno lavorando per una soluzione sul Recovery. Ma che trovarla spetta soprattutto al premier.

Va detto che anche i due ministri politicamente più pesanti del governo, Dario Franceschini e Lorenzo Guerini, almeno sulle questioni di merito, hanno usato Renzi come ariete di sfondamento. I poteri sostitutivi e i poteri derogatori della cabina di regia non convincevano neanche loro. Peraltro, l’accentramento a Palazzo Chigi svuoterebbe anche i loro di poteri. Ma più passano le ore, più il capo delegazione dem si convince che Renzi voglia far cadere il governo e basta. Così ieri è intervenuto: “Il pre-Consiglio ha fatto un lavoro positivo e collegiale per migliorare le norme sulla struttura di governance del Recovery plan. Tutto il resto, dalle accuse di moltiplicazione delle poltrone ai presunti golpe mascherati, fa parte di un dibattito strumentale che ha altri obiettivi e che prescinde completamente dal merito”. Un altolà al leader di Iv. Il ministro della Cultura teme il punto di arrivo: e se Renzi finisce contro un muro e porta il Paese direttamente al voto? C’è chi giura di aver sentito Davide Faraone (capogruppo Iv in Senato) annunciare: “Dobbiamo fare un programma di fine legislatura e poi lavorare all’alleanza elettorale”. Tradotto, significherebbe arrivare alle elezioni con il Rosatellum, allearsi con M5S e garantirsi qualche posto in Parlamento. Potrebbe essere il piano C di Renzi, se non gli riesce né quello A (la testa di Conte), né quello B (il Conte ter). Lui lavora sui tempi della crisi di governo. A meno di un colpo di scena, non dovrebbe approfittare del voto di oggi, ma arrivare a dopo la legge di Bilancio. Come va a finire, dipende molto dalle mosse del Pd.

Ora Renzi vuole la testa di Conte. E il M5S si aggrappa a Mattarella

Niente Consiglio dei ministri, non ieri. Neanche l’ombra di un’intesa nella maggioranza, e figurarsi nel pre-Consiglio della mattina, teso e plumbeo come il cielo di Roma. Perché Giuseppe Conte è un premier molto solo in queste ore, e Matteo Renzi è il cacciatore che vuole la sua testa, con il consenso o almeno l’inerzia di tanti giallorosa: molti dem, ma anche diversi 5Stelle. Zitti sulle agenzie, e pronti a vedere se scorrerà metaforico sangue già oggi, nel giorno del giudizio in Parlamento sul Mes.

Nell’attesa, lasciano che Renzi punti alla gola del premier, o quantomeno a svuotarlo di potere e circondarlo di ministri diversi, “per stravolgere lui e il suo governo” come riassume preoccupato un grillino di governo. Di certo il fu rottamatore è tornato smargiasso: “Non gli direi ‘Conte stai sereno’, l’ultima volta non ha portato bene”. Così respinge eventuali concessioni: “Il mio problema non è quello di voler stare a tavola per spartire la torta da 200 miliardi, qui si tratta di capire qual è la regola del gioco, perché non ci stiamo a fare i passacarte”. E tiene alta la tensione, con Italia Viva che solo oggi deciderà se votare la risoluzione di maggioranza sul Mes, mentre nei 5Stelle dopo una giornata di segnali positivi sul voto la notte porta nuove rogne e pensieri neri.

Tutto va nella direzione dell’ex premier. Deciso a sfruttare il varco, ad approfittare del Recovery Fund che con il suo carico di miliardi e potere ha disvelato calcoli e ipocrisie nella maggioranza.

“L’accusa è sempre quella, Conte è troppo accentratore, vuol gestire tutto con pochi ministri e qualche manager: e ora il premier deve cercare per forza un compromesso”, osserva un 5Stelle. E allora? Bisogna cercare un punto di caduta con Renzi, e di fatto con molti altri. Quindi ridurre i poteri sostitutivi dei manager, per esempio, e dare più poteri ai partiti e ai ministeri, cioè anche a quei “mandarini” che sulla torta da 196 miliardi vogliono voce in capitolo. Ma il tempo corre, e i guai di più. La prima condizione di Iv è chiara: la struttura per gestire il Recovery Fund non può essere approvata con un emendamento alla manovra di bilancio. “Altrimenti non votiamo la manovra” ha minacciato più volte Teresa Bellanova, renzianissima ministra all’Agricoltura, che giura: “Il mio ingresso nella task force non è la soluzione”. Allora bisognerà provare con un decreto legge apposito. Via stretta, perché fonti di governo ricordano: “Da Bruxelles pretendono di avere assieme il dettaglio dei progetti e la struttura della cabina di regia”. O almeno a stretto giro gli uni dall’altra.

Conte proverà a convocare un nuovo Cdm per stasera: sempre se passerà indenne la tagliola di votazioni di oggi, in cui renderà le sue comunicazioni al Parlamento in vista del Consiglio Ue di domani. Prima di partire vuole un via libera di massima almeno sul piano di gestione delle risorse. “Ma sulla struttura pare impossibile arrivare a un accordo in poche ore” dicono da più fronti. Per questo ieri a palazzo Chigi si sono chiusi ufficialmente nel silenzio. E sempre per questo Renzi la butta lì, allargando il campo: “Sul Recovery alla fine della legge di bilancio, a gennaio, si convoca il Parlamento per una sessione ad hoc, si propongono le idee della maggioranza e si ascoltano quelle dell’opposizione. Alla fine, si decide chi spende i soldi e come”. Un amo al centrodestra, e un calcio in bocca a Conte che vorrebbe una struttura accentrata e tecnica per fare in fretta. Chi può o vuole fermarlo? I 5Stelle di governo sperano nell’ultimo argine, il Quirinale. “Renzi non crede alla possibilità che Sergio Mattarella ci mandi tutti a votare in caso di crisi, pensa sia un’arma spuntata, ma dal Colle arrivano altri segnali in questo senso”, spiega una fonte qualificata.

E per il fu premier che ora vale il 3 per cento nei sondaggi più benevoli, sarebbe catastrofe. Ma l’ex premier lancerà altri dadi. Perché al tavolo non si sente affatto da solo.