Se ne stanno andando, uno dopo l’altro, una dopo l’altra, gli ultimi partigiani. Ieri è toccato a Lidia Menapace. Cercherò di raccontare quanto sono rare e preziose le persone che, come Lidia, hanno saputo offrirsi generosamente da tramite nel passaggio fra tre successive generazioni. Ma prima vorrei confidare lo stato d’animo che suscitano questi inevitabili distacchi: sospeso fra la malinconia della perdita e la consolazione di essergli stati accanto in extremis; raccogliendo l’estremo bisogno di trasmetterci e rinnovare una scelta di libertà che, illuminata la loro gioventù, li ha resi partigiani per tutta la vita.
Prosegue ancora, finché sarà possibile, nonostante la falce del Covid, la corsa contro il tempo per raccogliere le ultime testimonianze partigiane e allestire quel Memoriale nazionale della Resistenza di cui l’Italia è ancora priva. Incontrandoli, con Laura Gnocchi e decine di altri volontari patrocinati dall’Anpi, abbiamo instaurato rapporti di confidenza affettuosi e impegnativi. Sono frequentazioni che diventano subito amicizie e arricchiscono il tuo sguardo non solo sulla storia, ma sul modo di vivere responsabilmente il presente e il futuro. Per questo contiamo di mettere al più presto a disposizione di tutti questo patrimonio digitale di biografie filmate, che a oggi sono già quasi cinquecento.
Da alcuni di loro, e Lidia Menapace è tra questi, siamo tornati più volte nel corso degli ultimi due anni, continuando a scriverci e a telefonarci. Sono fonti inesauribili di saggezza da tramandare. Mi perdonerete, allora, se, insieme a lei, cercherò di raccontare per flash alcuni altri che questo 2020 s’è portato via.
Il ricordo di Lidia Menapace è per me indissolubilmente legato a quello di Alexander Langer. Perché lei, la partigiana “Bruna”, sottotenente della divisione piemontese Rabellotti, che da giovane cattolica aveva scelto di andare disarmata a trasmettere messaggi su e giù dalle montagne, perché rifiutava l’idea di sparare sul nemico nazifascista, e però trasportava anche esplosivo per distruggerne le infrastrutture, è stata antesignana di culture che sarebbero germogliate nei movimenti successivi alla Resistenza: il pacifismo e il femminismo. Ne sarebbe divenuta fondatrice e ispiratrice. Nata a Novara nel 1924, era già donna adulta a Bolzano nel 1967, democristiana assessore alla Sanità, quando insieme a Langer si impegnarono sul crinale delicato della convivenza interetnica e di un impegno per la giustizia sociale che l’avrebbe portata a essere tra i promotori di Cristiani per il socialismo.
È stata perfino cruda nel raccontarci come fu sottovalutato il ruolo delle donne nella lotta di liberazione (“la maldicenza giunse a definirci le puttane dei partigiani”); nonché la sua disobbedienza a Togliatti quando, dopo il 25 Aprile, raccomandò che le donne non partecipassero alle sfilate di celebrazione della vittoria “perché il popolo non avrebbe capito”. Ribelle era e ribelle rimase. Coerente nel dissenso che dal Manifesto la portò fino in Parlamento. Nel 2006 era stata designata alla presidenza della commissione Difesa del Senato. Ma con un colpo di mano, grazie ai voti della destra, fu nominato invece quel Sergio De Gregorio che, pagato da Berlusconi, tradì il suo mandato e si giustificò dicendo che una pacifista in quel ruolo sarebbe stata mal vista dagli Usa.
A ottobre se n’era andato Germano Nicolini, l’ultracentenario “Comandante Diavolo” di Correggio. La medaglia d’argento che portava sul petto quando lo intervistai era giunta con mezzo secolo di ritardo, dopo che gli avevano fatto scontare ingiustamente 10 anni di carcere con l’accusa infondata di avere ucciso un parroco. Negli anni della Guerra Fredda disturbava il suo profilo di cattolico che si era legato ai comunisti. Ma i cittadini di Correggio non smisero di sostenerlo e lui sopportò a testa alta anche quella ingiustizia, come personale prosecuzione della sua Resistenza.
Carlo Orlandini, “Bingo”, scomparso il 16 novembre a 93 anni, ne aveva 16 quando udì incredulo un soldato tedesco delle SS vantarsi delle atrocità compiute nel ghetto di Varsavia. Non ci dormì, quella notte. Gliene chiese conferma la mattina dopo. Scrisse una lettera alla madre e passò le linee per arruolarsi nella Resistenza. Orlandini sarebbe diventato un manager di successo. L’estate scorsa sono tornato a incontrarlo a Carimate perché ci teneva a promuovere l’Asphi, fondazione di cui era stato artefice per diffondere l’impiego di strumenti informatici a supporto dei disabili.
Prima ancora, nel mese di agosto, si era spento Vinicio Silva, “Jim”, 97 anni, che per me era “l’uomo che faceva saltare i ponti”. Descriveva con ironia quella sua specialità appresa sull’Appennino parmense, che ancora pochi mesi prima aveva reso necessario un intervento chirurgico perché residui di plastico gli erano rimasti infiltrati sotto la pelle. A Borgo Ticino lo ricordano come bravo imprenditore e, più ancora, come amatissimo sindaco.
E che dire di Cicci Vandone, scomparsa nell’aprile scorso? Per fortuna avevo fatto in tempo a partecipare di fianco a lei, nella sede dell’Anpi milanese, alla commemorazione del suo grande amore Giorgio Paglia, medaglia d’oro, ufficiale valoroso fucilato dai fascisti che lo catturarono sulle Prealpi bergamasche insieme al suo gruppo di garibaldini. Cicci e Giorgio, giovanissimi figli della buona borghesia lombarda, impegnati assieme in azioni spericolate contro un regime dittatoriale che li avrebbe lasciati vivere bene, ma che urtava le loro coscienze.
Ho lasciato per ultima la splendida figura di Gianna Radiconcini, che se n’è andata il 3 dicembre scorso. Poco più che adolescente, scelse di fare la staffetta partigiana nei Gap romani. Si trovava al fianco di Teresa Gullace quando venne falciata da una raffica di mitra davanti alla caserma di viale Giulio Cesare, il 3 marzo 1944. La scena più tragica di Roma città aperta, resa celebre dall’interpretazione di Anna Magnani, Gianna l’ha vissuta di persona. Aveva già venduto la medaglietta del suo battesimo per finanziare l’acquisto di un carico di dinamite. Nel dopoguerra lavorò al fianco di Ferruccio Parri prima di entrare alla Rai e, da convinta europeista, diventarne la prima corrispondente dall’estero con sede a Bruxelles. Un impegno di emancipazione che avrebbe pagato anche nella sua vita privata, quando una separazione burrascosa e l’oscurantismo del codice civile le imposero di tenere nascosta la nascita di un figlio.
A Lidia, a Gianna e a tutti gli altri dobbiamo promettere che il loro eroismo non finirà dimenticato.