Anonima Rignano

Da che mondo è mondo, quando l’Anonima Sequestri prende qualcuno in ostaggio, chiama i famigliari per chiedere il riscatto. Invece l’Innominabile e gli altri italomorenti sequestrano Conte, ma non dicono cosa vogliono in cambio del suo rilascio. È una nuova fattispecie di banditismo politico: il sequestro di governo a scopo di estorsione imprecisata. Basta leggere le loro interviste (lo facciamo anche noi, ma ce la pagheranno): non una sillaba che faccia capire che diavolo vogliono. Lunedì l’Innominabile su Repubblica, ieri i pappagalli Boschi, Faraone e Rosato su Corriere, Stampa e Messaggero: tutte supercazzole che riescono persino a nobilitare i frondisti M5S sul Mes (almeno quelli parlano di idee). Sentite lo Statista di Rignano: “Conte si fermi”. Oh bella, ma non è lui ad accusarlo di immobilismo? “Del merito del (Recovery Plan) non sappiamo niente. Sul metodo siamo contrari”. Oh bella, ma nei Consigli dei ministri i suoi (anzi, le sue) che fanno? Le piante grasse? Giocano alla Playstation o al solitario sull’iPhone? “Il futuro dell’Italia non lo scrivono Conte e Casalino nottetempo in uno stanzino”. Oh bella, ma l’accusa non è di circondarsi di troppe task force e tecnici esterni? “Abbiamo fatto nascere un governo per togliere i pieni poteri a Salvini, non per darli a Conte”. Oh bella, ma Conte non è un indecisionista? “Dire che ha i ministri migliori del mondo è una barzelletta”. Oh bella, ma se pensa di aver scelto i ministri peggiori – tesi peraltro apprezzabile – perché non dà il buon esempio e non li cambia, tirando fuori i suoi Churchill ingiustamente esclusi, oltre a Boschi, Rosato e Faraone?

Ed ecco la Boschi: “Progetto scritto nottetempo” (già sentita), “senza consultare la società né le categorie” (ma gli Stati generali con la società e le categorie non erano una passerella?), “stiamo difendendo le istituzioni di questo Paese” (non di un altro). Dunque vogliono il rimpasto? “Non più”. Un posto a tavola con Conte, Gualtieri e Patuanelli sopra la task force sul Recovery? La Bellanova, nota intellettuale della Magna Grecia, “non è interessata”. La difesa della democrazia? Improbabile: il “Piano choc” di R. per “opere pubbliche da 120 miliardi” prevede “100 commissari” sottratti alla democrazia con pieni poteri di: scelta delle opere, progettazione, attuazione e controllo. Invece i piani del Recovery li progetta il governo, li approva il Parlamento, li attuano ministeri, Regioni, Province e Comuni; e la famigerata cabina di regia monitora le realizzazioni per non perdere i fondi dell’Ue (che ha chiesto espressamente la task force di controllo). E allora a quanto ammonta il riscatto? Trattandosi di Soliti Ignoti, un piatto di pasta e ceci può bastare.

“Ho paura che Yoko muoia”: l’ultima profezia errata di John

Se lo trova di fronte uscendo dalla metropolitana, sulla 72esima. Quel tizio, ricorderà James Taylor, “sudava in modo maniacale, aveva gli occhi dilatati, bofonchiava che Lennon avrebbe apprezzato il loro incontro”. È il 7 dicembre 1980. Il cantautore sta tornando nell’appartamento condiviso con la moglie Carly Simon al Langham, l’edificio accanto al Dakota dove vivono John e Yoko. Ventiquattro ore più tardi, Taylor udrà cinque colpi provenire dalla strada e penserà a un’operazione di polizia. A sparare è stato invece il tizio sudato, arrivato a New York una settimana prima, obbedendo alle voci di quei “Little People” che gli risuonavano nella testa. Ha scelto il bersaglio su una “short list” che comprendeva Jackie Onassis, Marlon Brando e Taylor. Non James, Liz.

Lennon era il più facile da colpire, spiegherà, e comunque è un “impostore”. Il “vero” John è lui, Mark David Chapman, 25enne guardia giurata alle Hawaii, sposo anch’egli di una giapponese, la “vera” Yoko. Certo, è pure un fan, ma da fervente “cristiano rinato” Chapman non ha mai perdonato all’“altro” Lennon la sortita di 15 anni prima: “I Beatles sono più famosi di Gesù”. Così gironzola da giorni nell’Upper West Side, con in mano una copia del Giovane Holden, il romanzo-cult di Salinger il cui giovane protagonista giura di “essere completamente pazzo”.

Chapman attende pazientemente la sua chance per presentarsi a Lennon davanti al Dakota Building. I due vengono a contatto nel pomeriggio dell’8 dicembre. Il maniaco porge a Lennon la propria copia dell’album Double Fantasy, uscito poche settimane prima. “Vuoi che te lo autografi?”, chiede la rockstar. Lo psicopatico annuisce. John lo guarda negli occhi e pronuncia quella frase che suonerà come una premonizione: “È davvero tutto quello che vuoi?”. C’è una quarta persona lì (la terza è Yoko): il fotografo David Goresh, amico della coppia, scatta l’immagine che finirà in prima pagina sui quotidiani di tutto il mondo: Mark David con John. Chapman ringrazia e si allontana docilmente. Goresh offre un passaggio ai Lennon verso i Record Plant Studios, un altro degli impegni nell’agenda del 40enne leader della generazione pacifista, che in mattinata si è tagliato i capelli, e ora il suo look somiglia a quello della prima fase dei Beatles. C’è stata poi una session per la copertina di Rolling Stone: Annie Leibovitz ha immortalato John e Yoko sdraiati. Lei vestita, lui nudo avvinghiato alla moglie. “La nostra relazione è così”, commenta Lennon. Che poco dopo concede un’intervista a David Sholin del network radiofonico Rko: “La mia paura è che Yoko muoia prima di me. Sarei perduto”. Ma ora che una sera limpida scende sulla Big Apple ci sono ancora progetti di vita per i due innamorati. Ai Record Plant va ultimato il brano Walking on Thin Ice, attribuito a Mrs. Ono con la chitarra di John.

Dopo il lavoro, la coppia si riavvicina a casa. Yoko propone una cena al ristorante, ma John ha fretta di tornare al Dakota per riabbracciare il piccolo Sean, che forse è ancora sveglio. Neppure Chapman dorme: è rimasto lì, sul marciapiede. Adesso tira fuori la calibro 38 ed esplode cinque colpi contro l’idolo. Quattro vanno a bersaglio. John urla: “Mi hanno sparato!”. Il portinaio del Dakota, Mr. Perdomo, disarma senza difficoltà Chapman. “Sai cosa hai fatto?”, gli grida. “Sì, ho appena ucciso John Lennon”. Questi sarà dichiarato morto al Roosevelt Hospital: nella sala d’aspetto, proprio quando arriva Yoko, un altoparlante diffonde All my loving. Sono passate da poco le 23 dell’8 dicembre 1980. Quindici anni più tardi, il tratto di Central Park di fronte al Dakota sarà ribattezzato Strawberry Fields.

A ogni anniversario, l’area si riempie di fan per una veglia di canzoni. Stasera chissà. Mark David Chapman si dice “pentito”, ma resta tuttora in carcere, per l’opposizione di Yoko, malgrado undici richieste di ammissione alla libertà vigilata. Paul McCartney ha rivelato di sognare spesso John. I due si sentirono l’ultima volta il 9 ottobre 1980, per il compleanno di Lennon. Che mettendo da parte gli antichi dissapori ringraziò Paul: “Pensami, ogni tanto, vecchio amico mio”.

Al Salone c’è “Vita Nova”, ma sembra vecchia: era davvero necessaria l’edizione invernale?

Nel “mondo realmente rovesciato”, come Guy Debord scriveva nel 1967 in La società dello spettacolo, “il vero è un momento del falso”. Forse Nicola Lagioia, collaudato pilota del Salone del Libro di Torino, non pensava al situazionismo quando ha varato Vita Nova, l’edizione online che dal 4 dicembre a oggi (ma con appuntamenti fino al 7 gennaio) ha rimpiazzato la kermesse dal vivo cancellata dal Covid-19, come era già stata cassata quella di maggio.

L’effetto, in ogni caso, è stato comunque situazionista, perché il “mondo reale”, per dirla ancora con Debord, si è cambiato in “semplici immagini”, quelle degli oltre venti, tra “maestre e maestri”, che hanno tenuto lezioni e incontri assortiti in questi giorni: da Roberto Saviano a Vittorio Sgarbi, da Emma Dante a Eva Cantarella, da Carlo Ginzburg al cardinale Matteo Maria Zuppi, da Paolo Giordano a Saverio Costanzo, da Mario Calabresi a Donatella Di Cesare… Lezioni, a detta dei salonisti, seguite in gran parte dagli insegnanti (tremila) e dagli studenti (4 mila, a quanto pare, per la lectio di Saviano su Nord e Sud).

È proprio questo pubblico a distanza, peraltro rodato dall’andazzo delle scuole, che può avere dato un senso a Vita Nova, un assaggio di Salone che, tutto sommato, non sembrava così necessario. Perché pure sotto Covid-19, a volte, “tacere è la nostra virtù” (lo diceva Cesare Pavese), se non si hanno grandi cose da dire. Quel pubblico, però, per forza di cose si è posto l’imperativo – per ricordare una canzone di Giorgio Gaber – di “far finta di essere sani”. Studenti e insegnanti, dunque, nello sforzo di consumare cultura, come se fossero in presenza al Lingotto, hanno digerito anche qualche banalità, più o meno d’autore. E quell’aura di situazionismo ha fatto persino sì che due opposti “maestri” come Sgarbi e Saviano abbiano trovato una convergenza nell’elogio scontato di un “eroe” di nome Diego Armando Maradona.

Vita Nova ha replicato la versione primaverile del Salone online. Si era tenuta in piena pandemia “atto primo”, e aveva totalizzato, secondo gli organizzatori, quasi cinque milioni di contatti sui vari canali, Facebook e Youtube compresi. Questo “evento” dicembrino sembra lontano dai fasti digitali del maggio 2020. Il suo presupposto filosofico, ha sostenuto Lagioia, era che “il domani non sarà solo o luminoso od oscuro, e la realtà non è un elenco di contrari”. Vita Nova, pur lodevole nell’intento, non ha chiarito del tutto il concetto. Meglio riprovare in presenza.

Si dà arie l’operina in Scala. In tv, spezzatino di note e vip

Già che c’erano potevano chiamarlo Cantando con le stelle, almeno Milly Carlucci si sarebbe trovata ancora più a suo agio e Bruno Vespa pure, tanto lui va su tutto. Tra le imprese storiche del Coronavirus, che per Milano ha decisamente avuto un occhio di riguardo, dobbiamo annoverare la Prima della Scala trasformata in varietà (eravamo già sulla buona strada, a dire il vero).

E quale varietà: A riveder le stelle (“Una frase dantesca”, copyright Milly Carlucci) non è solo un imbarazzante centone a misura di piccolo schermo, ma anche un mediocre show televisivo, una cassoeula di belcanto (ma con performance pre-registrate), pistolotti letterari, birignao poetici, scene madri, il maestro Riccardo Chailly a capo di un’orchestra disposta a ventaglio, tipo falange macedone, nella platea diventata pedana, con alle spalle un palcoscenico divenuto megaschermo. Si sentiva la mancanza del toboga. “Una versione per certi versi ancora più grande del 7 dicembre” (sempre Milly Carlucci), salvo il piccolo particolare del teatro vuoto, come se privare un teatro del pubblico non fosse privarlo dell’anima.

Questa evoluzione dei Tre tenori e di Pavarotti and friends era nell’aria da tempo, ma qui non si sono fatti prigionieri. Tutte le gradazioni della retorica, delle idee correnti e del politicamente corretto compressi in tre ore. Inizio cechoviano, ma alla rovescia, con la donna delle pulizie che vede ripopolarsi per magia il giardino dei ciliegi deserto, e da lì in avanti un “meglio di”; o, per essere più televisivi – e dunque più calzanti –, 24 highlight della storia del melodramma, “una cavalcata nella nostra anima affidata soprattutto a Verdi e Puccini” (copyright Vespa). Con Verdi galoppano la gelosia, la passione, la vendetta (Rigoletto), ma anche la solidarietà e l’amicizia (Don Carlo); dal canto suo Puccini mette in sella la sposa bambina Madama Butterfly (Montanelli, attento a te) e Tosca “che “anticipa il #MeToo” (copyright Michela Murgia).

Tra una cavalcata nell’anima e l’altra, emergono nella cassoeula frammenti di Montale, Pavese, Victor Hugo affidati a Massimo Popolizio, Laura Marinoni, Caterina Murino come fossero cover da portare a X Factor. E non mancano i richiami al cinema seminati da Livermore, virtuoso del video design. In due precedenti prime aveva già affrontato Attila e Tosca cercando di trattenersi, ma stavolta si è lasciato andare. Monconi di regia disossati da ogni pathos e da ogni epos, e dove quindi può accadere di tutto, perfino che il Don Pasquale si riempia a capocchia di memorabilia felliniane, la facciata di Cinecittà, la Triumph cabrio della Dolce Vita e la moto-ape di Zampanò.

Più dell’effetto implacabilmente, fatalmente kitsch dell’insieme – nella selezione e nella successione Bouvard e Pécuchet non avrebbero saputo fare di meglio – fa specie come i responsabili del più glorioso teatro italiano abbiano potuto concepire tutto questo con convinta determinazione. L’idea di avvicinare le masse alla grande musica è piuttosto avvilente, soprattutto nei confronti delle masse che l’opera l’hanno sempre amata e così rischiano di confonderla con Star Wars; ma sarebbe ingeneroso non vedere in questa agghiacciante trasformazione della Prima della Scala lo spirito dei tempi, la digitalizzazione, la profilazione e la riproducibilità perpetua di ogni aura artistica. Quando si rivendica di aver trattato la storia del teatro come un format televisivo, in sala d’aspetto, ad aspettare il prossimo turno, c’è la vita. Sì, tanto valeva modificare A riveder le stelle in Cantando con le stelle, ma avanti di questo passo non ce ne sarà bisogno, uno dei prossimi 7 dicembre la Carlucci potrà restare mentre al posto di Vespa vedremmo bene Amadeus: trapiantiamo direttamente alla Scala il Festival di Sanremo.

 

“Bruna”, “Bingo” & C. Vite indimenticabili dei Belli ciao d’Italia

Se ne stanno andando, uno dopo l’altro, una dopo l’altra, gli ultimi partigiani. Ieri è toccato a Lidia Menapace. Cercherò di raccontare quanto sono rare e preziose le persone che, come Lidia, hanno saputo offrirsi generosamente da tramite nel passaggio fra tre successive generazioni. Ma prima vorrei confidare lo stato d’animo che suscitano questi inevitabili distacchi: sospeso fra la malinconia della perdita e la consolazione di essergli stati accanto in extremis; raccogliendo l’estremo bisogno di trasmetterci e rinnovare una scelta di libertà che, illuminata la loro gioventù, li ha resi partigiani per tutta la vita.

Prosegue ancora, finché sarà possibile, nonostante la falce del Covid, la corsa contro il tempo per raccogliere le ultime testimonianze partigiane e allestire quel Memoriale nazionale della Resistenza di cui l’Italia è ancora priva. Incontrandoli, con Laura Gnocchi e decine di altri volontari patrocinati dall’Anpi, abbiamo instaurato rapporti di confidenza affettuosi e impegnativi. Sono frequentazioni che diventano subito amicizie e arricchiscono il tuo sguardo non solo sulla storia, ma sul modo di vivere responsabilmente il presente e il futuro. Per questo contiamo di mettere al più presto a disposizione di tutti questo patrimonio digitale di biografie filmate, che a oggi sono già quasi cinquecento.

Da alcuni di loro, e Lidia Menapace è tra questi, siamo tornati più volte nel corso degli ultimi due anni, continuando a scriverci e a telefonarci. Sono fonti inesauribili di saggezza da tramandare. Mi perdonerete, allora, se, insieme a lei, cercherò di raccontare per flash alcuni altri che questo 2020 s’è portato via.

Il ricordo di Lidia Menapace è per me indissolubilmente legato a quello di Alexander Langer. Perché lei, la partigiana “Bruna”, sottotenente della divisione piemontese Rabellotti, che da giovane cattolica aveva scelto di andare disarmata a trasmettere messaggi su e giù dalle montagne, perché rifiutava l’idea di sparare sul nemico nazifascista, e però trasportava anche esplosivo per distruggerne le infrastrutture, è stata antesignana di culture che sarebbero germogliate nei movimenti successivi alla Resistenza: il pacifismo e il femminismo. Ne sarebbe divenuta fondatrice e ispiratrice. Nata a Novara nel 1924, era già donna adulta a Bolzano nel 1967, democristiana assessore alla Sanità, quando insieme a Langer si impegnarono sul crinale delicato della convivenza interetnica e di un impegno per la giustizia sociale che l’avrebbe portata a essere tra i promotori di Cristiani per il socialismo.

È stata perfino cruda nel raccontarci come fu sottovalutato il ruolo delle donne nella lotta di liberazione (“la maldicenza giunse a definirci le puttane dei partigiani”); nonché la sua disobbedienza a Togliatti quando, dopo il 25 Aprile, raccomandò che le donne non partecipassero alle sfilate di celebrazione della vittoria “perché il popolo non avrebbe capito”. Ribelle era e ribelle rimase. Coerente nel dissenso che dal Manifesto la portò fino in Parlamento. Nel 2006 era stata designata alla presidenza della commissione Difesa del Senato. Ma con un colpo di mano, grazie ai voti della destra, fu nominato invece quel Sergio De Gregorio che, pagato da Berlusconi, tradì il suo mandato e si giustificò dicendo che una pacifista in quel ruolo sarebbe stata mal vista dagli Usa.

A ottobre se n’era andato Germano Nicolini, l’ultracentenario “Comandante Diavolo” di Correggio. La medaglia d’argento che portava sul petto quando lo intervistai era giunta con mezzo secolo di ritardo, dopo che gli avevano fatto scontare ingiustamente 10 anni di carcere con l’accusa infondata di avere ucciso un parroco. Negli anni della Guerra Fredda disturbava il suo profilo di cattolico che si era legato ai comunisti. Ma i cittadini di Correggio non smisero di sostenerlo e lui sopportò a testa alta anche quella ingiustizia, come personale prosecuzione della sua Resistenza.

Carlo Orlandini, “Bingo”, scomparso il 16 novembre a 93 anni, ne aveva 16 quando udì incredulo un soldato tedesco delle SS vantarsi delle atrocità compiute nel ghetto di Varsavia. Non ci dormì, quella notte. Gliene chiese conferma la mattina dopo. Scrisse una lettera alla madre e passò le linee per arruolarsi nella Resistenza. Orlandini sarebbe diventato un manager di successo. L’estate scorsa sono tornato a incontrarlo a Carimate perché ci teneva a promuovere l’Asphi, fondazione di cui era stato artefice per diffondere l’impiego di strumenti informatici a supporto dei disabili.

Prima ancora, nel mese di agosto, si era spento Vinicio Silva, “Jim”, 97 anni, che per me era “l’uomo che faceva saltare i ponti”. Descriveva con ironia quella sua specialità appresa sull’Appennino parmense, che ancora pochi mesi prima aveva reso necessario un intervento chirurgico perché residui di plastico gli erano rimasti infiltrati sotto la pelle. A Borgo Ticino lo ricordano come bravo imprenditore e, più ancora, come amatissimo sindaco.

E che dire di Cicci Vandone, scomparsa nell’aprile scorso? Per fortuna avevo fatto in tempo a partecipare di fianco a lei, nella sede dell’Anpi milanese, alla commemorazione del suo grande amore Giorgio Paglia, medaglia d’oro, ufficiale valoroso fucilato dai fascisti che lo catturarono sulle Prealpi bergamasche insieme al suo gruppo di garibaldini. Cicci e Giorgio, giovanissimi figli della buona borghesia lombarda, impegnati assieme in azioni spericolate contro un regime dittatoriale che li avrebbe lasciati vivere bene, ma che urtava le loro coscienze.

Ho lasciato per ultima la splendida figura di Gianna Radiconcini, che se n’è andata il 3 dicembre scorso. Poco più che adolescente, scelse di fare la staffetta partigiana nei Gap romani. Si trovava al fianco di Teresa Gullace quando venne falciata da una raffica di mitra davanti alla caserma di viale Giulio Cesare, il 3 marzo 1944. La scena più tragica di Roma città aperta, resa celebre dall’interpretazione di Anna Magnani, Gianna l’ha vissuta di persona. Aveva già venduto la medaglietta del suo battesimo per finanziare l’acquisto di un carico di dinamite. Nel dopoguerra lavorò al fianco di Ferruccio Parri prima di entrare alla Rai e, da convinta europeista, diventarne la prima corrispondente dall’estero con sede a Bruxelles. Un impegno di emancipazione che avrebbe pagato anche nella sua vita privata, quando una separazione burrascosa e l’oscurantismo del codice civile le imposero di tenere nascosta la nascita di un figlio.

A Lidia, a Gianna e a tutti gli altri dobbiamo promettere che il loro eroismo non finirà dimenticato.

Unità e Pci: la partita di calcio fece infuriare Luciano Barca

Non erano quattro amici al bar, come nella canzone di Gino Paoli, ma giovani comunisti, redattori o dipendenti dell’edizione piemontese de l’Unità. Uno di loro era Diego Novelli, che sarebbe diventato sindaco di Torino. Tra gli altri spiccava il maremmano Adalberto Minucci, futuro dirigente del partito e tra i personaggi di un romanzo (La battaglia soda) del conterraneo Luciano Bianciardi. E c’erano Manfredo Liprandi, tipografo diventato cronista, stampatore dei giornali clandestini della Resistenza, e Riccardo Marcato, finito poi al Corriere della Sera e autore con Piero Novelli del giallo di successo Il commissario di Torino.

Il 31 maggio del 1954, che era un lunedì, Diego Novelli e compagni ricevettero una letteraccia di Luciano Barca, allora responsabile della redazione torinese de l’Unità, inviata per conoscenza anche a Gianni Rocca, in seguito tra i fondatori di Repubblica. Barca li strigliava duramente, preannunciando un richiamo scritto, perché sul giornale di quel giorno aveva letto “il testo di una notizia falsa”, come scrisse, “relativa all’incontro di calcio Federazione del Pci – l’Unità tenutosi ieri a conclusione del congresso del partito. In tale notizia voi ‘al fine di fare uno scherzo ai compagni della Federazione’ falsificate i fatti scrivendo che la squadra de l’Unità è risultata vincitrice”. E aggiunse: “Quanto è accaduto mi costringe purtroppo a dare un giudizio severo sulla vostra serietà e maturità politica: mi sembra impossibile che sette funzionari di partito, alcuni dei quali molto anziani del giornale, non si siano resi conto che l’Unità non è un loro organo privato di stampa sul quale possono divertirsi a loro piacimento con delle bambinate, ma è l’organo centrale del partito che ha una sua responsabilità pubblica di fronte a migliaia e migliaia di lettori”.

Ancora oggi, 66 anni dopo, basta citare la data della lettera e il nome di Barca perché Diego Novelli risponda subito: “Ah sì, la lettera di Barca a me, a Minucci, a Liprandi, a mio fratello Walter… Fu per lo scherzo della partita”. Rammenta Novelli, sindaco di Torino dal 1975 al 1985: “Avevamo perso, e qualcuno, non ricordo bene chi, pensò di fare quello scherzo ai compagni della Federazione, scrivendo sul giornale che avevamo vinto noi. Barca si arrabbiò, ci fecero una sorta di processo, ma ovviamente senza conseguenze”.

Uno scherzo innocente, una “bambinata”, per dirla con le parole di Barca. Una stupidaggine, insomma, che giudicata con il senno odierno, almeno quello predominante in tanti giornali e in tanta politica, non varrebbe nemmeno un tweet. Allora, però, nell’anno 1954, avere tradito i lettori, seppure con un’inezia, per i dirigenti del Pci, e per la moralità del partito, era un fatto grave. La “forza più grossa del nostro giornale – scrisse sempre Barca nella lettera – è quella di battersi ogni giorno per la verità”. Averla sacrificata “allo sciocco desiderio di uno scherzo – continuava – è una mancanza di cui i compagni che hanno commesso il fatto debbono sentire tutta la colpa”. Oggi si riderebbe, certo. Eppure non c’è poi tanta differenza fra il rigore (non calcistico) di Barca e quello – la cosiddetta “austerità” – di Enrico Berlinguer nell’Italia sfasciata degli anni 70.

Brexit, ora Bojo tenta di spezzare il fronte europeo

Dopo una seconda, lunga chiamata diretta fra Boris Johnson e Ursula von der Layen, che non ha sbloccato lo stallo, il governo britannico ha irritato ulteriormente la Ue con due iniziative. La prima: offre di ritirare le clausole dell’Internal Market Bill che violerebbero il trattato di divorzio firmato a gennaio, ieri tornate ai Commons dopo essere state bocciate dai Lords. A una condizione: che il Comitato congiunto Eu-Uk che si occupa di implementare l’accordo di divorzio trovi una intesa che renda quelle clausole non necessarie. Mossa definita dalla stampa britannica come “ramoscello d’ulivo”, ricevuta a Bruxelles come “smettiamo di violare la legge se ci venite incontro sul resto dei dossier cruciali”. Intanto Downing Street ha presentato un’altra legge, il Taxation Bill, ai Commons da oggi, che introdurrebbe violazioni ancora più pesanti ai compromessi già concordati. E la fiducia, già ai minimi, finisce sotto i tacchi. Johnson vuole compromettere le trattative? Irragionevole, visto che un accordo serve anche a lui. Ma, questa l’ultima ipotesi, potrebbe tentare di delegittimare la Von der Leyen e spezzare il fronte europeo al prossimo Consiglio europeo di giovedì. Un segnale dai mercati: la sterlina ieri pomeriggio ha perso l’1%.

Dio, famiglia e “Grande Romania”

Come prima conseguenza delle elezioni chiuse ieri, il premier uscente Ludovic Orban ha annunciato le sue dimissioni, dopo l’insuccesso del Partito liberale (Pnl). “Non mi attacco alle poltrone”, ha detto Orban. Il Pnl ha ottenuto meno del 25%, rispetto a oltre il 29% conquistato dal Partito socialdemocratico (Psd). Le maggiori chance di formare il governo le ha tuttavia il centrodestra potendo contare su un maggiore spettro di alleanze. Marcel Ciolacu, leader Psd, spera di mettere in piedi una coalizione con i riformisti dell’Usr, che hanno raggiunto il 15% dei voti. Nel Paese che ha cambiato cinque premier negli ultimi cinque anni, mentre i due più grandi schieramenti politici ancora dibattono, due partiti più piccoli già festeggiano: lo fanno i membri della minoranza ungherese del gruppo Udmr, che superano la soglia di sbarramento del 5%, e, con quasi il doppio dei voti, entrano ufficialmente nella galassia della politica rumena gli ultra-nazionalisti dell’Aur, “Alleanza per l’Unità dei Romeni”.

Fondato dal politico George Simion quando fu sconfitto alle elezioni parlamentari del 2019, l’Aur raccoglie le frange più estreme della destra rumena, infittite anche dall’elettorato religioso e dalle schiere di negazionisti di quel Covid-19 che ha già ucciso oltre diecimila persone nel Paese. Le parole chiave in campagna elettorale sono state tre: Dio, quello cristiano; famiglia, quella tradizionale, nazione, quella della “Grande Romania” che non accetterà i dettami che Bruxelles vuole imporre. Si battono contro l’invasione “delle popolazioni straniere” su suolo rumeno citando la Costituzione e condannano quei valori europei invece propagati dal presidente Klaus Iohannis, i cui appelli si sono ripetuti numerosi nelle ultime settimane per spingere i cittadini a votare. Nell’era del virus un’altra vittoria registrata è stata quella dell’astensione: nel Paese con 18 milioni di aventi diritto al voto, solo il 32% dei cittadini ha varcato la soglia delle urne, ancora meno del 39% di quattro anni fa.

Elezioni: Maduro prevale, ma il suo chavismo delude

Una vittoria ampia quella segnata dal chavismo domenica alle elezioni parlamentari in Venezuela: 67,6% a favore del Gran Polo Patriótico di Nicolas Maduro. “Buongiorno di vittoria!”, ha esultato su Twitter il presidente. Peccato che a votare sia stato il 30% dei venezuelani, e con l’astensione al 70% “la tremenda vittoria elettorale” di cui ha gioito strida non solo con l’assenza dell’opposizione alle urne – dal presidente ad interim Juan Guaidó, al leader di Voluntad Popular, Leopoldo Lopez, rifugiato a Madrid a Henrique Capriles – ma anche con la spaccatura, sempre più evidente tra il “pueblo” e il suo leader.

Eppure dal 5 gennaio 2021 Guaidó, che con la presidenza dell’Assemblea Nazionale aveva tentato la spallata a Maduro, si dovrà ritirare dall’emiciclo. Il Partito socialista e i suoi alleati hanno ottenuto 240 seggi su 277 e solo il 18% dei voti è andato a quel po’ di opposizione che si è presentata, tra purghe e leader sostituiti da Maduro con capi-popolo a sigillo di patti futuri. Le elezioni non sono riconosciute né dagli altri leader dell’opposizione, né da 16 paesi del Sudamerica, né dall’Unione europea che con il ministro degli esteri Josep Borrell – come da avviso pre-elettorale – le ha definite “non credibili in quanto non rispettose dei criteri minimi di democrazia e pluralismo”, né dagli Stati Uniti né il Canada. Al regime d’altronde non è riuscita l’operazione maquillage: sui social giravano libere immagini di sedi vuote che non poco nervosismo hanno seminato tra i vertici politico-militari. E a nulla è servito ritardare la chiusura dei seggi nelle zone che al chavismo più devono, come Misión Vivienda. L’opposizione ora ha ricominciato a promettere guerra al “regime bolivariano”. “Hanno visto che è sotto scacco persino il loro schema di controllo sociale”, ha rimarcato Guaidó, sottolineando che in molti “non sono caduti nella trappola delle minacce”. Ma Maduro ha gioco facile nell’accusare i rivali. “Sono stati cinque anni nefasti. Sono stati loro a chiedere e ottenere le sanzioni economiche”, si è affrettato a spiegare a urne ancora aperte, non temendo smentita. “Hanno nomi, cognomi e volti i responsabili di questo fallimento”, ha aggiunto. Tuttavia non sarà neanche questa vittoria a risolvere “la questione venezuelana”, con la società spaccata in due, la sfiducia in Maduro e nell’opposizione al massimo storico, secondo i dati di Datanalisis e sgomento e resa come sentimenti predominanti vista la seria crisi economica. Resta da vedere se la crisi aperta a gennaio 2019, possa trovare altri intermediari oltre a Russia, Iran, Turchia e Cina. A provare a farsi mediatore – come già in passato seppur con scarsi risultati – è stato l’ex premier spagnolo, José Luis Rodriguez Zapatero, tra gli osservatori internazionali a Caracas. “Bruxelles riconsideri il veto alla legittimazione dei risultati e a riconoscere il nuovo parlamento e rifletta sulle sanzioni”, è l’appello lanciato al compagno di partito, Josep Borrell. Ma le divisioni nel Psoe sul Venezuela sono un’altra storia. A interessare, potrebbe essere l’insediamento di Joe Biden lo stesso giorno del nuovo Parlamento chavista, che, nonostante le non rosee premesse, potrebbe cambiare strategia su Caracas. Intanto, l’opposizione sembra allo sbando. “Dopo questi insuccessi, si dovrebbe ripensare ad alternative reali”, ha twittato Capriles, che a settembre spingeva per partecipare al voto. “L’opposizione sprecherà energia nelle spaccature al posto di eliminare Maduro dal potere”, ha commentato il direttore di Datanálisis, Luis Vicente Leó. “Non hanno saputo interpretare le richieste della società”.

Manu e al Sisi si fanno le fusa, il nemico comune è Erdogan

La visita di al Sisi a Parigi è stata confermata solo qualche giorno fa, dopo che i tre attivisti della Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), la Ong con cui collaborava anche Patrick Zaki, sono stati rimessi in libertà, grazie alla mobilitazione internazionale. Ed è proprio sul tema del diritti umani, in un Paese dove più di 60 mila persone sono in prigione a causa delle loro idee politiche, che i francesi si sarebbero aspettati un intervento più deciso di Emmanuel Macron. Al contrario le parole del presidente francese devono aver raffreddato le aspettative delle Ong: “La Francia non condizionerà ai diritti umani la sua cooperazione in materia di difesa con l’Egitto, poiché una tale politica indebolirebbe Il Cairo nella lotta contro il terrorismo”, ha detto Macron in una conferenza stampa comune con il presidente egiziano.

Per Parigi la priorità della visita di al Sisi infatti era un’altra: rinforzare “la partnership strategica” con l’Egitto, considerato come “un polo di stabilità” nella regione instabile del Medio Oriente. I due capi di stato hanno sigillato ieri la loro unione nella crisi libica facendo fronte comune contro l’avanzata della Turchia di Erdogan, senza davvero pronunciare il nome dell’avversario comune. “Mentre una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti si è abbattuta sul mondo – ha detto Macron – e che certe potenze tentano di destabilizzare gli equilibri regionali, il partenariato strategico con il nostro amico egiziano è più che mai essenziale”. Nel caos libico, Parigi e Il Cairo hanno sostenuto il maresciallo ribelle Haftar contro l’esercito nazionale del premier al-Serraj, appoggiato da Ankara, il cui sostegno militare a Tripoli è stato determinante nel ribaltare le sorti del conflitto, prima favorevoli a Haftar. Ieri Parigi e Il Cairo hanno confermato la loro adesione agli sforzi dell’Onu per una risoluzione politica del conflitto, così come l’allontanamento dei mercenari stranieri. Che l’Egitto sia realmente un partner strategico nella regione è messo in discussione da Amnesty International: “Il regime egiziano esagera nel presentarsi come un bastione per l’Europa di fronte agli estremisti”, ha detto a Libération Hussein Baoumi portavoce della Ong. Secondo Claire Talon, ricercatrice del Carep, il Centro arabo di studi di Parigi, è proprio “il confronto con la Turchia a rinforzare la vicinanza ideologica tra i due paesi”. Ma Parigi ha soprattutto molti interessi in Egitto. Sul piano della Difesa, innanzi tutto. Nel 2015 la Francia ha venduto all’Egitto 24 aerei da guerra Rafale, un fregata multimissione e dei missili a lungo e corto raggio, un contratto che all’epoca era stato presentato come “storico” dalla stampa francese. Stando ad Amnesty, la Francia, con più di 1,4 miliardi di euro di attrezzature militari vendute, è diventata nel 2017 il primo fornitore di armi dell’Egitto, anche più degli Stati Uniti. Gli interessi egiziani di Parigi vanno al di là del settore della Difesa. Durante il viaggio di Macron nella capitale egiziana del gennaio 2019, una trentina di contratti erano stati siglati con grandi aziende francesi, tra cui un’importante collaborazione per i lavori di estensione di una linea del metrò del Cairo.

All’epoca Macron, sul tema dei diritti umani, si era detto deluso per il fatto che “la situazione in Egitto non evolveva nella buona direzione” e che “blogger, giornalisti e attivisti” fossero ancora in prigione. Ora le Ong chiedono al presidente di “passare dalle parole ai fatti”. Si sono dette scandalizzate nel vedere l’Eliseo “stendere il tappeto rosso a un dittatore” e hanno lanciato un appello a manifestare oggi davanti al Parlamento di Parigi. A al Sisi invece sono stati riservati gli onori della République, con una cerimonia militare a Les Invalides, un passaggio per la tomba del milite ignoto all’Arco di Trionfo e un incontro a due con Macron, il tutto secondo un protocollo molto stretto, con tanto di scorta a cavallo e cena all’Eliseo. Ma il presidente egiziano, rifiutando le ingerenze dei Fratelli Musulmani, è un valido alleato per Macron anche nel clima anti-francese che si è installato nel mondo arabo negli ultimi mesi dalla ripubblicazione delle caricature di Maometto, difese a spada tratta da Macron. Un clima alimentato dallo scontro aperto tra Macron e il presidente turco Erdogan, arrivato a chiedere il boicottaggio del made in France. Macron ha dunque ringraziato al Sisi, presidente “di un grande paese arabo e musulmano”, di aver fatto il viaggio a Parigi nel pieno di questa “campagna di odio” verso Parigi. Il Cairo ha condannato la morte di Samuel Paty, l’insegnante decapitato per aver mostrato le caricature durante una lezione sulla libertà di espressione. Ma anche ha ribadito la sua posizione: “I valori religiosi devono prevalere sui valori umani”.