Pressing per azienda vicina ai clan: salvato Giovanardi da FI&Iv

Lui giura di aver fatto solo il suo dovere di parlamentare. E che importa se per ottenere che una ditta amica in odore di ’ndrangheta potesse partecipare alla ricostruzione dopo il terremoto dell’Emilia-Romagna, ha minacciato e fatto pressioni di ogni sorta spendendo il suo ruolo e le sue amicizie a Roma. L’ex senatore Carlo Giovanardi aveva ragione da vendere: strapazzare funzionari di Prefettura per ottenere ciò che si vuole, minacciarne la carriera e ottenere informazioni riservate abusando dello status di parlamentare, si può fare e impunemente. Lo ha confermato il voto di ieri del Senato dove grazie ai voti del centrodestra e Italia Viva gli è stato accordato lo scudo dell’immunità contro i magistrati di Modena che lo avevano trascinato a processo per rivelazione e utilizzazione di segreti d’uffici, violenza o minaccia a Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti, violenza o minaccia a un pubblico ufficiale e oltraggio.

Bum! Per l’aula del Senato non ci sono reati: le condotte di Giovanardi sono al più l’espressione di opinioni magari un po’ forti, ma pur sempre insindacabili perché espresse nel suo ruolo di parlamentare, come sostenuto dal leghista Simone Pillon nella relazione approvata a maggioranza: “Nel caso di specie, il senatore Giovanardi riteneva con tutta evidenza che l’esclusione dalla white list della ditta Bianchini fosse un’ingiustizia e che tale misura fosse del tutto infondata sulla base di una propria opinione, fortemente critica rispetto all’operato dei pubblici ufficiali coinvolti”.

E tanto deve bastare, a prescindere dal merito delle condotte tenute all’epoca dei fatti da Giovanardi, che può tirare un sospiro di sollievo, anzi di più: “È un voto importante per la democrazia perché riguarda la libertà del Parlamento in un sistema democratico” ha detto sempre più convinto che “l’unico atteggiamento di un parlamentare di fronte a macroscopici errori della Pubblica amministrazione non può essere quello di un omertoso silenzio”.

E pace se in questo caso non c’erano affatto errori macroscopici. E se qualcuno si ostina a ritenere che i reati contestati a Giovanardi restino tali e davvero poco hanno a che fare con le opinioni, come ha sottolineato Pietro Grasso di LeU, per il quale “la violazione del segreto d’ufficio o le minacce, non hanno alcun legame funzionale con l’esercizio dell’attività parlamentare”.

Per l’ex procuratore antimafia, insomma, si tratta di un precedente pericoloso attraverso il quale è stata ingiustificatamente estesa la prerogativa dell’insindacabilità. Attraverso un barbatrucco già evidenziato da Anna Rossomando del Pd quando la questione era stata trattata in Giunta. “L’aspetto più problematico della motivazione fornita dal senatore Pillon è quello che finisce per estendere la prerogativa a qualsiasi condotta purché persegua un fine in qualche modo ricollegabile ad una pregressa attività parlamentare intra moenia”. Tradotto: per ottenere lo scudo basterà presentare un’interrogazione per poi avere la licenza di compiere impunemente fuori dal Palazzo qualunque tipo di reato sul fatto oggetto di quella attività parlamentare. Ma ormai l’andazzo è questo. Ieri la stessa Giunta delle immunità ha scudato il meloniano Andrea Augello, per un post su Fb ritenuto offensivo dall’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino (che lo ha portato in Tribunale) nonostante non sia da tempo più parlamentare. Ma l’immunità gli è stata accordata lo stesso col pretesto che da senatore nel 2015 aveva presentato alcune interrogazioni sull’amministrazione capitolina.

E non è tutto. Sempre l’asse centrodestra-Italia Viva ieri ha detto no ai magistrati di Roma: non potranno usare nessuna delle intercettazioni che rischiavano di inguaiare Armando Siri, l’ex sottosegretario leghista a processo con l’accusa di essersi dato da fare, in cambio della promessa di una mazzetta, per favorire Paolo Arata, imprenditore in affari con il re dell’eolico Vito Nicastri considerato uno dei finanziatori di Matteo Messina Denaro.

Responsabilità diretta dei giudici e cannabis: affondati altri 2 quesiti

Quando si dice è una beffa del destino. A trent’anni esatti da Mani Pulite, a presiedere la Corte costituzionale che ha dato il via libera ai referendum sulla Giustizia, a eccezione di quello sulla responsabilità civile diretta del magistrato, è Giuliano Amato, tra i protagonisti politici della Prima Repubblica al fianco di Bettino Craxi.

Aspirante senatore a vita, Amato forse ancora pensa di essere presidente del Consiglio, dato che ieri ha indetto una conferenza stampa in cui non si tiene neppure alcune critiche ricevute dalla Corte per l’inammissibilità del referendum sull’omicidio del consenziente (decisa martedì). “Sentire che non sappiamo cosa significhi soffrire mi ha ferito, ha ferito tutti noi. L’omicidio del consenziente sarebbe stato lecito in casi ben più numerosi e diversi da quelli dell’eutanasia”. Quanto all’inammissibilità del referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati che, ci risulta, lui, invece, avrebbe voluto, spiega: “Essendo sempre stata la regola per i magistrati quella della responsabilità indiretta, diversamente da altri funzionari pubblici, l’introduzione della responsabilità diretta rende il referendum più che abrogativo”.

È lo Stato, aggiungiamo noi, che risarcisce il cittadino che abbia subito un ingiusto danno, per poi rivalersi sul magistrato. Ovvio la ratio della legge: se ci fosse la responsabilità diretta, ogni indagato-imputato, potente, potrebbe intimidire così il magistrato.

Dunque, ieri, la Corte ha dato il via libera ai referendum che chiedono la separazione delle carriere dei magistrati; l’abolizione della legge Severino; lo svuotamento della carcerazione preventiva; la valutazione professionale dei magistrati da parte degli avvocati presenti nei consigli giudiziari; la possibilità per i magistrati di candidarsi al Csm anche senza una raccolta di firme. La Corte con un comunicato spiega il via libera: “Le rispettive richieste non rientrano in alcuna delle ipotesi per le quali l’ordinamento costituzionale esclude il ricorso all’istituto referendario”. Sarà, ma se si va a leggere il quesito che chiede la separazione delle carriere, viene il mal di testa, tante sono le leggi cui fanno riferimento i promotori, altro che quesito chiaro, lineare per gli elettori. Inoltre, come la Corte sa, c’è già la riforma Bonafede, sul punto non modificata dalla ministra Marta Cartabia, che propone di diminuire i possibili passaggi da pm a giudice e viceversa, da 4 a 2, ma non di separare le carriere, di fatto, come vorrebbe, invece, Forza Italia. Se vince il sì non sarà permesso alcun cambio di funzione con buona pace del principio costituzionale dell’unicità dell’ordinamento giudiziario e con un possibile destino per il pm di essere dipendente dal governo.

Via libera anche al referendum che chiede l’abolizione della legge Severino, che vieta l’incandidabilità, ineleggibilità e decadenza dei parlamentari, membri del governo, consiglieri regionali, sindaci e amministratori locali in caso di condanna definitiva per reati gravi come mafia, terrorismo e corruzione. Se vince il sì, viene abolito anche l’articolo 11 della stessa legge sulla sospensione per 18 mesi degli amministratori e rappresentanti locali condannati in primo grado per determinati reati. E pensare che la Severino ha retto a tutti i vagli della Consulta.

C’è poi il referendum che si potrebbe ribattezzare “liberi tutti”: si chiede la cancellazione della possibilità di arresto per un reato a “caso”, il finanziamento illecito ai partiti, ma anche per altri reati che prevedono la reclusione “non inferiore nel massimo a cinque anni”, a meno che non ricorra il pericolo di fuga o di inquinamento delle prove. Sparisce quindi il pericolo di reiterazione del reato. “C’è da rimettersi solo alla saggezza dei cittadini”, osserva Nello Rossi, ex avvocato generale della Cassazione, “sperando che, se voteranno sì all’abrogazione, non imprechino poi contro giudici e pm se i truffatori seriali, gli hacker e i bancarottieri resteranno liberi e in azione sino alle condanne definitive”. Infine, dichiarato inammissibile il referendum sulle droghe perché, ha spiegato Amato “non era sulla cannabis, ma sulle sostanze stupefacenti. Si faceva riferimento a sostanze con papavero, coca, le cosiddette droghe pesanti. E questo era sufficiente a farci violare obblighi internazionali”.

Balle Pulite

Breve antologia delle migliori scemenze sui 30 anni di Mani Pulite.

“Mani Pulite svelò la corruzione, ma non la risolse” (Francesco Merlo, Repubblica). È il lodo Merlo-Senaldi: i giudici non devono processare i reati già commessi, ma quelli che verranno.

“Una storia di eccessi: troppi reati, troppo carcere, troppi accanimenti” (Merlo, ibidem). E quale sarebbe il numero perfetto dei reati e degli arresti, per evitare l’accanimento?

“Troppa complicità tra Pm e giornalisti. Ci portiamo dietro un finto giornalismo che spaccia per scoop i verbali di questura” (Merlo, ibidem). Si chiama cronaca giudiziaria, su cui campò per 30 anni Repubblica prima di mettersi in casa i Merlo.

“Cagliari, presidente Eni, si suicidò in prigione nel 134° giorno di quella carcerazione preventiva di cui, dopo 30 anni, in Italia si continua ad abusare” (Merlo, ibidem). Poi la vedova andò in Svizzera, svuotò il conto del martire, tornò con 13 miliardi di lire e li restituì all’Eni, ma questo è meglio non dirlo.

“Produsse negli indagati paura di essere arrestati e messi alla gogna, con la confessione come unica via d’uscita” (Marco Imarisio, Corriere). Quindi confessavano reati mai commessi e restituivano miliardi mai rubati. Furbi, loro.

“Tra i patteggiamenti si nascosero colpevoli ma anche innocenti che vollero solo uscire di scena e di galera preventiva” (Filippo Facci, Libero). Che volpi: concordavano anni di carcere senz’aver fatto nulla per uscire dalla galera preventiva ed entrare in quella definitiva. O forse erano innocenti, ma non lo sapevano: l’hanno scoperto da Facci.

“30 anni fa il golpe dei pm. Ora comandano loro. La politica si è arresa senza condizioni” (Piero Sansonetti, Riformista). Ora ci sono persino dei politici che non rubano: vergogna.

“Mani Pulite ha indebolito la Giustizia… Il bilancio di questi 30 anni è fallimentare” (Carlo Nordio, Messaggero). In effetti c’era pure un pm a Venezia che non ne azzeccava una.

“Ripristinare l’art. 68 della Costituzione come fu pensato nel 1947” (rag. Claudio Cerasa, Foglio). Cioè com’è adesso: uno scudo contro eventuali processi ai parlamentari per le loro idee, non per i loro furti.

“Azione politica per defenestrare cinque partiti, tutti di centrodestra. Poi arrivò mio fratello” (Paolo Berlusconi, Giornale). E lui, l’altro fratello, già arrestato (e poi tre volte condannato) per gravi reati, cominciò a finir dentro pure al posto suo.

“Ora i partiti smettano di candidare magistrati” (Luciano Violante, magistrato eletto deputato nel Pci, Pds, Ds dal 1979 al 2008, Giornale). A saperlo prima, ci risparmiavamo pure Violante.

Lega A, flop di Bonomi: la fumata ancora nera

Non ce l’ha fatta, almeno per il momento, Carlo Bonomi. L’assemblea della Lega di Serie A che avrebbe dovuto eleggere il nuovo presidente si è conclusa con una fumata nera. Nel corso della seconda votazione di ieri mattina ci sono state 19 schede bianche e 1 voto per il presidente di Confindustria. Il quorum per essere eletto era di 14 voti. Dalla prossima votazione per designare il presidente che dovrà succedere al dimissionario Paolo Del Pino basterà la maggioranza semplice (11 voti). “Carlo Bonomi? Non l’abbiamo bruciato, in realtà non doveva essere nemmeno votato nell’elezione di oggi”, ha commentato l’amministratore delegato dell’Inter, Giuseppe Marotta.

Sofia, “Argento vivo”: corpo di cristallo e testa d’acciaio

La fenomenale medaglia d’argento di Sofia Goggia nella discesa libera delle Olimpiadi di Pechino non è un miracolo, è di più. È il trionfo del coraggio. Della irriducibilità. È il teatro della vita. Palpiti di sofferenza e splendore di chi la supera, senza cedere allo scoramento e alla sfiducia in se stessi.

Pare la trama di uno di quei film a lieto fine, tanto cari a Hollywood e a Netflix: “La scelta di Sofia”. Tornare alle gare, dopo appena 23 giorni dal terribile incidente del 23 gennaio durante il SuperG di Cortina d’Ampezzo. Non importa che abbia perso l’oro per un soffio, appena 16 centesimi di secondo: ha sfiorato l’impossibile. È salita sul podio, insieme a un’altra italiana. Un trionfo. Un recupero prodigioso: merito dell’inflessibile determinazione di Sofia (più coraggio, più l’incoscienza degli audaci), ma anche dell’altissimo livello raggiunto dall’eccellenza traumatologica italiana. Questo il plot: ginocchia di cristallo. Volontà d’acciaio.

Eppure, entrando alla clinica Madonnina di Milano il 24 gennaio, Goggia ha parole intrise di sconforto: “Non posso che accettare il piano che Dio ha per me”. L’infortunio alla vigilia dei Giochi di Pechino è una beffa atroce per la dominatrice assoluta della discesa libera femminile. Altro che piano, l’enigmatico Signore le ha fatto uno sgambetto da cartellino rosso. Il bollettino medico è impietoso: violento trauma distorsivo al ginocchio sinistro (con parziale lesione del legamento crociato già operato nel 2013), piccola frattura del perone accompagnata da sofferenza muscolo-tendinea, tanto per non farsi mancar nulla. È la Roberto Baggio dello sci azzurro, flagellata come il Divin Codino da infortuni vigliacchi.

Ma Sofia, come Baggio o Baresi o Fausto Coppi, che conviveva coi dolori causati dalla sua fragilità, si chiama anche Anna e soprattutto Vittoria e in questo suo terzo nome sta scritta la traccia del destino. Cade, si rompe, si rialza e riprende a sciare come una freccia: è il suo mantra. Ed è la ragione profonda della sua popolarità. Dimostrare che si può reagire al male che incombe su tutti noi. Da bergamasca, ha vissuto la tragedia della pandemia che nelle sue terre ha decimato paesi e valli. Ha dedicato le vittorie alle vittime del Covid, ai sopravvissuti. Ai coetanei ha dato segnali di speranza. Di rivincita.

Perché Sofia Goggia da Bergamo, nata il 15 novembre 1992 sotto il formidabile segno dello Scorpione, è una donna irriducibile, indomita, coraggiosa: allenata alle sventure, programma le resurrezioni. Riassesta la macchina, e torna a vincere. Per questo piace Sofia: ci sprona a imitarla. Lo fa senza spocchia. Non se la tira. Si racconta. Si confessa. Rivela i suoi punti di forza, come quelli delle sue debolezze. È la fidanzata ideale d’Italia, in America l’avrebbero già ribattezzata così. Non si piange addosso. Consapevole che il successo dipende da tante circostanze, dal benessere familiare all’immenso talento con gli sci. Ma il talento da solo non basta a forgiare una fuoriclasse, non è figlio del caso. È conquista di infiniti sacrifici, se vuoi essere la migliore del mondo, a dispetto della via crucis disseminata di distorsioni, ginocchia lesionate, fratture.

La sua è forza più morale che fisica. Fuori pista è fuori da ogni stereotipo: mai banale, generosa, autoanalitica. Conosce luci e tenebre. Chiunque altro avrebbe appeso gli sci al chiodo: ha già vinto l’Olimpiade del 2018, due Coppe del mondo in discesa libera, due Mondiali e tanto altro. Lei, invece, non molla. Ha dentro di sé l’aria del dovere.

Ieri, con la sua discesa quasi perfetta nonostante la sofferenza addosso, è diventata un simbolo. Il primo a capirlo è stato il presidente Mattarella, che le ha inviato un messaggio. E lei, in risposta: “Scusa pres, avrei voluto portarti un oro, ma sarà per la prossima volta”.

Il film-omaggio di Paolo al fratello Vittorio (Taviani) viaggia con le ceneri di Pirandello e sogna l’Orso

Due film in uno. Come se in Paolo Taviani si fosse incorporato il compianto Vittorio in un unisono ancor più emblematico. Perché Leonora Addio, naturalmente dedicato al fratello con un cartello scritto a mano come incipit, è emblematicamente un film sull’elaborazione del lutto, a doppio e pirandelliano livello.

“Vittorio è qui con me, lo è sempre stato. Lo sentivo dietro le spalle mentre giravo questo film di cui forse sarebbe stato molto contento. Alla fine di ogni scena mi voltavo sul fianco cercando spontaneamente la sua approvazione: anche senza vederlo lui c’era”, è il primo commento commosso del fratello 90enne.

In uscita domani per 01 Distribution, Leonora Addio è l’unico concorrente italiano alla 72esima Berlinale, già vinta dai fratelli Taviani nel 2012 con Cesare deve morire, ed è un film “tutto vero e tutto finto” per dirla con l’arguzia del cineasta toscano in un’espressione che tanto sarebbe piaciuta a Pirandello, colui da cui tutto parte e tutto torna, dal titolo all’ultimo fotogramma di questo “doppio film” epico e comico, tragico e beffardo. Complesso, visionario, metafisico e imprevedibile, Leonora Addio è, dopo Kaos del 1984 e Tu ridi del 1998, il terzo adattamento/omaggio a Pirandello di Taviani, ma è anche quello più compenetrato dal senso “pirandellesco” della vita che sfugge alla ragione per sostanziarsi di misteri buffi, tempi morti, personaggi teneri e folli.

“L’idea di Leonora Addio è nata appena dopo l’uscita di Kaos” spiega Paolo Taviani. “Volevamo aggiungervi un episodio sull’odissea straordinaria quanto incredibile delle ceneri di Pirandello, una vicenda così folle che sembrava uscita dalla sua penna. Ma i soldi erano finiti”. Dopo quasi quarant’anni il desiderio era rimasto intatto, anzi accresciuto dalla volontà di una dedica fraterna. “Mi ci sono tuffato. Ne è uscito il racconto fatto di verità che appartengono a me, a Vittorio, a Pirandello, così come alla Storia e alla fantasia”.

Il film, dunque, parte con il racconto del viaggio delle ceneri del genio di Girgenti e si chiude con la novella Il chiodo, scritta da Pirandello 20 giorni prima di morire nel dicembre 1936. Sorta di road movie della durata di 26 anni, la narrazione del trasporto dell’urna funeraria sembra un sogno arrivato dalla Luna: in un vitalissimo bianco&nero, interpretato da un intenso Fabrizio Ferracane, si mescola alle memorie personali e universali di quel tempo fascista e bellico. Per rievocarle Taviani si è affidato a spezzoni del grande cinema neorealista laddove “vibra la verità che Vittorio e io abbiamo vissuto. Ho rivisto la mia giovinezza nello sguardo di Visconti, Rossellini, Lizzani, De Sica… Ho compreso ancora una volta la ragione per cui abbiamo scelto di fare il cinema”.

Il cromatico passaggio a Il chiodo assume invece l’energia passionale di Marte: il Bastianeddu di Kaos diventa il ragazzino killer emigrato a Brooklyn penetrando così l’ultima novella di Pirandello, tra le più misteriose della sua sterminata produzione letteraria. Su soggetto impostato con Vittorio, Il chiodo vibra di surrealismo. “ Ho affondato il coltello nella follia orrorifica ancor più di quanto fece Pirandello” sottolinea Taviani, chiudendo la sua immaginifica parabola dove l’aveva iniziata, cioè a teatro. “Del resto il teatro è vita: lì tutto inizia e tutto si chiude”. Applausi.

“Marguerite disprezzata, derisa e schizzata di fango per strada”

I suoi capelli erano rossi, trattenuti da un pettine di corno bianco. Era grossa e malfatta. Quanto all’abito, non lo si vedeva punto, poiché un pezzo di tela bucata color scuro l’avvolgeva fino alle ginocchia; poi l’occhio, scendendo fino a terra incontrava un polpaccio massiccio e malfatto, avvolto da una calza rosa, e piedi informi stretti in un paio di scarponi di cuoio spesso e spaccato. Sulla testa non aveva che una cuffia di garza con dei nastri rosa e qualche fiore appassito che ricadeva sulle sue gote pallide e sulla sua mascella sdentata… Marguerite più di una volta aveva invocato, con voce roca e impastata di lacrime, la generosità della gente che sfilava davanti a loro, quando una carrozza scintillante trainata da due cavalli bianchi passò vicino e schizzò del fango. Il mantello e le calze rosa di Marguerite ne furono ricoperti… Poi le lacrime… A quel punto fu in preda a una sorta di fantasticheria bizzarra e straziante: si immaginava circondata da carrozze che le gettavano fango addosso, si vedeva fischiata, disprezzata, schernita; vedeva i suoi bambini morire di fame al suo fianco, suo marito impazzire. Allora tutti i suoi ricordi le ritornarono alla mente: il suo letto d’ospedale, la suora che la curava, le botte che Pedrillo le aveva dato la sera prima, l’accoglienza che il marito le aveva riservato al ritorno… Non dormiva ma sognava, e gli occhi spargevano lacrime calde che le cadevano sulle mani… Ben presto si svegliò di soprassalto… L’abbigliamento bizzarro, le calze rosa e il mantello bucato, i fiori appassiti e i suoi capelli rossi, tutto era ridicolo. S’udì una parola sola: “Com’è brutta!” e la gente si dileguò ridendo.

Flaubert a 9 anni scoprì “le orge della fantasia”

All’età di nove anni, con una grafia incerta e qualche errore di grammatica, Gustave Flaubert (1821-1880) suggerisce all’amico Ernest Chevalier: “Se ti fa piacere noi scriveremo insieme, io scriverò commedie e tu i tuoi sogni, e siccome c’è una signora che viene sempre dal papà e ci racconta sciocchezze, io le scriverò”. Qualche giorno dopo, non avendo forse ricevuto risposta, lo sollecita a dirgli se ha piacere di collaborare con lui, e gli confessa di aver iniziato a riempire alcuni cahiers. Sarà solo l’inizio di un “amore, la stessa idea fissa”, che non lo abbandonerà più fino alla morte: la scrittura, la letteratura.

Questa lettera rivela come fin dalla più giovane età vi fosse in Flaubert una duplice tendenza. Afferma infatti durante la composizione di Madame Bovary: “Ci sono in me, letterariamente parlando, due uomini distinti, uno che ha la passione delle sfuriate, dei grandi voli d’aquila, di tutte le sonorità della frase e delle sublimità dell’idea; un altro che scava e fruga il vero quanto più può, che ama mettere in vista il fatto minuto altrettanto potentemente che il grande, che vorrebbe farvi sentire quasi materialmente le cose che riproduce: a costui piace ridere e si diletta nelle animalità dell’uomo”. Da una parte un lirismo innato e fortissimo, un temperamento romantico e appassionato, un amore per il sogno, “lo straordinario, il fantastico”, le tinte forti, per le epoche dimenticate e misteriose, per le “orge dell’immaginazione”. Dall’altra un bisogno di realtà, di vedere e dipingere con precisione, nitidezza, rilievo, la necessità e il desiderio di quel “senso meraviglioso del Vero che abbraccia le cose e gli uomini e li penetra fino all’ultima fibra”. Si parla addirittura di homo duplex e negli intenti artistici di Flaubert bambino si può già notare la primissima associazione di sogno e ironia, che si ritroverà poi in tutte le opere della maturità.

In Italia il maestro di Rouen, considerato il padre del naturalismo francese (benché egli abbia sempre rifiutato di far parte di alcuna scuola) è principalmente conosciuto per i suoi romanzi, in particolare per il suo capolavoro, Madame Bovary, che lo condurrà in tribunale nel 1857 con le accuse di “oltraggio alla morale, ai buoni costumi e alla religione” (da cui sarà assolto). Eppure Flaubert non cominciò a scrivere all’età di trent’anni, quando dopo il fallimento della Tentazione di sant’Antonio, giudicata dagli amici letterati Du Camp e Bouilhet indegna di essere data alle stampe, tornato dal lungo periplo in Oriente inizierà la stesura di Madame Bovary, ma appunto da bambino. Tra i nove anni e la prima stesura della Tentazione sperimenterà tutti i generi letterari più in voga all’epoca (drammi, racconti storici, filosofici, pagine autobiografiche), ma sceglierà di lasciarli in un cassetto da cui la nipote Caroline, dopo la sua morte, li tirerà fuori e li pubblicherà (ora sono tutti raccolti nel primo volume delle sue œuvre complètes per le edizioni Gallimard, nella collana della Pléiade).

Si tratta di testi interessantissimi non tanto dal punto di vista dello stile, per il quale Flaubert nutriva una vera e propria ossessione, considerandolo “una maniera assoluta di vedere le cose”, ma dal punto di vista della precoce e fertilissima vocazione alla scrittura, nonché di un’immaginazione debordante. Due di questi testi, in parte inediti, a giorni in libreria per le edizioni Nino Aragno, sono la testimonianza della “buona vena di delirio ed esaltazione” che pervadeva il giovane scrittore, il quale in poco tempo riuscì a comporre un’opera di ampio respiro a soli quattordici anni: Un parfum à sentir ou Les Baladins (“Un profumo da sentire o I Saltimbanchi”). Egli stesso deve essersi reso conto del valore di questo lavoro, che definì “strano, bizzarro, incomprensibile”, perché lo qualificò non come un racconto, ma come un vero e proprio livre.

Les Baladins è inoltre un testo imprescindibile perché contiene, all’interno della produzione dell’autore, la prima protagonista femminile (di nome Marguerite) che sceglie la morte volontaria, come vent’anni dopo la sua petite femme, nota universalmente: Emma Bovary.

Il video pro Eni e quel dialogo che neanche l’Eni ha usato

Il video in cui l’ex dirigente Eni, Vincenzo Armanna, nel 2014, due giorni prima di presentarsi in procura a Milano, annuncia a Piero Amara, all’epoca pagatissimo avvocato esterno dell’ente petrolifero, che su Eni arriverà “una valanga di merda”, è stato trasmesso nell’ultima puntata di Non è l’Arena su La7. Il filmato viene ritrovato dai carabinieri di Torino nel 2015 e trasmesso alla Procura di Roma che nel 2017 lo invia ai colleghi di Milano. Nel processo fa ingresso soltanto nel luglio 2019 quando, per il controesame di Armanna, il tribunale lo acquisisce dall’avvocato di un dirigente Eni. “Perché il video è rimasto nel cassetto tutto questo tempo?” si chiede giustamente Massimo Giletti. La sentenza che ha assolto i vertici dell’Eni dall’accusa di corruzione internazionale accusa il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro di aver nei fatti nascosto questa prova alla difesa di Eni (i due per questo sono indagati a Brescia). Alla domanda di Giletti ne aggiungiamo un’altra: ma se era così importante per la difesa, perché il video non l’ha depositato Eni? “Mai avuto” ha sempre dichiarato la società. Leggiamo ora il contenuto di una mail interna a Eni dell’aprile 2019 – inviata anche al direttore dell’ufficio legale – nella quale si discute del video in questione: “… il contenuto di tale incontro (che si ricava dalla lettura della trascrizione o visione della videoregistrazione) è di natura completamente diversa da quella che Amara cerca ora di accreditare, e punta chiaramente al complice coinvolgimento di Amara e Armanna in attività in danno di Eni”. Ma se Eni non ha il video come può conoscerne il contenuto e affermare che Amara e Armanna si muovono in suo “danno”? Del loro dialogo esiste una trascrizione: Eni sostiene di non aver mai avuto neanche quella. Eppure nel 2018 deposita in procura un audit chiesto alla società Kpmg (anche) sul contenuto di quel file audio-video: dobbiamo desumere che Eni abbia inviato a Kpmg la trascrizione. Ma se la conversazione Amara-Armanna è una prova dirompente a suo vantaggio, perché Eni non la consegna anche al tribunale? Nel video cosa c’è in più: il colore dell’abito di Armanna?

Canalis e lo spot “d’oro” con i soldi della Liguria

Uno spot da 31 secondi, a un costo di 100mila euro, cioè 9.677 euro al secondo. Pagati con soldi pubblici. Tanto è costata Elisabetta Canalis alla Regione Liguria, che l’ha ingaggiata come testimonial per un messaggio promozionale andato in onda durante l’ultimo Festival di Sanremo. Il contratto, stipulato con la Piermia srl (società di Sassari di proprietà della Canalis e della madre Bruna Arru) prevede un altro spot d’oro in autunno, per un totale di 204mila euro. Le cifre sono state rese note ieri dal governatore Giovanni Toti, a seguito di un’interrogazione del consigliere d’opposizione Ferruccio Sansa: “Tutto surreale, la soubrette promuoveva la riviera da Los Angeles – commenta Sansa – Ora sappiamo quanti soldi nostri sono stati spesi”. Per Toti è stato un successo: “È stato visto da 10 milioni di spettatori, una delle campagne pubblicitarie migliori che ricordo nella mia ventennale esperienza di tv commerciali”. La campagna è portata avanti dall’agenzia La mia Liguria, idea dello spin doctor di Toti, Marco Pogliani.