Sala si ricandida, condannato al bis

Dopo una lunga attesa e molte incertezze, Giuseppe Sala ha annunciato la sua candidatura a sindaco di Milano per il secondo mandato. Lo ha fatto nel giorno di Sant’Ambrogio, patrono della città, e con l’ombrello mediatico della Prima della Scala e della consegna degli Ambrogini d’oro.

L’annuncio è arrivato con un video pubblicato su Instagram: “In questi difficili mesi ho avuto modo di riflettere su cosa vuol dire amministrare politicamente la comunità milanese. Una riflessione che si intrecciava con la consapevolezza di sapere e di dover prendere una decisione relativamente alla mia possibile ricandidatura. In più riprese ho sottolineato che volevo essere totalmente sicuro di avere in me le energie fisiche e mentali indispensabili per impegnarmi altri cinque anni. Ora sento che posso, anzi voglio, farlo. È per questo che ho deciso, alla fine di questa lunga riflessione, di ricandidarmi a sindaco di Milano”.

L’annuncio ha rallegrato il segretario del Pd Nicola Zingaretti e i sindaci dem di Bergamo, Giorgio Gori, e di Firenze, Dario Nardella, che con molti altri dem hanno plaudito alla scelta. Non ha dissipato i dubbi di chi aveva visto Sala alla ricerca per mesi di un nuovo ruolo nazionale, manageriale o politico, che non è infine arrivato. Non è però arrivato (almeno per ora) neppure un avversario del centrodestra che abbia speranze di insidiare la sua corsa alla riconferma. Così Sala sembra condannato a fare il bis, malgrado la stanchezza personale e politica che ha più volte lasciato trapelare.

Ieri l’annuncio, senza alcuna consultazione preventiva con i partiti: “Sono fiero di aver potuto guidare Milano in un periodo glorioso per i primi quattro anni e difficilissimo per l’ultimo”, ha detto Sala, rivendicando come successi quattro “fatti”: la “straordinaria crescita” vissuta da Milano, con la sua “attrattività nel mondo”; l’aumento del welfare e della solidarietà; la sua profonda trasformazione urbanistica; la conquista delle Olimpiadi del 2026. Dimenticati altri “fatti”: l’aumento delle disuguaglianze in città, dove i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi; la crescita dell’inquinamento atmosferico; il fallimento della promessa fatta di migliorare le periferie; la crescita del consumo di suolo, con grandi progetti (Ex Expo, Scali ferroviari, San Siro, Piazza d’Armi…): faranno arrivare nei prossimi anni milioni di metri cubi di cemento e consistenti regali agli operatori (Fs, Coima, LendLease, Axa, Milan-Inter…) a cui il sindaco sta concedendo indici d’edificazione più alti di quelli stabiliti dal Piano di governo del territorio. Sono il vero lavoro che Sala sa di dover portare a conclusione.

Open, le motivazioni dei pm: “Milioni a Renzi e non al Pd”

I benefici dell’attività di fundraising della Fondazione Open sono ricaduti non sul Partito democratico, ma “in via esclusiva sulla componente renziana dello stesso e in particolare sui parlamentari” Matteo Renzi, Maria Elena Boschi e Luca Lotti. Non ha alcun dubbio la Procura di Firenze che nei mesi scorsi ha iscritto nel registro degli indagati l’ex premier Renzi, insieme agli ex ministri Lotti e Boschi e all’ex presidente della Fondazione Open Alberto Bianchi, tutti accusati di finanziamento illecito.

Al centro dell’inchiesta ci sono 7,2 milioni di euro di contributi finiti dal 2014 al 2018 nelle casse di quella che era la cassaforte del renzismo e che secondo i magistrati sono stati ricevuti violando la normativa sul finanziamento ai partiti. Per i pm, infatti, la Open non era una Fondazione a se stante, ma era un’articolazione politico-organizzativa della componente renziana del Pd.

Che quei contributi siano serviti quindi per sostenere l’attività politica dei parlamentari, i magistrati lo ribadiscono nelle cinque pagine di motivazioni con le quali hanno rigettato l’istanza dei legali di Renzi e Boschi che chiedevano di trasferire l’indagine altrove, in prima istanza a Roma o, in subordine, a Pistoia o Velletri. Sono tesi che la Procura ha rigettato rispondendo punto per punto alle questioni sollevate dagli avvocati.

I magistrati fiorentini fin da subito hanno quindi chiarito un aspetto molto importante: non stanno indagando solo per finanziamento illecito, bensì stanno lavorando anche su una contestazione più grave, quella di corruzione, il che radica la competenza a Firenze. La corruzione però non viene contestata né a Renzi né a Boschi. “Deve rilevarsi – scrivono i pm – che sebbene non nei confronti degli odierni istanti (Renzi e Boschi, ndr), bensì a carico di altri soggetti indagati del medesimo delitto di finanziamento illecito, dagli atti del procedimento emergono indizi di reità per il più grave delitto di corruzione”. I nomi degli indagati per corruzione però sono al momento coperti dal segreto istruttorio.

Ma al di là della nuova contestazione, i pm non hanno dubbi: anche per il solo finanziamento illecito la competenza è Firenze. In questo caso, scrivono i magistrati, “il reato si è consumato con la ricezione del finanziamento su un conto corrente bancario fiorentino, in assenza di delibera idonea a indicarne specificatamente l’effettiva causale e il soggetto effettivamente percettore”.

Il punto è il solito: la Open, per i pm, era una copertura e quei soldi servivano per sostenere l’attività politica dei renziani.

Nell’atto in cui si rigetta l’istanza di Renzi e Boschi, i pm rispondono punto per punto alle tesi delle difese che hanno sollevato la questione della competenza territoriale. In una delle loro argomentazioni, i legali spiegano che qualora “si riconoscesse pieno credito alla tesi accusatoria, secondo la quale la Open sarebbe un’articolazione del Pd, il beneficiario effettivo dei vantaggi derivanti dall’attività della Fondazione non potrebbe altro che essere” il Partito democratico.

Di conseguenza, “gli effetti della condotta posta in essere dagli indagati si sarebbero prodotti nel luogo dove il partito ha sede”, ossia a Roma e non a Firenze.

Su questo, i pm rispondono: “L’assunto è puramente teorico” perché “smentito dalle acquisizioni investigative secondo cui i beneficiari dell’attività di fundraising sono ricaduti non già sul Partito, ma in via esclusiva sulla componente renziana dello stesso” e in particolare sui parlamentari indagati.

Esclusa Roma, si prova con Pistoia. Secondo i legali la competenza potrebbe essere nell’altra città toscana perché lì si trova la sede legale della Open. Anche questa tesi per i magistrati è smentita dalle indagini già fatte. Le “acquisizioni investigative – scrivono – dimostrano che la sede legale della Fondazione ha avuto un rilievo meramente formale”. Per i pm tutto veniva gestito nell’ufficio dell’avvocato Alberto Bianchi. “Dall’analisi della documentazione sottoposta a sequestro – riporta l’atto – emerge che l’operatività della Open si è svolta presso la sede dello studio professionale di Alberto Bianchi”. È qui, spiegano i magistrati, che “si sono tenute la gran parte delle riunioni del consiglio direttivo (13 su 17), e altri incontri organizzativi”, ma anche dove “sono stati custoditi i libri e le scritture contabili” e dove si “è concretamente realizzata la direzione dell’attività di fundraising e della programmazione dell’attività di impiego dei finanziamenti”.

Sono queste le motivazioni con le quale i magistrati di Firenze hanno chiuso il primo round, stabilendo che l’indagine resta nelle loro mani. Decisione contro la quale i legali degli indagati potrebbero fare ricorso in Cassazione. Ma la partita è tutta da giocare, con un’inchiesta che, anche alla luce del nuovo filone sulla corruzione, potrà riservare altri colpi di scena.

Lamorgese scopre di essere positiva durante il Cdm. Di Maio si autoisola

Appena uscito da Palazzo Chigi un ministro lo sussurra così, sospeso tra uno stanco sarcasmo e la rassegnazione: “Ci mancava solo questo”. Ci mancava solo che alle cinque meno qualcosa della sera di un lunedì gonfio di pioggia e problemi politici, il Covid entrasse in Consiglio dei ministri. E puntuale, eccolo. “Apprendo adesso di essere positiva al coronavirus, avevo fatto il test stamattina”, dice a un tratto Luciana Lamorgese, ministra dell’Interno, 67 anni, originaria di Potenza. Tono e volto sono in apparenza imperturbabili, quelli di chi di crisi ed emergenze ne ha gestite tante nella sua lunga carriera da prefetto. Alcuni dei ministri presenti raccontano che la ministra abbia spiegato: “L’ho appreso da un sito”. Ma l’esito le è stato sicuramente comunicato anche con un messaggio dal suo medico, su WhatsApp.

La certezza è che Lamorgese si alza e lascia la sala, mentre i due ministri dei Cinque Stelle che siedono ai suoi lati, Luigi Di Maio e Alfonso Bonafede, si guardano tra loro. “Sospendiamo i lavori” non può che dire il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Anche lui è, o comunque appare serafico, nonostante una seduta politicamente difficile, incentrata sul Recovery Fund. Pochi minuti dopo Conte riconvoca il Cdm. Ma è questione di pochi giri di lancette. E un po’ prima delle 17.30 il Consiglio dei ministri è definitivamente aggiornato a oggi, in videoconferenza.

Dentro la sala entrano i tecnici, per bonificare tutto come da procedura. Di Maio e Bonafede si mettono in auto-isolamento, mentre oggi gli altri ministri e Conte si sottoporranno ai tamponi di rito. Da Chigi si affrettano a precisare che nel corso della riunione tutti indossavano la mascherina e rispettavano le distanze di sicurezza. “Inoltre nella sala del Consiglio è assicurata costantemente la piena aerazione”, aggiungono. E ovviamente ricordano che il premier si sottopone a continui test, per ovvi motivi precauzionali. Però il Cdm di ieri è stato lungo, con una pausa pranzo poco dopo le 14. E gran parte dei ministri hanno mangiato il cibo arrivato da fuori, ovviamente senza mascherina. “Ma ci siamo divisi in tre sale diverse, non c’è stato alcun assembramento”, assicura un membro di governo. Mentre Conte, precisano da Chigi, “è rimasto sempre al suo posto e a debita distanza dagli altri”. Resta il fatto che il premier e i ministri sono stati per ore in una stessa sala, con una persona positiva. Inevitabile un po’ di apprensione, mentre il premier domani è atteso da un appuntamento delicatissimo come le comunicazioni al Parlamento e il voto sulla risoluzione di maggioranza, in vista della sua partecipazione al Consiglio europeo di giovedì. E va capito se quanto accaduto in Cdm potrà essere d’ostacolo alla sua presenza sia in Parlamento sia in Ue (dove non potrebbe essere sostituito).

Nell’attesa, Di Maio e Bonafede formulano subito “gli auguri di pronta guarigione” a Lamorgese. Anche lei, come molti ministri, si sottopone periodicamente a tamponi. Oltre dieci fino a quello di ieri, tutti molecolari e tutti di esito negativo, spiegano dal Viminale: fino a quello di ieri mattina. “La ministra è totalmente asintomatica” precisano. Da ieri pomeriggio è in isolamento nella sua casa a Roma, dove vive con il marito: medico in pensione, per gli incroci della vita infettivologo. I due figli, grandi, vivono da tempo da soli. “Prima o poi doveva succedere” sospira in serata un altro ministro. Francesco Boccia, ministro degli Affari regionali, era già risultato positivo qualche settimana fa. Però non lo aveva scoperto durante un Cdm. Ma questo è pur sempre il 2020, un anno che non risparmia proprio nessuno.

Ma al Senato i Responsabili salveranno la maggioranza

Sarà che il numero è simbolico, spiritualmente parlando, per definizione. Sarà per pura coincidenza. Ma tant’è, il dettaglio non è sfuggito al ministro dei Rapporti col Parlamento, Federico D’Incà, che in queste ore ha in mano il pallottoliere del Senato: domani, quando in aula si dovrà votare la risoluzione sulla riforma del Mes, conterà il numero tre.

Tre come i “responsabili” di “Cambiamo!” (il gruppo degli ex FI di Giovanni Toti) Gaetano Quagliariello, Paolo Romani e Massimo Berruti che diranno “Sì” staccandosi dal centrodestra. Altri tre voti arriveranno dagli Udc Paola Binetti, Antonio De Poli e Antonio Saccone, che non condividono la sterzata sovranista di Silvio Berlusconi. E infine non mancheranno all’appello i “tre” europeisti Emma Bonino, Matteo Richetti e Gregorio De Falco di “Azione Più Europa” che ieri hanno depositato una risoluzione favorevole. A questi vanno aggiunti i due voti dei senatori a vita Mario Monti ed Elena Cattaneo e il Sì del forzista Andrea Cangini, ma solo se non sarà “decisivo”.

A ogni modo, il calcolo è presto fatto: anche ammettendo 7 defezioni tra i ribelli del M5S, la maggioranza mercoledì al Senato potrà contare su 170 voti contro i 146 delle opposizioni. E visto che non servirà la maggioranza assoluta di 161 ma solo quella semplice, l’obiettivo di battere l’opposizione sembra a portata di mano. Oltre ai “responsabili” del centrodestra, voteranno compattamente per il “sì” 7 autonomisti e 13 del gruppo Misto, tra cui la moglie di Mastella Sandra Lonardo. “Diciamo sì alla modifica della riforma del Mes” dice l’ex M5S De Falco che da capitano diventato famoso per il “Torni a bordo c…” usa una metafora a lui cara: “Se c’è da lanciare un salvagente al governo va bene, ma solo per il Mes”. Anche Quagliariello la spiega così: “Un voto favorevole non implicherebbe entrare in maggioranza”.

Se ieri sera Berlusconi ha spiegato la posizione contraria di FI (“No alla riforma del Mes, Sì ai 37 miliardi”), ad aumentare le probabilità della tenuta del governo c’è anche il fattore “non voto” o astensione: qualche dissidente del M5S, ma anche di FI, potrebbe decidere di non presentarsi o astenersi evitando il voto contrario. Insomma, con o senza i “responsabili”, i numeri ci dovrebbero essere. Ed è per questo che, pur telefonando ai rappresentanti dei cespugli, il ministro D’Incà non ha spinto poi tanto per chiedere di sostenere la maggioranza: “Sarà tranquillo – dice un senatore di vecchia data – e se lo è lui, lo siamo anche noi”.

Renzi e Iv continuano a rompere: puntano ai soldi del Recovery

In Consiglio dei ministri, ecco i renziani che dettano le condizioni sulla vera partita, il Recovery Fund. “Non possiamo accettare la cabina di regia così come ci viene presentata: perché significa commissariare i ministri e i ministeri”. La ministra all’Agricoltura, Teresa Bellanova, è pronta a far saltare il banco per conto di Matteo Renzi. E avverte: “Se dovesse essere inserito un emendamento nella legge di Bilancio, si valuti con attenzione, perché in Parlamento potrebbero mancare i voti”.

Il premier Giuseppe Conte prova a mediare: “La struttura del Recovery va fatta così, altrimenti non riusciremo a realizzare i progetti in tempo. Ma nessuno vuole commissariarvi”. Il Pd pare defilato: ma in realtà questa volta manda avanti l’ex premier. Le perplessità sono molte, ma si possono intanto concentrare su un punto cruciale: la struttura di governance che dovrà gestire i fondi del Recovery Fund appare fatta ad hoc per esautorare il governo. E la posta in gioco si incrocia pericolosamente con le fibrillazioni politiche in vista del voto di domani sulla riforma del Mes. Ieri i 5Stelle sono stati riuniti per ore con i rappresentanti dei dissidenti. E sono convinti di aver fatto scendere a 5-6 i senatori sicuramente contrari, assicurando loro che nella risoluzione di maggioranza sarà scritto chiaramente che la riforma del Mes non verrà approvata se non in una logica di pacchetto con altre riforme, e solo da qui ai prossimi mesi.

Nel frattempo però Renzi lavora con parte del Pd a un nuovo governo, o quantomeno a un Conte ter. Già domani sarà fondamentale capire se in Senato i cosiddetti Responsabili, forzisti o no, saranno necessari per compensare i vuoti nel M5S. Se così fosse, si aprirebbe un problema politico nella maggioranza. E ne sono consapevoli anche al Quirinale, dove ci si chiede ormai se, al di là del voto di mercoledì, non sia il caso di arrivare a una sorta di verifica.

Nell’attesa, i ministri lamentano di aver ricevuto le 125 pagine sul Recovery alle due della notte tra domenica e lunedì, poche ore prima del Cdm. Così ieri la riunione dalle 9 slitta alle 11. E va avanti per oltre cinque ore. Conte illustra i contenuti del Piano. Il ministro degli Affari europei, Vincenzo Amendola, descrive il funzionamento della struttura di governance. Ma ministri “pesanti” del Pd come Lorenzo Guerini e Dario Franceschini vogliono circoscrivere i poteri della cabina di regia, che prevede sei manager per ognuna delle sei linee del Piano, oltre a task force da decine di componenti. In questi giorni c’è stata una vera e propria sollevazione degli alti burocrati di stato. Non a caso, i dem fanno trapelare che i ministri e le strutture dei ministeri saranno centrali per l’attuazione. Ma si discute anche sul “comitato esecutivo”, per ora composto da Conte, Roberto Gualtieri e Stefano Patuanelli: senza Iv. E si tratta sui sei manager. Il sospetto di Pd e Iv è che Conte voglia sceglierli tutti. La tensione è altissima, ma nella maggioranza si cerca una via d’uscita. Far entrare lo stesso Renzi (o la Bellanova) nella struttura di governance, o far scegliere a Iv uno dei manager. Poco si parla dei contenuti del piano, ma il percorso sarà lungo. E infatti si ragiona su un decreto ad hoc, per evitare l’emendamento osteggiato da Iv. Molti dei big dei Cinque Stelle sono convinti che Renzi abbia già deciso di far saltare il banco. “Cerca l’incidente”, sibila un ministro grillino. E l’ex premier con i suoi si tiene aperte tutte le porte.

Convinto che Mattarella non manderà il paese al voto in piena emergenza, lascia intendere che potrebbe aprire la crisi anche prima di gennaio. Da pokerista gioca su più tavoli. E continua a mandare segnali. Ieri in Senato è stata presentata una prima risoluzione da Licheri (M5s), Marcucci (Pd) e De Petris (LeU): “Sentite le comunicazioni del presidente del Consiglio, il Senato le approva”. Ma il renziano Faraone non ha firmato. Fedele alla logica: “No a sì al buio”.

I nuovi Bertinotti

C’era una volta un buon governo di centrosinistra molto più apprezzato dei partiti che lo sostenevano, con un premier onesto e capace e vari ministri coraggiosi e stimati anche all’estero. Portò l’Italia in Europa, riformò la sanità privilegiando il pubblico e non il privato, si oppose alle spinte inciuciste col centrodestra. Ma durò solo due anni. Poi un leader che si credeva il più puro e intransigente del bigoncio lo sfiduciò sventolando la decisiva battaglia per l’orario di lavoro a 35 ore. Il governo cadde alla Camera per un voto, il premier andò a casa, indisponibile ad ammucchiate. E quattro giorni dopo il suo rivale, che fino ad allora giurava “o questo governo o elezioni”, era già pronto a formarne uno nuovo con un plotone di parlamentari eletti col centrodestra. Il premier abbattuto era Romano Prodi, il suo killer Fausto Bertinotti, il successore e utilizzatore finale di cotanta intransigenza Massimo D’Alema, i voltagabbana suoi compagni di strada Mastella e Buttiglione, fondatori con Cossiga della leggendaria Udr. Nato sotto i peggiori auspici, il governo D’Alema si distinse per quattro scelte sciagurate: i bombardamenti sulla Serbia nella guerra del Kosovo, ordinati da Usa e Nato ma senza l’Onu; l’abolizione dell’ergastolo per le stragi; le privatizzazioni di due galline dalle uova d’oro come Autostrade e Telecom, praticamente regalate ai Benetton e ai “capitani coraggiosi” Colaninno, Gnutti e Consorte. Risultato: crollo dei consensi del centrosinistra, caduta di D’Alema dopo un anno e mezzo, nascita del secondo governo Amato e resurrezione di B. Che nel 2001 rivinse le elezioni e tornò al governo come nuovo. Il copione stava per ripetersi nel 2008 ai danni del governo Prodi-2, se le manovre dei compagni Rossi e Turigliatto, anch’essi purissimi e intransigentissimi, non fossero state anticipate dal ritorno di Mastella alla casa del Papi.

Ma domani il bis potrebbe arrivare al Senato con Conte al posto di Prodi, i dissidenti 5Stelle al posto di Bertinotti&C., la risoluzione sul Mes al posto delle 35 ore, pezzi di FI e pulviscoli centristi al posto dell’Udr, la moglie di Mastella al posto di Mastella, Cottarelli o Cassese o un altro tecnico uscito dal cilindro dell’Innominabile e degl’inciucisti Pd al posto di D’Alema e, come utilizzatore finale, il solito centrodestra. Naturalmente, della risoluzione sul Mes che rischia di mandare in mille pezzi M5S e maggioranza, da giovedì se ne sbatteranno tutti allegramente. Così come delle 35 ore non è mai più fregato nulla a nessuno. Ciò che resterà saranno i risultati nefasti della geniale Operazione Morra, Lezzi &C., talmente puri e intransigenti da non vedere al di là del proprio naso.

Cioè da immaginare l’eterogenesi dei fini sempre ottenuta dagli estremisti miopi, vanesii e irresponsabili, altrimenti detti “utili idioti”, che diventano regolarmente i migliori amici dei loro peggiori nemici in cambio di qualche ora di visibilità. Gli effetti di uno scisma a 5Stelle mercoledì al Senato si vedranno già da giovedì e potranno essere soltanto tre. Meglio pensarci prima che pentirsi dopo. Dunque eccoli. 1) I no dei dissidenti bastano a mandar sotto Conte e la maggioranza: così si va a votare in piena pandemia e campagna vaccinale, con la probabilissima mancata ricandidatura dei dissidenti medesimi e l’immancabile vittoria del centrodestra, che si pappa i 209 miliardi del Recovery. 2) Oppure, caduto Conte, nasce un nuovo governo-ammucchiata tecnico che smantella le principali conquiste fatte dai 5Stelle in questi due anni e mezzo e chiede il Mes sanitario: l’unico premier che non voleva chiederlo è andato a casa. 3) I frondisti non bastano a rovesciare Conte, ma fanno da cavallo di Troia al soccorso forzista-centrista, che salva il governo: così la maggioranza muta e si sposta a destra; il rimpasto, oltre al Pd e al Iv, lo chiedono pure i nuovi arrivati; i 5Stelle contano meno di prima e devono ingoiare non solo la riforma del Mes, ma pure l’accesso al Mes sanitario.

In tutti e tre i casi, la riforma del Mes va avanti spedita, visto che non dipende dai dissidenti grillini, ma dall’Unione europea. E non è all’ordine del giorno domani o dopodomani, ma a 2021 inoltrato, quando passerà per i Parlamenti degli Stati membri e tutto può accadere (del resto, un anno fa nessuno avrebbe immaginato una Ue che vara il debito comune con gli eurobond del Recovery). Intanto, finché dura la legislatura, l’Italia non chiederà mai né il Mes sanitario né quello ordinario riformato, che in questo Parlamento non hanno i numeri per passare. Tantopiù che nel 2021 l’Italia inizierà a incassare il Recovery e di tutto avrà bisogno fuorché di un premier azzoppato o ricattato da chi non sa distinguere una risoluzione parlamentare dalla riforma di un trattato e sogna un veto italiano all’Ue senza calcolare le ritorsioni che ci pioverebbero in capo. Già, perché i giochetti di queste teste calde (o vuote) danneggerebbero anzitutto gli italiani. I nuovi Bertinotti e Turigliatto, invece, diventerebbero (anzi già sono) gli idoli dei giornaloni e delle tv Mediaset. I padroni del vapore cercavano giusto un grimaldello per scassinare Palazzo Chigi, introdursi nel caveau del Recovery e levarsi dai piedi i 5Stelle e il loro premier senza lasciarci le impronte digitali. Ma nemmeno loro osavano sognare che, a servirgli il pacco dono su un piatto d’argento, fossero proprio dei 5 Stelle.

Maldestro e strampalato: Beethoven visto dagli amici

Il 19 luglio 1812, alla celebre stazione termale boema di Teplitz accade un incontro epocale: Ludwig van Beethoven si imbatte per la prima volta in Joahnn Wolfgang von Goethe. Il compositore, allora poco più che quarantenne, nutre molta ammirazione per il grande autore. Entrambi hanno già sentito circolare nei rispettivi éntourages il nome dell’altro: lo scrittore di Francoforte sul Meno ha già pubblicato I dolori del giovane Werther (1774), Il Faust (1808) e Le affinità elettive (1809); Ludwig, da par suo, formatosi a Vienna alla scuola di Haydn, si è fatto già conoscere grazie alla Sinfonia n°3 (detta Eroica del 1802) e alla Quinta sinfonia (1808). Di quell’incontro, oltre a molte speculazioni, resta per primo un evento storico che ha fatto scalpore: in quei giorni, durante una passeggiata, i due si trovano faccia a faccia con l’imperatrice d’Austria e, mentre Goethe s’inchina e rende i dovuti omaggi alla nobildonna, Beethoven procede dritto per la sua strada senza né inchinarsi né fermarsi. Lo testimonia con il realismo dei pittori tardo romantici Carl Rohling nel dipinto L’incidente di Teplitz del 1887.

Tuttavia, restano moltissime, e tornan vive soprattutto in occasioni come quest’anno in cui ricorrono a dicembre i duecentocinquant’anni dalla nascita, le storie su Beethoven: che mentisse sull’età (il padre, Johann, musicista mancato, da piccolo gli tolse due anni poiché voleva farne un novello Wunderkind tale e quale a Mozart); che fosse figlio illegittimo di un re di Prussia; che avesse avuto un’infanzia sofferta; che vergognandosi delle origini borghesi abbia fatto di tutto perché il fiammingo “van” diventasse un tedesco “von” (nobiliare); che per i suoi tratti decisi si fosse guadagnato il soprannome “Der Spanier” (lo spagnolo); che la sordità lo abbia colto da giovane; che fosse basso, tracagnotto e sempre imbronciato. A quest’ultima leggenda possiamo credere, se mandiamo a memoria l’iconografia del maestro: su tutte, il ritratto da giovane immusonito e con le gote rosse che ne fa Willibrord Joseph Maelher nel 1804 e il famoso dipinto di Joseph Karl Stieler del 1820 divenuto un santino in cui il compositore – i capelli grigi e mossi, la redingote di velluto nero e la sciarpa rossa – sta scrivendo musica.

Scherzi a parte, dei giorni a Teplitz resta anche ciò che Goethe scrisse dell’incontro: “Non avevo mai incontrato un artista così fortemente concentrato, così energico, così interiore (…) il suo ingegno mi ha stupefatto”, come racconta Incontri con Beethoven a cura di Felix Braun (Il Saggiatore, edizione italiana a cura di Veniero Rizzardi e Benedetta Zucconi, pp. 200, euro 20) che, tra le molte pubblicazioni che fanno gli auguri al compositore, è di un’importanza assoluta, non foss’altro perché ci ricorda che la verità è documentale, cioè storiografica. Ciò che infatti fa il curatore originale, Braun (coevo nella Vienna tra Otto e Novecento di Zweig, Schnitzler e soprattutto di Hugo von Hofmannsthal, di cui fu anche segretario), è rivelare al mondo l’altro volto del titano, attraverso le voci di chi Beethoven lo aveva conosciuto davvero, rovistando nei loro ricordi. Ne sgorga il ritratto, sottolineano Rizzardi e Zucconi, di “un uomo maldestro, perplesso e incline alla disperazione”.

Così, veniamo a sapere che a colloquio con Rossini, dopo avergli dato buca una prima volta, fece una tremenda gaffe: se da un lato si complimentò per Il Barbiere di Siviglia – “un’opera eccellente” e ancora “l’ho letta con piacere e ne ho provato una vera gioia” –, dall’altro gli sconsiglia di cambiare genere, cimentandosi con opere serie, dato che “L’opera seria non è nella natura degli italiani”. In più, ai complimenti che Gioacchino gli tributa, sbuffa e risponde “Oh, un infelice!”. Scopriamo anche che, diciassettenne, si esibì di fronte a Mozart che non apprezzò l’esecuzione per la quale si era preparato ma fu rapito dall’improvvisazione che fece subito dopo su un tema suggerito dal maestro Amadeus, che ad alcuni amici disse: “Tenete d’occhio questo giovane: un giorno farà parlare di sé il mondo”. Diverso, invece, è il parere che ne ebbe Joseph Haydn: lo apprezzò quando gli sottopose i suoi primi lavori, giudicandolo “di grande talento”, tuttavia, nella sua musica c’era qualcosa di oscuro, ma anche di “strampalato”.

Una cosa è certa: la musica di Beethoven non è mai morta. Pensiamo al secolo da poco concluso: negli anni del nazismo, è la sigla delle trasmissioni di Radio Londra; negli anni ’70, mentre Kubrick rende il compositore l’idolo del tossico protagonista di Arancia meccanica, l’Inno alla gioia diventa la sigla dell’eurovisione fino ad arrivare al 2015, quando gli artisti dell’Opera di Magonza lo eseguono per fermare una manifestazione xenofoba delle destre. La musica, dunque, resta e le leggende (fondate o meno) passano, sebbene anche le storie su Beethoven appartengono alla sua storia.

Medio Oriente. I palestinesi tifano Joe Biden: per gli stipendi

L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi ha pagato lo stipendio di 30.000 dipendenti palestinesi in tutto il Medio Oriente il mese di novembre, ma la drammatica carenza di fondi potrebbe ancora ostacolare i pagamenti dicembre, le casse sono vuote. L’Unrwa si trova nel limbo dopo le elezioni statunitensi: il presidente Donald Trump ha interrotto tutti i versamenti Usa all’agenzia (circa 200 milioni di dollari), e adesso i palestinesi sperano che l’amministrazione del presidente eletto Joe Biden riprenda almeno parzialmente i pagamenti, ma questo potrebbe richiedere mesi. L’agenzia aveva annunciato il mese scorso di aver finito i soldi per pagare gli stipendi dopo due anni di tagli da parte degli Usa e di altri donatori, compresi gli stati arabi del Golfo. Adnan Abu Hasna, portavoce dell’Unrwa a Gaza, ha spiegato che i pagamenti degli stipendi di novembre sono stati resi possibili grazie a un prestito di 20 milioni di dollari dall’Onu, 12 milioni in nuove promesse e un anticipo dalla Svezia sul suo contributo per il 2021.

“Il pagamento di dicembre rimane incerto e abbiamo bisogno di 38 milioni di dollari per pagare gli stipendi dei nostri 30.000 dipendenti”, ha detto Abu Hasna intervistato dalla Reuters. L’Unrwa fornisce istruzione, salute e servizi di soccorso a circa 5,7 milioni di rifugiati palestinesi registrati, a Gaza, in Cisgiordania, Gerusalemme est, Libano e Giordania. La scorsa settimana Israele ha consegnato all’Autorità Palestinese un arretrato di un miliardo di shekel. Le tasse sulle merci importate in Cisgiordania sono incassate da Israele che controlla le frontiere, e poi versate mensilmente all’Anp, entrate che costituiscono più della metà del bilancio dell’Autorità Palestinese.

Il trasferimento di 3,77 miliardi di Nis (un miliardo di euro) è il primo da giugno, quando scoppiò la crisi a causa dei piani del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, attualmente sospesi, di annettere parti della Cisgiordania. L’Anp non è stata in grado di pagare una retribuzione piena ai suoi 130.000 dipendenti negli ultimi mesi. Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha annunciato che pagherà gli stipendi pieni una volta ricevuti i soldi delle tasse da Israele.

 

Il nemico n°1 in Francia ora si chiama così: Amazon

Il 4 dicembre è stato giorno di Black Friday in Francia, slittato di una settimana a causa del secondo lockdown. La data è stata rinviata per non penalizzare i negozi di quartiere, “non essenziali”, che hanno riaperto solo il 28 novembre, rispetto ai colossi del digitale. In quest’ultimo mese di lockdown, Amazon è diventato una sorta di nemico pubblico numero uno in Francia. Ma mentre il ministro dell’Economia chiedeva ai francesi di fare “acquisti patriottici” e continuava ad applicare una “tassa Gafa” solo simbolica, il colosso californiano ha portato avanti la sua attività traendo vantaggio dalla stretta sanitaria. Il governo vorrebbe far credere che i “piccoli commercianti” francesi possono, grazie alla magia del “digitale”, mettersi alla pari con il gigante californiano. Ma si sbaglia.

La forza di Amazon si basa anche sulla sua capacità di evadere le tasse e grazie a questo espediente distrugge la concorrenza affermandosi come principale intermediario del commercio francese. Già l’anno scorso l’Ong Attac aveva rivelato che il 57% del fatturato di Amazon in Francia finisce in paradisi fiscali. Oggi Attac pubblica un altro studio che Mediapart ha potuto consultare e che chiarisce la logica predatoria di Amazon e come funziona la frode all’IVA nel mercato dell’e-commerce. In linea di principio, nell’Unione Europea, l’IVA, l’imposta che genera le maggiori entrate pubbliche (circa 126 miliardi di euro), deve essere versata nel paese di destinazione della merce venduta. Amazon, la cui sede è formalmente basata in Lussemburgo, deve quindi versare in Francia l’IVA legata alle vendite effettuate in Francia. Ma Amazon è anche una piattaforma di mercato in cui venditori di tutto il mondo si rivolgono a clienti francesi. Nel caso di venditori di paesi extra Ue, la legge prevede che questi debbano registrarsi nel paese di destinazione per pagare l’IVA quando le vendite superano i 35.000 euro tasse escluse all’anno. La registrazione è obbligatoria sin dalla prima vendita effettuata e quando il prodotto transita in un magazzino francese. È il caso della grande maggioranza dei prodotti venduti e spediti da Amazon. Lo studio di Attac, che si basa su un rapporto dell’Ispettorato generale delle finanze (IGF) del 2019, ricorda che il 98% dei venditori esteri attivi sulle piattaforme non era registrato in Francia e che quindi non versava l’IVA. Se questo obbligo non viene mai o quasi mai rispettato nell’e-commerce, è perché è molto difficile da accertare, dato l’enorme flusso di transazioni generato da queste piattaforme. L’IGF ha dunque stimato che solo 538 venditori su 24.459 erano registrati al 31 dicembre 2019! Calcolare l’ammontare delle perdite per le finanze pubbliche è piuttosto complicato. Attac ha realizzato tre analisi che Raphaël Pradeau, portavoce dell’Ong, definisce “prudenti”. La prima utilizza il cosiddetto approccio “top-down” che consiste nell’applicare all’e-commerce l’aliquota complessiva delle perdite legate all’IVA. Il risultato è una cifra compresa tra 790 milioni e 1,2 miliardi di euro. Ma si tratta di un dato “minimo” poiché, come abbiamo visto, la frode all’IVA è una pratica molto più diffusa in questo settore. Il secondo approccio, detto “misto”, parte dalla proporzione dell’attività di mercato nell’attività globale dei principali attori di e-commerce. Secondo la Corte dei conti, questa proporzione è in media del 29% (ma il dato raggiunge il 60% per Amazon). Questo metodo permette di stimare una frode di 1,1 miliardi di euro. Anche in questo caso, secondo Attac, si tratta di un dato “minimo”. L’ultimo approccio, detto “bottom up”, potrebbe essere il più vicino alla realtà. Esso consiste nell’estrapolare a partire dai dati del controllo fiscale resi pubblici dalla Corte dei Conti.

Con questo metodo si perviene a una cifra compresa tra 2,6 e 5,98 miliardi di euro di gettito fiscale perso all’anno. Ma, secondo Attac, di fronte alla natura sistematica delle frodi all’IVA dei venditori extra-UE, il dato più realistico si situa sulla fascia alta, tra 4 e 5 miliardi di euro. Questi importi non sono trascurabili. “Grazie a questa frode, esiste un’evidente distorsione della concorrenza che il rapporto dell’IGF aveva già evidenziato lo scorso anno”, sottolinea Raphaël Pradeau. Dal momento che una parte dei venditori presenti sul mercato non adempia ai suoi obblighi, è facile per loro applicare prezzi molto competitivi e quindi escludere la concorrenza europea e nazionale che invece gli obblighi li rispetta. Di conseguenza le piattaforme di e-commerce, a cominciare da Amazon, guadagnano quote di mercato. Il gigante del digitale, che negli ultimi giorni ha preso pubblicamente la difesa delle piccole e medie imprese francesi, giocava in realtà in loro sfavore. “Che Amazon ne sia consapevole o no, trae profitto da questa frode”, ha continuato Pradeau. Lo studio di Attac osserva da vicino il caso di Amazon. Il colosso californiano rappresenta circa il 30% del mercato di “marketplace” in Francia e, secondo un sondaggio della Federazione delle aziende della vendita a distanza, il 63,5% dei consumatori che hanno fatto ricorso ai marketplace hanno acquistato almeno una volta su Amazon. E il marketplace rappresenta il 65% del volume di attività del gigante, un dato considerevole che aiuta a rendersi conto dell’importanza della frode all’IVA per il modello economico del gruppo. Attac stima dunque che il deficit in termini di gettito fiscale per lo Stato, direttamente collegato ad Amazon, ammonta al miliardo di euro. Per Amazon “l’elusione fiscale è sistemica”. Essa è anzi la base stessa del suo potere. La legislazione Ue dovrebbe presto evolvere. A partire da luglio 2021, le piattaforme saranno considerate corresponsabili del pagamento dell’IVA da parte dei loro venditori. Ma questa direttiva, rinviata di sei mesi a causa del Covid “non darà piena responsabilità al marketplace”, sottolinea lo studio di Attac. Le piattaforme potranno farla franca escludendo il venditore che potrà poi ricomparire sotto altro nome. Raphaël Pradeau sottolinea che, perché la normativa venga rispettata, si dovrebbero effettuare controlli regolari. Ma la mancanza di risorse da parte della Direzione generale delle finanze pubbliche è lampante: 2.000 posti di lavoro sono stati soppressi nel 2020 e la nuova legge finanziaria prevede di tagliarne ancora più di 2.100 nel 2021. “Si può ipotizzare che di fronte a regole più dure ci saranno anche meno nuove frodi. Ma la frode già esistente persisterà”, conclude Pradeau. Attac propone di richiedere il rimborso delle somme non versate alle finanze pubbliche e un inasprimento della normativa sul modello tedesco.

Per poter vendere su Amazon, la Germania impone infatti un certificato di IVA, su cui deve figurare il numero di identificazione fiscale nel paese, e il prelievo alla fonte dell’IVA, richiesta sin dal 2015 da un rapporto parlamentare. Insomma, le soluzioni esistono, manca solo la volontà. Il primo passo per rimediare a questa situazione potrebbe essere di creare un’imposta eccezionale sui marketplace per finanziare i “fondi di solidarietà” istituiti per aiutare le aziende e gli autonomi a far fronte alla crisi economica attuale. Idea che si basa sulla constatazione che le piattaforme di e-commerce hanno di fatto tratto vantaggio dalle misure sanitarie restrittive attuali, che invece hanno indebolito i commerci fisici, che ora devono rimettersi agli aiuti dello Stato. Dal momento che lo Stato in più perde delle entrate fiscali con il settore, un meccanismo di solidarietà, come sottolinea Attac, è ancora di più giustificato. Diversi progetti di legge che vanno in questa direzione sono stati presentati sia dalla sinistra che dalla destra in Francia. Per ora senza risultato. Eppure la lotta contro la frode di Amazon e delle altre piattaforme dovrebbe essere sistematica per poter attaccare le basi stesse del colosso Amazon, un’azienda predatrice che approfitta delle debolezze delle altre aziende e degli Stato per rendersi indispensabile e dettare le condizioni. La sfida della lotta alla frode all’Iva è innanzitutto una sfida politica.

(Traduzione di Luana De Micco)

Idrogeno. Quello verde è un miraggio ma la lobby conquista. Bruxelles tra mega spese e porte girevoli

L’ultimo annuncio è del 2 dicembre scorso. Eni ed Enel, le due corazzate di Stato dell’energia, hanno fatto sapere di essere al lavoro su un paio di progetti per sviluppare in Italia idrogeno verde, quello prodotto attraverso elettrolizzatori alimentati da energia rinnovabile. Da qualche mese la campagna pubblicitaria in Europa è diventata incessante: nonostante l’idrogeno prodotto da fonti rinnovabili al momento sia solo lo 0,1% del totale (dato del Fuel Cells and Hydrogen Observatory), politici e compagnie energetiche tendono a descriverlo come la panacea di tutti i mali, il combustibile che permetterà di avere energia per tutti. Tanta e pulita. La realtà è che dietro la lobby che a Bruxelles sta spingendo per fare dell’idrogeno la colonna portante dei piani energetici del futuro ci sono le compagnie dell’oil&gas, le stesse che dominano il settore da decenni, e che con i loro prodotti sono i principali responsabili della crisi climatica in corso. Lo dimostra, con numeri e fatti, un rapporto pubblicato oggi da tre ong: Corporate Europe Observatory, Food and Water Europe e l’italiana Re:Common.

Basato su 200 documenti ottenuti presso le istituzioni europee, il report fornisce alcuni dati inediti. Partiamo dai soldi. Le tre ong hanno scoperto che la lobby dell’idrogeno dichiara di spendere annualmente 58,6 milioni di euro per influenzare le politiche energetiche europee. Le associazioni principali che fanno lobby in Ue a favore dell’idrogeno si chiamano Hydrogen Europe e Hydrogen Council. Entrambe hanno al loro interno rappresentanti di multinazionali che producono gas come la norvegese Equinor e l’olandese Gasunie. Il motivo è semplice: per produrre idrogeno ci vuole energia, e la fonte più economica per farlo oggi non è il sole né il vento, ma il metano. Un gas serra molto più inquinante dell’anidride carbonica. Secondo il rapporto delle tre ong, un’altra prova del greenwashing in corso sull’idrogeno sta in un nome: FTI. È la società di comunicazione che segue le attività di Hydrogen Europe e Hydrogen Council. Ed è la stessa che ha gestito campagne pubblicitarie recenti a favore delle aziende petrolifere negli Stati Uniti, accusata da più parti di creare disinformazione sui danni creati da gas e petrolio.

Infine, ci sono le porte girevoli, quelle attraverso cui alcuni uomini delle istituzioni europee sono approdati alla corte di gruppi privati che spingono verso un futuro alimentato da idrogeno prodotto con il gas. Il rapporto delle tre ong cita due casi. L’8 ottobre di quest’anno, Klaus Dieter-Borchardt, dopo 20 anni alla Commissione europea, ha lasciato il posto di vice direttore generale per l’Energia per passare alla Baker McKenzie, uno studio legale internazionale molto attivo sul nuovo business dell’idrogeno. Ad aspettarlo Dieter-Borchardt ha trovato Christopher Jones, suo predecessore alla direzione generale Energia della Commissione, oggi capo del Team Hydrogen di Baker McKenzie. Due cambi di casacca che indicano chiaramente da che parte va il vento a Bruxelles.