Accentrare i servizi pubblici non è sempre la scelta migliore

“Il problema della “giusta scala amministrativa” (Stato, regione, provincia, comune, quartiere) ovviamente non ha soluzioni univoche. Per ogni problema e per ogni contesto la soluzione efficiente può essere diversa. Ma precisiamo subito che per eventi epocali, quale la presente pandemia, non c’è dubbio che il massimo centralismo decisionale è assolutamente necessario. E precisiamo anche che i comportamenti di molti amministratori regionali (non tutti) sono stati nei decenni passati molto discutibili, o peggio. Si son fatti la peggior pubblicità possibile. Ma per una serie di settori di interesse pubblico emerge una indicazione tecnica abbastanza univoca: la quantità di informazioni gestibili efficacemente e le capacità decisionali che ne conseguono. Questo criterio, di derivazione regolatoria, può forse guidare l’assetto geografico-amministrativo migliore. La scala regionale da questo punto di vista può essere molto ragionevole. Roma certo non può raccogliere ed elaborare grandi flussi di informazioni, né elaborarle per prendere decisioni in tempi ragionevoli su problemi locali. Province e comuni presentano rilevanti problemi di diseconomie di scala, se non per le aree metropolitane maggiori, e spesso le loro dimensioni amministrative sono diventate anacronistiche.

Ma vi è un secondo aspetto, non meno rilevante, che concerne gli incentivi all’efficienza e alla responsabilizzazione. Oggi tali incentivi sono del tutto assenti, lo Stato interviene sempre ed ovunque come “pagatore in ultima istanza” (residual claimant), per cui gli incentivi all’efficienza per i politici locali sono debolissimi. Da qui, il malgoverno delle risorse pubbliche è una conseguenza quasi automatica. Se una amministrazione regionale, oggi priva di una seria autonomia fiscale, spende male i soldi, può sempre dire agli elettori che lo Stato non glie ne ha dati abbastanza, che è discriminata per ragioni politico-partitiche ecc.. Certo l’autonomia fiscale e la conseguente autonomia nella spesa devono essere annualmente precedute da dei trasferimenti di soldi pubblici tali da perequare le “condizioni di partenza” tra regioni ricche e regioni povere. Oggi prevale un atteggiamento perequativo basato su standard di servizi, invece che sulle risorse allocate: ma questo non incentiva l’efficienza, ed ignora il fatto che le priorità sociali possono legittimamente differire tra regione e regione, all’interno di un meccanismo democratico informato.

E vi è un terzo aspetto, strettamente politico, ma anch’esso riferibile al problema delle informazioni. La valutazione delle promesse dei politici a livello nazionale è problematica: tutti possono promettere tutto, contando proprio sull’impossibilità che gli elettori si ricordino e possano controllare risultati reali. A livello regionale le promesse sono molto più controllabili dai cittadini, come molto più semplice è ottenere le informazioni sui risultati ottenuti.

Ma vediamo un esempio concreto della distorsione operata dall’irresponsabilità finanziaria nei comportamenti regionali: la vicenda delle risorse per i trasporti pubblici (Tpl). Chi scrive era allora consulente ministeriale sulle tematiche dei trasporti.

La Lega di Bossi già alla fine degli anni 90 aveva fatto fortissime pressioni per ottenere l’autonomia regionale nel Tpl, estesa anche all’uso delle risorse provenienti dall’amministrazione centrale. La ottenne. Il governo centrale stabilì quanti soldi dare a ogni regione (in base ad alcuni semplici parametri) e le regioni mostrarono molta soddisfazione per l’autonomia ottenuta. Poi però successe, come è normale per ogni settore, che vi furono tensioni sindacali e scioperi, nazionali e locali, per il rinnovo dei contratti di lavoro ecc..

Ovviamente questo ebbe conseguenze anche sugli utenti, a volte assai pesanti.

Allora gli amministratori regionali si accorsero che l’acquisita libertà gli costava cara in termini di consenso, e decisero che “si stava meglio quando si stava peggio”, e chiesero e ottennero che l’allocazione delle risorse ritornasse a Roma. Il meccanismo era chiarissimo: in questo modo potevano dar colpa all’amministrazione statale, dicendo ai dipendenti “io per me vi raddoppierei gli stipendi, ma Roma non mi dà abbastanza soldi”, e lo stesso argomento funzionava benissimo anche per gli utenti che rimanevano a piedi.

Il risultato finale di questo secondo, rapido cedimento dello Stato centrale alle pressioni locali sembra essere stato davvero poco difendibile: oggi in Italia abbiamo servizi mediocri, ma costi di produzione tra i più alti d’Europa, e tariffe tra le più basse. Non certo un risultato efficiente, ma politicamente molto gradito.

Sgravi “artistici”: l’ArtBonus premia il Nord e i privati

Cè la Scala di Milano che in cinque anni ha raccolto 114 milioni di euro per il sostegno alle proprie attività su 133 previsti, e c’è il Comune di Oristano che chiedeva solo 19 mila euro per il restauro della medievale Torre di Portixedda, ma ne ha raccolti zero. C’è l’Arena di Verona, che tra restauri dell’anfiteatro e sostegno alle attività ha raccolto tutti i 21 milioni preventivati e poi c’è il Comune di Napoli che per il restauro del settecentesco Real Albergo dei Poveri (un progetto da 3 milioni e mezzo di euro) ha raccolto dal 2016 a oggi solo 5 euro.

L’ArtBonus, lo strumento ideato dal Ministero dei beni culturali e del Turismo (MiBACT) nel 2014 per favorire le donazioni private al patrimonio culturale pubblico, compie cinque anni con quasi 500 milioni di euro raccolti. Potenzialmente è uno strumento straordinario, ma i numeri dicono che sta favorendo soggetti che spesso hanno più facilità anche nel raccogliere fondi in altre maniere: dai crowdfunding ai biglietti, alle sponsorizzazioni. La sfida tra diversi enti e diversi territori appare impari e destinata ad accrescere le diseguaglianze.

Introdotto per decreto, l’ArtBonus garantisce un credito d’imposta del 65% a chi doni a un’istituzione culturale pubblica. È gestito da Ales, società privata partecipata al 100% dal Ministero dei Beni Culturali, e permette di elargire per “interventi di restauro, protezione e manutenzione” nel caso di beni culturali materiali, e per “interventi di sostegno all’attività” nel caso di teatri e festival. Per accedere al bonus, l’istituzione redige un progetto e sulla base di quello raccoglie i fondi.

Sono stati raccolti quasi 500 milioni, ma in cinque anni il problema appare sempre lo stesso: le donazioni si concentrano su pochissimi territori e beni culturali. Arrivano per lo più al centro-nord, in territori dove l’imprenditoria locale è industriosa e dove si raccoglie circa il 98% dei fondi. In un sistema che permette di scegliere a chi donare, quasi nessuno decide di donare a un comune remoto che non conosce. Inoltre, degli oltre 2.600 progetti presentati, sono circa 350 quelli che concentrano su di sè il 95% delle donazioni. Più di mille invece i progetti presentati che finora non hanno raccolto un solo euro. Un problema noto fin dal 2015 e che il ministero non ha affrontato, salvo considerarli territori con una “predisposizione” alle donazioni “diversa”.

Ma c’è dell’altro. L’80% dei fondi è raccolto da soggetti privati. Nonostante lo strumento sia esplicitamente pensato per raccogliere donazioni per il patrimonio pubblico, è possibile infatti donare anche a soggetti privati che gestiscono beni pubblici: fondazioni, cooperative, associazioni ed enti di vario genere. E nonostante i beni pubblici gestiti da soggetti privati siano un’esigua minoranza, sono alcuni di questi soggetti privati a farla da padroni. Le fondazioni dei teatri lirico-sinfonici, con decine di milioni di euro raccolti: dai 6 di Roma ai 19 di Torino fino agli oltre 100 de La Scala di Milano. Poi altre fondazioni, da Cremona a Torino, capaci di raccogliere più di 15 milioni di euro. Ma in generale gli enti privati hanno una capacità diffusa di raccogliere di più: in Sardegna, nelle Marche, in Puglia un solo ente raccoglie quasi metà dei fondi totali donati.

Il motivo della concentrazione su pochi enti risulta chiaro analizzando i nomi dei donatori, quando sono disponibili. Nonostante non sia mai stato esplicitato nei comunicati stampa del MiBACT e degli enti, in molte fondazioni, da quando esiste ArtBonus, gli stessi soci fondatori privati versano milioni di euro di sostegno annuo attraverso questo strumento, come confermato anche da un colloquio telefonico con il Teatro Regio di Torino. Una possibilità che rende molto più attrattive le fondazioni di partecipazione rispetto ai beni pubblici: attraverso la donazione, detassata al 65%, si ha anche la possibilità di sedere nei Consigli di amministrazione e quindi di contribuire a decidere come vengono spesi i fondi. E poi, certo, ci sono anche un buon ufficio di raccolta fondi, relazioni col territorio, cose che non tutte le amministrazioni pubbliche riescono ad avere.

Per il ministero tutto ciò non è un problema: ci spiegano infatti che i soggetti privati hanno da sempre più competenza nel fundraising e che l’ArtBonus è una “sfida per le pubbliche amministrazioni”.

Di fronte a forchette tanto ampie per quanto riguarda i fondi raccolti e preventivati, non si possono escludere storture. “Uno sgravio fiscale del 65% in una donazione da privato a privato, senza aver previsto un meccanismo di controllo a monte da parte di terzi, come stabilito per esempio per il superbonus edilizio varato quest’anno, non è privo di rischi – spiega Gianluca Timpone, commercialista e docente di politica economica all’Università Europea di Roma – La donazione può essere funzionale ad avere un rientro grazie al credito d’imposta: dichiarata ma non effettivamente versata per l’intero valore, volta ad avere in cambio una commissione o una prestazione d’opera per una propria azienda, o simili”.

Per l’ArtBonus non esiste infatti alcun meccanismo di controllo: l’ente certifica di aver ricevuto la donazione nel sito artbonus.gov.it e da quel momento il donatore può accedere e, caricando la documentazione, scaricare l’autodichiarazione per ricevere il credito d’imposta.

Né il MiBACT né Ales tengono traccia delle donazioni effettuate, ritenendo superfluo un meccanismo di controllo finché non si registrano “evidenze” di un uso distorto dello strumento ed essendo i numeri “trasparenti”. In realtà nel sito artbonus.gov l’origine e la destinazione dei fondi in molti casi non è chiara e nei bilanci delle fondazioni spesso quei fondi non sono distinti dagli altri “contributi privati”. Ad esempio, abbiamo chiesto al Teatro La Scala di Milano come fossero stati investiti i circa 114 milioni di euro raccolti, ma in più di una settimana non abbiamo ottenuto risposta.

“Dati falsi, problemi veri: lezione per il Recovery”

È difficile farlo parlare del Sud, anche perché “è difficile essere giudici di se stessi”, scherza Fabrizio Barca. È stato tante cose, economista all’Ocse e alla Banca d’Italia, ma soprattutto tra i massimi esperti di coesione territoriale al Tesoro (e ministro con Monti). Oggi anima il Forum Disuguaglianze, impegnato in 16 giorni di dibattiti online sulle priorità strategiche per l’Italia con esperti di alto livello. Un vero programma politico.

Serve ancora parlare del Sud?

Sì, quel che serve al Sud serve all’Italia. È banale quanto vero e vale in tanti ambiti. Prendiamo la lotta alla povertà educativa, l’incapacità della scuola di livellare le opportunità: serve maledettamente a tutto il Paese, ma colpisce più il Sud. Idem per gli asili nido. Investire sulla scuola aiuta il Meridione.

Cosa non funziona al Sud?

È un bullone allentato nel patto sociale tra cittadini e istituzioni che si scarica nella cattiva qualità dei servizi fondamentali. La Repubblica – dice la Costituzione (art. 3) – deve rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona ma al Sud lo fa senza lo Stato, a cui sopperisce la collettività organizzata come cittadinanza attiva. Se lo sforzo non è corale, il cambiamento non è strutturale. Si è visto col Covid. Una preside campana ci ha detto una cosa stupenda sugli studenti: “Siamo andati a riprenderli”, dopo la chiusura delle scuole. Lì la Repubblica ha rimosso gli ostacoli con lo Stato. Succede, ma non è sistematico al Sud.

Perché sul Meridione i pregiudizi abbondano?

È una narrazione che affonda nella stagione degli anni 70 e 80, quando si è speso molto ma non bene. L’economista Carlo Trigilia ha fatto un bilancio che condivido: gettammo soldi sul problema, senza modificare in modo strutturale il funzionamento. La spesa fu consegnata alle autorità locali, svilendone il ruolo a meri dispensatori di risorse. Ma quella storia è finita a metà degli anni 90. Ne nacque una stagione di grande rinnovamento, quella dei sindaci, una classe dirigente che fece grandi cose. Un processo che ebbe impatto anche nelle amministrazioni regionali, dalla Campania alla Puglia. Con Ciampi ottenemmo uno straordinario miglioramento nell’uso dei fondi comunitari, che venne incoraggiato da un meccanismo nazionale di premialità che distribuì 4 miliardi in base alle riforme amministrative. Non siamo però riusciti a cambiare rotta, a dare impulso alle classi dirigenti a produrre un cambiamento duraturo. La politica nazionale criticò i sindaci, li chiamavano “le cento padelle”. Svilì e inibì quelle figure. La svolta non ci fu perché migliorammo la spesa dei fondi Ue, ma non intaccammo il grande corpo della spesa ordinaria. E così è rimasta la narrazione tossica del Sud sprecone, falsa più che mai: è fortemente sotto-finanziato.

La manovra punta molto sugli sgravi fiscali.

Il piano per il Sud del ministro Provenzano è convincente, al suo interno gli sgravi sono invece ponticelli. Comprano tempo ma non hanno mai attratto nuova imprenditorialità. Ferrero fa i biscotti a Balvano per la forza lavoro, i laboratori locali e la filiera corta, non per i contributi.


Il governo sta lavorando bene per usare il Recovery Fund?

Me lo auguro, ma non ho questa sensazione. Parte dal lato sbagliato: raccoglie progetti senza impostare la strategia. Prima individui gli ostacoli, poi i progetti per rimuoverli. Ne leggo alcuni vecchi di dieci anni.

Serve una mega task force con dei manager per gestirli?

No, serve irrobustire la P.A. senza costruire assetti paralleli. Un forte presidio nazionale che rafforzi i livelli territoriali. L’80% di quel che serve fare col Recovery sarà a livello comunale: mobilità, spazi urbani, salute, scuola, cultura. Si grida al “localismo”, ma è il contrario: più decentri, più serve rafforzare la guida nazionale. Ma nella P.A., non fuori con precari di lusso.

Ma la P.A. è all’altezza?

Abbiamo chiesto di assumere 500 mila giovani e consegnare loro la leva del potere. Ora lo stiamo facendo alla chetichella, senza dirgli per cosa li assumiamo e puntando troppo sulle discipline giuridiche. E così sono dispersi. Ci dicono che per farlo servono 18-20 mesi, ma è falso, ne bastano 5-6.

Quali dovrebbero essere le priorità nell’uso dei fondi europei?

I temi sono tanti: povertà, politiche abitative, digitalizzazione della Pa, sovranità dei dati etc. Ma l’Ue non chiede titoli: trasferirà fondi solo con dei risultati. Sulla povertà educativa: di quanto voglio aumentare i livelli di matematica negli studenti calabresi? Se leggeremo questo nei documenti, avremo fatto il passo giusto. Ogni progetto va abbinato al risultato atteso in termini di qualità della vita. Conta il metodo, non la spesa: è la lezione del Sud.

La lotta alla povertà è un vostra priorità strategica. Oggi il Reddito di cittadinanza è sotto tiro.

È stato fondamentale. Va solo corretto, non buttato. Il dibattito è guidato da ideologismi nefasti. Nel Pd è penetrata un’avversione alla povertà figlia della cultura neoliberista che considera dignitoso il lavoro precario ma non l’aiuto dello Stato a chi non ce la fa.

La questione meridionale oggi sono anche le “Fake Sud”

“Il Sud vive sulle spalle del Nord produttivo”. Quante volte abbiamo sentito questa frase? Spesso l’abbiamo ignorata, altre volte presa per buona senza pensarci troppo. La realtà è più complessa di uno slogan, ma ripensarla richiede tempo e fatica. Una sfida che Marco Esposito ha raccolto nel suo Fake Sud, con prefazione dello storico Alessandro Barbero. In questa avventura fra dati, sedute parlamentari e aneddoti gustosi (come le dispute con Tito Boeri e Luca Ricolfi), l’autore sfata appunto le Fake Sud, ossia le tante notizie false sul Meridione. Vediamone alcune.

Troppi soldi, spesi male.Secondo i dati sul settore pubblico allargato, fra 2000 e 2018 – con l’eccezione del solo 2015 – il Sud ha sempre ricevuto investimenti pubblici sotto-proporzionati alla popolazione. Nota per gli scettici: si considerano pure i fondi straordinari. In pratica, è come se lo Stato italiano investisse per allargare il divario fra Nord e Sud, invece di colmarlo. Rispetto a una popolazione pari al 34% del totale, nel 2018 la quota di investimenti al Sud era del 32%. Ben sotto l’obiettivo programmatico del 45% enunciato dall’allora premier Ciampi nel lontano 1994.

La sanità. La spesa pro capite è di 2.101 euro al Centronord e 1.669 al Sud. Molti meridionali però – si dirà – si curano al Nord: anche se ogni euro speso per curare un cittadino del Sud in un ospedale del Nord fosse conteggiato come euro dato al Nord, il divario non si annulla.

La sanità/2. In un articolo del 16 marzo 2020 sul Corriere, Galli della Loggia se la prendeva con le “classi di governo” del Sud, accusandole di aver sperperato nella sanità “per mantenere aperte sedi inutili o per assumere personale superfluo”. Ma i dati ci dicono che le regioni del Meridione hanno in proporzione meno personale. Rispetto alla sanità emiliano-romagnola è come se quella pugliese giocasse in 8 contro 11, quella campana in 6 contro 11.

Il Nord paga più tasse.È un dato che potrebbe stupire, ma dal 2014 la pressione fiscale e contributiva è più alta al Sud. Qualche numero. Nel 2018 la pressione fiscale era del 46,7% al Centronord e del 47,8% al Sud. Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto sono “spremute” meno rispetto a Puglia, Campania e Sicilia.

Il residuo fiscale. Sul residuo fiscale Esposito tiene quasi una lezione di teoria economica che potremmo riassumere così: quando parlano di residuo fiscale i politici prendono fischi per fiaschi. Il concetto originario di residuo fiscale (elaborato dal Nobel Buchanan) indicava la differenza tra tasse pagate e servizi ricevuti per singolo individuo, non certo per regione! Il residuo fiscale calcolato per regione significa soltanto che la ricchezza in Italia è distribuita in modo ineguale, non che il Nord subisce un furto. Inoltre, le tasse nazionali (come l’Irpef) sono decise dal Parlamento italiano e ricadono su tutti i cittadini, dovunque vivano. Non esiste un’Irpef del Veneto o una della Puglia. Esiste l’Irap, che però è una tassa regionale.

Troppi statali. Al Sud vivono 1.101.213 dipendenti pubblici, il 34,4% del totale. In linea con la popolazione (infatti, risiede al Sud il 34% degli italiani). Non solo. La spesa pro capite in conto capitale della PA (tradotto: quanto riceve in investimenti la macchina pubblica in proporzione agli abitanti) è minore al Sud: 725 euro contro gli 887 del Centronord. Un fattore che probabilmente influisce sulla produttività degli statali meridionali.

Il costo della vita. Per alcuni è giusto che al Sud arrivino meno soldi. Anzi, si dovrebbero addirittura introdurre gabbie salariali, perché il costo della vita è più basso. Ma questo argomento si basa su dati inconsistenti. Esposito lo spiega con l’analisi tecnica di come l’Istat rileva i prezzi. Per calcolare il costo della vita, Istat esamina per ogni categoria e per ogni territorio solo il prodotto più venduto. È ovvio che nei luoghi più poveri prevarrà il consumo di beni low cost e in quelli ricchi si tenderà a comprare beni più cari, “eppure questo non vuol dire che lì la vita costi di più, solo che ci si può permettere una vita migliore”. La stessa Istat avverte che i suoi dati sui prezzi non sono lo strumento migliore per i confronti territoriali.

Salari troppo alti. Questo ragionamento si può riassumere così: se abbassiamo il salario di un residente al Mezzogiorno, si creerà un ambiente più business-friendly e arriveranno maggiori investimenti aumentando la produttività. Qui Esposito si scopre keynesiano e ricorda la lezione dimenticata da molti economisti: ridurre gli stipendi dei meridionali porterebbe a un crollo dei consumi. Seguirebbero a ruota chiusure di imprese, licenziamenti, ancora meno consumi eccetera.

Non spendono i fondi Ue.È vero che i fondi europei funzionano peggio al Sud rispetto ad altre regioni svantaggiate dell’Ue, ma ciò non è dovuto a una presunta incapacità dei meridionali, bensì al fatto che i soldi europei al Mezzogiorno hanno sostituito i finanziamenti ordinari mancanti. Cioè, non hanno mai svolto realmente la loro funzione: essere un plus rispetto alla dotazione normale di fondi. In aggiunta, non esiste una strategia di politica industriale ordinata e concertata per il Sud.

perequazione a metà. Vale la pena ricordare come nell’accordo fra Anci e governo del 31 marzo 2015 si scelse un “target perequativo” fra capacità fiscale e fabbisogni di ciascun Comune pari al 45,8%. In pratica, si decise che le disuguaglianze dovevano essere sì colmate, ma solo per il 45,8%. Questo criterio colpì molti Comuni del Nord, certo, ma moltissimi comuni al Sud. Fortunatamente, si è deciso di porre rimedio a questa falla, anche se essa sarà colmata del tutto solo nel corso degli anni.

La cura. La ferita è il luogo giusto dove posare un fiore. E fare sbocciare un nuovo presente

Sono qui che passeggio a passi lenti su questa bellissima spiaggia, è accogliente e piena di sole, bianca e immacolata, sembra neve. L’inverno è mite, pieno di colori tenui, dappertutto, dentro e fuori di me, e io sono qui a contare e misurare le mie orme. D’estate le orme sono milioni e milioni di piedi, piedini e piedoni, tutti anonimi.

Mi piace essere qui, da sola, in silenzio, a donarmi uno spazio solo per me, lontano dal clamore, dal casino della città e a lenire una ferita inferta dal solito male, fortunatamente superato. Io non riesco neanche a pronunciarla quella parola, così sgradevole all’orecchio. Sì, ne sono fuori.

Sorrido e mi affiora un ricordo bellissimo di quando ero bambina: una compagna di viaggio, chissà, forse una compagna di animo, una sorella maggiore che è apparsa lì, tra la sabbia e il bagno asciuga di un campo nudisti. Bellissima, alta, magra, sottile e nuda. Una dea greca biondo platino. Un’Artemide, selvaggia e delicata.

Mi sono avvicinata e ho notato che aveva un fiore, forse una gerbera, tenuta in mano dal gambo e un altro fiore che le copriva un seno coi petali. Era così attraente questa figura, tutta nuda e con solo un fiore sul petto. L’ho guardata meglio: non aveva un seno, e si notava la ferita fin sotto l’ascella. Accanto al capezzolo martoriato, la cicatrice di una mastectomia. Mi è passata accanto con infinita naturalezza, mi ha rivolto un sorriso, e mi ha donato il fiore. Ero bambina, ma l’ho preso come fosse stato il regalo più bello del mondo, e lo era.

Non c’è luogo più giusto di una ferita dove mettere un fiore, e da lì far sbocciare un pensiero nuovo, più autentico, soprattutto forte e vitale. Era solo una donna che, come me oggi, voleva donarsi una giornata di bellezza.

 

Giovani e vecchi, fratelli tutti

Parlare oggi di giovani e vecchi, al tempo della pandemia da Coronavirus, significa anzitutto impegnare tutte le nostre migliori risorse per evitare qualsivoglia contrapposizione tra queste due categorie sociali. Dobbiamo partire da un dato concreto: ci saranno sempre più anziani e sempre meno giovani.

Questa situazione demografica ci impone un’attenzione ulteriore alla persona, che rimane sempre la stella polare e il valore essenziale da mettere al centro del nostro vivere. Dobbiamo far tesoro della debolezza emersa con forza durante la pandemia. Ce l’ha ricordato, con parole eloquenti, la recente enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti: “Il si salvi chi può si tradurrà rapidamente in un tutti contro tutti, e questo sarà peggio di una pandemia”. Papa Francesco, più volte, ci ha messo in guardia dall’avere una “memoria a breve termine”, ad esempio quella che ci fa dimenticare i tanti anziani morti di Covid-19. Siamo chiamati, ha sottolineato il pontefice, a non sprecare la pandemia!

Quanto abbiamo detto finora chiede a tutti noi qualcosa: ci domanda di non precipitare nell’alternativa del mors tua vita mea, una logica che non riguarda solo la scelta di dare o non dare un respiratore ad un anziano per assegnarlo, invece, alla cura di uno più giovane. Questa logica può applicarsi anche all’ambito del lavoro, quando si mettono in contrapposizioni giovani e vecchi. Dobbiamo far sì che non si arrivi a salvare uno e a sommergere qualcun altro, per riecheggiare un celebre titolo di Primo Levi: siamo chiamati a salvare tutti! Questo significa far tesoro di quanto abbiamo vissuto in questi mesi, facendo scelte conseguenti nel campo della sanità, del sociale e del lavoro. Esige da chi è più giovane di abbandonare l’idea che gli anziani abbiano poco da dare. Agli anziani, di tralasciare ogni “giovanilismo” fuori tempo. I vecchi costruiscono un futuro per sé e per la società se continuano a sognare.

Proprio all’inizio del Sinodo sui giovani, celebrato un paio di anni fa in Vaticano, Papa Francesco ha affermato: “I giovani avranno visioni se gli anziani sogneranno ancora”, riecheggiando così il celebre passo biblico del profeta Gioele. I sogni degli anziani e le visioni dei giovani potranno aver luogo se tra di essi scatterà un’alleanza, non se si percepiranno in contrapposizione. O, peggio ancora, se diventeranno antagonisti. Ci sono esempi bellissimi in giro per l’Italia di questa possibile alleanza, sulla quale molto possono fare le amministrazioni locali. Alcuni piccoli comuni, ad esempio, hanno iniziato a costruire le scuole materne e le case di riposo le une a fianco delle altre: in questa maniera i bimbetti scorazzano felici e gioiosi tra le carrozzine degli anziani, i quali si sentono rivivere davanti a tanta vitalità e fanciullezza. Non, dunque, i giovani da una parte e i vecchi dall’altra, ma giovani con vecchi. In alcune città le università hanno messo in pista il progetto “Adotta un anziano”: un giovane o una giovane universitaria può andare ad abitare nell’appartamento di un anziano senza pagare nessun canone d’affitto. In cambio, gli fa un po’ di compagnia, si incarica di fargli la spesa, qualche volta lo porta a fare un giretto a piedi. Bellissimo! Questo significa fare alleanza tra le generazioni. Ricordiamocelo: le chiavi della cella della solitudine degli anziani ce l’abbiamo solo noi. Nessuno resti solo, nelle nostre città, nessuno! Evitiamo che quelle celle restino chiuse. Il libro del Levitico afferma: “Alzati davanti al capo canuto, onora la persona del vecchio e temi il tuo Dio”. Non dobbiamo isolare l’anziano dalla società, altrimenti anche i giovani si vedranno privati delle lezioni che la vecchiaia ci offre. Questo isolamento condanna chi è giovane ad un appiattimento sul presente, mentre invece la fragilità del vecchio ci fa riconciliare con la nostra propria fragilità.

Durante il tempo della pandemia abbiamo assistito ad eventi intrisi di generosità e altruismo: i giovani che andavano a fare la spesa per gli anziani, che facevano loro compagnia al telefono, magari leggendo loro un libro… Ecco, la fragilità della vecchiaia, che per tanto tempo abbiamo tenuto nascosta, non deve farci paura. Va custodita con politiche sociali intelligenti, non con reclusioni anonime in istituti senza anima. Pensiamo a formule innovative come il co-housing, a residenze abitative che non siano “centri di scarti umani”, ma nelle quali si conservino ancora legami famigliari innervati di umanità. Invece, ahinoi, dobbiamo evidenziare con rammarico che oggi le politiche sociali sono sbilanciate a favore del modello residenziale, non su quello domiciliare. I dati ci dicono che sul primo investiamo tre volte quello che investiamo sul secondo. Dobbiamo invertire la rotta, far sì che l’anziano resti il più possibile in casa, il luogo degli affetti, naturalmente con tutto il supporto e l’aiuto possibile. (…)

Siamo sempre più chiamati a mettere insieme i bisogni che ciascuno di noi vive, non ad alimentare lo spirito di autoconservazione che nasce dal nostro egoismo. Ai giovani gli anziani devono consegnare la possibilità di stabilizzarsi. A quanti hanno più anni ed esperienza spetta il compito di pensare a quanti verranno dopo di loro. Devono dare ai ragazzi e ragazze sicurezza e stabilità, il dono della certezza che può esistere un futuro possibile per loro. E questo diventa la conseguenza di un dato solo: la stabilità. Cosa significa ciò in concreto? Un lavoro stabile. È impossibile restare precari fino a 40 anni! Già il giovane è incerto di suo, se poi aggiungiamo anche un’incertezza sociale, il futuro diventa fosco. Questo deve riguardare anche le libere professioni. Il nodo è appunto questo: un’assunzione di responsabilità da parte dei vecchi nel non tenere a bagnomaria o all’amo un’intera generazione. Ai giovani, da parte loro, spetterà accettare il rischio, da correre insieme, con quanti hanno più anni. Anche qui vale quanto sopra esplicitato: si rischia insieme, “siamo tutti sulla stessa barca” (Fratelli tutti). Non gli uni contro gli altri, ma gli uni con gli altri. Allora il futuro sarà una pagina bianca tutta da scrivere. Ancora una volta, giovani e vecchi. Insieme.

 

La solitudine del Papa Cronaca di un ritiro eroico. Dio non c’è (o tace) ma con il gregge c’è Francesco

L’autore ha tutti i titoli per farsi avanti in questo momento difficile con un libro che osserva, giudica, esamina un Papa difficile e diverso, nei giorni del disordine politico (al punto da non sapere chi guida), della confusione sanitaria (non conosci il male, non conosci la cura) e di uno strappo nel manto della religione, e la dottrina cattolica ( ma anche le sue pratiche e credenze ) mostra crepacci minacciosi, come i pericoli dei ghiacciai nei cambi di temperatura.

Marco Politi, con il suo ultimo libro Francesco: la peste, la rinascita (Laterza), è stato all’altezza del compito, consegnandoci un testo-documento sui tempi che, insieme a Papa Bergoglio, stiamo vivendo, senza sfuggire e senza addolcire. Il Papa è buono ma i tempi sono crudeli e violenti, ed è come se anche la vita della Chiesa e le giornate del Papa avvenissero in una stanza di terapia intensiva. Non sempre si può guarire, e comunque la guarigione passa attraverso percorsi crudeli e arrischiati.

Il testo di Marco Politi è sobrio, scrupolosamente reale, perciò non celebratorio e non un invito, sia pure necessario, a confidare nella prevalenza del bene. Piuttosto una cronaca della eroica solitudine che Papa Francesco si è imposto per rendere possibile (e credibile ) il percorso dalla peste alla rinascita. In tutte e tre le parti del testo (il Papa, ciò che accade, ciò che accadrà) l’impegno dell’autore è di non sostare sulla tragedia e non abbandonarsi all’ammirazione e all’affetto che pure sono grandi, in questo libro, per Francesco. Il Papa che cammina, zoppicando da solo, e poi sosta da solo e guarda, da solo, nel buio della notte deserta di Roma: sono il solo film che abbiamo di questi anni, strani e misteriosi, prima ancora di essere paurosi.

Come accade in certi momenti della Storia, Dio non c’è, o tace. E infatti il Papa più coraggioso in molti secoli si fa trovare – nella narrazione di Politi – tra i suoi fedeli abbandonati e resta con loro, dalla loro parte, sguarnita di difesa, perché non si spenga la fiducia. La “rinascita” del libro di Politi non è infatti progetto o promessa: è un tipo di fede che non conta sulla pietra immobile che ferma il tempo, ma sul tempo che diventa speranza e futuro, mentre cambia costumi, comportamenti, sentimenti. E ritrova “il prossimo”.

 

Francesco. La peste, la rinascita. Marco Politi, Pagine: 128 – Prezzo: 13 – Editore: Laterza

Nuova Champions L’ultima dei parrucconi del calcio: torneo più lungo, noioso, elitario

Pian piano rovinano tutto; anche se più di così parrebbe difficile. Di chi e di cosa stiamo parlando? Parliamo dei parrucconi di Uefa (l’unione europea delle federazioni), Eca (l’associazione europea dei club) e European Leagues (l’unione delle leghe nazionali professionistiche) che hanno messo a punto, e stanno per presentare, il piano per modificare i connotati alla più preziosa creatura del calcio continentale: la Champions League. Che oggi si disputa con 32 squadre al via divise in 8 gironi da 4 per passare – dagli ottavi di finale – ai doppi match a eliminazione diretta. Ebbene, dal 2024 tutto cambierà. Nel solo intento di spremere alla creatura qualche milione in più: e chi se ne importa se il volto della Champions, dopo la chirurgia plastica, ne uscirà un po’ deturpato.

Domanda: da quanto tempo sentiamo dire che nel calcio si gioca troppo, che i format dei campionati dovrebbero essere snelliti, che gli impegni delle nazionali sono diventati troppi ed eccessivamente gravosi? Da quando poi la pandemia-Covid 19 si è abbattuta su ogni attività umana, mondo del pallone compreso, i calendari calcistici si sono fatti insostenibili: al punto che rinviare una partita (vedi Juventus-Napoli) è ormai vietato essendo impossibile trovare un giorno libero per recuperarla. Meglio un 3-0 a tavolino: tempo per giocare una partita rinviata non c’è. Ebbene, per non sapere né leggere né scrivere sapete che volto avrà la nuova Champions a partire dalla stagione 2024–’25? Ci troveremo di fronte a una Champions obesa che schiererà al via non 32, ma 36 squadre (4 in più) allo scopo di ingigantire, inflazionandola con partite farlocche, la fase iniziale. Che oggi prevede gironi che si articolano su 6 partite (spesso scontate e prive del minimo appeal: vedi la Juventus e il Barcellona che incontrano due volte il Ferencvaros e due volte la Dinamo Kiev in barbosissimi match) mentre la nuova Champions porterà la fase iniziale a 10 giornate.

L’idea di partenza era quella di formare 6 gironi di 6 squadre (ogni club impegnato due volte contro altri 5); in realtà, stando alle indiscrezione del Times, la Premiata Ditta “Ceferin, Agnelli & C.” Ha deciso di far scomparire i gironi varando un campionato unico a 36 squadre in cui ogni club incontra 10 avversari diversi, 5 in casa e 5 in trasferta: per la serie, se non è zuppa è pan bagnato. Ne nascerebbe una classifica unica, a 36 posizioni, con le prime 16 squadre che si qualificano agli ottavi in accoppiamenti stile playoff (1ª contro 16ª, 2ª contro 15ª eccetera), mentre gli 8 club piazzatisi tra il 17° e il 24° posto si qualificherebbero – come avviene oggi per le terze dei gironi – all’Europa League.

Vabbè, direte voi; tolta la fase iniziale portata da 6 a 10 partite, con 4 incassi in più al botteghino, Covid permettendo, e una maggiore varietà di sfide (invece di incontrare due volte il Ferencvaros e due volte la Dinamo Kiev, la Juventus sfiderebbe in match unico Ferencvaros, Dinamo Kiev e magari Krasnodar, Basaksehir, Olympiacos e Midtiylland, oltre a due-tre club di maggiore rango: sai la libidine!), niente di diverso da quel che sta avvenendo oggi. E invece no. Il nuovo regolamento prevede infatti che gli 8 club qualificati ai quarti accedano di diritto alla Champions dell’anno successivo indipendentemente dal piazzamento conseguito in campionato. Che poi è, a ben vedere, il primo passo verso il numero chiuso per gli Eletti. Buon divertimento.

 

Maxiprocesso “Cari giurati popolari, grazie di aver fatto la Storia, mentre altri fuggivano”

Che Dio le benedica. E il popolo italiano pure. Ecco qui i nomi: Teresa Cermiglia, Maddalena Cucchiara e Francesca Vitale. Sono le tre donne che accettarono di fare i giurati popolari al maxiprocesso di Palermo e che il bellissimo docufilm della Rai di giovedì scorso ci ha consentito di conoscere dal vivo. Con altre donne e altri uomini fecero una scelta di civiltà, intrisa di orgoglio e di coraggio, che consentì di giungere a una sentenza storica. Il docufilm ce ne ha raccontato i dubbi, gli stupori e poi la crescente determinazione a proseguire fino in fondo. La scoperta del pianeta mafioso attraverso le testimonianze giunte dall’interno, fino a inorridirne. Il duro confronto, fuori dalla famosa aula bunker, con un ambiente che si era abituato nei secoli a consegnare ai boss anima e cervello. E la vita sotto scorta, le tensioni familiari. Personalmente ho sempre sostenuto che il maxiprocesso sia stato prima ancora che un grandioso evento giudiziario un grandioso evento culturale. Un duro rovesciamento delle coscienze. E Io, una giudice popolare al maxiprocesso lo ha confermato.

In fondo la storia del nostro Paese è passata ripetutamente per piccoli gruppi di giurati popolari. Non solo contro la mafia ma anche contro il terrorismo, quando al celebre processo alle Brigate rosse di Torino non si trovavano abbastanza cittadini disposti ad accettare e si fece avanti, volontaria, l’esponente del partito radicale Adelaide Aglietta. Donne e uomini anonimi che siamo abituati a vedere sedere accanto ai giudici di carriera come statuine, la fascia tricolore indossata con modestia e un accenno di fierezza. Abbiamo potuto capire meglio, la scorsa sera, che non sono statuine affatto, bensì cittadini che si caricano sulle spalle il peso della Storia nazionale e le consentono di andare avanti.

E che quei giurati popolari palermitani fossero protagonisti, insieme con alcuni magistrati, di una rivoluzione culturale, lo abbiamo ben potuto misurare vedendo la scena reale in cui, con vibrante voce baritonale, un avvocato dei boss, giustamente voglioso di ben meritare davanti ai facoltosissimi clienti, prese a contestare il presidente della corte, Alfonso Giordano, indignato per le “vergogne” che costui stava perpetrando. Che spettacolo, quegli avvocati, che personaggi da trattato e da romanzo insieme. Con quel loro documento che chiedeva la ricusazione del presidente. Arie del ventesimo secolo ormai dimenticate e che per fortuna ci sono state restituite proprio a ricordare la grandiosità del passaggio che si consumò. E che divise la stessa magistratura, se è vero che prima della accettazione della presidenza da parte del giudice Giordano (il quale, non dimentichiamolo, veniva dal civile) vi furono almeno cinque magistrati che rifiutarono il peso della storia. Loro, prestigiosi rappresentanti di un potere della Repubblica; mentre semplici cittadini decidevano di rappresentare e di far vincere, come ha detto uno di loro, “la Sicilia degli onesti”. Ci riuscirono.

Poi, arrivò la Corte d’appello a smontare tutto. Una beffa per quei pezzi di vita generosa. Ma fu fortunatamente sconfessata dalla Cassazione, liberata della “dottrina Carnevale” grazie a Giovanni Falcone nel frattempo arrivato ai vertici del ministero della Giustizia.

Ebbene, fui chiamato a testimoniare a quel processo. Una testimonianza difficile (“non stiamo processando il generale dalla Chiesa” dovette urlare Giordano verso gli avvocati difensori) e ricordo bene quei giurati popolari, la loro attenzione rispettosa, che mi arrivava addosso muta, mentre sedevo davanti a loro cercando la giustizia che in buona parte mi sarebbe stata data. Non ho mai fissato i loro volti nella memoria, non ho mai chiesto i loro nomi né li ho mai incontrati. Oggi, dopo 34 anni, voglio da questo giornale ringraziarli per quel che fecero.

 

Le regole del Natale “Non si esce dai comuni ma a Roma tutti sul bus. E papà brinda da solo”

 

Essere Alberto, il centenario che ha imparato a essere felice

Ciao Selvaggia, lavoro in un ristorante ed osservo tutto con cura e dedizione. Dico sempre a chi lavora con me: “Trattate ogni cliente come il più atteso”. Ma per il signor Alberto ho un’attenzione in più, e di lui voglio raccontarti solo per alleggerire il clima.

Spesso il signor Alberto viene a pranzo. Passa in tarda mattinata, mi chiede cosa ci sia di buono e prenota il suo tavolo per le 12.30, ma poi viene alle 12.10 perché abita proprio qui davanti. Il signor Alberto è stupendo: classe 1923, sempre elegante, gentile, un po’ seccato dagli acciacchi del tempo e con la paura costante di disturbare. Veste sempre impeccabilmente, a colazione si sparpaglia il cornetto sulla camicia ben stirata, io non glielo dico perché so che rimarrebbe male e s’imbarazzerebbe, perché il signor Alberto si sente ancora seducente. E in effetti lo è. Mi chiama “signora Nicoletta”, mi dà del lei, mi chiede di decidere cosa mangerà ed io accuratamente scelgo dei piatti morbidi, facili da digerire, semplici da tagliare; ma glieli vendo come i migliori del menù. Se posso mi fermo al suo tavolo per parlare un po’. La figlia vive a Dubai, la nipote studia a New York, il figlio è a Roma ma lui vuole vivere solo, per non disturbare, tipico sentimento delle persone grandi.

Il Signor Alberto ha un telefono di ultima generazione, da cui partono telefonate a caso (a me già due volte) e sullo schermo c’è la foto di una signora. È la moglie. “Lei non c’è più”, mi dice praticamente ogni volta, “era una gran donna” e me lo dice con la voce tremante tipica dell’età, ma anche di una continua commozione. Quando arriva lo accompagno al suo tavolo, gli verso dell’acqua leggermente frizzante e gli sposto la sedia per farlo stare comodo. La maggior parte delle volte quando va a lavarsi le mani si riaccomoda sedendosi ad un tavolo diverso da quello che le avevamo assegnato al suo arrivo. E allora tento di riposizionare le sue cose lasciate sul precedente, come il telefono, gli occhiali e le chiavi, senza che se ne accorga, ma se ne accorge sempre. “Ho sbagliato tavolo?” – “No no gliele avevo tenute in cassa per sicurezza”. Lui sa che mento ed io so che sa… ma lo facciamo e continueremo a farlo. Adoravo abbracciare il signor Alberto, amavo vedere il suo sorriso timido, e mi piaceva accompagnarlo al tavolo tenendolo per mano. Ma non lo faccio più perché non ci si può toccare; per parlargli, allontanandomi, mi scanso prudentemente la mascherina affinché mi senta meglio.

Quando viene lo riempio di complimenti, l’altro giorno indossava delle scarpe da ginnastica che avevano poco a che fare con il resto del look. “Che belle scarpe, va a correre?”, dico. Lui ha riso, lo fa sempre quando gli faccio queste battute sciocche. E allora mi ha spiegato che anche se non erano proprio il suo stile le aveva messe perché erano un regalo del nipote venuto da Francoforte dove studia musica. Mi ha fatto ricordare il portacenere fatto da me col Das tenuto da mio papà sulla sua scrivania al lavoro, lui che non aveva mai fumato.

Vorrei essere come il signor Alberto: no, non anziana, ma consapevole. Perché lui sa cosa ha avuto e vive ciò che ha. Attualmente come il signor Alberto ho soltanto le scarpe da corsa. Ma ci lavorerò!

Nicoletta

 

Ci sono lettere che ti portano nel luogo che descrivono. Oggi mi è sembrato di vedere te e Alberto, lui seduto elegante davanti al suo purè e tu che gli sorridi da dietro al banco. Grazie per questa piccola fotografia di un microcosmo che sopravvive ad ogni abbrutimento.

 

Divieti festivi: “I sacrifici sono davvero gli stessi per tutti?”

Cara Selvaggia, parliamo tanto dei divieti di Natale, con i toni sempre sbagliati. Ad esempio, se su Facebook scrivi “io vorrei”, ecco la risposta di massa: “E non pensi a tutti i morti!”. Se invece dici che “le restrizioni sono lecite”, arriva la reazione opposta: “Venduto al regime!”. Ora ti racconto la mia esperienza.

Vivo nei Paesi Bassi da 18 anni, torno in Italia a vedere la mia famiglia a Natale e in estate. Ma quest’anno no. Il governo ha chiesto a tutti di non viaggiare fino a metà gennaio; e per togliermi il dubbio, la compagnia aerea ha cancellato il mio volo per l’Italia del 20 dicembre. Pazienza, per la prima volta in 18 anni non passerò il Natale con il mio papà quasi 80enne (mia mamma è mancata 2 anni fa). Mia sorella invece abita a 5 km da casa di mio papà. Ma è un altro comune. Quindi a Natale, secondo questo decreto, non potranno vedersi. Mia sorella e mio cognato sono in telelavoro da marzo. Non vedono gli amici da mesi. Mia nipote (9 anni) non va a scuola da febbraio (tranne 2 settimane), non va in palestra e non gioca con gli amichetti; sa che non deve abbracciare il nonno. Ma secondo il decreto, mia sorella che prende tutte le precauzioni immaginabili non può fare 5 km, in auto, per passare il Natale con mio papà (che altrimenti non ha nessuno).

Se invece tizio, a Roma, prende 4 autobus e attraversa la città, si può perché non esce dal comune. Siamo i primi a dire che vanno fatti sacrifici, ma dovrebbero essere gli stessi per tutti.

Marilena

 

Sarebbe impossibile valutare eccezione per eccezione, le regole vanno uniformate per una questione di semplificazione. Dobbiamo tollerare tante piccole “ingiustizie”, è vero, ma lo facciamo per il bene di tutti. Abbraccia tuo papà anche da parte mia, rigorosamente via zoom.

Selvaggia Lucarelli