Ma mi faccia il piacere

Cervelli arruginiti. “Il magazzino dei vaccini. Alla periferia di Roma. Un capannone arruginito circondato da rifiuti tossici. E’ il deposito del Ministero riservato a stoccare i farmaci contro le pandemie… Arcuri e Speranza: il governo ha ordinato milioni di dosi di vaccini, ma secondo le rigorose procedure di attivazione della scorta nazionale di antidoti aggiornate lo scorso luglio, ogni movimentazione dovrà essere gestita dal fatiscente deposito sulla Tiburtina” (Espresso, inchiesta di 8 pagine, 6.12). “Come annunciato dal commissario Arcuri, i vaccini contro il Covid saranno stoccati ed immagazzinati nell’Aeroporto militare di Pratica di Mare, alle porte di Roma… dove saranno conservati in frigoriferi speciali” (Repubblica.it, 6.12). E vabbè, dài, se non è la Tiburtina è Pratica di Mare (a 45 km di distanza): otto pagine di Espresso da buttare, che sarà mai.

Severa autocritica. “Continuano a chiamarla emergenza… Chiamiamola con il giusto nome: incompetenza. Il Presidente del Consiglio continua a fare conferenze a reti unificate senza contraddittorio, ignorando l’esistenza del Parlamento e omettendo di usare l’unica parola che dovrebbe pronunciare: scusateci” (Guido Bertolaso, autocandidato a sindaco di Roma, Facebook, 4.12). Mi sa che ce l’ha ancora con B. e con il suo capo della Protezione civile per i disastri a L’Aquila e alla Maddalena.

Mes in scena. “Il prestito del Mes significherebbe per l’Italia avere a disposizione 37 miliardi. L’Italia risparmierebbe 7 miliardi di interessi nell’arco di un decennio” (Stampa, 6.12). Ma che dico 7 in un anno? 70 in un secolo! 700 in un millennio! E una batteria di pentole antiaderenti per i primi dieci!

L’Einstein al pesto. “Riteniamo che tra una Regione gialla e un’altra gialla ci si debba poter spostare visto che il virus circola in egual modo, in base al principio dei vasi comunicanti” (Giovanni Toti, ex FI ora leader di Cambiamo!, presidente Regione Liguria, conferenza stampa, 30.11). Più che altro, dei nasi comunicanti.

La parola all’esperto. “Non mancano soldi dall’Ue. É solo che li sprechiamo” (Roberto Formigoni, condannato a 5 anni e 10 mesi per 6 milioni di tangenti, Libero, 6.12). Giusto: per non sprecarli, diamoli a lui.

Babbeo Natale. “Il mio obiettivo è garantire un Natale sereno agli italiani: spero che nessuno rubi il sogno del Natale ai bambini!” (Matteo Salvini, segretario Lega, Caffè della domenica, Radio 24, 28.11). Già allertato il Telefono Azzurro.

L’insaputa. “Ero in cella ma mia madre non lo sa” (Giuseppe Scopelliti, ex presidente FI della Calabria, condannato a 4 anni e 7 mesi per bilanci falsi, Giornale, 3.12). Si spera che lo sappiano almeno gli elettori.

Acidità di stomaco. “Renzi è meno pavido e irresoluto di chi vorrebbe spingerlo avanti, vale a dire i tanti suoi ex-compagni di strada del Pd che non ne possono più di Conte e dei grillini (se potessero li scioglierebbero nell’acido)…” (Ugo Magri, Huffington Post, 29.11). Ma dire “sciogliere nell’acido” non era un’offesa sanguinosa a Lucia Annibali che faceva insorgere tutti i meglio politici e giornalisti del bigoncio? Ah no, dipende da chi lo dice.

Lacerocontuso. “Joe Biden 46° presidente degli Stati Uniti! Si apre una nuova pagina per gli Usa e per il mondo. Coesione, non lacerazione” (Piero Fassino, deputato Pd, 7.11). “Joe Biden scivola e si frattura un piede giocando col cane” (Repubblica, 29.11). Forza Joe, poteva pure andarti peggio.

Silvio ci manchi. “Io spero che la leadership di Berlusocni nel centrodestra torni ad essere salda” (Enzo Amendola, ministro Pd Affari Europei, La Stampa, 6.12). É quel che dicono anche le Olgettine.

L’ideona. “A Rebibbia il Covid ha chiuso in cella la speranza di riscatto. Visite ai familiari bloccate da marzo, contatti col mondo esterno inesistenti. Ma la politica non fa niente” (Domani, 6.12). Invece di riaprire le carceri ai colloqui e moltiplicare i contagi: vergogna.

Sua Altezza. “L’attuale classe politica non è all’altezza di governare” (Sabino Cassese, giudice emerito della Consulta, Domani, 5.12). A proposito di altezza: com’era quella dello “stato di emergenza senza più emergenza”?

Schifezze. “Gad Lerner ha scritto un pezzo in difesa della salute dei detenuti. E dove l’ha fatto? Sulla schifezza nelle mani di Travaglio. Perchè scrive sulla Gazzetta della Tortura” (Andrea Marcenaro, Foglio, 2.12). Levategli il fiasco.

I rutti di Lannutti. “Se cade il governo? Non m’importa nulla” (Elio Lannutti, senatore M5S, Corriere della sera, 5.12). Anzi, gli effetti potrebbero essere positivi: si torna a votare e Lannutti non viene rieletto.

Programmi di evasione. “Il peggior modo di usare i milioni del Recovery Fund è quello di investire nella costruzione di nuove carceri” (Patrizio Gonella, manifesto, 3.12). Molto meglio comprare lime, seghetti e lenzuola già annodate.

Il titolo della settimana/1. “Quando gli parlano di Conte, Zingaretti pensa alla palude” (Foglio, 5.12). Quella dei vaccini antinfluenzali nel Lazio.

Il titolo della settimana/2. “Il reddito di cittadinanza finanzia il terrorismo” (Libero, 3.12). A botte di 500 euro al mese.

“Intervista alla sposa”, storia di un femminicidio al rovescio

O-cene da un matrimonio. Silvio Danese, critico cinematografico di lungo e raffinato corso, scrive come se sceneggiasse, fa di penna bisturi e sul tavolo autoptico seziona la nostra ipocrisia, e premeditazione, nell’accostarci tanto al crimine quanto alla relazione tra i sessi.

La Stefania che indaga il suo (alter-ego?) scrittore non è un’uxoricida né una vittima, ma una creatura senziente che interpella l’identità muliebre, le geometrie della coppia e della famiglia, che è “la sede perpetua della libera prigionia”, e il senso stesso della narrazione chiamata ad accoglierle. “Lei vuole sapere da me chi era mio marito?”, le fa chiedere Danese, ma le risposte iterate e dialettizzate per 528 pagine rivelano l’estensione del dominio della lotta tra uomo e donna, con persistenza, meticolosità e logica non comuni.

L’autore non vuole essere uno fra tanti, non si limita a sconvolgere il ménage borghese, che Stefania (soprav)vive per un ventennio con Dino, ma intende scoperchiare il trattamento mediatico del femminicidio con un radicale ribaltamento di s-prospettiva: è Stefania che, dopo aver subìto tanta violenza, infine uccide.

Affrancata la donna dall’incasellamento morale in favore di quello giudiziario, Danese libera il lettore dall’accudimento che apre all’accanimento, più o meno intenzionale: L’intervista alla sposa tradisce un’istanza desiderante, un intervistatore che le guarda il culo, una seduzione irredenta e un’ambiguità inquieta.

Fino all’epifania: passando al setaccio persecuzione e sacrificio, Danese ritrova il capro espiatorio di René Girard. Illuminato dal talento, persino oltraggioso nella forma, un romanzo che si sforza, e ci sfida, nell’impresa più preziosa: capire.

 

Una giornata particolare sul set con ambulanza fissa

“Spero che la gente non si disabitui ad andare al cinema”. Voce di uno che grida nel deserto delle sale chiuse: Maurizio Tedesco, produttore dal sangue blu, assistente al montaggio per Pasolini, sodale di Marco Risi ne Il muro di gomma e molto ancora (L’odore della notte di Claudio Caligari), un presente non abdicato.

Nonostante l’emergenza Covid, con l’autoambulanza fissa sul set, attori e maestranze nella bolla, i tamponi per rito, il cuore è oltre l’ostacolo, una certezza rischiara l’orizzonte: “Questo film ha un vantaggio, è senza tempo: un’analisi della cattiveria umana”. Il soggetto non è originale, viene da un libro premiato col Campiello nel 2017, tradotto in ventitré lingue, venduto in trecentomila copie, L’Arminuta. Tedesco lo legge complice la moglie Paola Poli, ci rimane sotto: “Un thriller, un giallo devastante: è Shining, è Stephen King”. L’autrice è Donatella Di Pietrantonio, abruzzese forte e gentile che al dente avvelenato ha preferito l’odontoiatria pediatrica, ma la penna è aguzza, dilaniante. Tedesco prova a portarlo davanti alla macchina da presa, i diritti però se li sono già assicurati: quando il progetto non si chiude, torna alla carica, lo fa suo, con Monica Zapelli e la stessa Di Pietrantonio alla sceneggiatura, Giuseppe Bonito, che “nella sua testa l’aveva già girato tante volte”, alla regia. Avrebbe dovuto essere, dopo l’esordio Pulce non c’è, l’opera seconda, è la terza, in mezzo ha diretto Figli di Mattia Torre, ed è all’amico scomparso che all’ultimo giorno di riprese a Montopoli, prima di trasferirsi sulle nevi svizzere, Bonito pensa: “Mi sento molto fortunato, molto grato a fare questo film, ma soffro che Mattia non possa più”.

Il passato non è una terra straniera, e nemmeno la Sabina dove è stata trapiantata l’Arminuta, ovvero “la ritornata”, la tredicenne contesa, si fa per dire, tra due famiglie di estrazione antitetica, tra modernità e arcaicità, città e radici nell’Italia del 1975: campo base a Montopoli, location a Fara Sabina e Bocchignano, prima in ottobre Fregene, Latina per ritrovare Pescara, Santa Marinella e Civitavecchia. La pandemia ha imposto uno slittamento dal previsto primo ciak a maggio, il meteo è stato clemente, i circa due milioni di euro di budget comprensivi dei duecentomila destinati alle misure anti-Covid, la bolla intatta, il contagio scampato. Fondamentali loro, le ragazzine, “la ritornata” e la sorellina Adriana, scovate sulle spiagge abruzzesi tra oltre duemilaottocento dalla casting director Stefania Rodà: rispettivamente, “la borghese” Sofia Fiore e “la locale” Carlotta De Leonardis. Poi serviva una madre, e non qualsiasi: “Che avesse dentro la consunzione”, pretendeva Tedesco, e con Bonito l’ha individuata in Vanessa Scalera, per il grande pubblico l’Imma Tataranni dell’omonima fiction. “Il ruolo – dice Scalera in una pausa di lavorazione – Giuseppe me l’ha venduto bene, me l’ha reso necessario. Raccontiamo una maternità altra: sono un albero secco, seccato dalla vita. Oggi siamo abituati a manifestare i sentimenti, una volta era impossibile: l’amore, le emozioni erano inesprimibili”.

“L’abbandono e le cicatrici, giacché siamo tutti abbandonati”, per zenit, la consapevolezza che “dai vuoti si creino i talenti” in questa finzione intessuta di verità, e lo sguardo disteso sulla realtà: “Spero che il film approdi sul grande schermo, che la nostra società smetta di vivere nella e sulla paura”. Nel cast anche Fabrizio Ferracane, L’Arminuta è una produzione italo-svizzera Baires Produzioni, Maro film, Kafilm con Rai Cinema, realizzata con il sostegno di Lazio Cinema International – Regione Lazio e Mibact: Tedesco e Bonito puntano alle sale di qualità, a un pubblico colto e al battesimo festivaliero, consci che “il Covid terrorizza, molto cambierà anche per il cinema, ma la speranza quella no”.

Affrancato dalla seriosità, “e dalla noia”, dell’autocertificato cinema d’autore, dentro la carne viva dei rapporti umani, degli atti mancati, delle corresponsioni fallite, le prevaricazioni esibite, l’adattamento vive senza controindicazioni la sua epoca, questi giorni strappati a un incubo, ma non peregrini: “Ritorno al futuro”, è il sottotesto di Bonito, che perfeziona l’adattamento tra le geometrie edilizie allargate e familiari della Sabina che fu, ed è ancora, con i telefoni che non prendono, “una benedizione”, con la comunicazione che “si riscopre da persona a persona, senza dispositivi intermedi”. Mentre “lo smart working apre al ripopolamento delle nostre aree interne”, il regista eleva il romanzo della Di Pietrantonio a potenza post-pandemica: “L’idea del ritorno a qualcosa che serbiamo dentro, alle nostre radici contadine, antiche”. Se non è più tempo di figliol prodighi, che lo sia di questa “ritornata” al futuro.

 

“Le lacrime con Dalla e Ron. La febbre in tv di Proietti. E i miei fiaschi al karaoke”

“Sono Claudio, ho appena scritto un album e ho smesso di fumare. Da 27 anni”. Da seduto offre un certo richiamo. “(Ride) Sì, sembra un riunione dei cantantisti anonimi”.

E come nei cerchi della fiducia dove ognuno derubrica a se stesso per cercare una storia collettiva, così Baglioni ha un piglio di chi ha “sparato all’alba degli inganni” (parole sue), e a 69 anni, forte di In questa storia… che è la mia, un nuovo album intenso, cesellato, suonato come ai tempi in cui la musica non si improvvisava, può permettersi di scherzare, prendersi in giro, ammettere che è stato faticoso completare il lavoro (“con il lockdown mi sono impallato”). E magari ricordare un karaoke.

Chi scrive l’ha vista assistere mentre altri intonavano “Strada facendo”…

(Ride) Sono sempre molto perplesso nei confronti del karaoke: da un lato mi entusiasma, dall’altro ho il ricordo di due disavventure.

La prima.

Mentre stavo finendo, con Duccio Forzano, la post produzione di un dvd, finimmo in una specie di bar con musica e microfoni a disposizione. Dopo un paio di bicchieri di vino, ho cantato un mio pezzo: non si è girato nessuno. (ci pensa) È stato un atto temerario.

La seconda.

Vivevo all’Argentario, passano Elio e le Storie Tese: avevano un concerto in un teatro di Grosseto. Elio durante lo spettacolo si travestiva da Fiorello e organizzava il karaoke. Mi chiede di salire sul palco, accetto, coperto da cappotto e occhiali e intono proprio Strada facendo. (Silenzio) Ho perso all’applausometro contro due ragazzette che hanno cantato i Pooh…

Anche a Napoli si travestì da hippy-barbone e nessuno la riconobbe…

Guadagnai 12.500 lire; ero nel giro dei concerti del ’98 e, prima di arrivare agli stadi, pensammo di creare l’effetto sorpresa. Uscii dall’albergo, e a quel tempo era normale trovare i fan ad aspettarti, ma ero truccato, con i capelli biondi, le lenti a contatto blu, una camicia militare, un andamento Claudi-cante. Mi incamminai nella galleria, presi la chitarra e cominciai a cantare in un canadese maccheronico. Non mi riconobbe nessuno. Giusto una foto con una coppia di sposi e un’altra con gruppo di signore americane dai capelli turchini. Sarò appeso in qualche salotto dell’America centrale…

Nella prefazione al libro su Endrigo, scrive: ‘Oggi la musica non è più centrale. Ci sono i social’.

Il primo social è stato parlare e trovarsi insieme per l’ascolto di un disco. Con la mia compagnia aspettavamo i nuovi album, spesso li acquistavamo ai mezzi e c’era il rito della scoperta collettiva, una cerimonia solenne, celebrata a occhi chiusi, con uno addetto ad adagiare il disco sul piatto, l’altro, con la mano più ferma, piazzava la puntina sul primo solco. Era un modo per socializzare molto differente. Quelli di oggi hanno creato una cultura diversa in termini di ascolto.

Nel titolo di quest’ultimo lavoro, come nei sottotitoli di molti precedenti, cita ‘storia’.

Non è una mania, ma una naturale confluenza. Il mio secondo album, dopo il primo che con molta fantasia venne titolato Claudio Baglioni, si chiamava Un cantastorie dei giorni nostri. Sono le storie quelle che interpretiamo. Il mio mestiere non è molto diverso rispetto a chi, nelle piazze, cantava le gesta o le piccole vicende quotidiane.

Prima ha accennato a una crisi nella scrittura.

Anche oggi che il disco è uscito mi sembra strano: l’ho pensato talmente tante volte da temere di non terminarlo; il Covid, invece di darmi la voglia di riuscire e andare avanti, mi ha fermato.

Soluzione?

Un po’ è l’amor proprio, un po’ il rispetto per le persone con cui si è stipulato un patto. (Ci pensa) Ho una lunga carriera e una certa età, quindi non c’è tutto questo tempo per aspettare. (Cambia tono) Mi ha aiutato l’idea che sono le ultime cose che possono capitare in questo straordinario viaggio personale e artistico.

Sta pensando al pensionamento?

No, sarebbe un controsenso. Quest’anno un po’ di paralisi è arrivata per non aver potuto fare niente dal vivo. È linfa vitale. Sul palco s’impara tantissimo: durante le tournée si recupera il repertorio e si provano nuovi musicisti. Molti arrangiamenti successivi sono influenzati dai concerti precedenti.

Sostiene Finardi: ‘Baglioni è fondamentale quando finisce un rapporto’.

Fondamentale come notaio? (ride). È una frase che mi sorprende e che si deve al genio di Eugenio, però altri sostengono che sono stato fondamentale alle unioni e non solo nel momento dell’addio; (ci pensa) qualche volta, incontro persone che mi indicano i figli con la frase ‘questa è nata quando tu hai fatto…’, oppure ‘lui me lo sono sposato mentre…’. In quei casi, a volte mi giro dall’altra parte per la timidezza.

Secondo Guccini lei si imbarazza anche nell’ammettere che sa raccontare barzellette.

Francesco l’ho incontrato tre volte in tutta la mia vita: lui si riferisce a un episodio del 1971: partecipavamo alla trasmissione tv Speciale tre milioni. A Sant’Agata di Puglia dormivamo in una specie di edificio in costruzione, e la notte venne impiegata nel recitare barzellette. Il problema è che lui la mia se la ricorda, io no.

Anna Tatangelo: ‘Baglioni mi ha insegnato che i viaggi più belli si fanno con le canzoni’.

Hanno un potere micidiale, evocativo, e toccano tutti gli essere umani, anche i più distaccati; sono come le pietre dure, non le puoi spaccare, rompere. E come i profumi ti trasportano in un altro momento della tua vita, persino in avanti; non hanno fisicità, sono metafisiche.

Negli anni 70 c’era una netta distinzione tra musica pop e quella impegnata. Oggi la seconda è quasi morta: ha vinto lei?

Non ho mai dichiarato guerra alla canzone impegnata. Il problema degli anni 70, che rimpiango perché erano i miei 20 anni, era che bisognava dare per forza un’etichetta o dichiarare un’appartenza, una militanza. Ma la musica è sempre composta da 12 note, lo era ai tempi degli aedi greci, lo è oggi. Ho sofferto per essere stato considerato, insieme a Battisti, quello disimpegnato.

Quell’ostracismo non lo manda giù.

Se c’è stato un atto di onestà, è stato quando mi sono trovato a incidere Questo piccolo grande amore e ho scelto, rispetto alla mia produzione precedente, più cupa, che le canzoni parlassero con il linguaggio corrente della vita. Non me la perdonarono. Per molti anni sono stato messo ai margini.

Però?

Non mi lamento perché mi è andata bene…

Secondo Pappalardo i rapporti con Battisti non erano idilliaci.

Forse lui non sopportava me, io l’ho amato alla follia. Mi ha ispirato tantissimo, a partire dalla sua tecnica di composizione: la suddivisione delle parole. È stato uno dei primi esempi di come la parola cantata suona, rimbalza, il significante oltre al significato.

Vi frequentavate?

L’ho incontrato solo due volte; (ci pensa) a Los Angeles avevo appena finito un giro di concerti negli Usa, e lui stava registrando alcune versioni in inglese. Davanti a lui balbettavo, pur avendo già tre dischi di successo alle spalle.

E Battisti?

Si mise in discussione. Ce l’aveva con il mondo del cantautorato e con la cultura imperante che lo osteggiava, e un po’ mi trattava come se fossi anche io della parrocchia avversaria. Ho molta nostalgia di quello che Lucio avrebbe potuto ancora realizzare.

Altro Lucio. Dalla.

(Sospira) Nel 1970 asciugò le mie lacrime e quelle di Ron.

Addirittura.

Eravamo agli inizi, e partecipavamo alla Gondola d’argento a Venezia, una sorta di contest dove noi eravamo gli esordienti. Durante le prove, con Notte di Natale riscossi un grande successo, con gli occhialoni e un’immagine da esistenzialista. Il destino volle che la giuria fosse composta da un equipaggio di marinai: arrivai ultimo di sedici. Quando mi comunicarono il risultato, non ebbi il coraggio di chiamare mia madre e mi incamminai per le strade del lido.

Dolore.

All’umiliazione del risultato si associò un acquazzone micidiale, e per un attimo pensai di buttarmi in acqua. Una volta in albergo ci pensò Lucio a risollevare la serata. Dopo due mesi a Bari partecipai a La caravella dei successi, eseguii lo stesso pezzo e arrivai ancora ultimo.

Quale soprannome le aveva assegnato Dalla?

Per lui ero ‘la suora’, per i modi molto gentili di pormi. Ma Lucio era capace di qualsiasi cosa: un artista grandissimo, quanto bugiardo. Era il suo modo di raccontare la vita. Era capace di inventarsi aneddoti, soprannomi, storie. Si divertiva anche a narrare i suoi disastri.

Esempio.

Ci fu un periodo in cui era in crisi di scrittura, allora prendeva il sax e andava a suonare nei dischi degli altri, da special guest. In questa fase si presentò da Pino Daniele, ma Pino lo cacciò e in malo modo, al grido ‘sei un cane, non hai capito niente del pezzo’. Lucio, da paraculo, spiattellò per primo questa storia

E Pino Daniele?

Ricordo la sua telefonata: ‘Ma questo Dalla, perché non incide un bel disco invece di suonare così?’. Ci vogliamo tutti bene ma ci controlliamo sempre da vicino.

Cosa dicono di lei?

Vengo rappresentato come un perfezionista, un pignolo, ma è vero: non sono mai stato d’accordo con il detto che l’ottimo è il nemico del bene; (ci pensa) non vedo l’ora di tornare a suonare dal vivo.

A giugno sono in programma dodici suoi concerti alle Terme di Caracalla…

Un artista è nato per avere il privilegio di orecchie e occhi degli altri addosso; (sorride) ancora oggi faccio fatica a pensare di essere un personaggio pubblico.

Qual è la sua ossessione?

Ho un timore: riuscire a individuare il momento in cui bisogna chiudere il sipario. Da un certo punto in poi cominciano le prove generali del finale carriera, il botto, quello che rimarrà indelebile. Il timore è di non avere la lucidità per capire quando appendere i guantoni al muro, come un pugile che rischia la figura dell’atleta suonato. Non vorrei finire così.

In quest’album i testi sono complessi, le parole molto musicali.

La ricerca è stata anche sulla forma fisica dei termini. E scrivere canzoni non è semplice, ho visto molti poeti cimentarsi con i brani e non essere così bravi.

Qui c’è un però…

Ho una forma di soggezione nei confronti di lavora con la parola, una scienza esatta difficile da gestire; le parole sono dei giganti, arrivate a noi dopo secoli, hanno combattuto, si sono modificate, traducono la storia più della storia stessa. Quando il paroliere si avvicina a questo ha davanti un moloch.

Gigi Proietti viveva di parole…

(Abbassa la voce) L’ultima volta che l’ho incontrato è stato in tv per Cavalli di battaglia: prima della diretta era emozionato come fosse la prima volta. Gli venne la febbre a 38 e saltarono le prove. Io pensavo: ma uno così immenso, in grado di suonare tutti gli strumenti dell’arte, così dotato, con una curiosità continua, come poteva stare male? Poi ho capito. È quello che ho vissuto in questi giorni: ho sentito la tensione come se fossi al primo disco. L’ultimo tempo che mi riporta al primo e, siccome non puoi cambiare l’anagrafe, è bello poter piegare la sensazione del tempo.

Chi è lei?

Sono Claudio Baglioni, ho scritto 410 canzoni, altrettante ne ho buttate via o giacciono in cassetti che non aprirò mai. Spero di meritarmi questo successo che non so ancora com’è arrivato, e spero che questo album sia una locomotiva in grado di trascinare altri progetti.

(Canta Baglioni in “Poster”, anno 1975: “…e sui binari quanta vita che è passata e quanta che ne passerà. E due ragazzi stretti stretti che si fan promesse per l’eternità. Un uomo si lamenta ad alta voce del governo e della polizia e tu che intanto sogni ancora sogni sempre sogni di fuggire via…”)

Brexit, altra fumata nera: Ursula e BoJo restano distanti

Il primo ministro Boris Johnson e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen hanno parlato al telefono per circa un’ora ieri sera. Ne sono usciti con un nulla di fatto. La sintesi di Von der Leyen: “Le differenze restano. Un accordo non è fattibile se non verranno risolte. I capi delle delegazioni negoziali si rivedranno domani. Noi parleremo ancora lunedì sera”. Mancano tre settimane alla fine del periodo di transizione fra Ue e Uk, quello che doveva servire, dopo il divorzio firmato a gennaio, a definire i rapporti economici e commerciali fra le due entità. E invece le distanze sono ancora profonde, e da mesi, sempre sugli stessi tre dossier: diritti di pesca, governance e competizione. I nodi sono venuti al pettine: nel perimetro del mandato dei rispettivi negoziatori, le possibilità di un compromesso sono state esplorate tutte, e scartate: per andare avanti deve cambiare il mandato. Cioè la volontà politica. E su questo gli schieramenti sono fermi. I diritti di pesca valgono lo 0,1 del Pil britannico ma per Londra sono una questione cruciale di sovranità, mentre per Francia, Spagna, Danimarca e Paesi Bassi la partita è economica. Competizione e governance sono economicamente e politicamente più rilevanti. Quanto ai rapporti di forza, la Francia di Macron si è detta pronta a porre il veto ad un accordo che non ritenga soddisfacente, la Germania di Merkel è, come sempre, più orientata ad un pragmatico compromesso. Le trattative sono entrate in stallo a Londra venerdì pomeriggio. Da qui la decisione dei capi-delegazione, Michel Barnier per la Ue e David Frost per il Regno Unito, di affidare il proseguimento del dialogo ai rispettivi leader politici, Von der Leyen e Boris Johnson. Che non hanno, evidentemente, trovato un territorio comune. Ora si torna al tavolo negoziale, ma non è chiaro quale formula o soluzione si possa percorrere per scongiurare l’alternativa che non serve a nessuno: un esito senza accordo.

Vigilava sull’etica, Google la caccia

“Zero responsabilità”: queste sono state le parole usate dalla scienziata informatica Timnit Gebru – una delle più rispettate nel campo dell’intelligenza artificiale – per descrivere l’attitudine dei manager della Google verso i cosiddetti “bias”, quei pregiudizi razziali, sociali e di genere che dominano il motore di ricerca. La sua denuncia della “cultura tossica” dell’azienda le è costata il licenziamento, contro cui hanno protestato circa 1.500 accademici ed universitari, oltre a 1.200 impiegati dello stesso colosso digitale che l’ha cacciata. Gebru era a capo di un particolare reparto della Google, con un delicatissimo compito: la sua squadra doveva analizzare l’etica dei contenuti propagati, sviluppati, moltiplicati dal motore nella rete. Nata in Eritrea nel 1983, è scappata dal regime di Addis Abeba per raggiungere sua madre in America, dove ha studiato all’università di Stanford per diventare ingegnere come suo padre, morto quando lei aveva solo cinque anni. Alle spalle Timnit ha un curriculum da prodigio nerd: ha sviluppato l’iPad alla Apple e meccanismi di analisi di big data recuperati da Google Maps. In parallelo ha lottato e fondato organizzazioni no profit per incrementare la presenza delle persone di colore come lei nel mondo digitale. La carriera brillante della ricercatrice è stata interrotta da una diatriba iniziata a novembre scorso: i capi della Google le hanno richiesto di togliere la sua firma da una ricerca accademica che denunciava la mancanza etica del motore di ricerca e certificava l’incremento della discriminazione in rete.

“La vita peggiora quando ti metti a combattere per le persone non rappresentate, altre conversazioni non porteranno a niente. Aspettavano il momento giusto per farmi fuori, forse pensavano di farlo senza conseguenze”, ha dichiarato la ricercatrice. Dopo aver spedito una mail ai suoi collaboratori, – un gruppo di donne e colleghi impegnati al suo fianco nella documentazione del “bias” – Timnit è stata definitivamente allontanata quando, prima in privato, poi in pubblico, ha chiosato che i proclami di cambiamento e buona condotta dei manager della Google sarebbero rimasti tali e che reali azioni di correzione al motore di ricerca non sarebbero arrivate.

Di “censura senza precedenti” hanno parlato addetti ai lavori che le hanno dimostrato pubblica solidarietà. Il gigante di Mountain View non ha commentato tramite i suoi portavoce, ma solo con una dichiarazione ufficiale in cui si rende noto che l’azienda “accetta le dimissioni della scienziata”, la cui risposta è arrivata ben presto via Twitter: “Peccato che non le abbia mai consegnate”. Il motto di Google rimarrà lo stesso: “Don’t be evil”. Ovvero: “Non essere cattivo”, ma solo verso i capi e i loro profitti.

L’idea di Macron: un sito per denunciare i poliziotti

“La nostra migliore azione è l’inazione”. Ieri uno dei principali sindacati della polizia francese, Unité Sgp-Police, ha lanciato una nuova forma di protesta: lo sciopero dei controlli d’identità. La reazione è stata scatenata da un annuncio a sorpresa di Macron: la creazione di una piattaforma digitale su cui chiunque sia vittima o testimone di atti di discriminazione da parte di poliziotti li può segnalare e essere seguito se intende sporgere denuncia.

Il dispositivo partirà a gennaio e sarà gestito dallo Stato in collaborazione con le associazioni anti-razzismo come la Licra. “Non uso il termine di violenze poliziesche perché è diventato uno slogan. Ma ci sono poliziotti violenti e vanno sanzionati”, ha detto venerdì Macron a Brut, un media molto seguito dai giovani. “Quando una persona ha la pelle di un colore che non è il bianco – ha aggiunto il presidente – subisce molti più controlli di identità. È identificata come problema e questo è insostenibile. È così che nasce l’odio per la polizia, che si installa la diffidenza”. Così dicendo Macron ha scatenato la furia dei poliziotti: “No, la polizia non è razzista e non sceglie la delinquenza. Monsieur Macron, è una vergogna. Il presidente avrà la polizia che merita”, ha reagito il principale sindacato, Alliance, aderendo allo sciopero dei controlli. I poliziotti, che già denunciano le violenze di cui loro stessi sono vittime durante le manifestazioni, temono che le parole di Macron possano “stigmatizzare e indebolire la polizia di fronte alle gang e agli islamisti”. Di fatto il racial profiling è un problema denunciato da tempo in Francia: nel 2017, un rapporto del difensore dei Diritti, indicava che un giovane di colore o di origini arabe ha il 20% in più di probabilità di farsi controllare. Su Twitter, Unité Sgp-Police ha messo il dito nella piaga: “È più facile accusare noi che rimproverare i politici degli ultimi 50 anni per aver isolato delle popolazioni intere nelle banlieue”. Il caso di Adama Traoré, un giovane di colore morto nel 2016 mentre era sotto la custodia della polizia dopo aver tentato di sfuggire a un controllo di identità, ha provocato ondate di manifestazioni in Francia. Da quattro anni sua sorella Assa si batte per la verità. Il dibattito sulle violenze della polizia si era riaperto anche con la crisi dei Gilet Gialli. La tensione torna a crescere ora per il caso di Michel Zecler, il produttore musicale di colore picchiato da tre agenti a Parigi. Lo scandalo è venuto fuori grazie al video del pestaggio diffuso da Loopsider.

Sullo sfondo, la contestazione per la nuova legge sulla sicurezza giudicata liberticida e il suo articolo 24, che limita la possibilità di diffondere immagini di poliziotti in servizio. Nel frattempo Macron, cedendo alle pressioni della strada e alle polemiche, ha promesso di riscriverlo. Ma ieri, per il secondo sabato di seguito, un’altra novantina di “marce per la libertà e la giustizia” sono state organizzate in tutta la Francia. Già sabato scorso la manifestazione parigina si era risolta in scontri e decine di arresti. Ieri il corteo di Parigi è rimasto fermo poco dopo la partenza, alle 14 dalla Porte des Lilas, all’est, verso la place de la République, per un rogo acceso in avenue Gambetta. Almeno 400-500 casseurs si sono mescolati tra i manifestanti sfidando con dei laser e lanci di oggetti i reparti antisommossa. Moto e auto alle fiamme, vetrine di negozi infrante. Le strade sono state invase dai fumi dei lacrimogeni e nella folla si sono sentiti slogan come “Tutti detestano la polizia”. Almeno 30 persone sono state fermate a Parigi. A Nantes, due agenti sono rimasti feriti dal lancio di molotov.

“Re Bibi pensa ai suoi processi e al potere: Israele può affondare”

Israele è di nuovo nel caos. E questa volta a far piombare il Paese nel baratro dell’ingovernabilità concorre la crisi economica generata dalla pandemia e dalla sua gestione da parte del premier Bibi Netanyahu. Ma è la situazione politica a destare le maggiori preoccupazioni. In seguito ai continui spostamenti della ratifica della legge di bilancio da parte del primo ministro, il Parlamento israeliano, la Knesset, questa settimana ha votato a favore di un disegno di legge finalizzato a sciogliere l’Aula che porterebbe, se approvato a elezioni anticipate presumibilmente tra marzo e giugno 2021. Sarebbe la quarta volta in meno di due anni. L’instabilità è diventata dunque una costante anche nella terra promessa. Ne parliamo con il decano degli intellettuali e scrittori israeliani, l’ottuagenario pluripremiato Abraham Yehoshua.

“La situazione qui è ormai surreale e il solo responsabile è un primo ministro che vuole sottrarsi all’imminente processo a suo carico per non finire in carcere. Netanyahu sta manipolando qualsiasi argomento a questo scopo. Non c’è più ideologia e logica politica ma solo l’interesse privato di uno che si crede ‘re’ e del suo entourage. Incurante del fatto che il Paese è in crisi economica con un aumento progressivo del tasso di disoccupazione, non solo per la pandemia ma per la sua gestione ondivaga e opportunista dell’emergenza sanitaria, Netanyahu non si sta facendo alcun problema anche a costringere di nuovo gli israeliani a votare anticipatamente. Del resto purtroppo questo è un andazzo sempre più frequente anche nelle democrazie mature inaugurato dal vostro Berlusconi e imitato da Trump”.

Ritiene che questa nuova crisi politica e le probabili elezioni anticipate siano dovute al fatto che Netanyahu si è rifiutato di firmare la legge di bilancio di quest’anno e del prossimo ? Non si può invece supporre che sia dovuta alla decisione di Benny Gantz, leader del partito centrista Blu e Bianco, nonché vice premier e ministro della Difesa di questo governo di unità nazionale, di votare con l’opposizione questa nuova legge sciogli parlamento?

No, non è colpa di Gantz, ma di Netanyahu. Se il premier avesse firmato la legge di bilancio, Gantz non avrebbe reagito in questo modo, portandoquasi certamente il Paese alle urne. Non firmare la legge di bilancio è una scusa escogitata da Bibi proprio per indurre lo scioglimento del parlamento e andare a elezioni così da impedire la rotazione al vertice del governo di Gantz nel novembre del 2021. La reazione dell’ex generale è quella di un uomo onesto e con il senso delle istituzioni che ha capito di essere stato preso in giro da Netanyahu con cui aveva sottoscritto un patto di alternanza alla premiership per accettare di entrare nell’esecutivo. Il rifiuto di Bibi di approvare la legge di bilancio è anche una scusa per farla franca davanti al tribunale che lo giudicherà.

Perché?

Perché spera alle prossime elezioni di portare il Likud, totalmente asservito ai suoi desiderata, a ottenere più voti e diventare nuovamente il primissimo partito. Se così accadrà, nel corso del processo che inizierà a gennaio, Bibi potrà spacciarsi più facilmente come una vittima politica perseguitata dalla magistratura, tentando così di non finire in carcere. Ma c’è un problema.

Quale?

La data delle elezioni. Se avverranno nella prima metà dell’anno, come a questo punto vorrebbe l’opposizione, non gioveranno a Netanyahu. Il suo intento è che si tengano nella seconda metà allo scopo di capitalizzare il probabile successo della campagna di vaccinazioni contro il Covid che inizierà all’inizio dell’anno, provando così a conquistare più consenso in vista del voto.

Il processo a carico di Netanyahu per tre gravi crimini, specialmente quello di corruzione e abuso di potere, è stato ancora una volta posticipato da dicembre a gennaio. Pensa che verrà nuovamente spostato più in là?

No, ma durerà molti mesi e in Israele purtroppo non c’è una legge che costringe un premier sotto processo a dimettersi.

Dove sta andando Israele, maestro?

Verso le tenebre. È l’unica previsione che mi sento di fare con una certa sicurezza, purtroppo. Di più non so dirle perché Israele io non riesco più a capirlo.

Gesti, epiteti e doppi sensi: una risata lunga duemila anni

Continuiamo la nostra passeggiata nei territori comici dell’antichità. Non dimentichiamo però che ogni mappa, nel codificare soggetti e relazioni, non solo rappresenta, ma produce la realtà. Due gli abbagli principali: pretendere che la mappa esaurisca la realtà fenomenica, e trasferire alla realtà l’omogeneità artificiale della mappa (Giaccaria, 2015).

L’IRONIA

Il doppio senso. Gaio Claudio, di un suo schiavo ladro, disse: “È il solo per il quale in casa non c’è nulla di chiuso a chiave!” usando la stessa frase che di solito si impiega per uno schiavo fidato. (Cicerone)

L’avverbio. Peto non vorrebbe che io fossi triste, e battendosi il petto e strappandosi i capelli allo stesso tempo mi dice: “Non ti vergogni di piangere la morte di una schiavetta? Io ho seppellito mia moglie, una donna illustre, maestosa, nobile e ricca, e tuttavia vivo.” Chi è più forte del nostro Peto? Ha ereditato venti milioni di sesterzi e tuttavia vive. (Epigr., V, 37, 18-24)

Il gesto può rendere comica l’ironia, come quando Milton Berle, sorridendo, con una mano mostrava di voler frenare gli applausi (“Basta così!”), mentre con l’altra mano esortava il pubblico a continuare.

STREPSIADE: Ecco: questo è il dito. Quand’ero piccolo, era quest’altro. (mostra il dito medio). (Ne., 653-54)

L’ironia del destino colpisce Sosia, il bugiardo, quando nessuno gli crede la prima volta che dice la verità:

ANFITRIONE: Disgraziato, osi dirmi che in questo momento sei a casa, mentre sei qui? SOSIA: Dico la verità! (Amph., 561-562)

L’ironia dell’autore. In un dialogo dell’Aulularia, Eunomia si lamenta della eccessiva loquacità femminile con uno sproloquio che ne è un esempio tipico (Aul., 120-134). Parimenti, nelle Bacchidi, il moralista Lido deplora una scena di depravazione, e non si accorge di descriverla come un pornografo (Bacc., 477-483).

L’ironia drammaturgica. La commedia si muove meglio quando il pubblico sa qualcosa che un personaggio ignora: nel Mercante, per esempio, Demifone non sa che il figlio Carino ha comprato Pasicompsa per sé; Carino non sa che il padre se ne è invaghito; ed Eutico non sa che l’amico per conto del quale Demifone dice di voler comprare Pasicompsa è suo padre Lisimaco. Il pubblico sa invece tutto quello che l’eiron ha architettato, è al suo stesso livello.

 

DINAMICA DEGLI ACCORDI

La rimbeccata. ARTEMONA: Lo fregherò come si deve. PARASSITA: Sarà fregato sempre, finché tu sarai sua moglie. (Asin., 869-870)

LEONIDA: Quando ti appendono per i piedi, nudo e incatenato, pesi cento libbre. LIBANO: Come fai a calcolarlo? LEONIDA: Te lo dirò, come lo calcolo, e te lo provo. Quando ti appendono ai piedi un peso di cento libbre esatte, quando le mani sono strette dalle manette e fissate alla trave, tu non pesi più di quella carogna e di quel mascalzone che sei. LIBANO: Crepa. (Asin., 301-305)

La rimbeccata inopportuna. Cicerone ricorda quando Filippo in tribunale chiese di interrogare un testimone di piccola statura; il presidente del tribunale acconsentì: “Purché ci metta poco! ”; e Filippo replicò: “Ci metterò poco, è piccolissimo!”; ma sedeva come giudice Lucio Aurifice, che era addirittura più basso del testimone; e la risata dei presenti si tramutò in imbarazzo.

La risposta sarcastica alla domanda superflua. A un oratore maldestro che gli chiedeva se la propria perorazione avesse suscitato la compassione dell’uditorio, Catulo replicò: “Sì, e tanta!”. (Quintiliano)

 

SELEZIONE DEI DATI

Presenza. La selezione dei dati conferisce loro una presenza:

SECONDO SERVO: Come scoreggia e russa forte, Paflagone! (Ipp., 115)

Interpretazione. I fatti possono essere interpretati come indizio:

DIONISO: Povero me, a vederla sono sbiancato! XANTIA: Già. E la tunica è ingiallita, invece. (Bat., 307-8)

ADATTAMENTO DEI DATI

L’epiteto. DAVO: E quello che fa il pedagogo della citarista, come si comporta? (Pho., 144-45), scrive Terenzio, alludendo ironicamente a Fedria che, innamorato di una suonatrice, l’accompagna a scuola e a casa.

La qualificazione. Il protagonista della Pace, Trigeo, nel suo entusiasmo chiama lo scarabeo stercorario “nobile Pegaso alato”.

Un tale chiede a un pugile fifone: “Con chi devi combattere?” E quello, indicando l’avversario: “Con questo eccellentissimo signore!” (Macone, III sec. a.C.)

La classificazione errata. Il category mistake è fra le tattiche divertenti più antiche, come mostrano questi esempi di Ierocle (V sec. a.C.):

Una signora, comprata una casa, si affaccia alla finestra per domandare ai passanti se le dona.

Un tale ordina una bara per sé e, già che c’è, due bare da bambini: per i figli, di misura opportuna, in vista della loro crescita.

 

LA FORMA DEL DISCORSO DIVERTENTE

L’ipotesi. PIRRIA: Era lì, sulla collinetta, che si sfiancava a raccogliere pere selvatiche, o magari un bel po’ di legna per costruirsi una gogna. (Dys.,100-2)

FILOLACHETE: Adesso vorrei diventare un’angina per soffocarla e farla crepare, quella maledetta ruffiana. (Most., 218-219)

La congettura. Affine all’ipotesi, si presta bene al comico di carattere:

PSEUDOLO: È come se tu dicessi che ti voglio carpire l’argento. ARPACE: Ma no, è come se lo dicessi tu e lo sospettassi io. (Pseu., 633-635)

DIONISO: Certo! Abbiamo affondato una dozzina di navi nemiche! ERACLE: Voi due! DIONISO: Lo giuro su Apollo! XANTIA: E a quel punto mi svegliai. (Bat., 49-51)

SECONDO SERVO: Ecco qua. Di una cosa, mi sembra, non potrete mai accusarmi: di mangiare il cibo che impasto. (Eir., 13-14), dice quello che sta impastando focacce di merda per lo scarabeo di Trigeo.

(33. Continua)

 

Giuseppe Santalucia eletto presidente dell’Anm

A ben un mese e mezzo dalle elezioni e dopo tre interminabili riunioni, l’Associazione nazionale magistrati ha il suo nuovo presidente e la Giunta con tutte le correnti a eccezione di Articolo 101, definita “anti sistema”. Il neo presidente è Giuseppe Santalucia, consigliere di Cassazione, di Area, la corrente progressista che ha vinto le elezioni. È stato il capo dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia guidato da Andrea Orlando. “Senza coprire ciò che è stato, ha detto, pensiamo a ricostruire un maggiore tessuto etico di tenuta nei comportamenti dei magistrati”. Lo ha votato anche chi, fino a ieri, ha puntato i piedi e ha vinto, Magistratura Indipendente, la corrente conservatrice, arrivata seconda alle elezioni e che ha sempre posto il veto su Luca Poniz, presidente uscente dell’Anm, il magistrato più votato e ricandidato dai suoi di Area.

Anche ieri tirava aria di fumata nera, diventata bianca solo per il passo indietro di Poniz. Dal punto di vista di Mi, Poniz doveva pagare il suo “giustizialismo” sulla questione morale deflagrata fra le toghe con lo scandalo nomine di cui oltre Luca Palamara, ex dominus di Unicost, è stato protagonista Cosimo Ferri, ancora oggi leader ombra proprio di Mi, deputato renziano, toga in aspettativa sotto processo disciplinare. Adesso Mi, però, si schiera, come Articolo 101 e Autonomia e Indipendenza, per le elezioni dei consiglieri del Csm con sorteggio, mentre Area è contraria e per una rotazione tra i dirigenti degli uffici giudiziari. Due punti cruciali per sconfiggere la correntocrazia, secondo tanti magistrati di base.

Nel programma di mediazione per arrivare alla Giunta quei punti sono messi solo come oggetto di confronto a venire, motivo principale per il quale Articolo 101 ha scelto l’opposizione. Sempre ieri sono stati eletti Alessandra Maddalena, Unicost, vice presidente, Salvatore Casciaro, Mi, segretario. Componenti di Giunta 2 di Area, 1 di Mi e 1 di AeI.