Caporalato di Stato, toghe onorarie al lavoro (spesso però gratis). Il ministero: “È la legge”

Se si trattasse di un privato sarebbe già a processo, probabilmente sulla base della legge sul caporalato del 2016 (chi utilizza, assume o impiega manodopera sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento), ma qui non si parla dei rider di Uber, ma di soggetti che svolgono la loro opera nel pubblico impiego e il cui datore di lavoro è – absit iniuria verbis – il ministero della Giustizia. Ieri qualcuno avrà visto davanti ai tribunali un flash mob come quello di Palermo che vedete nella foto in alto. Chi sono? Cosa vogliono queste persone? Sono le vittime di questa sorta di caporalato di Stato, viceprocuratori e giudici onorari (che non sono quelli “di pace”), migliaia di persone che svolgono un ruolo fondamentale nella giustizia italiana senza avere alcun diritto, attualmente nemmeno quello di essere pagati per quello che davvero fanno.

Si tratta di una vicenda antica, di cui citeremo solo l’ultimo passaggio. La riforma del 2017 – a via Arenula c’era Andrea Orlando, a Palazzo Chigi Paolo Gentiloni – doveva chiudere una volta per tutte la bizzarria di un incarico onorario e temporaneo che va avanti da più di vent’anni. Se possibile, però, ha peggiorato la situazione: vi si prevede infatti che gli onorari possano essere pagati solo per gli atti per cui ricevono esplicita “delega” da parte di un magistrato, in sostanza le udienze e poco altro per un’indennità di 73 euro lordi al giorno. Qual è il problema? Che in quel testo è previsto, citiamo la normativa per i Vpo ma vale anche per i giudici, che essi debbano coadiuvare “il magistrato professionale e, sotto la sua direzione e il suo coordinamento” compiere “tutti gli atti preparatori utili per l’esercizio della funzione giudiziaria da parte di quest’ultimo, provvedendo allo studio dei fascicoli, all’approfondimento giurisprudenziale e dottrinale ed alla predisposizione delle minute dei provvedimenti”. Ecco, tutto questo lavoro, secondo la legge, deve essere fatto gratis.

Lo ha ribadito giusto questo martedì una nota del ministero di Alfonso Bonafede: Tribunali e Procure non possono pagare quel lavoro perché non è oggetto di delega, è gratis per legge. Una chicca. Stante che la cosa è imbarazzante, come tutti riconoscono, il capo del Dipartimento per gli affari di giustizia fa sapere di aver chiesto al capo di gabinetto di Bonafede “di valutare l’opportunità di acquisire un parere dell’Ufficio legislativo circa la fattibilità di una soluzione legislativa… o circa la possibilità di pervenire – per via interpretativa – a diverse conclusioni”. La richiesta è del 13 febbraio scorso. Risultato: “Il parere è tuttora all’esame dell’Ufficio”. Attività di studio, ci permettiamo di far notare, che verrà – com’è giusto – pagata a chi la sta espletando.

Dopo le spese pazze Pogliese torna sindaco a Catania: la legge Severino va alla Consulta

Centotrentacinque giorni da sindaco sospeso per effetto della legge Severino, dopo la condanna in primo grado a quattro anni e tre mesi per peculato. Sono stati mesi di passione per Salvo Pogliese, da ieri reintegrato a Palazzo degli Elefanti dopo la decisione della prima sezione Civile del tribunale di Catania.

Ai giudici, l’attuale coordinatore di Fratelli d’Italia in Sicilia orientale si era appellato con un corposo ricorso dopo che a fine luglio erano scattati i 18 mesi di sospensione previsti dalla legge Severino. A esprimersi nel merito sarà però la Corte Costituzionale, a cui i giudici hanno trasmesso gli atti.

Il cuore della vicenda è legato ai dubbi sulla durata fissa della sospensione: per il tribunale non è da escludersi che lo stop debba essere proporzionato ai fatti contestati: “La determinazione del termine di durata – si legge nell’ordinanza – deve essere sorretta da un’idonea motivazione”. Dietro il caso Pogliese c’è il processo sulle spese pazze all’Ars, quando il sindaco era capogruppo del Pdl.

Balotelli ritenta: alla corte di B. per tornare in A

Balotelli è tornato. Un’altra volta, stavolta da chi in passato gli dava della mela marcia (e in privato pure del “negro”). Ma se non ha funzionato nemmeno a casa, la sua Brescia, dove doveva rinascere e invece è stato praticamente licenziato, perché non riprovarci al Monza, cioè da Berlusconi.

SuperMario (se così ancora si può chiamarlo) riparte dalla Serie B. Di lui si erano perse le tracce da mesi, dalle ultime presenze in campo prima del lockdown. Poi poco o nulla da calciatore, un paio di allenamenti con i dilettanti del Franciacorta, voci infondate sul Genoa, un pour parler con i brasiliani del Vasco da Gama. Vita quasi da ex, fra social e la dimenticabile comparsata al Grande Fratello Vip.

Nonostante le battutacce machiste e un dubbio stato di forma, il suo agente milionario Mino Raiola, che gli aveva promesso tre palloni d’oro e invece l’ha trascinato via di squadra in squadra fin quando non l’ha voluto più nessuno, gli ha trovato un altro ingaggio. Dalla Champions alla provincia, fino alla Serie B, la parabola è desolante. Ma il Monza è molto di più. È la nuova squadra di Berlusconi, che col suo fido Galliani sogna di rifare il Milan, e ne ricompra pure gli stessi giocatori, Paletta, Boateng, ora persino Balo, nella speranza spasmodica, forse un po’ nostalgica, di ritornare in Serie A, anche se fin qui nonostante acquisti clamorosi per la cadetteria i biancorossi sono staccati dalla vetta.

Balotelli per Berlusconi è un rinforzo, una scommessa, un’operazione di marketing a buon prezzo per chi tanto non bada a spese. Berlusconi per Balotelli invece è l’ennesima, ultima occasione. Fra i due, qualche anno fa si era creato un vero e proprio caso, quando nel processo Ruby Ter era spuntato un video in cui B. si abbandonava a commenti razzisti sul conto di SuperMario. Ora si ritrovano al Monza. Come ripeteva Galliani ai tempi d’oro, “certi amori non finiscono”. Amori, si fa per dire.

Veneto, il super Tfr anche ai furbetti del bonus Inps

Quando erano stati beccati con il sorcio in bocca – o meglio con i 600 euro del bonus Inps in tasca – si erano inventati le scuse più assurde. Il leghista Riccardo Barbisan aveva dato la colpa al suo commercialista (“Ha fatto richiesta per me”), il collega veronese Alessandro Montagnoli aveva accusato la moglie (“L’ha fatto ma in buona fede”) mentre il vice di Luca Zaia, Gianluca Forcolin, dopo aver spiegato di non averlo mai ricevuto, aveva puntato il dito contro una socia del suo studio di tributaristi: “Senza che lo sapessi ha fatto richiesta per tutti”. Peccato che la Lega e il governatore Luca Zaia non ci abbiano creduto, escludendo i tre consiglieri regionali leghisti dalle liste per le elezioni di settembre. E così, venuto meno il lauto compenso da consiglieri, ora si consoleranno con l’assegno di fine mandato (il nostro Tfr) pari a 33.000 euro per chi ha fatto una sola legislatura (Barbisan, Montagnoli e Forcolin) e 66.000 per chi ne ha fatte due. Ma non ci sono solo i tre leghisti tra coloro che riceveranno il ricco assegno: insieme a loro, come ha rivelato il Gazzettino, ce ne sono altri 20 che non sono stati rieletti. Dopo una lunga battaglia legale sulla privacy e la sentenza del Consiglio di Stato del 2018 che aveva escluso la tutela dei dati personali, i 23 nomi di coloro che incasseranno il Tfr (tra cui 7 leghisti e 3 Pd) sono stati pubblicati. Questi negli ultimi anni hanno chiesto che venisse trattenuta una parte della busta paga (198 euro) che sommati ai 352 euro della Regione andavano a costituire quasi una mensilità da 6.600 euro lordi l’anno che, moltiplicati per cinque, fanno salire l’importo a 33.000 euro. Eppure, dopo la feroce polemica del 2015 quando i candidati presidenti Zaia e Alessandra Moretti avevano annunciato che avrebbero abolito il privilegio, 12 consiglieri regionali su 51 avevano rinunciato.

I mercati, anatomia da colpo di stato

“La reazione dei mercati è stata positiva”, “incertezza sui mercati”, “si attendono le reazioni dei mercati”. Quante volte abbiamo sentito o letto tali frasi o altre similari? Ma cosa sono i “mercati”? Chi sono i “mercati”?

Che esistano ognun lo dice, dove siano nessun lo sa. In realtà i mercati, come tutte le cose dell’odierno mondo, stanno nell’etere, sono astratti come ciò di cui si occupano: il denaro. Chi lavora col denaro? Sono in genere entità altrettanto astratte, banche, fondi di investimento, compagnie di assicurazioni o in qualche caso persone fisiche, comunque (entità giuridiche o fisiche che siano) tutta gente che conosce molto bene i complessi meccanismi del denaro e della finanza e ci specula sopra. Questo per una parte, l’altra, il giustamente disprezzato “parco buoi”, è formata da piccoli o medi risparmiatori che entrano in questo grande gioco sperando nel colpo di fortuna e ne escono regolarmente pelati. Tra l’altro il risparmiatore, anche se non si impegna nel gioco della finanza, è il fesso istituzionale del sistema. Perché il risparmio è credito e come dice Vittorio Mathieu enunciando una regola generale: “I debiti alla lunga non vengono pagati”. Perciò i ricchi, che se ne intendono, hanno più debiti che crediti.

C’è un’ovvia differenza fra l’industria e la finanza. L’industria produce cose, oggetti, vestiti e, in campo alimentare, il più essenziale di tutti i beni, il cibo. La finanza non produce nulla, partorisce semplicemente altra finanza, è denaro che partorisce altro denaro, cosa che scandalizzava Aristotele per il quale il denaro essendo inanimato non poteva essere fertile (Politica). La finanza è una semplice “partita di giro” a somma zero. “Nulla si crea e nulla si distrugge”, diceva Democrito. Si può star certi che se c’è un rialzo alla Borsa di New York altri, in diverse aree del mondo, stanno perdendo qualcosa, non necessariamente denaro ma per esempio posti di lavoro. Le Borse vanno in visibilio quando una grande azienda licenzia un migliaio di dipendenti.

La finanza, a differenza dell’industria che ha bisogno di operai, di tecnici, di impiegati, di portieri, non dà nemmeno lavoro. Basta un individuo particolarmente abile con computer veloce e costui schiaccia un pulsante e mette in ginocchio un intero Paese. Intendiamoci, questi trucchetti sul denaro ci sono praticamente da quando esiste il denaro, anche se nel corso dell’evoluzione, chiamiamola così, hanno preso dimensioni un tempo sconosciute. Nel Medioevo il grande mercante pagava le maestranze in moneta povera, sostanzialmente rame, che i poveracci usavano fra di loro (sarebbe stato inutile e assurdo tesaurizzarla) mentre il mercante realizzava sui mercati internazionali in oro e argento. È quanto succede anche oggi nei Paesi sottosviluppati, detti pudicamente “in via di sviluppo”, dove i locali spendono moneta locale, che non val nulla, mentre i loro datori di lavoro realizzano in dollari, euro, sterline.

Il mercato è onnipresente. Esiste una vera e propria “dittatura dei mercati” di cui si preferisce non parlare o solo bisbigliare, anche se di recente due film, non a caso americani, The Wolf of Wall Street di Scorsese e Panama Papers di Soderbergh hanno affrontato in modo serio la questione. Questa dittatura però è sfuggente perché anonima. Sono finiti i bei tempi in cui il dittatore era un soggetto in carne e ossa e quindi potevi sempre sperare di sparargli col tuo fucilino a tappo e farlo fuori. Sparare contro “i mercati” è come cercare di colpire un fantasma.

Il mercato è quindi invincibile? Teoricamente no. Al mercato si oppone l’economia di Stato quale è esistita, per fare l’esempio più noto, in Unione Sovietica. Ma l’economia di Stato è infinitamente meno efficiente di quella a libero mercato. Se l’Urss ha perso la Guerra fredda con l’Occidente non è perché aveva meno atomiche, meno bombardieri, meno carri armati, insomma meno armi, meno popoli arbitrariamente soggiogati, l’ha persa sul piano dell’economia. Un Paese a economia di Stato circondato da Paesi “liberisti” è spacciato. Dovrebbe essere talmente forte da occupare una buona parte del globo, per questo Trotzkij affermava “la Rivoluzione o è permanente o non è”. E infatti non è stata. Gli antichi Imperi fluviali, sostanzialmente collettivisti, comunisti, dov’era prevalente il concetto di “equivalenza” e di una ragionevole redistribuzione della ricchezza fra i sudditi, hanno potuto resistere tremila anni perché così immensi da non temere una concorrenza esterna.

Allora siamo costretti a morire “democratici” (la democrazia è l’involucro legittimante del modello di sviluppo di libero mercato, la colorata carta che ricopre la caramella, cioè la polpa avvelenata del sistema) e “liberisti”? In teoria esiste una terza via, la famosa “terza via”, fra capitalismo e comunismo e si chiama socialismo. Il socialismo non rinnega l’economia di mercato, ma gli taglia parecchio le unghie con un forte intervento, in senso equitativo, dello Stato, inoltre coniuga il sistema con le libertà civili che è quanto è estraneo al comunismo ovunque si sia affermato. L’etica di Stato di hegeliana memoria nel socialismo non ha parte. Ma quel poco di socialismo che rimane nel mondo è attaccato da tutte le parti. L’esempio è Nicolás Maduro, definito regolarmente dai media occidentali come “dittatore”. Ora io vorrei sapere in quale dittatura un soggetto che ha tentato un colpo di Stato armato, con l’aiuto degli americani, come “il giovane e bell’ingegnere” Juan Guaidó, sarebbe a piede libero. Nella democratica Spagna sette indipendentisti catalani, che non hanno usato la violenza e che avevano qualche buona ragione in più del “bell’ingegnere”, sono in galera da quasi tre anni, il loro leader Carles Puigdemont in esilio. Non importa, Maduro è un “dittatore”, il generale Abdel Fattah al-Sisi che con un colpo di Stato ha decapitato l’intera dirigenza dei Fratelli Musulmani che avevano vinto le prime elezioni libere in Egitto, e assassinato circa 2.500 oppositori e altrettanti disperdendone nei “desaparecidos” è, come si espresse Matteo Renzi quando era premier, “un grande uomo di Stato” (io direi: di colpi di Stato).

Allora siamo davvero destinati a morire “liberisti”? No, sarà il sistema stesso a suicidarsi in grande stile. Un sistema che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura, quando non potrà più crescere collasserà su se stesso. In modo molto rapido. Avete presente le vecchie cassette con le quali fino a qualche anno fa guardavamo i film? Durante il film andavano a ritmo regolare, ma volendo tornare indietro si avvolgevano a velocità supersonica. E questo, prima o poi, più prima che poi, accadrà. E allora non saremo più “liberisti”, ma finalmente liberi.

 

“Nevone” sulle Alpi e fiumi in piena, ma è un anno caldo

In Italia – Il bilancio dell’alluvione del 28 novembre a Bitti (Nuoro), è di tre vittime e una settantina di sfollati, oltre alle distruzioni. E per fortuna è stato l’unico centro abitato a trovarsi sulla traiettoria dello straordinario temporale autorigenerante che ha scaricato 501 mm d’acqua presso Oliena. Come già a Olbia il 18 novembre 2013, l’interferenza umana ha fatto il resto, specie l’improvvida tombatura del Rio Cuccureddu sotto il paese. Colpita anche la Sicilia, molti danni per una tromba d’aria la notte di domenica 29 a Catania. Intervallo calmo, poi la perturbazione nord-atlantica di mercoledì 2 dicembre ha portato la prima neve in pianura al Nord (5-10 cm sul Cremonese), intensa sulle Langhe e sui monti dal Cuneese all’Emilia (30-60 cm), pioggia congelantesi sul Carso, allagamenti giovedì nel Cilento e a Reggio Calabria. Nuovo e intenso maltempo nel weekend: altra neve al Nord-Ovest venerdì con disagi sull’autostrada Milano-Genova presso Busalla, altrove scirocco tiepido e mareggiate, grandi precipitazioni sull’Appennino Tosco-Emiliano e le Alpi orientali (ieri 230 mm in mezza giornata sull’alto Friuli), qui con oltre un metro di neve in quota e fiumi in piena a valle. In netto contrasto con un novembre che al Nord è stato tra i più caldi e secchi in due secoli con 1-3 °C sopra media e neanche una goccia sul Torinese.

Nel mondo – La stagione degli uragani tropicali atlantici termina per convenzione il 30 novembre, e quest’anno è stata da record con 30 tempeste battezzate (di norma sono una dozzina), battendo il primato di 28 del 2005, l’anno di “Katrina” a New Orleans. Molti uragani si sono formati con rapidità esplosiva, avanzando però lentamente e generando così impatti più persistenti e gravi, elementi che secondo Jim Kossin (Noaa), tra i maggiori esperti di cicloni tropicali, sono correlati al riscaldamento globale. Il Sud dell’India soffre di inondazioni causate dai cicloni “Nivar” e “Burevi”, piogge anomale e alluvioni-lampo anche nello stato brasiliano di San Paolo e a Juneau (Alaska). In questi giorni, ancora esempi di caldo record: primati nazionali di temperatura massima per novembre in Australia del Sud (48,0 °C), per dicembre in Messico (40,5 °C) e Ghana (40,0 °C). Nella provincia canadese della Nuova Scozia le minime non sono scese sotto i 15 °C il 2 dicembre, mai accaduto in Canada in una notte d’inverno. Novembre 2020 nel suo insieme si è piazzato primo tra i più caldi in Scandinavia e Australia (qui pure l’intero autunno), quarto in Svizzera (peraltro con un deficit di precipitazioni dell’80 per cento e il Reno in secca), sesto nel Regno Unito, ottavo in Francia. Il rapporto preliminare State of the Global Climate 2020 dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale segnala che l’anno sta per chiudersi tra i primi tre più caldi con 1,2 °C sopra la media preindustriale, tutti i sei anni più bollenti si sono concentrati dal 2015, e oltre dieci milioni di persone hanno dovuto spostarsi a seguito di eventi estremi che contribuiscono anche all’insicurezza alimentare, tornata a crescere da alcuni anni. Il segretario Onu Guterres nel presentare lo studio ha tuonato che “l’umanità sta facendo la guerra alla natura, è un suicidio” e che “le attività umane sono alla base della nostra discesa verso il caos”. Preoccupazioni condivise anche dalle 35 agenzie scientifiche internazionali che hanno compilato l’edizione 2020 del Lancet Countdown, dedicato a cambiamenti climatici e salute con i suoi indicatori sempre più critici, dalla mortalità per eccesso di caldo (+54% tra gli over-65 nell’ultimo ventennio) alle condizioni ambientali più favorevoli alla diffusione di malattie infettive. Eppure insistiamo a non guardare oltre le nostre faccende del qui e ora.

 

Avvento Quel “patto con il lettore” dei Vangeli: Gesù è il Messia atteso

Oggi, seconda domenica di Avvento, una delle letture tradizionali è quella dell’inizio del Vangelo di Marco, in cui ci viene presentata la figura di Giovanni il battista, colui che i Vangeli considerano il precursore del Messia, cioè di Gesù. E subito dopo ci viene presentato Gesù stesso, adulto, che si presenta a Giovanni per essere da lui battezzato. Se cercate nel Vangelo di Marco il racconto di Natale, cioè della nascita di Gesù, non lo troverete, come non lo troverete nel Vangelo di Giovanni. Solo i Vangeli di Matteo e Luca (con differenze fra loro) riportano i testi più famosi della narrativa mondiale: quelli della nascita di un bambino speciale in una notte piena di stelle (una è anche particolare), in cui la gioia dei pastori, della gente comune e di visitatori venuti da molto lontano è contrapposta alla preoccupazione e all’odio dei potenti. Una dinamica che accompagnerà sempre l’esistenza di Gesù e quella della chiesa, come accompagna da sempre anche la storia del mondo.

“Inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio. Secondo quanto è scritto nel profeta Isaia: ‘Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: ‘Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri’. Venne Giovanni il battista nel deserto predicando un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati. E tutto il paese della Giudea e tutti quelli di Gerusalemme accorrevano a lui ed erano da lui battezzati nel fiume Giordano, confessando i loro peccati… E predicava, dicendo: ‘Dopo di me viene colui che è più forte di me; al quale io non sono degno di chinarmi a sciogliere il legaccio dei calzari. Io vi ho battezzati con acqua, ma lui vi battezzerà con lo Spirito Santo’” (Marco).

Le prime parole dei quattro Vangeli sono una specie di “patto con il lettore”: che Gesù sia il Messia atteso da tempo è subito chiaro a chi legge, mentre i contemporanei del Maestro di Nazareth, discepoli compresi, rimarranno a lungo nel dubbio e nell’inquietudine: “Gesù domandò ai suoi discepoli: ‘Chi dice la gente che io sia?’. Essi risposero: ‘Alcuni, Giovanni il battista; altri, Elia, e altri, uno dei profeti’. Egli domandò loro: ‘E voi, chi dite che io sia?’. E Pietro gli rispose: ‘Tu sei il Cristo’” (Marco). Che Gesù sia colui che doveva venire è confermato dalle molte citazioni (esplicite e implicite) dell’Antico Testamento: gli autori del Nuovo Testamento hanno riletto le antiche Scritture ebraiche alla luce della fede in Gesù Cristo trovandovi conferme e significati nuovi che prima non avevano visto. E questo sarà il motivo principale della dolorosa rottura tra ebraismo e cristianesimo. Infine c’è il deserto, il luogo simbolico della lontananza dai palazzi del potere, dalla città, dal Tempio. Un luogo dove, grazie alla predicazione del profeta Giovanni, è possibile recarsi per riconoscere il peso del peccato e convertirsi. Ma il deserto è anche il luogo lontano, isolato, dove Gesù, subito dopo essere stato battezzato da Giovanni, passerà quaranta giorni tra le bestie selvatiche e tentato da Satana ma non abbandonato da Dio, perché “gli angeli lo servivano”.

“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; ravvedetevi e credete al Vangelo”, dice Gesù nella sua prima predicazione pubblica. Il “Regno di Dio è vicino” non solo in senso temporale (l’attesa si è abbreviata), ma soprattutto in senso fisico: vicino a Gesù c’è la realtà del Regno di Dio. E quindi chi sta vicino a lui e alla sua parola può già assaporarne i primi frutti. Anche questo è l’annuncio dell’Avvento.

* Già moderatore della Tavola Valdese 

41 bis, un vuoto di diritto Io Sto col pm Woodcock

Due episodi mi inducono alla riflessione su un tipo estremo di reato detto “mafia” e sulla punizione imposta e automaticamente eseguita dallo Stato italiano. Il primo episodio è la definizione di “Roma mafiosa”, dopo certi arresti e reati, creando uno stato di emergenza morale ma anche giudiziario (il riferimento alla mafia cambia immediatamente il tipo di carcerazione). Ma dopo poco tempo è seguita, insieme con la conferma di tutti i reati contestati e delle ragioni di arresto, la cancellazione dal fascicolo della parola “mafia”.

La città di Roma, luogo dei reati, e i suoi autori restavano colpevoli di tutto, ma uscivano da un pesantissimo tipo di carcerazione (il “41 bis”) ed entravano in uno stato di detenzione “normale” cui poi seguiva una serie di liberazioni condizionali. Con la memoria di questa vicenda, ho letto l’articolo del magistrato Henry John Woodcock sul Fatto del 6 novembre: “Troppi al 41 bis. È ancora una misura eccezionale?”. L’argomento è scottante e quasi intrattabile. Da una parte si schiera un Paese democratico e costituzionale che però esige pene adeguate agli orrendi delitti di mafia. Dall’altra, accampati su un scoglio da cui si sente poco la voce, alcuni giuristi e politici che si interessano ancora di diritti civili: il partito radicale, piccoli gruppi di intellettuali e scrittori che continuano a vedere come una grave anomalia una pena speciale che non è in proporzione al reato ma è fondata sulla persuasione di efficacia punitiva contro tutta l’organizzazione mafiosa.

Ma il 6 novembre abbiamo trovato sul Fatto l’intervento solitario e sorprendente di un magistrato tra i più laboriosi nella caccia alla criminalità organizzata. Si domanda se trovi posto nel nostro ordinamento giuridico l’idea di colpirne ogni volta uno, con il durissimo 41 bis, per colpire tutti (l’interpretazione è mia, ma spero sia corretta). All’intervento del magistrato, il direttore Marco Travaglio ha fatto seguire una nota in cui prevede un dibattito e mette a disposizione il giornale. Woodcock percorre una strada che non è la disputa sulla gravità della pena (isolamento assoluto e per sempre), che viene inflitta con automatismo amministrativo non appena l’accusa è di mafia, e non riguarda quel particolare imputato, ma le vicende tragiche della guerra Stato-mafia. Dunque aggiungere il trattamento previsto dal 41 bis a un imputato di mafia non è proporzionale al reato, ma risponde a una grave emergenza del Paese. Woodcock deve scegliere fra contrapposizione legge-persona, da un lato, e quella tra difesa dello Stato e lotta allo Stato del grande crimine organizzato, dall’altro. Sceglie la persona. Osserva che oggi nelle carceri italiane ci sono 600 detenuti soggetti al regime del 41 bis, dunque non solo all’isolamento assoluto e perenne, ma anche a tutti i caratteri, difficilmente costituzionali, del carcere duro non legato al crimine ma al tipo di crimine.

Woodcock evita la pietà per la persona colpita dal 41 bis e si occupa della contrapposizione fra le due organizzazioni, Stato e mafia. Dice che, se così tanti sono soggetti al 41 bis e alla sua durezza, allora si tratta di una forma diffusa e, paradossalmente normale, di carcerazione che perde il suo carattere di eccezione e diventa semplicemente “il carcere”, sia pure in una versione estrema. Woodcock non vuole lasciarsi coinvolgere da questioni morali come quelle proposte da chi vuole interessarsi del destino di certe persone che, allo scatto della sentenza e all’inizio della vita in cella (il tutto accertato e deciso dai giudici), vedono aggiungersi una gravissima pena automatica che non riguarda il loro processo, ma intende colpire l’organizzazione anti-Stato detta “mafia”. Il pm vede un pericolo in più. Dice: con un numero così alto di detenuti raggiunti dalle due pene sovrapposte, quella del Codice e quella di mafia, si va verso una forma diffusa di detenzione durissima immutabile, ma anche accettata come normale, un rimedio ovvio e dovuto a un male grave che riguarda noi tutti. Il pm Woodcock non chiude la sua riflessione, la propone. Penso che intenda anche dire (ma non lo dice) questo: la pena durissima del 41 bis non ha intaccato in nulla il tremendo fenomeno della mafia, ma tranquillizza coloro che la combattono. Però è un percorso che trasforma la figura del detenuto. È stato deciso che il condannato per mafia debba pagare di persona, da solo, ogni giorno, per sempre, il prezzo di tutto il crimine organizzato. Non c’è un vuoto pericoloso di diritto?

Furio Colombo

 

Grazie, caro Furio, per il tuo contributo al dibattito. Io penso che la risposta alla tua domanda finale l’abbiano data più volte la Corte costituzionale e le Corti europee dichiarando legittima la legge sul 41 bis, uno dei migliori lasciti di Falcone e Borsellino.

M. Trav.

 

La “demeritocrazia” dei soliti noti

“Io non ti conosco io non so chi sei”.

Canzone di Mina

 

Dobbiamo essere grati a Carlo Corsi, definito “super cacciatore di teste” (ieri, nell’intervista sul “Corriere della Sera” di Daniele Manca), perché mette nero su bianco ciò che sapevamo sul potere che nomina se stesso. E su cui abbiamo ora la sua preziosa testimonianza. Con tre casi eccellenti. Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni. “Selezionammo dei nomi per l’Eni, poi proposi di sentire il capo azienda Paolo Scaroni, il quale disse che l’unico era Descalzi”. Francesco Starace, amministratore delegato di Enel. “Fu il ceo Fulvio Conti a indicarmi Starace quando gli domandai se aveva in mente qualche manager interno”. Gianni Letta. “Prese l’aspettativa dall’advisory board di Spencer Stuart e io gli chiesi un nome: fece quello del nipote Enrico”. E così via, tra un’allegra cooptazione e l’altra.

La prima reazione a tale metodo di selezione potrebbe essere che non è poi così difficile diventare super cacciatore di teste: basta ascoltare le persone giuste. Attenzione però che ascoltare le persone giuste significa avere le frequentazioni giuste, e dunque possedere una solida reputazione nel campo. Insomma, sapersi muovere, con disinvoltura e accortezza, nel perimetro dell’Italia che conta. Si chiama capitalismo di relazione e/o familista che pesca, ne siamo convinti, in ambiti di sicura competenza ed esperienza. “Ci occupiamo di persone di valore”, sottolinea con orgoglio Corsi. D’accordo, ma quanti sono coloro che dotati di altrettante qualità manageriali, e di pari eccellenti referenze professionali, non giungono al traguardo perché non appartengono a quel perimetro privilegiato? A quel club in cui tutti si conoscono, e si danno una mano?

Le cose non cambiano, anzi peggiorano fortemente, se scendiamo di qualche gradino, o di parecchi fino ad arrivare alla base della scala sociale. Prendiamo un giovane, o meno giovane che ha saputo che nel tale supermercato cercano un commesso. Siamo davvero convinti che si assumerà in base alle referenze dei vari candidati? O non invece su segnalazione, magari di qualche conoscenza della direzione, o da parte di chi già lavora in quell’esercizio e vuole sistemare un amico o un parente? Mentre scrivo mi rendo conto dell’estrema banalità di queste osservazioni. Che senso ha stupirsi del sistema quando, da che mondo è mondo, i genitori si danno da fare con le “giuste conoscenze” per trovare un posto di lavoro ai figli? Il curriculum costituisce se mai un dipiù. Corsi ci conferma che anche ai massimi livelli funziona grosso modo così, e questo se vogliamo è un segno di egualitarismo tra l’attico e il sottoscala. Nell’ultimo Rapporto Censis sulla situazione del Paese leggiamo che la pandemia ha scavato un abisso tra chi può contare su un lavoro stabile e chi non può contare su nulla. Sono cinque milioni i precari “scomparsi” con il Covid. Una bomba sociale, e morale, sotto i nostri piedi. Interessa davvero a qualcuno?

Antonio Padellaro

Mail Box

Direttore, Gobetti aveva già risposto ai suoi dubbi

Alle domande di Marco Travaglio, sintetizzate nell’articolo di presentazione del suo ultimo libro “Bugiardi senza gloria”, già rispose, sacrificando la sua giovane vita, Piero Gobetti: “né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù da padroni, ma gli italiani hanno bene animo di schiavi”.

Vincenzo Tondolo

 

Massima solidarietà per le vostre cause

Vi esprimo la massima solidarietà e vicinanza per le cause a voi intentate da Eni, Casellati e Renzi. Occorre difendere il Fatto Quotidiano, in Italia raro baluardo della libertà d’informazione. Se ce ne fosse bisogno, sono pronto a sostenervi anche economicamente per quello che posso.

Alfonso Di Domenico

 

Siamo pronti a sostenervi sempre

Ho appena finito di leggere il dossier sulla cause intentate da Eni, Casellati e Renzi contro il Fatto. Non servono commenti. In caso di necessità, credo che saremmo in tanti disposti a sostenere economicamente il giornale con forme di sottoscrizione straordinaria. Non mollate.

Franco Montanari

 

Chi vi attacca si rivela un burattino nel panico

Caro Fatto, non lasciatevi intimidire! L’attacco a un giornale senza padrone dimostra come il potente di turno pagato da noi non è altro che una marionetta in preda al panico. Il peggio che può capitare a queste figurine è sparire nel nulla e questo lo sanno benissimo.

Doris Oberperfler

 

L’offesa alla Raggi mi ha fatto ribollire il sangue

Salvini dice che la Raggi è scema. Io, innamorato di Roma e conscio di ciò che l’ha preceduta, mi sono offeso, forse quanto o più di lei. La storia di Roma e dei romani la sappiamo quasi tutti: le ruberie, le furberie e il malaffare erano all’ordine del giorno. Virginia Raggi ha portato un venticello, che potrà diventare un uragano, di onestà, sincerità e pulizia. Facendo sì molti errori, ma comportandosi sempre correttamente. Mi viene da ridere se penso ai personaggi che, sostituendola, potrebbero far retrocedere Roma a prima della Raggi. Se ben ci penso, forse la scema non è la Raggi, ma qualcun altro.

Paolo Benassi

 

Un politico anziano può essere “rieducabile”?

Allo scambio di opinioni sulla funzione diseducativa della pena fra il direttore Travaglio e Lerner, vorrei solo aggiungere un mio dubbio personale. Quale rieducazione dovrebbe fare la pena a certi politici italiani di 69, 73, 84, ecc. anni?

Biagio Stante

 

Serve una riforma contro i potentati

Caro Travaglio, è inconcepibile che, per notizie veritiere, il tuo giornale venga aggredito da potentati politici ed economici, con cause temerarie. Cosa si aspetta a sanzionare queste ultime con apposita riforma giudiziaria? Detta riforma potrebbe anche prevedere che le controversie giudiziarie, tra la stampa ed entità politiche-economiche che siano caratterizzate da una certa forza, debbano essere precedute da una sorta di confronto pubblico-mediatico.

Piero Angius

 

Pd e M5S fra tradizione e necessità di futuro

Se il Pd è il partito che ha più radici e tradizioni di altri e si mostra capace di puntellare e guidare ancora l’oggi, è perché da tempo trae energie e apporto da persone e forze anche demograficamente emergenti. L’emergere graduale e poi esplosivo del M5S evidenziava due cose: l’esigenza di cambiamento nel senso della legalità e l’emergere di quella generazione fin lì mortificata, lasciata fuori. Oggi, quello fra Pd e M5S è un asse politico e generazionale – tra tradizione e bisogno di futuro – a tenere, a navigare faticosamente nella tempesta per arrivare ad una sponda cercando di salvarci tutti, contro rischi di derive e neodarwinismo di opposizione.

Alessandra Savini

 

I NOSTRI ERRORI

Venerdì, a corredo dell’intervista a Giorgio Gobbi – “Io mi sono ‘svejatooo’ accanto al genio di Sordi” –, abbiamo pubblicato alcune foto di scena tratte dal libro S’è svejatooo!, attribuendone i credit all’agenzia Ansa, quando invece gli scatti, preziosissimi, sono di Enrico Appetito e appartengono solo al suo archivio. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

Fq