“Memento mori” al Moulin Rouge in compagnia della sciantosa Yvonne

Dai racconti apocrifi di Maurice Dekobra. Per salvarlo da Yvonne, una entraineuse dalla bellezza esasperante che lo stava mandando al manicomio con i suoi tradimenti, ma che lui non riusciva a smettere di amare, tre suoi amici decisero di condurre Jules Maggi, giovane professore di lettere, in un convento di frati liquoristi, dove, passeggiando sotto i portici del chiostro, avrebbe potuto snebbiarsi la mente fino a ritrovare la serenità perduta. Jules protestò con sdegno istrionico, ma poi si convinse al romitaggio.

La prima notte di monastero, qualcuno lo svegliò bussando alla porta della sua cella: “Fratello! È passata un’altra ora della tua vita! Ricordati che devi morire”. Jules non ne fu divertito, e mugolò qualcosa di estremo nel cuscino. La mattina seguente, il padre guardiano lo affidò al frate pittore. Stava affrescando, su un muro della sua cella, San Francesco che fugge dalle tentazioni del diavolo gettandosi nella neve alta. Bussarono alla porta, e la solita voce lanciò l’ammonimento. “Morire bisogna”, rispose il padre guardiano. “Morire bisogna”, rispose il frate pittore. “Morire bisogna”, rispose anche Jules. Il frate pittore era un bell’uomo, robusto, gagliardo: a Jules ricordava quel personaggio misterioso che, nei melodrammi, d’un tratto getta indietro il cappuccio e si rivela essere l’eroe guerriero sotto mentite spoglie. Gli era stato dato il compito di convertire Jules invitandolo a meditare sulla vanità del mondo, e facevano lunghe chiacchierate, mentre dipingeva la fronte tormentata del Santo al cospetto delle donne lussuriose della tentazione satanica.

Una notte, il frate pittore confidò a Jules di essere stato rovinato da una entraineuse. “Era bella di una bellezza impudica. Mi sono fatto frate per isolarmi dal secolo”. Bussarono alla porta. “Fratello! È passata un’altra ora della tua vita! Ricordati che devi morire”. “Morire bisogna”, rispose il frate pittore. “Morire bisogna. Ti tradiva?”. “Sì, e non gliene importava nulla”. “Si chiamava Yvonne?”. “No. Chantal”. Ogni notte, Jules veniva svegliato per il Mattutino e, dovendo recarsi in cappella, a volte si soffermava a contemplare le stelle palpitanti. Gli ricordavano Parigi, e in quei momenti sentiva il peso della clausura. Parlandogli di Yvonne, e del Lapin Agile, Jules risvegliò nel frate pittore desideri sopiti. Nei loro colloqui, come miraggi, presero a scintillare Montecarlo, Nizza, Biarritz. Sognarono le sale abbaglianti dei casinò. Rammentarono la nebbia di Montmartre, addolcita dai profumi delle belle donne. “Domani me ne vado”, gli disse Jules. “Vieni con me?”. Quella notte, il frate pittore non riuscì a prendere sonno. Bussarono alla porta. “Fratello! È passata un’altra ora della tua vita! Ricordati che devi morire”. “Morire bisogna”, rispose lui; ma stavolta pensò che, appunto perché si muore, conviene vivere più che si può.

Lasciato San Francesco nella neve, arrivarono a Parigi in due giorni. Il frate pittore, sbarbato, e vestito alla bohémienne, piacque alla sorella di Yvonne, una ballerina del Moulin Rouge: come poteva disprezzare quel pittore affascinante, che a letto era insaziabile come un ergastolano appena evaso? Fra le lenzuola perdevano la nozione del tempo. Una sera, Jules bussò alla porta della loro camera: “Fratello! È passata un’altra ora della tua vita! Yvonne ha fame, e anch’io”. “Mangiare bisogna”, rispose l’altro, ricordando di colpo l’invito al ristorante. E quando, dopo mezz’ora, i due s’affacciarono all’uscio, Jules guardò le occhiaie dell’amico e gli disse: “Fratello! Ricordati che morirai, se continui così”.

 

Armi e affari, lo Stato garante di 5 miliardi all’Egitto di Al Sisi

Nel settore militare (e non solo) lo si è sempre fatto, ma non c’era di mezzo una controversia diplomatica dirompente. Fatto sta che mentre naufragava del tutto la collaborazione fra la Procura di Roma e quella del Cairo sulla morte di Giulio Regeni – il ricercatore italiano rapito e ucciso a gennaio 2016 nella capitale egiziana – il ministero dell’Economia autorizzava via decreto una garanzia pubblica da 845 milioni su commesse miliari e non al Paese guidato del generale Al Sisi.

Il decreto lo ha firmato il ministro Roberto Gualtieri il 24 novembre scorso. Martedì, la Procura capitolina ha reso ufficiale che il processo romano a carico di 5 uomini dei servizi di sicurezza egiziani non avrà la collaborazione dei magistrati del Cairo, che processeranno solo chi rubò i suoi effetti personali. “Non è un passo indietro” e “non abbiamo mai cessato di esercitare pressioni sull’Egitto per ottenere progressi”, ha detto ieri a Repubblica il premier Giuseppe Conte.

Intanto le garanzie pubbliche che spingono le commesse iniziano a essere ingenti, come i contratti firmati. Il decreto riguarda due fregate tipo “Fremm” e armamenti annessi prodotte dall’italiana Fincantieri (in joint venture con Leonardo, l’ex Finmeccanica). Valore: circa 1,2 miliardi. Erano destinate alla marina militare italiana, ma a ottobre 2019 su pressione del governo sono state girate agli egiziani. La garanzia la fornisce Sace, la controllata di Cassa depositi e prestiti che assicura l’export delle imprese italiane vigilata dal Tesoro. A essere garantito è un prestito di 950 milioni (più di 100 di interessi) offerto al ministero delle Finanze egiziano da un pool di banche: la parte del leone la fa proprio la Cdp (36,2%), ma c’è anche Intesa Sanpaolo (21,2%) con Bnp Paribas e Santander.

Cosa c’entra il Tesoro? Il problema è che quest’ennesima operazione ha fatto superare il limite consentito di garanzie pubbliche su commesse con l’Egitto, arrivate a 1 miliardo 349 milioni (un terzo del totale di quelle nel settore Difesa con controparti i governi), e quindi Sace ha girato la parte eccedente (845 milioni) al ministero, che a sua volta ha “assicurato” Sace accollando il rischio direttamente allo Stato. Non è la prima volta che accade. Nei documenti riservati, i tecnici di Sace ricordano che la quota di garanzie sulle commesse verso l’Egitto in capo allo Stato ammontano a 3,2 miliardi di “valore nominale”. Una cifra ingente che vale il 238% delle garanzie date dalla sola Sace al Cairo. Di norma il limite verso “controparti Sovrane (cioè Stati, ndr)” è del 100%. Nel 2018, però, due anni dopo la morte di Regeni, il Comitato per la programmazione economica (Cipe) ha alzato il limite al 400% per le operazioni con l’Egitto e un valore totale di 6 miliardi visto “l’impatto positivo sull’economia italiana” delle commesse. Altre due delibere del Cipe (novembre 2019 e maggio 2020) hanno prorogato i limiti speciali. Ad aprile, il decreto Liquidità ha previsto per il 2020 un tetto di 5 miliardi “in termini di flusso” alle garanzie statali da offrire a Sace.

Oggi, sommando le garanzie dello Stato e della pubblica Sace, siamo “a circa 5 miliardi di euro” verso l’Egitto, si legge nei documenti. Ma cosa stiamo garantendo? Tesoro e Sace, contattate, si limitano solo a chiarire di aver rispettato norme e prassi di mercato e, nel caso della società, di non poter rivelare “aspetti di natura particolarmente riservata”. Non si può sapere che tipo di commesse stiamo garantendo e a che condizioni. Che succede se a causa di controversie diplomatiche, a partire dal caso Regeni, le commesse vengono annullate? Nessuna risposta. Nei documenti sull’operazione Fremm, Sace descrive l’economia egiziana e le azioni prese nel 2019 da Al Sisi e dai militari per consolidare il potere, ma non fa menzione del caso Regeni.

L’ultima garanzia Sace a una commessa militare all’Egitto era arrivata a novembre 2019 (e autorizzata dal Cipe a maggio scorso): un prestito di 956 milioni per acquistare da Leonardo 25 elicotteri AW149 e 8 elicotteri AW189. Entro fine anno la prima fregata salperà per l’Egitto, in primavera toccherà alla seconda. Nell’autunno 2019 Al Sisi si è rivolto agli italiani per ammodernare la flotta navale e i mezzi aeronautici per una decina di miliardi di euro, confermandosi primo acquirente dell’industria militare italiana (872 milioni nel 2019). Le garanzie pubbliche aumenteranno.

Bombe Usa in Italia: “Cittadini a rischio”

“Un attentato contro le basi militari di Aviano (Pordenone) o Ghedi (Brescia) potrebbe provocare dieci milioni di vittime”: con un rapporto, passato sotto traccia in questi giorni e frutto del lavoro della sua unità investigativa, la Ong Greenpeace ha provato a calcolare il danno potenziale di un attacco terroristico contro i due bunker atomici del nostro Paese. O meglio: a farlo, scrivono gli attivisti, è uno studio del ministero della Difesa di qualche anno fa secondo cui le persone raggiunte dal fungo radioattivo potrebbero essere tra i 2 e i 10 milioni, a seconda della propagazione del vento e dei tempi di intervento. “Uno scenario condiviso solo con i vertici militari e politici e con i responsabili della sicurezza nucleare” si legge ancora: “Nel 2008, mentre gli americani assicuravano che le bombe in Europa erano sicure, l’aeronautica Usa scopriva che molti depositi nucleari non soddisfacevano gli standard di sicurezza del Pentagono. Qualche anno dopo, il ministero della Difesa illustrava ai membri del Nuclear Operations Working Group (NOWG) lo studio sulle 10 milioni di vittime potenziali in caso di attentato terroristico con bombe direzionali ad alta penetrazione nelle basi di Ghedi o Aviano: gli ordigni nucleari nei caveau deflagrerebbero e gli hangar farebbero da camera di scoppio, diffondendo una nube tossica su tutto il Nord Est”.

E ancora: “Per sollecitarci a essere sempre vigili e attenti ai protocolli in modo che i bunker nucleari fossero più che protetti ci dicevano di non dimenticarci di Chernobyl” racconta a Greenpeace un ex valutatore Nato. Il rapporto (dal titolo “Il prezzo dell’atomica sotto casa”) ripercorre poi la storia di questa “presenza” europea: dagli anni 50 quando gli Usa cominciarono a dislocare bombe “tattiche” in funzione antisovietica alla caduta del muro di Berlino, quando furono ridotte ma non eliminate. “Fonti non governative hanno calcolato che in Europa ce ne siano ancora circa 150”, si legge. Quaranta sarebbero in Italia. E non si tratta di sola custodia. La “condivisione nucleare” prevede che i Paesi ospitanti possano sganciarle. Per poterlo fare, i piloti delle forze armate si esercitano regolarmente. È una grande spesa. Si stima che mantenere le 13.400 testate atomiche esistenti nel Mondo costi circa 140 dollari al minuto, senza calcolare i costi indiretti come la difesa missilistica. Anche l’Italia ha il suo budget nucleare “ma a differenza degli Usa, non lo rende noto”. La politica ufficiale della Nato è “non confermare né smentire” la presenza degli ordigni. Washington, almeno, dichiara quanto costano ai contribuenti Usa: 100 milioni l’anno. Nel 2018, l’Osservatorio Milex (spese militari) ha fatto una prima stima per l’Italia: secondo i calcoli di allora – ora in revisione – si era sui 20 milioni l’anno senza considerare i costi per gli aerei: “Secondo fonti interne riservate – spiega la Ong – l’esigenza di dotarsi di cacciabombardieri per il nucleare avrebbe spinto l’Italia a scegliere i costosi jet statunitensi (F35A, ndr) invece dei più economici Eurofighter: adattare i velivoli di produzione europea alle bombe Usa avrebbe comportato costi elevati”.

Leonardo, altra cyber-falla. I pm: “Rubati 10 giga di file”

È di nuovo la cyber sicurezza la spina nel fianco di Leonardo spa (ex Finmeccanica). Due anni e mezzo dopo le dimissioni ‘spontanee’ del capo sicurezza informatica Andrea Biraghi al termine di un audit interno, e festeggiate all’epoca dal M5s con lodi alla “operazione trasparenza” dell’amministratore delegato Alessandro Profumo. Tra i due arrestati di ieri per reati di spionaggio informatico ai danni di Leonardo spa c’è un uomo di Biraghi, Arturo D’Elia, di Eboli (Salerno), curriculum da hacker (già condannato) che vantava la riparazione di una falla dei sistemi del Pentagono, e in particolare dell’infrastruttura It dell’aeronautica militare statunitense, e di una violazione informatica di una base Nato.

Le intercettazioni di due dipendenti di Leonardo disvelano la storia di come D’Elia, consulente esterno di Alenia, società del gruppo, entra nella squadra cyber sicurezza di Biraghi: “D’Elia è stato da Biraghi a parlare… questa persona va prima a colloquio con .. con .. Biraghi e dopodiché si decide, Biraghi decide di spostarlo in Cyber. Questo è stato il giro”. A segnalarlo fu l’ex capo security di Leonardo ed ex ufficiale dei carabinieri Romolo Bernardi perché “era bravo”. Bernardi, sentito dai pm, aggiunge che a raccomandare D’Elia nell’area “cyber security” di Leonardo fu anche Franco Cardiello, un ex An senatore di Forza Italia fino al 2018, anche lui originario di Eboli. Il tramite fu un maggiore dell’Arma. Cardiello è l’attuale avvocato di D’Elia. Cercato dal Fatto Quotidiano, ha preferito non rilasciare dichiarazioni.

Con l’arresto in carcere di D’Elia e i domiciliari di Antonio Rossi, responsabile del Cert (Cyber Emergency Readiness Team)per la gestione degli attacchi informatici, si è scoperto che dal maggio 2015 al gennaio 2017, gli anni della trasformazione di Finmeccanica in Leonardo, la spa dove sono confluite le cinque società controllate dal colosso di Stato della difesa e dell’aerospazio, il trojan di nuova ingegnerizzazione inventato e usato da D’Elia ha violato 94 computer. Di cui 33 nel sito Leonardo di Pomigliano d’Arco, 13 di una società del gruppo Alcatel, e 48 in uso ad aziende private dell’aerospazio.

Dal solo sito di Pomigliano d’Arco sarebbero stati copiati 100.000 file, circa 10 Giga di dati. C’era di tutto: informazioni sul personale, forniture, progettazione di componenti di aeromobili civili e di velivoli militari destinati al mercato interno e internazionale, ma anche credenziali di accesso. L’operazione di spionaggio informatico, compiuta dall’interno, avrebbe colpito postazioni del personale “impegnati in attività d’impresa volta alla produzione di beni e servizi di carattere strategico per la sicurezza e la difesa del Paese”, si legge in una nota del procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo. Tra i dati rubati, per fortuna, non sono emerse informazioni coperte da segreto di Stato né sensibili per la sicurezza nazionale.

L’attacco informatico è stato svelato da un’inchiesta dei pm del team cybercrime della Procura di Napoli, coordinati dal procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, che si sono avvalsi degli investigatori del C.n.a.i.p.i.c. del Servizio centrale della Polizia postale. Hanno appurato che D’Elia avrebbe utilizzato il software malevolo “cftmon.exe” per deviare i dati verso la pagina web www.fujinama.altervista.org, sequestrata ieri. Qui i dati venivano scaricati e poi si provvedeva a cancellare ogni traccia. Rossi, accusato di depistaggio, lo avrebbe ‘coperto’: minimizzando l’attacco subìto a soli 27mb di dati e nascondendo il danneggiamento di un hd copia forense. Per alcuni reati l’indagine è in concorso con ignoti. Gli inquirenti sono al lavoro per trovare risposte alle domande su quale sia stato l’uso delle informazioni trafugate ai danni della Divisione Aerostrutture e della Divisione Velivoli di Leonardo, durante gli anni della presidenza di Gianni De Gennaro, con Mauro Moretti amministratore delegato.

L’ufficio stampa di Leonardo precisa che “i dati classificati ossia strategici sono trattati in aree segregate e quindi prive di connettività e comunque non presenti nel sito di Pomigliano”.

Come recuperare i 3 miliardi di Imu dovuti dalla Chiesa

La sinistra riunita ieri da Massimo D’Alema ha discusso di molto, ma non di ricchezza e diseguaglianze. La prospettiva di un’alleanza organica tra Pd e M5S, riaffermata da Goffredo Bettini, Dario Franceschini o dallo stesso D’Alema, della proposta di tassare i ricchi e di recuperare la tassazione Imu evasa dalla Chiesa cattolica, rilanciata da Beppe Grillo, non si è minimamente occupata.

Sul nostro sito, www.ilfattoquotidiano.it, la petizione per un contributo del 2% sulle ricchezze superiori a 50 milioni (ripresa tale e quale dal fondatore del M5S) ha intanto superato ieri le 10 mila firme. La proposta si potrebbe sovrapporre alla seconda parte dell’emendamento presentato da Nicola Fratoianni di Sinistra italiana e quindi ci sarebbero i margini per iniziative parlamentari.

Eppure la proposta rimane a latere del dibattito politico. Mentre invece negli Stati Uniti la deputata Dem, Alexandria Ocasio Ortez, lancia l’idea di una maglietta “Tax the rich”, tassa il ricco, per indicare la propria battaglia politica.

Il silenzio, se possibile, è ancora più netto sull’altra proposta di Grillo, il recupero della tassazione sugli immobili della Chiesa dove l’ineguaglianza è altrettanto forte.

Al momento, infatti, continuano a essere esentati dal pagamento dell’Imu i fabbricati della Chiesa “destinati al culto; quelli di proprietà della Santa Sede; gli immobili destinati esclusivamente allo svolgimento di attività previdenziali, assistenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali ricreative e sportive”. Insomma, tutti.

Ma la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che lo Stato italiano dovrà riscuotere l’Imu non versata dalla Chiesa cattolica tra il 2006 ed il 2011 in virtù di una deroga concessa dal governo Berlusconi, successivamente giudicata irregolare. Secondo i dati del 2018, si legge nella relazione illustrativa alla legge presentata da Elio Lannutti, senatore M5S, nel 2019, “la Chiesa cattolica è proprietaria di 140 università, 6.228 scuole materne, 1.280 scuole primarie, 1.136 scuole secondarie, 399 nidi d’infanzia, 354 consultori familiari, 1.669 centri di ‘difesa della vita e della famiglia’, 111 ospedali di medie dimensioni, 10 grandi ospedali, 1.853 ospedali e case di cura, 136 ambulatori”. Tutte queste strutture portano alle casse della Chiesa 620 milioni di euro all’anno dall’Imu non pagata.

Stando a questi calcoli si tratta di almeno 3 miliardi per il periodo tra il 2006 e il 2011 (la stima, riferita dall’Anci, di 5 miliardi non trova conferme). La legge Lannutti propone che la situazione sia sanata semplicemente con una “autocertificazione” sull’uso degli spazi. Chissà che papa Francesco non decida lui di anticipare il dormiente Parlamento.

La vera storia di Casaleggio e la guerra del tabacco

Dietro la campagna sui rapporti tra Philip Morris e Casaleggio Associati si nasconde la “guerra” tra le multinazionali del tabacco. Non stupisce, certo, che un giornale come Il Riformista – nato dichiaratamente per assalire il M5S, ma soprattutto il Fatto Quotidiano a cui è riservata un’aggressione quasi quotidiana – utilizzi il termine “Cinquestellopoli” per definire una campagna basata sull’equazione: Philip Morris ha versato circa 2 milioni di euro alla Casaleggio in cambio di consulenze; la Casaleggio è la guida occulta del M5S; il M5S ha favorito Philip Morris (Pmi) sulle sigarette elettroniche.

Peccato che diversi fatti non tornino. Lo scriviamo avendo chiara la totale inopportunità delle mosse della Casaleggio, che non può fare finta di essere una semplice società commerciale visto il rapporto con il M5S. Infatti fummo noi del Fatto a rivelare un anno fa il potenziale conflitto di interessi su Pmi pubblicando in anteprima la notizia delle consulenze.

Inizia Matteo Renzi

Fatta questa premessa, però, è bene accorgersi della presenza degli altri protagonisti. A iniziare è Matteo Renzi che nel 2016 “benedice le nuove sigarette elettroniche” (Huffington Post), inaugurando a Crespellano, nel bolognese, lo stabilimento della Pmi destinato al tabacco riscaldato. Due anni prima Renzi aveva “benedetto” l’altro stabilimento di Zola Predosa, mentre la sua fondazione di riferimento, Open, dichiarava un finanziamento di 100 mila euro da British American Tobacco (Bat) della quale ci occuperemo più avanti.

È il governo Renzi ad approvare il primo decreto (15 dicembre 2014, n. 188) che riordina la tassazione sui tabacchi introducendo un’accisa “pari al cinquanta per cento” di quella della sigarette normali. Un secondo decreto Renzi viene emanato nel 2016 (12 gennaio 2016, n. 6). Poi ancora nel 2017 con il governo Gentiloni. Qui, anche su pressione delle associazioni dei tabaccai, la senatrice di Alternativa popolare (il partito scissionista di Forza Italia) Simona Vicari presenta un emendamento per vietare “la vendita online, stabilendo che questa sia possibile solo attraverso il circuito delle tabaccherie”.

Prosegue Matteo Salvini

In questo periodo Matteo Salvini inizia ad attaccare frontalmente la tassazione sulle sigarette elettroniche promettendo che “quando andremo al governo l’aboliremo”. L’emendamento Vicari viene intanto modificato alla Camera da Alessia Rotta e Sergio Boccadutri, già tesoriere del Pd, con un emendamento che va incontro alle richieste degli addetti del settore. L’iniziativa incassa i complimenti dell’Anafe, l’Associazione confindustriale dei produttori di fumo elettronico, che oltre ai due deputati Dem, ringrazia “il presidente dell’Intergruppo parlamentare per la sigaretta elettronica, on. Ignazio Abrignani” e “il segretario della Lega, Matteo Salvini, che ha da sempre sostenuto la necessità di abolire completamente la tassa sui nostri prodotti”.

Finora Luigi Di Maio non ha avuto alcun ruolo. Anzi, appena formato il governo giallo-verde l’emendamento per ridurre la tassazione, primo firmatario Luigi Alberto Gusmeroli, che la Lega vuole introdurre nel decreto Dignità viene dichiarato inammissibile. Eppure Di Maio è tirato in ballo dal Riformista, per l’incontro con la Philip Morris che il quotidiano colloca nell’estate del 2017 quando Di Maio viene invitato da Utopia, agenzia di pubbliche relazioni che ha tra i propri clienti proprio la Philip Morris. “Sessanta giorni dopo quell’incontro”, scrive Aldo Torchiaro, la “Casaleggio Associati firma una consulenza”. Sarebbe questa, dunque, la pistola fumante che dimostra il legame tra l’incontro del capo dei 5Stelle e la Philip Morris e la firma del contratto tra questa e Casaleggio.

L’incontro di Di Maio

Peccato che l’evento di cui parla il Riformista sia avvenuto – non solo con Pmi ma con tutte le 30 aziende del settore – esattamente un anno prima, il 19 luglio del 2016 come risulta da un video sul sito della stessa Utopia. Di Maio non era ancora il capo dei 5Stelle e quindi l’incrocio dei dati non funziona.

Nel 2018 si vota e nasce il governo Conte 1, frutto dell’alleanza tra M5S e Lega. Salvini riesce a far inserire nel “contratto” la detassazione delle sigarette elettroniche al 10% sui liquidi con la nicotina e al 5% per quelli a tabacco riscaldato. A opporsi sono gli esponenti del Movimento 5 Stelle: la presidente della commissione Finanze della Camera, Carla Ruocco, la ministra della Salute, Giulia Grillo e il presidente della Camera Roberto Fico che dichiara inammissibile l’emendamento. E quando questo viene reintrodotto, caso raro, il presidente della Camera farà ulteriore ricorso.

La riduzione della tassazione però passa e tutta l’industria del settore plaude, a cominciare dal principale avversario della Pmi, la Bat il cui presidente Roberto Palazzetti ringrazia il governo Conte 1.

Un giornalista alla Bat

E veniamo così alla British American Tobacco. In Italia, a fronte di 11,6 milioni di fumatori solo 600 mila fanno uso di prodotti a tabacco riscaldato mentre altri 900 mila fumano sigarette elettroniche. Il grosso del mercato è composto da consumatori di sigarette. Se la Bat è quasi monopolista di questo mercato, la Philip Morris controlla il 99% del mercato del tabacco riscaldato attraverso la Iqos. Ecco perché ad aprile di quest’anno Bat ha scritto al ministro della Salute, Roberto Speranza, per condividere l’appello “degli esperti di controllo del tabagismo” volto a “eliminare il trattamento fiscale di favore per i prodotti a tabacco riscaldato”.

La società di lobbyTobacco Endgame commenta così la lettera: “L’endorsement di Bat si inserisce in un contesto segnato da crescente conflittualità tra i due colossi del tabacco, Bat e Pmi” dovuto, “verosimilmente al fatto che il vantaggio della ridotta tassazione è andato soprattutto a Pmi”. La campagna contro quest’ultima, quindi, si capisce meglio in questo quadro. Ricordiamo poi che Bat è una delle finanziatrici, con 100 mila euro, della Fondazione Open che fa riferimento a Matteo Renzi, finanziata anche da Alfredo Romeo che del Riformista è il proprietario.

Terzo particolare degno di nota: uno degli autori degli articoli del Riformista, Aldo Torchiaro, fino a qualche giorno prima la pubblicazione delle notizie su Pmi era il direttore delle relazioni Media della agenzia di comunicazione Spencer&Lewis che nel 2020 ha avuto, si legge su un suo comunicato, “acquisizioni rilevanti come British American Tobacco”.

Nel paese delle porte girevoli si può lavorare per una compagnia del tabacco e poi condurre una campagna giornalistica contro la sua principale concorrente. E gridare al conflitto di interessi (degli altri).

Renzi e D’Alema fanno pace su Zoom Sinistra “in cantiere” divisa sui grillini

Miracoli di una mattina di dicembre, nell’anno del Covid: in una schermata di computer si riunisce praticamente l’intero centrosinistra italiano. Presente e passato. Su Zoom, in fila, uno accanto all’altro: il segretario del Pd Nicola Zingaretti, Goffredo Bettini, Dario Franceschini, l’intramontabile Giuliano Amato, Massimo D’Alema, Roberto Speranza, Elly Schlein, con i contributi “esterni” di Ida Dominijanni e Nadia Urbinati. E poi – incredibile a dirsi – c’è Matteo Renzi: l’ex premier si ritrova in un convegno per un ennesimo “cantiere della sinistra” organizzato dalla fondazione dalemiana Italianieuropei. Ospite in casa del nemico storico. Ora che entrambi guardano il Pd da fuori, dopo anni di vicendevoli rottamazioni, scoprono un’inedita cordialità sotto le ceneri raffreddate di una faida pluriennale.

L’improvviso rendez-vous del centrosinistra su Zoom regala immagini curiose. I ministri Franceschini e Speranza intervengono dalle rispettive scrivanie istituzionali, in giacca e cravatta, con bandiera italiana ed europea alle spalle. D’Alema è in cardigan in sala da pranzo, dietro di lui c’è un mobile pensile in legno con dentro le ceramiche. Renzi si materializza da quello che sembra un bunker domestico, in penombra e senza finestre, indossa una polo bianca di una taglia striminzita e tiene il colletto della maglietta alzato come Totti negli anni 90. Armeggia con il cellulare e fa un po’ di confusione durante gli interventi degli altri: la sua immagine sullo schermo va e viene a intermittenza. Non passa inosservato.

L’ipotesi di coinvolgerlo nel convegno di Italianieuropei è stata sottoposta da Bettini a D’Alema, che l’ha trovata un’ottima idea. Lo stesso Bettini ha formulato l’invito al telefono, Renzi ha accettato con grande naturalezza, come nulla fosse successo negli ultimi dieci anni. Cosa c’è dietro, quali trame si muovono? I diretti interessati garantiscono: nessuna. Ma il contributo di Renzi al “cantiere della sinistra” rimane oscuro. Il dibattito comunque è meno ingessato di quello che si potrebbe pensare. Anche perché questi signori da qualche tempo governano l’Italia insieme.

Franceschini introduce il discorso Cinque Stelle e lo dice nel modo più chiaro: ogni cantiere a sinistra, oggi, non può prescindere dal rapporto con loro. “Questa alleanza di governo – dice il ministro – si è trasformata in qualcosa di unitario, di valori condivisi. Si sta forgiando qualcosa di più, per questo bisogna allargare il campo degli interlocutori”. Zingaretti chiede un dibattito che coinvolga “tutti i progressisti, nelle loro differenze”, Speranza e D’Alema vogliono “allargare il campo”: una definizione ricorrente e non particolarmente fortunata che echeggia in tutte le sedute collettive della sinistra italiana. Bettini più esplicitamente parla della “fondazione di una forza di sinistra più ampia e unitaria: prima cominciamo questo lavoro e meglio è”. Ma con chi, quali sono i confini del cantiere? E che c’entra Renzi? La sinistra – ammesso ci sia mai stata – non è più nei suoi pensieri e nei suoi discorsi da un bel pezzo. E infatti dopo aver ringraziato per l’invito, con grande schiettezza l’ex premier va in direzione opposta rispetto alle parole degli altri: verso il centro. Le elezioni – insiste – si vincono lì (un vestito un po’ usurato che per Renzi calza bene anche su Joe Biden). Al centro, quindi, e il più lontano possibile dai Cinque Stelle. Anche stavolta le sue parole lasciano la sensazione che stia giocando una partita tutta sua: “Siamo a un bivio – dice, facendo fischiare le orecchie a Giuseppe Conte –. Non si può continuare ad alimentare questa situazione di emergenza. Per l’Italia quest’occasione non tornerà mai più. O scommettiamo sulla politica o il populismo tornerà a vincere”. In un’intervista alla Stampa lo dice nettamente: se la maggioranza va sotto nel voto sul Mes, Conte deve dimettersi. Insomma va bene Zoom, va bene la pace con D’Alema, vanno bene i cantieri: ma Renzi resta Renzi.

 

“Un No è il patibolo per Conte” Ma i dissidenti 5S non mollano

Salvare il governo Conte o aprire una crisi in piena pandemia. La posta in gioco è alta. E le prossime 72 ore, quelle che restano prima del voto delle Camere sulla risoluzione in vista del vertice Ue, saranno decisive per i giallorosa. Che, sul tema del fondo salva Stati, restano divisi più che mai. La riunione di venerdì del gruppo parlamentare M5S ha acuito lo scontro tra i governisti guidati da Luigi Di Maio e i 58 ribelli (42 deputati e 16 senatori) che avevano sottoscritto una lettera per dire “No” alla riforma del Mes, ricevendo anche una mezza sponda da Beppe Grillo. Se Crimi e Bonafede hanno criticato “il metodo della lettera” che secondo il ministro della Giustizia è stata “un grave errore perché ha indebolito Conte”, ad alzare la posta è stato l’ex capo politico Luigi Di Maio che non ha avuto paura di mettere la carta della crisi sul tavolo: “Chi vota contro ­– ha avvertito – porta Conte al patibolo”. Concetto ripetuto ieri a SkyTg24: “Mercoledì si dà mandato al premier di andare ai tavoli europei dove si parla anche di sbloccare i veti di alcuni Paesi al Recovery fund: è da irresponsabili votare contro”.

Parole che non hanno comunque convinto la fronda dei ribelli: alcuni, come i deputati Alvise Maniero e Raphael Raduzzi hanno preso la parola ribadendo la propria contrarietà (“Voteremo no”), mentre Nicola Morra, il senatore più in vista tra i dissidenti, ha messo nel mirino il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri: “Ha tradito gli impegni”. Per evitare una pericolosa conta in Aula si stanno muovendo i pontieri: l’obiettivo è scrivere una risoluzione unitaria che dica “Sì” alla riforma dei trattati ma senza citare il Mes sanitario, per il quale – ripete anche Di Maio – “non c’è una maggioranza”. A buttare ulteriore benzina sul fuoco, ieri ci ha pensato Davide Casaleggio, in rotta con i vertici da tempo, che ha lanciato un corso su Rousseau “per conoscere il Mes” e la riforma. Non proprio una cortesia.

Il governo ostenta sicurezza: Conte a Repubblica ha detto di “non temere il voto”, mentre Crimi spiega che il governo “assolutamente” non cadrà. Allo stesso tempo, però, gli alleati alzano i toni: “Se va sotto sul Mes, Conte si deve dimettere – soffia sul fuoco Matteo Renzi – dipenderà tutto dal M5S”. Andrea Marcucci, capogruppo Pd in Senato, tira un fendente agli alleati: “Il M5S sappia che il Pd sul Mes non ha cambiato idea”. E mentre nella maggioranza si prova a trovare una mediazione, il ministro Federico D’Incà ha in mano il pallottoliere per i voti al Senato dove, oltre a 3 ribelli di FI, potrebbe bastare un folto gruppo di “responsabili” in grado di disinnescare i dissidenti grillini: ci saranno i 3 voti degli ex berlusconiani di “Cambiamo!”, altri 3 dell’Udc, 3 senatori delle Autonomie e altrettanti di “Azione” (Richetti, Bonino, De Falco) più Sandra Lonardo, la moglie di Clemente Mastella. Con l’aggiunta dei senatori a vita – Mario Monti ed Elena Cattaneo – che diranno “Sì”. Quindici voti che potrebbero essere utili per salvare la maggioranza, e anche un discreto numero di carriere.

 

Mascherine, l’inchiesta va a S. Marino Indagato il banchiere del “caso Gozi”

Arriva a San Marino l’inchiesta della Procura di Roma sull’acquisto in piena emergenza di 801 milioni di mascherine, pagate 1 miliardo e 251 milioni. Venerdì il Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza ha perquisito – fra gli altri – l’appartamento alle porte di Milano “in uso” a Daniele Guidi. Il banchiere sammarinese è l’uomo che, secondo la ricostruzione dei magistrati capitolini, insieme all’imprenditore Andrea Tommasi “ha curato l’aspetto organizzativo” e “i numerosi voli aerei necessari” per portare le mascherine in Italia. Guidi è indagato per traffico d’influenze con altre 7 persone. Tra queste Tommasi – di cui Guidi, per i pm, è “partner nell’affare” – e Mario Benotti, già caposegreteria dell’ex sottosegretario Sandro Gozi (estraneo all’indagine). A quanto risulta dai documenti della Finanza, il monolocale in uso al Guidi è di proprietà di Tommasi, e si trova nello stesso stabile in cui abita l’imprenditore. La Procura di Roma sta valutando di chiedere la rogatoria a San Marino.

Tommasi e Benotti hanno incassato le provvigioni dalle ditte cinesi (e non dall’ufficio del Commissario): la fetta più grande della torta è andata alla Sunsky di Tommasi, circa 59 milioni, mentre alla Microproduct Srl (di cui è presidente del cda Benotti) sarebbero andati altri 12 milioni. Per i magistrati, le forniture sarebbero state “intermediate illecitamente da Mario Benotti, che ha concretamente sfruttato la personale conoscenza” con il commissario all’emergenza Covid, “facendosele retribuire, in modo occulto e non giustificato”. Secondo gli investigatori, il pubblico ufficiale ‘trafficato’ a sua insaputa sarebbe Domenico Arcuri, non indagato, conoscenza spesa, per i pm, da Benotti per ottenere 12 milioni a titolo di intermediazione. Come nasca, in concreto, la conoscenza fra Benotti e il duo Tommasi-Guidi è oggetto d’indagine. Il giornalista ha subìto venerdì la perquisizione delle sue due case di Roma e Milano. “La commissione è lecita, è regolata da contratto e la commessa ha fatto risparmiare milioni allo Stato italiano”, dice al Fatto l’avvocato Alessandro Sammarco, legale di Benotti.

Guidi è indagato a San Marino da due anni per una serie di reati, dal concorso in corruzione alla truffa aggravata al concorso in amministrazione infedele. “Reati per i quali il tribunale ha ammesso non esserci prove indiziarie e, nel caso della corruzione, addirittura il fumus”, dice al Fatto il legale italiano di Guidi, Massimo Dinoia.

Il nome del banchiere s’intreccia, ma netta in contrapposizione, con quello di Gozi (estraneo a tutte le indagini). L’eurodeputato macroniano nel 2019 fu indagato e archiviato a San Marino per una “consulenza fantasma” con la Banca centrale della Rsm, assegnatagli dalla presidente Catia Tomasetti. Il magistrato che aveva aperto il fascicolo su un esposto anonimo è stato poi sospeso dal Consiglio giudiziario plenario – il Csm sammarinese – per i suoi contatti con un gruppo di banchieri, fra cui Guidi e Marino Grandoni, proprietari del Credito industriale sammarinese. Il procedimento disciplinare è nato da un esposto di Tomasetti, che pochi mesi prima aveva avviato un’indagine di vigilanza sul Cis, all’epoca diretto sempre da Guidi, che ha poi portato all’inchiesta a carico del banchiere. Gozi e Tomasetti – moglie dell’attuale ad di Consip, Cristiano Cannarsa – hanno anche denunciato pressioni alle autorità italiane e a quelle sammarinesi. Sulla base di uno di questi, la Procura di Roma ha aperto un fascicolo contro ignoti per “rivelazione di segreti d’ufficio”.

L’Oms e il rapporto sparito “Serviva a tutto il mondo”

Sostiene l’Oms Europa che il rapporto sulla gestione italiana della pandemia, pubblicato per 24 ore il 13 maggio, è stato ritirato perché “conteneva inesattezze e incongruenze”. Ma allora è davvero inspiegabile che il testo (An unprecedente challenge: Italy’s response to Covid-19) abbia superato le revisioni interne e sia stato stampato e messo online con tanto di prefazione del direttore dell’Oms Europa, Hans Kluge. Ed è ancora meno comprensibile che Ranieri Guerra, assistente del direttore generale dell’Oms, ex dirigente del ministero della Salute e da marzo inviato dall’Oms a Roma, si concentrasse sul piano pandemico anti-influenzale, indicato come risalente al 2006. L’11 maggio in una email chiedeva al coordinatore dei ricercatori, Francesco Zambon, di specificare “ultimo aggiornamento dicembre 2016”, riferendosi al periodo in cui era a capo della Prevenzione del ministero (2014-2017): “Devi correggere subito”. Ma ancora tre giorni dopo gli scriveva che era “un lavoro pregevole dal punto di vista del contenuto”, per poi spiegargli “le questioni politiche”, cioè le tensioni con l’Italia.

“Ho ricevuto minacce di licenziamento da Guerra l’11 maggio affinché cancellassi la frase sulla mancanza del piano pandemico – ha scritto Zambon in una mail al direttore dell’Oms Europa Kluge –. Prima di leggerla mi ha scritto che il lavoro era fantastico, ordinando 50 copie da distribuire ai ministri e al Cts. Quando l’ha letta prima mi ha intimidito affinché la rimuovessi e poi ha chiamato dicendo che, se non l’avessi rimossa, era già sulla porta della Direzione generale per dire che stavo mettendo l’Oms sotto attacco. L’ha fatto perché quella sera sarebbe andato in onda un documentario di 90 minuti (…), 10 dei quali dedicati a Guerra e al piano pandemico”. Era una puntata di Report. Nell’ultima, lunedì scorso, sono uscite le prima email, pubblicate anche dal Fatto. “Mai, in nove mesi, mi è stato detto che il rapporto conteneva inesattezze e incongruenze”, ha fatto sapere ieri Zambon al Financial Times. Guerra ha più volte detto al Fatto di “non aver minacciato nessuno” e promette di spiegare tutto. In altre email scriveva a Zambon dei 10 milioni versati dall’Italia all’Oms, delle discussioni in corso sulla sede di Venezia in cui il ricercatore lavora e perfino della “mediazione” che lo stesso Guerra stava facendo “con gli americani e in chiave G20”, lui che in passato è stato addetto scientifico all’ambasciata italiana a Washington.

Zambon il 27 maggio scriveva a Kluge: “Caro Hans, ho ricevuto il tuo messaggio ieri e compreso che Guerra sta ‘negoziando’ con le controparti italiane riguardo al rapporto sull’Italia”. Cosa c’era da negoziare? La mail accenna a un “incidente con il ministro (della Salute, Roberto Speranza, ndr) e il presidente dell’Iss (Silvio Brusaferro, ndr)”, ma l’incidente, secondo Zambon, sarebbe stato “creato” proprio da Guerra, delegato ai rapporti con le autorità italiane: “È stato costantemente informato e si supponeva – scriveva il ricercatore a Kluge – che avesse informato il ministro”. Certamente Brusaferro e Speranza non hanno gradito non essere informati. Chissà poi se erano preoccupati come Guerra del piano pandemico linkato e rilinkato fino al 2020 sul sito del ministero ma sempre senza firme, luogo e data di approvazione, con un riferimento al 2006 con il verbo al futuro. Non è nemmeno vero che il rapporto fosse così distruttivo con l’Italia, certo metteva in luce “l’iniziale reazione caotica, improvvisata e creativa degli ospedali” e i problemi della nostra sanità regionale, unica al mondo.

I ricercatori, scriveva Zambon, tenevano alla pubblicazione per “essere sicuri che ciò che è avvenuto in Italia non sia ripetuto nei Paesi che sono indietro nel tempo nella curva epidemica”. L’ha scritto il 28 maggio anche a Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale Oms: si è “impedito che le lezioni chiave apprese dalla risposta italiana al Covid raggiungessero i Paesi che ne avevano bisogno, per salvare vite umane”. Al numero uno segnalava anche “il rischio di danni catastrofici per l’indipendenza e la trasparenza” dell’Oms.

Al piano pandemico, al suo aggiornamento e alla sua applicazione o meno è molto interessato il procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, che indaga con l’aggiunto Maria Cristina Rota su presunti errori ed omissioni delle autorità locali e nazionali che potrebbero aver pesato sull’ecatombe della prima ondata nella Bergamasca: “Quel piano lo devo ancora avere – spiega Chiappani –. Non mi basta quello che scrivono i giornali. È in corso un’attività di acquisizione documentale per poter ottenere quell’atto, ma anche quello che l’Oms ha pubblicato e poi fatto sparire dal suo sito nell’arco di 24 ore”.

L’Oms ritiene che le garanzie a protezione delle agenzie Onu dispensino Zambon dall’obbligo di testimoniare. Dai pm si è presentato solo Guerra, il 5 novembre, ma secondo l’Oms “in his personal capacity”, cioè a titolo personale. Tuttavia, già dal 30 ottobre, nelle mail dei dirigenti Oms si parlava delle convocazioni pervenute dai pm e della presunta immunità, che però, secondo Chiappani, “vale per la contestazione di un reato, ma non significa divieto di testimonianza”. Ora il problema dovrebbe risolverlo la Farnesina.