Contagi in lieve calo, ma ancora 662 morti Nelle festività 70 mila agenti per i controlli

La curva del contagio resta “congelata”, per usare il termine più volte ripetuto dal Commissario all’Emergenza Domenico Arcuri. Dopo il lieve incremento del tasso di positività registrato venerdì – e il sempre elevatissimo numero di morti (814) – ieri il bollettino è tornato, se non a rassicurare, quanto meno a non peggiorare.

I nuovi casi di contagio registrati nelle ultime 24 ore sono stati 21.052 contro i 24.099 di venerdì. Diminuiscono i tamponi effettuati (194.984, 17.757 in meno rispetto all’altroieri) ma diminuisce anche – ed è il dato forse più importante – il tasso di positività (il rapporto tra contagi rilevati e tamponi effettuati) che scende al 10,8% dall’11,3% di venerdì.

Ancora molto alto il numero dei morti, 662 in 24 ore (giovedì erano stati 993). Continua – ed è la miglior notizia – a diminuire la pressione sugli ospedali. I ricoverati in reparti Covid ordinari sono attualmente 30.158, 1.043 in meno di venerdì, frutto di un decremento degli ingressi in ospedale pari a -572 da sommare ai deceduti e ai guariti, il cui numero esatto non è possibile quantificare. Scendono anche i malati gravi in terapia intensiva, attualmente 3.517 (-50 rispetto al giorno prima con 192 nuovi ingressi). Significa che nelle ultime 24 ore, per decessi o guarigioni, si sono liberati 242 posti letto in terapia intensiva.

Come previsto, firmato il dpcm dal premier Conte, il ministero dell’Interno ha indirizzato ai prefetti una circolare in cui si raccomanda di “pianificare mirati servizi di controllo del territorio in prossimità delle feste natalizie, dedicando particolare attenzione alle aree di maggior affollamento, alle principali arterie di traffico e nelle stazioni per vigilare sul rispetto delle norme e delle limitazioni che riguardano gli spostamenti tra regioni dal 21 dicembre al 6 gennaio e, tra i comuni, nelle giornate di Natale, Santo Stefano e Capodanno”. Per questo tipo di operazioni, ha detto la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, saranno impiegati 70 mila uomini delle forze dell’ordine.

In vista della campagna vaccinazione anti-Covid “centralizzata”, infine, il commissario all’Emergenza Domenico Arcuri ha annunciato che l’hub nazionale di stoccaggio dei farmaci sarà il sito del ministero della Difesa a Pratica di Mare (Roma).

Lombardia “no vax”, per Fontana la colpa è della magistratura

Non era mai successo che un presidente di Regione scrivesse ai magistrati – gli stessi che lo stanno indagando per frode in pubbliche forniture – dichiarandosi pronto ad assumersi “in prima persona” tutte le responsabilità derivanti da una procedura di acquisto senza gara, perché i suoi funzionari si rifiutano di procedere senza “l’autorizzazione della Procura”. Attilio Fontana il 2 dicembre ha voluto stabilire il precedente. In quella data, come riportato dal Corriere, i suoi legali hanno inviato alla Procura di Milano una missiva nella quale spiegavano che, vista l’emergenza dovuta alla mancanza di vaccini antinfluenzali, la difficoltà di reperirli sul mercato, le gare andate deserte, l’Agenzia regionale per gli acquisti (Aria) si apprestava ad aprire una trattativa privata con la svizzera Unifarma per 300 mila dosi, aggiungendo che, poiché “il timore di intraprendere iniziative o decisioni suscettibili del vaglio di legittimità da parte della Magistratura, paralizza di fatto l’opera dei funzionari”, Fontana “lungi dal richiedere salvacondotti”, avrebbe comunque proceduto all’acquisto, “assumendosene la responsabilità”.

Un concetto ribadito ieri dal presidente: “Per esigenze di tempestività in una situazione complicatissima per il mercato dei vaccini, si trattava di acquistarne un quantitativo a trattativa privata superando l’obbligo della gara pubblica. Ho quindi voluto rappresentare questo paradosso ai pm per rassicurare Aria sulle eventuali responsabilità”, ha fatto sapere.

Scontata la risposta della Procura. L’aggiunto Romanelli in serata ha sottolineato come “le forniture pubbliche sono di responsabilità esclusiva della pubblica amministrazione. La Procura non ha alcun ruolo. Non è la magistratura che blocca l’azione amministrativa”. La Procura “si limita a considerazioni generali” e “la magistratura ha il ruolo di verifica della legalità in relazione all’eventuale commissione di reati”. Tradotto: voi fate ciò che dovete, noi interverremo se ci sarà qualcosa di non chiaro.

Ma dalle parti di Aria c’è tutto tranne tranquillità. Del resto è la stessa agenzia che aveva accordato alla società Dama, di proprietà della moglie e del cognato di Fontana, l’affidamento senza gara da 513 mila euro per i camici. Un appalto cui sono seguite le indagini su Fontana e famiglia e le dimissioni del dg di Aria, Filippo Bongiovanni (anche lui indagato). Tuttavia Aria ha continuato a lavorare. Il 3 dicembre (il giorno dopo la lettera ai pm), l’Agenzia ha chiuso un affidamento per 150 mila dosi di vaccino. Pur ancora da assegnare ufficialmente, a vincere la 13esima gara dell’anno, aperta il 30/11 e chiusa il 4/12, è stata la Solstar Italia Srl, che ha piazzato 120 mila dosi di Influvac Tetra a 17,85 euro l’una e 30 mila di Fluquadri a 18,90. Incasso totale: 2.709.000 euro.

Al di là delle gare, una cosa è chiara: se la Lombardia il 6 dicembre si ritrova senza vaccini – ne mancano almeno 700 mila –, la responsabilità è di Aria, la società voluta dall’assessore al Bilancio, il leghista Davide Caparini. “Aria è una maxi aggregazione di tre società pubbliche (Infrastrutture Lombarde, Lombardia informatica e Arca) che doveva migliorare le performance. Invece è un mostro senza guida che ha combinato il pasticcio dei camici, ritardato l’acquisizione dei dpi, gestito l’operazione delle mascherine pannolino, fallito sui vaccini”, dice il Pd, Bussolati. Tranchant, l’M5s, Fumagalli: “Fontana non può pensare di cavarsela solo assumendosi le responsabilità dei disastri di Aria. Aveva il dovere politico di sostituirne il Cda quando a luglio abbiamo chiesto la revoca del ‘board’ e chiesto al Tribunale di Milano di nominare un commissario giudiziale”.

“Natale in pochi per una volta Facciamolo per i più fragili”

Professor Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità, ormai di questo nuovo coronavirus si conosce quanto meno il comportamento: la terza ondata è scontata e ne sarà contrastabile solo la portata?

Non dobbiamo mai dare nulla per scontato tantomeno durante una pandemia. È scontato, però, che il nostro comportamento di questo periodo e nei prossimi mesi avrà un’influenza decisiva nel determinare la circolazione del virus e con essa l’incremento di nuovi casi.

Quanto teme, al di là delle misure decise dal governo col supporto del Comitato tecnico scientifico di cui fa parte, le imminenti feste natalizie?

Non temo le feste natalizie. Dobbiamo però viverle consapevoli della necessità di rispettare le regole che riducono la probabilità di facilitare la trasmissione del virus SarsCov2. Sappiamo infatti che il derogarle comporterebbe una ripresa del numero di nuovi casi con tutto quello che consegue. Saranno feste “uniche” nella nostra storia e se questa unicità ci limiterà nelle nostre tradizionali manifestazioni di gioia e convivialità, allo stesso tempo ci chiama anche a immaginare i modi, nel rispetto delle misure raccomandate e a tutti note, per non far mancare affetto e attenzione a coloro cui vogliamo bene ed alle persone più fragili e più sole.

Intanto i danni della seconda ondata non sono ancora finiti: per quanto tempo ancora dovremo aspettarci un numero così alto di morti al giorno per Covid-19?

Purtroppo, come abbiamo imparato nella scorsa primavera, in questa pandemia la curva dei decessi è l’ultima a crescere ed anche a decrescere. Quanto prima riusciremo a ridurre il numero dei contagi tanto prima, a distanza di alcune settimane, avremo anche una decrescita dei decessi. Per questo è importante in questa fase mantenere alta la tensione nel ridurre la possibilità di contagio.

Secondo lei quale dei vaccini in dirittura d’arrivo è più promettente in base agli elementi che ha?

Fortunatamente la corsa mondiale a mettere a punto vaccini efficaci e sicuri contro SarsCov2 vede molti protagonisti e nei prossimi mesi avremo più tipologie di vaccino disponibili. Questo anche grazie agli investimenti straordinari effettuati da governi ed organizzazioni internazionali. Al momento non mi sento di esprimere giudizi e previsioni: man mano che si renderanno disponibili i dati potremo essere più precisi.

Lei si farà il vaccino? Dati o non dati?

Farò sicuramente il vaccino appena sarà disponibile. Le nostre agenzie regolatorie, Ema a livello europeo ed Aifa a livello nazionale, stanno esaminando i dati sui candidati vaccini. Nessun vaccino e nessun farmaco può essere messo in commercio senza un dossier completo che fornisca evidenze su efficacia e sicurezza. Su questi aspetti non ci sono deroghe e proprio per questo i tempi di autorizzazione potranno essere diversi in funzione di quando i dati completi verranno resi disponibili.

Quale sarà l’elemento, la circostanza, che fra qualche mese (quanti secondo lei?) potrà far stabilire: il Covid è sconfitto?

È difficile fare questa previsione. Un elemento decisivo sarà certamente la copertura immunitaria della popolazione che potremo raggiungere grazie ai vaccini che si stanno rendendo disponibili.

Ritornasse indietro che cosa farebbe diversamente in questa pandemia?

Il nostro Paese, che ricordo essere il primo in Occidente investito da questa pandemia, è stato, grazie ad un grandissimo impegno collettivo, capace di superare una sfida molto difficile proposta da un coronavirus sconosciuto e che stiamo imparando a conoscere grazie ad uno sforzo della comunità scientifica globale. L’esperienza che stiamo vivendo certamente ci offrirà spunti da condividere a livello internazionale sul come orientare i servizi sanitari del futuro. La stessa esperienza però ci ricorda che dobbiamo imparare a convivere anche con l’imprevisto e l’imprevedibile.

Come passerà e con chi le prossime feste di Natale e Capodanno?

Spero di poterle trascorrere assieme alla mia famiglia: mia moglie e le mie due figlie.

 

Che faccio, compro?

Dopo le ultime performance sui vaccini antinfluenzali, più introvabili della pietra filosofale, si pensava che Giulio Gallera avesse definitivamente scalzato Attilio Fontana nell’ambìto ruolo di capocomico del duo “I Nuovi Legnanesi”. Invece, con una zampata da grande guitto, lo sgovernatore ha scavalcato l’assessore proprio sul finale, ricacciandolo al rango di spalla. La sua lettera ai quattro pm che l’hanno indagato per frode in pubbliche forniture per la commessa dei camici, affidata senza gara dalla sua Regione alla ditta di suo cognato, si inscrive nella nobile tradizione di quella di Totò e Peppino alla malafemmina e di Benigni e Troisi a Savonarola. Titolo: “Che faccio, compro?”. Trama, semplice e travolgente: il presidente leghista, dopo averlo negato per mesi, si accorge finalmente che il “modello Lombardia” non riesce neppure a vaccinare dall’influenza medici, infermieri e i malati cronici over 80: “Regione Lombardia si trova, ancora una volta, al centro di un problema emergenziale relativo al vaccino antinfluenzale”, la cui “reperibilità è, come è noto, assai problematica”. Ma, anziché guardarsi allo specchio e sputarsi solennemente in un occhio per manifesta incapacità, magari invitando alla cerimonia anche Gallera, se ne lagna con gli “Ill.mi Magistrati”, che non c’entrano una mazza. E – dopo aver tentato invano di far importare dei vaccini indiani da un dentista di Bolzano (non autorizzato) tramite un intermediario turco con gli auspici di un conoscente cinese – li informa di aver finalmente trovato “un fornitore” addirittura “autorizzato: l’importatore svizzero Unifarma”, che ne ha “350 mila dosi”. Un po’ pochine, per 10 milioni di abitanti, ma meglio di niente. Solo che, essendo dicembre con l’epidemia influenzale in pieno corso (infatti tutti si vaccinano a ottobre-novembre), non c’è tempo per bandire una gara (altrimenti il vaccino arriva per quella dell’anno prossimo): bisogna “addivenire all’acquisto a trattativa privata”, prima che “i suddetti vaccini spariscano dal mercato”. E qui, anziché prendersela con chi non ci ha pensato a luglio-agosto (come si fa ogni anno dalla notte dei tempi), cioè con se stesso e la spalla, scarica tutto sui dirigenti della centrale acquisti regionale Aria Spa, indagati con lui per i camici del cognato, che “si rifiutano di procedere all’acquisto, salvo che il Presidente Fontana ottenga l’autorizzazione della Procura della Repubblica (!)”. Il punto esclamativo è suo, ma pure nostro. Lui ovviamente è “lungi dal chiedere, seppur implicitamente, salvacondotti o autorizzazioni che appaiono indebite”, però li chiede. E “si assume la responsabilità” dell’acquisto.

Però la scarica sui pm, che con l’inchiesta sui camici gli han paralizzato l’Aria Spa. E domanda senza domandarlo: “Che faccio, compro?”, anzi, “addivengo all’acquisto?”. Come se sapesse che ciò che sta per fare è illegale, visto che le commesse senza gara sono giustificate per l’emergenza Covid (ma per quelle c’è il commissario Arcuri) e non per quelle di routine, tipo i vaccini antinfluenzali, che si fanno da sempre con la mano sinistra e che la sua Regione è riuscita a cannare in toto, con 12 gare deserte o riuscite con esiti tragicomici (dosi pagate ora 5 euro, ora 27). Senza contare che il parallelo fra camici del cognato e vaccini non regge: a meno che, dietro il fornitore svizzero, si nasconda un altro parente, tipo un cugino, un nipote, una zia; o che anche stavolta vengano fuori conti milionari in Svizzera, trust alle Bahamas, scudi fiscali. Pur ammirati dal sense of humour, ci permettiamo di aggiungere alle sue un paio di domande. Risulta che Fontana sia avvocato: ma nei suoi studi di giurisprudenza, salvo che si siano svolti al Cepu o per corrispondenza alla scuola Radio Elettra o coi punti della Miralanza, ha mai saputo di indagati che avvertono i pm che stanno per riviolare la legge? In quale Codice, fuori da Paperopoli e Topolinia, è prevista questa prassi, volgarmente detta “mettere le mani avanti” o “pararsi il culo”? E se, come traspare dai punti esclamativi, essa pare bizzarra pure a lei, perché l’ha seguita? Davvero si aspettava che i pm rispondessero alla letterina a Babbo Natale se non per dire che non sono affari loro?

Le possibili risposte alternative erano solo due: “Faccia pure, presidente, che sarà mai la legge vigente: ma proprio perché è lei, e che non si ripeta più”; oppure “Non si azzardi, sennò finisce dentro”. La seconda sarebbe uno splendido alibi per scaricare sulle solite toghe rosse le colpe della sua incapacità. La prima sarebbe un’amnistia preventiva ad personam e farebbe schiattare d’invidia B.. Il quale, a saperlo, si sarebbe risparmiato un mare di guai passando la vita a scrivere letterine alle Procure su un modulo prestampato con la casella dei reati in bianco: “Che faccio, ingaggio Mangano o deludo Dell’Utri?”, “Che faccio, chiamo la Questura per la nipote di Mubarak o lascio stare?”, “Che faccio, frodo il fisco o pago le tasse?”, “Che faccio, falsifico i bilanci o ci metto tutto?”, “Che faccio, compro la sentenza Mondadori o dico a Previti di farsi un giro?”, “Che faccio, corrompo Mills e le Olgettine o li lascio parlare?”, “Che faccio, bonifico 23 miliardi a Craxi o pago in natura?”, “Che faccio, compro i senatori o li lascio a Prodi?”, “Che faccio, bungabunga o astinenza?”, “Punto, punto e virgola, due punti. Massì, abbondiamo! Abbondantis abbondandum”.

Serve la speranza dell’azione umana contro la politica “della paura”

“Non abbiamo nulla da temere eccetto la paura stessa” ebbe a dire Franklin Delano Roosevelt, presidente del New Deal. Martha Nussbaum la riporta nel suo bel libro per dire che in fondo non è vero, che a quei tempi c’erano cose come il nazismo o la fame da temere fortemente.

Più appropriata una affermazione di Barack Obama alla fine del suo mandato: “La democrazia può crollare quando cediamo alla paura”. E qui la filosofa statunitense aggancia una riflessione, agevole e godibile, trattandosi di un testo filosofico, sulla paura come una delle principali minacce degli ordini democratici. Un testo che giungendo nel cuore della pandemia globale, aiuta a riflettere davvero su quali saranno le evoluzioni delle società occidentali nel governare la grande emozione di massa che il Coronavirus ha prodotto.

La paura ha diverse caratteristiche e origini. È innata e la si vede all’opera nei bambini che, come notava Rousseau, rivelano la loro “tendenza monarchica” a gestirla attirando cure e protezioni da chi li adora sopra ogni cosa. Ma ha anche una origine psicologica profondamente radicata e si presta a essere facilmente solleticata dalla retorica politica per controllare meglio la popolazione. Lo si vede ampiamente nelle tendenze populiste-nazionaliste, la stessa Nussbaum cita come emblematico il discorso di Trump contro l’islam. La paura esalta la contrapposizione e l’isolamento degli umani. E allora, argomenta la filosofa, bisogna puntare sul suo opposto, la speranza, “quasi mai discussa estesamente dai filosofi” e che implica “la visione di un mondo positivo che potrebbe realizzarsi”. Una “speranza pratica”, volta all’azione e non una “speranza oziosa”. Una suggestione interessante che affonda nelle letture di Lucrezio, nell’esempio di Socrate, in una fiducia nell’agire umano oltre, appunto, la paura.

 

 

Dalla vestaglia a Flaubert: troppi “livelli di vita”

“Per me la debolezza è più interessante della forza, l’impotenza più del potere”. È utile muovere da questa sua affermazione per capire identità e vocazione di Julian Barnes che – insieme ai colleghi Amis, McEwan, Ishiguro – da trent’anni domina la scena letteraria britannica.

Madre e padre entrambi docenti di Francese, un fratello filosofo, tutta l’esistenza di Barnes è dentro la scrittura: romanzi, polizieschi firmati con pseudonimo, saggi, rubriche giornalistiche su cinema e tv. Intellettuale eruditissimo, padroneggia come pochi la lingua inglese, anche sulla scorta della sua esperienza di lessicografo per uno storico dizionario (rivelatore che nel suo Il pedante in cucina diffidi dei cuochi che scrivono le ricette in modo impreciso). Una cultura enciclopedica e una rara abilità nel restituire una temperie (ricordiamo le disavventure del musicista russo Shostakovich in epoca staliniana in Il rumore del tempo) che dimostra ancora una volta in L’uomo dalla vestaglia rossa, sua ultima opera edita da Einaudi. Seguendo le tracce di Samuel Jean-Pozzi, ginecologo della noblesse parigina di fine Ottocento, uomo di scienza e libertino, Barnes ci porta nella Belle Époque europea tra le celebrità che la animano, da Flaubert a Wilde, da Henry James a Wagner. Proprio da romanzo l’aneddotica su questo don Giovanni col bisturi: amico di famiglia dei Proust, la figlia che si innamora follemente di Paul Valéry… Impossibile non segnalare nella vita di Barnes un contenzioso che ha fatto versare fiumi di inchiostro. Barnes è vice di Martin Amis quando quest’ultimo diventa responsabile letterario del blasonato New Statesman. Un sodalizio che si incrina a metà degli anni 90 con L’informazione (i protagonisti del romanzo, scrittori rivali, sarebbero, trasfigurati, proprio Martin e Julian), per il quale Amis pretende un anticipo favoloso che la sua agente, la moglie di Barnes, non riesce a procurargli e che lui tradisce affidandosi al celebre “sciacallo” Andrew Wylie.

Il 74enne autore di Leicester, capace di conciliare un raffinato senso della reticenza con il gusto di uno humour dissacrante, libro dopo libro restituisce l’insignificanza della vita attraverso personaggi che si dibattono in domande che girano a vuoto. Le risposte restano inafferrabili anche per la cronica incapacità di darsi un’educazione sentimentale, per dirla con Flaubert. Sovviene non a caso Il pappagallo di Flaubert, romanzo del 1984 in cui un vedovo inglese ripercorre le campagne della Normandia sulle tracce del grande Gustave e di un pappagallo impagliato a lui appartenuto. Qui Barnes si specchia a tal punto nell’autore francese da ereditarne la vocazione a sublimare nella letteratura tutto ciò che la vita non riesce a colmare. “Quando ho iniziato a leggere i grandi classici ho avuto la convinzione che questi mi dicessero la verità come nessun’altra ipotetica autorità (genitori, preti, maestri, giornali, politici) prima di allora aveva fatto”. Come fa dire a un suo personaggio di Una storia del mondo in dieci capitoli e mezzo: “Solo questa è la connessione che conta, amore e verità”. Come non pensare a Livelli di vita (2013) dove Barnes si mette a nudo sviscerando la sua ferita personale: il dolore per la scomparsa della moglie Pat Kavanagh a causa di un tumore al cervello. La donna morì nel 2008 a distanza di soli 37 giorni dalla diagnosi fatale.

Nella sua casa tipicamente londinese con la facciata dai mattoni rossi, Barnes continua a rimuginare sulle sue ossessioni: lo scorrere del tempo, gli inganni della memoria, la fine. Ecco appunto Il senso di una fine, vincitore del Booker Prize nel 2011. Barnes suggerisce di riconsiderare il nostro senso del tempo. Quando l’io narrante, Tony Webster, si libera di quella specie di rassegnazione che gli fa tollerare la sua mediocrità e rivisita il suo passato scoprendo di conoscere eventi diversi da quelli che sapeva e accettava come veri, tutto il suo mondo interiore va in frantumi e scivola verso significati non più rassicuranti. Tutto sembra preludere a un punto di non ritorno, ma la narrativa di Barnes si conclude sempre con una promessa di futuro: ci sarà sempre un dopo. È lui stesso a certificarlo: “Lasciamo che sia il lettore a decidere se il seguito sarà consolante o meno”.

A caccia dei segreti di una moglie morta per infarto: un giallo nella Tokyo anni 70

In Giappone la cultura del lavoro è talmente severa e totalizzante che quando Tsuneo Asai viene informato dell’improvvisa morte della giovane moglie dice al suo superiore, il capo di gabinetto del ministero dell’Agricoltura: “Mi perdoni per aver anteposto al lavoro una questione privata”. Asai è in trasferta a Kobe ed è a una cena ufficiale con alcuni industriali del settore agroalimentare. La fatale telefonata lo costringe a rientrare di notte a Tokyo. A uccidere Eiko, consorte sensuale e silente, è stato un infarto. La donna si trovava in un quartiere residenziale della metropoli. Percorreva una strada in salita, si è sentita male ed è entrata in una piccola profumeria. Lì è morta.

Asai rimane sorpreso dalle circostanze. Eiko, infatti, si limitava a frequentare la scuola di haiku e soprattutto evitava ogni tipo di sforzo (compreso il sesso) a causa del cuore, indebolito due anni prima da una leggera crisi cardiaca. Che ci faceva in quel quartiere impervio, dove peraltro si trovano alcuni alberghi a ore? L’indagine personale di Asai è basata su una logica implacabile ed essenziale, metodo prediletto di Matsumoto Seicho (1909-1992), tra gli scrittori più prolifici del giallo nipponico. Un posto tranquillo è del 1972 ed è una miniatura realista sulla società giapponese: il senso di solitudine di Asai e la sua rigida etica del lavoro; il peso delle raccomandazioni che spesso sovrastano il merito; la dittatura delle gerarchie; il maschilismo; infine l’esasperante ritualismo di formalità da rispettare. E sarà proprio quest’ultimo aspetto, in un crescendo angosciante e grottesco, a decidere il sorprendente epilogo della storia. Asai ricostruisce le ultime ore della moglie e scoprirà in maniera meticolosa un segreto dopo l’altro. Ma sulla soluzione del mistero incombe una nuova trasferta per la diversificazione della produzione agricola.

 

Il padre di Murakami solo come un gatto

Covare un’intenzione a lungo, sentire che punge in gola come una spina, non saperla trasformare in atto. Per Haruki Murakami, 70 anni, lo scrittore giapponese più celebre al mondo, tradotto in 50 lingue, quell’intenzione era raccontare della sua famiglia, in particolare del padre e di conseguenza di sé, “figlio qualunque di un uomo qualunque”, ma qualcosa gli impediva di farlo a cuor leggero. A consegnargli il lasciapassare per una narrazione spontanea, servita da uno stile minimale e toni delicati, lievemente nostalgici, incentrata su “episodi banali” ma che costituiscono l’ossatura del loro legame, è un ricordo infantile legato a un gatto, animale iperpresente nella sua vita (negli anni 80, prima di diventare scrittore, gestì con la moglie il Peter Cat, jazz bar con le pareti tappezzate di foto di gatti) e nelle sue opere, una su tutte Kafka sulla spiaggia, il romanzo per cui è più conosciuto.

In un pomeriggio d’estate lui e il padre abbandonarono una micia incinta, habitué del loro giardino, sulla spiaggia. Murakami non ricorda il perché, ma rammenta che, appena rincasati, restarono stupiti nel ritrovarla lì. Come aveva fatto ad arrivare prima di loro, che si erano mossi in bici? Un accadimento enigmatico e surreale, come lo sono spesso le sue storie, che funge da miccia per ordire la biografia del padre Chiaki, appunto, classe 1917, secondo di sei figli maschi, monaco buddista, scrittore di haiku, amante della letteratura, insegnante liceale di giapponese, che in giovinezza fu arruolato nell’esercito tre volte: nel ’38, per un errore burocratico, nel ’41, congedato a una settimana dall’attacco di Pearl Harbor grazie alla magnanimità di un ufficiale, e nel ’45 a due mesi dalla fine della guerra, sfuggendo ripetutamente alla morte. Un vissuto che tacque sempre perché troppo doloroso.

Sfilano così molteplici fermo immagine, resi ancor più vivi dalle tavole parlanti di Emiliano Ponzi che ha rappresentato le scene descritte “come polaroid vintage dalle tinte pastello”: dalle domeniche al cinema insieme (solo western o film di guerra americani) al giorno in cui Chiaki tenne un seminario di poesia in un vecchio tempio dove aveva soggiornato l’amato poeta Basho, dal momento in cui si riconciliarono in una stanza d’ospedale dopo 20 anni di silenzio e incomprensioni, “anche se non andavamo d’accordo su tante cose, davanti a lui ormai così magro, ho sentito nascere dentro di me la sensazione certa di un legame che mi dava forza”, a quello in cui un Murakami bambino gli domandò per chi pregasse ogni mattina di fronte al butsudan. “Per le anime di chi è morto in guerra” giapponesi e anche cinesi, seppur nemici. Una lezione di vita in un pugno di parole. Chiaki si sentiva un sopravvissuto e Haruki si rese conto che se il destino del padre e della madre, che avrebbe dovuto sposare un prof. di musica caduto in guerra, avesse preso un altro corso lui non sarebbe esistito. Ma d’altronde la storia è questo, “l’unica eventualità, fra innumerevoli altre, che si è attuata, senza se e senza ma”. E anche se ognuno di noi è una delle infinite, “anonime gocce di pioggia che cadono su una vasta pianura” è anche vero che ogni vicenda individuale è “un tassello della grande storia che ha formato il mondo nel quale viviamo”.

Abuso di alcool, lavori trovati e persi, esperienze sessuali: è il viaggio di Marnie

“Avete mai avuto uno di quei pensieri tanto inquietanti da farvi dire… Cazzo! E questo da dov’è uscito? Un pensiero del tutto inopportuno e scioccante, tipo immaginare il tuo capo nudo, prendere a pugni una vecchia per strada, saltare da un treno in corsa”. A Marnie, la ventenne protagonista di Pure, capita di peggio. I pensieri disturbanti di cui soffre da quando è adolescente sono tutti a sfondo sessuale: suo padre impegnato in un cunnilingus, un uomo che succhia il latte dal seno di sua madre, il medico che si lecca l’ascella durante una visita… E tutte queste immagini attraversano la sua mente (e i nostri schermi) mentre Marnie sta pronunciando il discorso di rito durante i festeggiamenti per l’anniversario di matrimonio dei genitori.

Le scene trash di Pure, serie britannica disponibile su RaiPlay, non sono fini a se stesse ma servono a spiegare la malattia mentale di cui soffre la protagonista (Charly Clive, all’esordio in tv, già autrice di un monologo teatrale in cui raccontava del suo tumore al cervello). Si chiama Pure O ed è una forma di disturbo ossessivo compulsivo: chi ce l’ha non mette in atto comportamenti ripetitivi, ma è tormentato da pensieri intrusivi e incontrollabili. Marnie, però, non sa di essere malata; sa solo che con quei pensieri in testa non riesce più a vivere. E così lascia il minuscolo paesino scozzese in cui vive per scappare a Londra, che se non altro ha nove milioni di abitanti e non 800.

Il viaggio di Marnie alla scoperta del suo disturbo, tra medici e gruppi di auto aiuto, abusi di alcool, lavori trovati e persi ed esperienze sessuali frustranti è la parte più interessante della serie. Meno originale è la scelta di raccontare questa storia attraverso una protagonista giovane che arriva in una grande città e inevitabilmente si innamora. Se da un lato Pure ha molti punti in comune con Fleabag, la serie di Phoebe Waller-Bridge già diventata un cult, dall’altro non riesce a essere sincera, irriverente e scorretta come la sorella maggiore.

“Love & Anarchy”, gli stereotipi funzionano

Quando un ambiente sterile viene turbato da un agente esterno le conseguenze possono essere imprevedibili. È quello che succede alla Lund & Lagerstedt, storica casa editrice di Stoccolma rimasta apparentemente impermeabile al progresso tecnologico e per questo in crisi. Ronny, il direttore, decide di ingaggiare Sofie, una consulente aziendale specializzata in digitalizzazione e strategie per il futuro: da quel momento in poi nulla sarà più come prima, né per la Lund & Lagerstedt né per Sofie.

Love & Anarchy è la seconda serie svedese prodotta da Netflix dopo Quicksand. Non l’ennesimo noir nordico ma una workplace comedy ambientata, appunto, in una casa editrice che pare rimasta ferma agli anni Novanta. Friedrich, l’esperto direttore editoriale, tiene i rapporti con gli scrittori e sceglie insieme a Denise, la responsabile marketing e pr, i libri da pubblicare. I due battibeccano su tutto ma lavorano nello stesso modo. “Su che tipo di dati basate le vostre decisioni?” chiede la nuova consulente. “Leggiamo i manoscritti” è la risposta. Anche la vita di Sofie sembra procedere da tempo sugli stessi binari. Ha due figli, un marito piuttosto borioso che fa il regista pubblicitario, un lavoro stimolante, una bella casa e un bagno dove si rifugia appena può per masturbarsi. A questa piccola trasgressione Sofie non può proprio rinunciare, tant’è che lo fa anche in ufficio, davanti al pc. Ovviamente è convinta di essere da sola, ovviamente non lo è: Max, il giovane tecnico informatico, la vede e la filma. Nasce così fra loro due un gioco di scommesse e piccoli ricatti che sarà il filo conduttore delle prime puntate.

Una casa editrice che cerca di uscire dalla sacche della crisi e una donna in carriera che s’invaghisce di un ragazzo che ha vent’anni meno di lei. Se la serie fosse tutta qua, non varrebbe nemmeno la pena di parlarne. Ma Love & Anarchy aggiunge via via nuovi argomenti. Arrivati al quarto episodio, quando la tensione erotica fra Max e Sofie è sempre più palpabile ma il giochino comincia a stufare, si scopre che la Lund & Lagerstedt è stata ceduta a una streaming company che, attraverso la casa editrice, vuole strizzare l’occhio alla clientela più colta. Pur se affrontato in maniera stereotipata, il tema della relazione fra vecchi e nuovi produttori di cultura e intrattenimento è interessante e molto attuale; ancor più interessante è che venga affrontato da Netflix, la quale, evidenziando in una serie i limiti di una streaming company, finisce per parlare dei limiti propri.

Negli ultimi episodi, poi, quando anche questo filone sta per esaurirsi, viene introdotto un altro tema: la follia. Qui bisogna per forza parlare del titolo della serie, Love & Anarchy, che in realtà è il titolo del romanzo scritto anni prima da Sofie e mai completato. Il manoscritto diventa l’occasione per approfondire il passato della protagonista e di suo padre, uno dei personaggi meglio riusciti, un anarchico che fa dentro e fuori dalla clinica psichiatrica. Alla fine la follia diventa la chiave di lettura di tutto, perché è solo grazie a lei se Sofie e Max si liberano da un passato e un presente ingombranti. A voler allargare il discorso, si potrebbe dire che il messaggio della serie è più o meno questo: per scrivere e pubblicare libri, oggi, bisogna essere un po’ pazzi.

Purtroppo Love & Anarchy, in cui compaiono numerosi volti noti del cinema e dell’editoria svedese (ma pressoché sconosciuti in Italia), rimane vittima dei suoi clichè. La casa editrice polverosa e la streaming company che pensa solo al profitto; il capo che non decide nulla, la segretaria svampita, la quarantenne frustrata, il vecchio direttore editoriale con i capelli tinti e pettinati all’indietro, eccetera eccetera. D’altra parte, la serie mantiene nel corso di tutti e otto gli episodi quella schiettezza tipica dei prodotti nordeuropei e offre alcuni momenti rivelatori: su tutti, la spettacolare uscita di Sofie dalla piscina di Göteborg.