“Io, la mattina del 6 dicembre 1990, ero al lavoro nello stabilimento Alcisa, che è un’industria alimentare di Zola Predosa e qualcuno mi ha detto: ho sentito che un aereo è caduto sulle colline di Casalecchio.
Al che, siccome nell’azienda c’è una torre molto alta, sono salito al settimo piano, da dove appunto si scorge tutta la collina di Casalecchio, e da lontano ho visto del fumo. Più tardi la centralinista mi ha chiamato per dirmi che c’era mia moglie al telefono. Parlai con Vittoria che mi disse di andare a vedere presso la succursale della scuola che frequentava mia figlia Alessandra, il Salvemini. Mi disse che c’era molta gente e che aveva sentito dire che un aereo da turismo era caduto vicino alla scuola, in via del Fanciullo 2. Mi precipitai, presi la macchina e mentre mi avvicinavo vedevo che c’era molta gente, e quindi a un certo punto mi obbligarono a lasciare la macchina. Scesi e mi misi a correre: quasi cominciavo a sentire un presentimento. Mi avvicinavo e vedevo che c’erano carabinieri, vigili del fuoco e un grande agitarsi di gente sgomenta. Poi vidi lo squarcio. Quel maledetto squarcio che è rimasto nella scuola. Lo squarcio che è rimasto dentro di noi”. Camminiamo intorno al muro di cinta, basso, sovrastato da una grata di ferro smozzicata dalla ruggine, ma non troviamo un varco e allora scavalchiamo. L’ingresso della palazzina è sbarrato da alcune assi di legno incrociate. Si potrebbe entrare lo stesso, ma noi cerchiamo lo squarcio che è sul lato opposto dell’edificio giallastro, circondato da un prato di dimensioni modeste e confinante con i bassi condomini della periferia di Casalecchio.
Sulla parete, all’altezza del secondo piano, il buco dove l’Aermacchi s’infilò uccidendo 12 studenti e ferendone 88 è una grande orbita vuota, con i bordi sfregiati dallo sfasciume dei calcinacci penduli, e dentro una specie di fondale di compensato marcito per celarne, ma solo in parte, l’oscenità. Vittorio Gennari indica la cavità, vittima che guarda il carnefice. “Cercai di andare davanti alla scuola, però era tutto transennato, tutto bloccato. Fu allora che cominciai a guardarmi intorno e osservavo in giro cercando di incontrare il suo viso – o mio Dio fai che Alessandra sia qui – o di riconoscere la fisionomia di qualche suo compagno. C’erano persone pallide, impolverate. Riconosco il professore d’Inglese, gli dico: Andrew, per caso mia figlia…? Dice: io non lo so perché sono tutti usciti dalla scuola. La sua faccia era terribilmente bianca, cadaverica, e ricordo il tremore del labbro dell’insegnante di Geografia. Non mi accorgevo che stavano mentendo per pietà. Insisto: ma che è successo? E lui: è caduto un aereo. Provi a sentire alla sede centrale della scuola, magari le sanno dire qualcosa. Cominciai a correre verso la centrale che dista un chilometro, in direzione Marconi. Quando arrivai nessuno mi sapeva dare notizie: mah, si deve rivolgere all’Ospedale Maggiore, perché lì c’è qualcuno che è ferito. Però man mano che andavo avanti vedevo gente con gli occhi sbarrati, disorientata. All’Ospedale Maggiore trovai altri genitori nella sala d’attesa improvvisata nell’aula magna. Sapete niente di Alessandra? Mah, dicono, stanno dando tutti i nomi dei feriti. E infatti sul tabellone luminoso comparivano delle scritte. C’erano i nomi di tre o quattro ragazzi della Seconda A che conoscevo. Però non trovavo quello di mia figlia. Cominciavano ad arrivare notizie più precise: dicono che c’è qualcuno disperso… In quel momento il disperso per me era ancora uno che si poteva trovare. Invece, tecnicamente, il disperso è uno che non lo trovano in nessun modo – l’ho imparato dopo, però. Nel frattempo telefonavo a mia moglie e la rassicuravo: mi hanno detto che molto probabilmente Alessandra è in giro, sai, perché dopo quello che è successo magari uno è un po’ sotto choc…
In quel momento entrano nella sala alcuni di Bologna Soccorso, il 118, e dicono: tutti i genitori che non trovano sul tabellone il nome dei loro figli dovrebbero venire con noi all’istituto di Medicina legale. Richiamo mia moglie: ma com’era vestita l’Alessandra? E lei: aveva messo le scarpe che le avevo comprato l’altro giorno, e indossava un maglione fatto in un certo modo, e la camicia così e così… Vicino Medicina legale, c’era la stazione mobile della Pubblica sicurezza. Mi hanno chiesto chi fossi. Sono Vittorio Gennari, sono il papà di Alessandra… Mi può descrivere Alessandra? Mi sentii gelare. Fu in quell’attimo che per la prima volta mi resi conto che, probabilmente, Alessandra non c’era più. Dico: è una ragazza alta con un neo sulla gamba. Balbettavo. Ci portarono dentro una sala e ci dissero di attendere. Sì, era successo qualcosa di brutto, quello che io mi sforzavo di negare. Poi mi chiamarono, e qui diventa qualcosa di impossibile da raccontare, ma è bene che queste cose si sappiano, perché la gente deve capire che non si può morire nel modo in cui sono morti i nostri figli”. Gennari mi osserva e ho l’impressione che continui a interrogarsi sulle ragioni della mia presenza lì. È venuto, gentilissimo, a prendermi alla stazione di Bologna, quasi incredulo che trascorsi dieci anni questa storia galleggi ancora nella memoria di qualcuno. “Al processo il comportamento degli imputati era saccente, per il fatto stesso di essere dei piloti militari si sentivano già assolti. Quasi che l’aver provocato quella tragedia fosse da considerare un imprevisto che comunque faceva parte del loro lavoro. Consideravano l’assoluzione un fatto quasi scontato. Ci trattavano con sarcasmo. Nessuno gli ha mai sentito dire: abbiamo commesso un errore. Quando in un’intervista televisiva Enzo Biagi chiese al pilota come si sentiva dopo aver provocato la morte di tanti ragazzi, questo signore ha risposto: ‘Mi sento come uno che legge sul giornale la notizia’”.
Lo squarcio nella scuola fu provocato dal velivolo MB 326 dell’Aeronautica militare pilotato dal sottotenente Bruno Viviani. Che a causa di un’avaria si gettava con il paracadute alle ore 10.31 e 40 secondi. Due minuti più tardi l’aereo privo di pilota si schiantava contro l’edificio scolastico. Domenica 6 dicembre, il trentesimo anniversario della strage del Salvemini di Casalecchio, nel rispetto delle norme antiCovid, sarà ricordato attraverso Facebook e YouTube alla presenza dei genitori dei ragazzi deceduti. Nell’occasione ha scritto Vittorio Gennari: “È stato duro per noi, accettare la sentenza definitiva, che mandava assolti gli imputati perché il fatto non costituisce reato. Una beffa e, paradossalmente, la colpa era dei nostri figli che erano a scuola. Alessandra mi manca, la cerco nei visi delle ragazze, ora donne, immaginandola come potrebbe essere ora: alcune volte la vedo, cerco di abbracciarla, ma mi sfugge. Ci manca la sua solarità, il suo sorriso, il suo canto”. Il racconto dei momenti successivi alla strage è tratta dal mio libro: Senza cuore, pubblicato nel 2000.