Torna Lady Gaga: sarà la mandante dell’omicidio di Maurizio Gucci

Il romanzo di Paolo Genovese Il primo giorno della mia vita verrà adattato per il cinema dal regista romano in un film prodotto da Marco Belardi per Lotus e Leone Film Group e interpretato da un cast prestigioso in cui si segnalano per ora Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Margherita Buy e Sara Serraiocco. Racconterà la storia di un uomo, due donne e un ragazzino, tutti convinti per motivi diversi di aver toccato il fondo e sull’orlo di farla finita, che incontrano un misterioso personaggio che regala loro sette giorni per scoprire cosa accadrà quando non ci saranno più, cosa lasceranno e cosa perderanno e quale sarà la reazione di amici e parenti E, se possibile, per riuscire a innamorarsi ancora della vita.

Dopo il trionfo planetario di A star is born Lady Gaga tornerà al cinema come protagonista del nuovo film di Ridley Scott, Gucci, nel ruolo di Patrizia Reggiani, la donna che ha scontato 26 anni di carcere come mandante dell’omicidio di suo marito Maurizio Gucci, avvenuto nel 1995 davanti alla sede della celebre casa di moda. Sceneggiato da Roberto Bentivegna sulla base del libro di Sara Gay Forden, La saga dei Gucci sarà prodotto dal regista con sua moglie Gianina Facio e prevede tra i papabili interpreti star del calibro di Robert De Niro, Al Pacino, Adam Driver e Jared Leto.

Stefano Accorsi e Miriam Leone recitano da tre settimane a Roma sul set di Marilyn ha gli occhi neri, un’insolita commedia diretta da Simone Godano, sceneggiata da Giulia Steigerwalt e prodotta da Matteo Rovere per Groenlandia.

Liliana Cavani dirigerà in primavera L’ordine del tempo, un nuovo film realizzato per Indiana Production da lei sceneggiato con Paolo Costella e Carlo Rovelli facendo riferimento al libro omonimo di quest’ultimo e ad altri suoi testi incentrati sul concetto del tempo.

“The Prom”: film sbagliato, lo salva la solita Streep

“Mi ha richiesto un enorme sforzo interpretare una così vanitosa e prevaricatrice, una tremenda narcisista… (ride) Non so proprio da dove l’abbia tirata fuori. Io sono forse tutte queste cose, ma non sono una diva: è un ruolo che mi va largo, e perciò l’ho amato”. Parola di Meryl Streep, nostra signora del cinema: ventuno – record – nomination agli Oscar, tre statuette – non protagonista per Kramer contro Kramer (1979), protagonista per La scelta di Sophie (1982) e The Iron Lady (2011) – in bacheca, e a 71 anni ancora la voglia matta di mettersi in gioco. E (ri)provarsi migliore anche laddove gli altri non lo sono: The Prom, che è un brutto film, lo grazia lei.

Dall’11 dicembre su Netflix, adatta l’omonimo musical di Chad Beguelin, Bob Martin e Matthew Sklar, ed è il primo prodotto del ricchissimo accordo (300 milioni di dollari per dieci progetti, dicunt) tra il servizio streaming e Ryan Murphy, lo showrunner di Nip/Tuck, Glee, American Horror Story. Streep torna a cimentarsi con i dialoghi cantati dopo il dittico Mamma mia!: “Sono la più vecchia del cast, e quella con più scene di danza: assurdo!”. The Prom non lo conosceva, “sono andata a teatro e… non avevo mai visto niente di simile: il pubblico seguiva lo spettacolo in piedi, ridendo, urlando, piangendo. Ho accettato su due piedi!”. Ed eccola nei panni di Dee Dee Allen (Meryl Streep), pluripremiata stella di Broadway, offuscata dall’ultimo spettacolo, un flop clamoroso. Sostenuta dal compagno di sventura Barry Glickman (James Corden), cui si aggiungeranno i colleghi Angie (Nicole Kidman) e Trent (Andrew Rannells), l’attrice cercherà di risalire mediaticamente la china improvvisandosi attivista Lgbtq “al servizio” di Emma Nolan (l’esordiente Jo Ellen Pellman), liceale dell’Indiana impedita di partecipare al ballo di fine anno con la fidanzata Alyssa (Ariana DeBose) da un’associazione genitori e insegnanti retriva. La cinica Dee Dee pregusta il trionfo, ma non tutto andrà come preventivato… Se Meryl si schermisce pro forma, “È stato difficile, dispendioso, divertente: non sono una ballerina, ma amo il ballo, mi riempie di sensazioni meravigliose”, più interessante è rivelare, accanto alla sua ordinaria bravura, il riverbero autobiografico di Dee Dee: non la star sul viale del tramonto, ché sulla Streep il sole non cala mai, ma l’attivista per i diritti e l’icona identitaria, da Il diavolo veste Prada! al ricordato Mamma Mia!, della comunità Lgbtq. Uno specchio scivoloso su cui The Prom stolidamente non riflette, confermando la propria inadempienza e insipienza: il confronto showbiz/provincia, progressisti/conservatori è sciatto quanto manicheo, al netto di uno strale anti-cristiano indebito; gli interpreti, da Corden quale gay d’operetta a Kidman in versione solo gambe, a mezzo servizio; Ryan Murphy, parrebbe, più impegnato in banca che sul set. Per fortuna, c’è Meryl Streep, incarnazione di talento e professionalità, poliedricità e dedizione: l’unica da Prom(uovere).

 

“Fuggi all’estero caro Rosenkranz: qui in Germania si parla di razza”

Salisburgo, 10 dicembre 1921. Da quanto tempo volevo già, e voglio scrivervi, caro signor Rosenkranz, molto prima che arrivasse il vostro caro invito! Io, però, ero già a Berlino, e incapace di scrivere anche solo una riga di lettera, nel mezzo di un tumulto di uomini e cose… Sono così contento di voi, di quanto seriamente voi sentiate, così precocemente, i problemi decisivi del sangue. Forse, troppo seriamente, poiché dovete ancora, infatti, dare interamente forma al destino dell’uomo ebreo, del poeta in sé, volgendovi, anzitutto, verso la materia dell’esperienza vissuta. Certamente, gli anni dell’università saranno decisivi per voi. Se mi è consentito augurarvi qualcosa, sarebbe che viviate una parte della vostra giovinezza fuori dalla Germania, in un Paese in cui il problema ebraico non scotta con tanta urgenza come da noi. Ho vissuto per anni all’estero, dove nessuno chiedeva della razza. Allorché tornai, il problema era improvvisamente qui, davanti a me, e mi reclamava interamente. Quelli che però, come Schnitzler per esempio, discutevano di queste cose durante la loro intera vita senza fare alcuna pausa, costoro non ebbero mai la rotonda plasticità del problema. Il problema si dileguava nelle discussioni… Però, era sorprendentemente di nuovo qui, allorché io, 24enne, tornavo da Parigi…

Utilizzate questi anni! Quanto tempo ho sprecato (non con le donne, non intendo questo, al contrario), ma con cose vuote. Imparate solo lingue adesso! Questa è la chiave della libertà. Chissà, forse la Germania e l’Europa diventeranno così cupe che lo spirito libero non potrà più respirarvi. Pensate al mondo, quanto è grande! Ho visto l’India, la Cina, l’America, l’Africa, Cuba, il Canada, e so che ho vissuto. Il pensiero più temibile, per me, sarebbe stato quello di non aver respirato il mondo. Tendete già oggi la vostra forza verso questi Paesi lontani, sempre. Un uomo come voi deve ampliare i propri orizzonti, per dare il giusto nutrimento al suo spirito… Cordialissimamente.

L’amico ritrovato: Hans, Zweig e lo spettro nazista

Muoiono entrambi suicidi, a distanza di quattordici anni l’uno dall’altro: mai amicizia fu più intensa e tragica di quella tra Stefan Zweig e Hans Rosenkranz, come si evince dalle Lettere che il primo scrisse al secondo tra il 1921 e il 1933, all’alba dello scempio nazifascista. Mai tragedia fu più annunciata.

Riesumate quasi per caso da una cassetta di sicurezza a Tel Aviv nel 2016, le 24 epistole e 6 cartoline arrivano finalmente in Italia grazie a Giuntina, con la curatela di Susan Baumert e Francesco Ferrari: al di là del loro valore letterario e storico-documentale, queste Lettere a Hans Rosenkranz vivono di una strana e sinistra magia, quella di tutte le profezie che poi diventano realtà. Siamo nella Mitteleuropa devastata dalla Grande guerra, ma brulicante di talenti e idee; nel 1921 – ben prima dell’avvento del nazionalsocialismo, ma pure dell’italico fascismo – solo Zweig intravede il futuro: “Chissà, forse la Germania e l’Europa diventeranno così cupe che lo spirito libero non potrà più respirarvi”. Perciò, consiglia al giovane pupillo Hans di imparare le lingue e andarsene quanto prima dalla sua Prussia, “in un Paese in cui il problema ebraico non scotta con tanta urgenza come da noi. All’estero… nessuno chiede della razza” (la lettera integrale è riportata nell’anticipazione qui accanto, ndr). E non è neanche l’inizio della fine.

A legare i due intellettuali è un rapporto intimo, quasi tra padre e figlio: negli anni Venti del secolo breve, Stefan Zweig (1881-1942), 40enne, è già uno scrittore affermato, critico, editore, agente e biografo, forse il più grande dopo Plutarco; Hans Rosenkranz (1905- 1956) è un brillante sedicenne in cerca di un mentore e di spunti letterari, lui che è stato un bambino prodigio, nato nella stessa città di Kant, la fu Königsberg, ex Prussia, oggi Russia. Oltre all’amore per l’arte e la letteratura, i due condividono le radici ebraiche, sentendone tutto il peso ancora prima che l’Olocausto si compia, confrontandosi tra loro e con amici come Theodor Herzl, Romain Rolland e Arthur Schnitzler, tra gli animatori del vivace dibattito culturale dell’epoca, “il divampare della fiamma – scrive Zweig – prima del tramonto, un guizzo nella tempesta d’odio del mondo”.

Non mancano ovviamente suggerimenti squisitamente letterari, consigli di vita – “Si trovi una professione ben fondata” – e stoccate al senso comune: “Se a malapena ci si può vantare delle proprie imprese, mai si può farlo per quelle di una massa omogenea (si pensi al filisteo tedesco che si richiama a Goethe, o al fannullone italiano che si richiama a Dante)”…

Il carteggio si interrompe nel gennaio del 1933, Annus horribilis, con Hitler che sta per salire al potere a fine mese e i roghi di libri già in piazza. Zweig, tra i primi autori a essere bruciato è anche tra i primi a prevedere la catastrofe: migra in esilio a Londra nel 1934 e successivamente in Brasile. Rosenkranz, invece, cerca rifugio in Palestina, arruolandosi poi in guerra nell’esercito britannico e come capitano della Brigata ebraica in Egitto. Torna infine in Palestina, dove lavora come giornalista fino al 1956, quando si toglie la vita.

Anche Stefan, il suo antico maestro, si era suicidato nel 1942, assieme alla sua seconda moglie: “Saluto tutti i miei amici! Che dopo questa lunga notte possano vedere l’alba! Io che sono troppo impaziente, li precedo”. È sempre stato in anticipo, Zweig, sui suoi amici, sui suoi allievi, sulla storia tutta: “Se essere ebreo è una tragedia, così vogliamo viverla”. Era solo il 1921.

Trump, comizi in Georgia: è ancora campagna elettorale

“Non so bene che cosa Trump venga a fare qui e ciò mi preoccupa” le parole di Saxby Chambliss, senatore della Georgia in pensione, tradiscono l’imbarazzo e l’allarme fra i Repubblicani dello Stato che, nelle Presidenziali, ha ‘virato’ da repubblicano a democratico e dove, il 5 gennaio, ci saranno due ballottaggi per il Senato, decisivi per gli equilibri politici della prossima legislatura. Se vogliono conservare la maggioranza in Senato, i repubblicani ne devono vincere almeno uno. Nel weekend, Trump lascerà la Casa Bianca per la prima volta dall’Election Day – golf a parte – e andrà in Georgia a fare campagna per i due candidati repubblicani, Kelly Loeffler e David Perdue. Dovrebbe essere una festa; invece, ci sono in giro volti tesi: c’è il timore che il presidente, al posto di portare voti, ne faccia perdere, rimestando sui brogli – i tre conteggi hanno dato lo stesso esito, ha vinto Joe Biden – e rilanciando teorie cospirative senza fondamento. Tanto più che la fauna dei trumpiani in Georgia è fatta di tipi strambi, come l’avvocato Lin Wood, membro del team di avvocati del presidente che non ha vinto una sola delle molte cause intentate dopo le elezioni: l’ultimo schiaffo dalla Corte Suprema del Wisconsin, che non ha voluto neppure discutere l’esposto della campagna del magnate per un difetto di procedura. Wood dice alla gente di non andare a votare, perché tanto il risultato è già scritto. Newt Gingrich, speaker della Camera e uomo forte del Partito Repubblicano quando il Tea Party era in auge, giudica la sortita di Wood “una delle cose più stupide mai viste in politica”. Anche Trump se n’è reso conto e ha telefonato al legale di piantarla, dopo avere licenziato un’altra sua avvocata, Sidney Powell, che aveva coinvolto in strampalate teorie cospirative il governatore della Georgia, Brian Kemp. Sul fronte Covid, l’immunologo Fauci in una intervista a Newsweek prevede un “gennaio terribile perché l’ondata del Thanksgiving si sovrapporrà a quella natalizia, quindi è del tutto possibile che gennaio costituisca il mese peggiore”.

Elezioni, Maduro rischia il flop anche senza sfidanti

“Mi rivolgo al popolo, il mio destino è nelle vostre mani. Se vince di nuovo l’opposizione, lascio”. L’ha promesso in un video-messaggio ai venezuelani il presidente Nicolás Maduro che ha indetto per domani le elezioni parlamentari, nonostante la richiesta dell’opposizione di rimandarle per la pandemia e per uno svolgimento più democratico. Per l’autoproclamatosi presidente ad interim, Juan Guaidó, infatti il voto è una “farsa”, una parvenza di democrazia in un Paese messo a tappeto dalla crisi economica, istituzionale, e a cui il Covid-19 ha dato il colpo di grazia.

Tant’è che l’opposizione non compare tra gli 86 partiti che si sfidano alle urne. I 20 milioni e 700mila cittadini venezuelani chiamati al voto – l’astensione attesa è altissima – sceglieranno, secondo la nuova formula introdotta da Maduro dopo la sconfitta del 2015: per il 52% attraverso il voto proporzionale e per il 48% per voto nominale. Con il vecchio sistema erano il 70% e il 30%, non equilibrato, secondo il Comitato nazionale elettorale. Nelle liste non c’è Guaidó, presidente riconosciuto da 50 Paesi, non compare Leopoldo Lopez, leader di Voluntad Popular rifugiatosi a Madrid, né Primero Justicia di Henrique Capriles, inizialmente pronto a presentare una lista in disaccordo con Guaidó e poi rientrato all’ovile, né i socialdemocratici di Acción Democrática e Un Nuevo Tiempo. A spazzare via il tetris inesplicabile delle opposizioni venezuelane è intervenuto il Tribunale supremo, che ha messo fuori legge le liste critiche con il governo e sostituito i vertici con vecchi militanti espulsi e accusati di corruzione, pronti, a urne chiuse, a stringere patti con Maduro. Tra gli estromessi, una su tutte, “Unidad”, utilizzata dall’opposizione nel 2015 come cappello per presentarsi uniti alle elezioni e sequestrata da Maduro che ha inquisito i leader. Unico in piedi resta il Partido comunista de Venezuela (Pcv), tradizionalmente alleato del Partido socialista unitario. Nelle liste del presidente, anche la moglie, Cilia Flores e il figlio Nicolas Maduro Guerra. L’obiettivo di Maduro è riprendersi, da qui al 2026 il Parlamento in mano all’opposizione dal 2015, costituito non più da 167, ma da 277 deputati, con un incremento voluto dal presidente del 66% degli scranni con l’intento di accaparrarsi con il voto nominale più rappresentanti possibile.

L’obiettivo di Juan Guaidó invece, è salvare la presidenza con il voto da lui promosso, previsto dal 7 al 12 dicembre, seppur non riconosciuto dalle autorità elettorali. Nonostante la minaccia del vicepresidente del Partido socialista, Diosdado Cabello ai venezuelani: “Chi non vota, non mangia, gli verrà applicata la quarantena a digiuno”, le attese di un plebiscito per Maduro si assottigliano sempre più in un Paese in cui la crisi del Covid ha peggiorato, se possibile, quella economica. Il bolivar si è svalutato del 60% e l’inflazione quest’anno chiuderà al 1.800%, la più alta del mondo. Il governo, per sua stessa ammissione, ha messo in campo solo nuove tasse alle transazioni bancarie e ripete a loop che “il problema del Venezuela sono le sanzioni internazionali”. I candidati promettono salari più alti e lotta al precariato: irrealizzabili. Nel frattempo, l’economia si contrarrà di un ulteriore 30%, arrivando al 20%, il valore di sette anni fa, a inizio recessione.

Libia, altro che pace: i veri padroni sono ancora i mercenari

La crisi libica non sta finendo, anzi. Dopo aver portato a termine il primo round del Forum sul dialogo politico in Libia (Lpdf) lo scorso mese in Tunisia, l’inviata dell’Onu, Stephanie Williams, da remoto ha aperto il secondo appuntamento con i rappresentanti di tutto il panorama politico e della società civile libica spiegando perché “il tempo sta ormai scadendo”. L’allarme suonato dalla inviata delle Nazioni Unite riguarda non solo la stabilizzazione politica del Paese nordafricano, ma anche quella socio-economica. In novembre il Forum si era chiuso con la decisione di indire elezioni il prossimo anno, senza tuttavia stabilire chi saranno le figure a capo della presidenza e del governo di accordo nazionale che dovranno guidare la transizione.

Per questo il successo del meeting non aveva soddisfatto del tutto le Nazioni Unite. Oggi, allo scopo di fare la massima pressione sui 75 delegati del paese devastato dalla guerra civile in corso – la seconda, scoppiata nel 2014, dopo quella che portò alla sconfitta di Gheddafi nel 2011 – Williams ha elencato senza giri di parole gli enormi problemi irrisolti. Si tratta di criticità estremamente gravi al punto che se rimarranno ancora a lungo irrisolte faranno entrare definitivamente la Libia nel novero dei Paesi falliti, spegnendo del tutto le speranze di stabilizzazione dei nostri dirimpettai. Williams, aprendo i colloqui, ha denunciato che ci sono ben dieci basi militari nel paese completamente o parzialmente occupate da forze straniere. In tutto ammontano ad almeno 20mila le persone – tra addestratori militari, membri dei corpi speciali e mercenari inviati da Turchia, Russia, Egitto, Emirati, a sostegno delle fazioni rivali che si fanno la guerra – attivi sul campo libico. “Questa è una violazione scioccante della sovranità libica. Potreste credere che questi stranieri siano qui come vostri ospiti, ma la realtà è che sono venuti da voi per occupare la vostra casa. Questa è una palese violazione dell’embargo sulle armi”, ha avvertito Williams ricordando la risoluzione delle Nazioni Unite che ha stabilito il divieto per qualsiasi paese di trasferire armi, militari e mercenari a Tripoli come a Bengasi. Un divieto che finora è stato disatteso specialmente da Ankara, Cairo, Abu Dhabi e Mosca. L’inviata ha aggiunto che queste forze straniere, mercenari compresi, stanno riversando armi in un paese che non ha più bisogno di armi, aggiungendo che questi non sono in Libia per gli interessi dei libici, sono in Libia per i loro interessi.

Un altro capitolo drammatico della storia attuale libica è quello economico. “In precedenza vi avevo avvertito del declino delle condizioni socioeconomiche nel Paese e del fatto che prevediamo tra un mese, esattamente a gennaio 2021, ci saranno 1,3 milioni di libici bisognosi di assistenza umanitaria” su una popolazione di neanche 8 milioni di persone. Williams ha proseguito ricordando che è in corso un forte calo del potere d’acquisto del dinaro libico assieme alla costante diminuzione della liquidità in circolazione. Ha poi denunciato che ora in Libia c’è una crisi di elettricità, dicendo che c’è bisogno di ricordare quanto sia stata terribile la carenza di elettricità la scorsa estate quando le temperature hanno raggiunto il picco di calura. “È necessario immediatamente almeno un miliardo di dollari da investire nelle infrastrutture al fine di evitare un completo collasso della rete elettrica in tutto il Paese”. La situazione è andata aggravandosi con la pandemia che ha coinvolto anche la Libia e che, anziché fermarsi, sta espandendosi. “I contagi sono arrivati a quota 94.000. Ma riteniamo che queste stime siano al ribasso a causa della terribile carenza di test”.

Nel frattempo la Francia, che a lungo ha sostenuto seppur segretamente (un segreto di Pulcinella in realtà) il generale Khalifa Haftar, rivale del premier Fayez al-Sarraj a capo del governo di Accordo nazionale, contro le indicazioni dell’Onu e dell’Unione europea è riuscita a ottenere nuove aperture per il suo gigante petrolifero, Total. Il presidente della National Oil Corporation libica (Noc), Mustafa Sanalla, ha stabilito sia per il breve sia per il lungo termine un aumento consistente della produzione petrolifera della società francese. Tutto ciò non avvantaggia di certo l’Italia che si consola con la firma di un accordo tecnico di cooperazione militare congiunta e di collaborazione sanitaria, formazione e addestramento delle Forze Armate libiche e attività di sminamento. Lo ha annunciato su Twitter il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini.

Nello staff di De Luca un condannato, un riciclato e il braccio destro di Zinga

Bersaniano nelle primarie Pd vinte da Bersani, renziano nelle primarie vinte da Renzi, stranamente all’ultimo giro Vincenzo De Luca aveva sostenuto il perdente Martina. Ma ora i rapporti con Zingaretti sono buoni, ottimi, siamo vicini a poter definire il governatore della Campania uno zingarettiano. Il punto di saldatura si sta per concretizzare nella nomina del braccio destro di Zingaretti, Nicola Oddati, in un posto di rilievo nello staff del governatore della Campania. Il decreto è alla firma. Oddati sarà il responsabile della sede di Roma della Regione Campania. Il suo nome lucida un pacchetto di nomine deluchiane che per il resto ha seguito criteri polverosi di vecchia politica, tra pregiudicati in attesa di appello, trombati e trasformisti.

Il nome che fa più discutere è quello di Nello Mastursi, investito del ruolo segretario particolare del presidente per le relazioni politiche. In pratica si formalizza e si stipendia un ruolo che Mastursi ricopre di fatto da tempo: è stato il regista del boom di 15 liste dietro il plebiscito di De Luca ed è tornato nelle sue grazie dopo un lungo purgatorio. Iniziato nel 2015, quando Mastursi fu dimissionato da capo della segreteria di De Luca e scaricato con il marchio di aver agito all’insaputa del presidente, appena uscì la notizia della indagine sulle sue presunte interferenze intorno alla sentenza della magistratura civile che aveva mantenuto De Luca in carica nonostante la legge Severino ne imponesse la sospensione per una condanna in primo grado (poi cancellata). Mastursi ha scelto il rito abbreviato ed è stato condannato a 18 mesi per induzione indebita. Sentenza impugnata per un appello che però non inizia perché si attende l’esito del processo con rito ordinario agli altri coindagati, tra cui il magistrato che firmò i provvedimenti favorevoli a De Luca e l’ex marito avvocato che desiderava diventare un manager della sanità campana e che, secondo le ipotesi accusatorie, poteva intervenire sulla ex moglie. Fatta salva la presunzione di innocenza di Mastursi, è singolare che sia stato cacciato da indagato e torni in servizio da condannato in primo grado. De Luca è abituato a sorprendere. Meno sorprendente la conferma in squadra di Bruno Cesario, l’ex sottosegretario che con Scilipoti fece parte dei Responsabili che salvarono Berlusconi: ora è capo delle relazioni esterne del presidente. E le nomine di due consiglieri dem uscenti e non rieletti, Rosetta D’Amelio e Antonio Marciano. La prima diventa consigliere di De Luca per le pari opportunità, incarico onorifico. Il secondo entra nello staff del presidente. Fece parte anche dello staff di Bassolino. Per chi conosce le cose campane della politica, è come aver giocato prima nel Napoli e poi nella Juve, oppure il contrario, fate voi.

Strage di Viareggio, slitta la sentenza “Manovre per salvare l’ex Ad Moretti”

Slitterà di qualche giorno – forse anche di qualche settimana – la sentenza per la strage di Viareggio, l’incidente ferroviario che la notte del 29 giugno 2009 provocò 32 vittime. Il processo vede imputati in Cassazione diversi dirigenti di Fs, tra cui l’ex ad Mauro Moretti, condannato in secondo grado a sette anni. Ieri l’udienza è andata avanti per tutto il giorno e oggi il dibattimento dovrebbe chiudersi con le ultime arringhe. I giudici però non si ritireranno subito in camera di consiglio e quindi per il verdetto servirà aspettare. Intanto però i familiari delle vittime, riuniti nell’associazione “Il mondo che vorrei”, hanno espresso preoccupazione dopo la richiesta del pg di annullare la condanna per Moretti e rinviare gli atti alla Corte d’appello, ricordando come l’ex ad abbia mantenuto proficui rapporti con la politica: “Nelle scorse settimane ci sono state manovre spudorate per salvare un personaggio dal punto di vista manageriale, economico, finanziario e politico, di cui troppi politici e istituzioni hanno dimostrato in tutti questi anni di avere riverenze e timori”.

L’aereo della morte uccise la giustizia

“Io, la mattina del 6 dicembre 1990, ero al lavoro nello stabilimento Alcisa, che è un’industria alimentare di Zola Predosa e qualcuno mi ha detto: ho sentito che un aereo è caduto sulle colline di Casalecchio.

Al che, siccome nell’azienda c’è una torre molto alta, sono salito al settimo piano, da dove appunto si scorge tutta la collina di Casalecchio, e da lontano ho visto del fumo. Più tardi la centralinista mi ha chiamato per dirmi che c’era mia moglie al telefono. Parlai con Vittoria che mi disse di andare a vedere presso la succursale della scuola che frequentava mia figlia Alessandra, il Salvemini. Mi disse che c’era molta gente e che aveva sentito dire che un aereo da turismo era caduto vicino alla scuola, in via del Fanciullo 2. Mi precipitai, presi la macchina e mentre mi avvicinavo vedevo che c’era molta gente, e quindi a un certo punto mi obbligarono a lasciare la macchina. Scesi e mi misi a correre: quasi cominciavo a sentire un presentimento. Mi avvicinavo e vedevo che c’erano carabinieri, vigili del fuoco e un grande agitarsi di gente sgomenta. Poi vidi lo squarcio. Quel maledetto squarcio che è rimasto nella scuola. Lo squarcio che è rimasto dentro di noi”. Camminiamo intorno al muro di cinta, basso, sovrastato da una grata di ferro smozzicata dalla ruggine, ma non troviamo un varco e allora scavalchiamo. L’ingresso della palazzina è sbarrato da alcune assi di legno incrociate. Si potrebbe entrare lo stesso, ma noi cerchiamo lo squarcio che è sul lato opposto dell’edificio giallastro, circondato da un prato di dimensioni modeste e confinante con i bassi condomini della periferia di Casalecchio.

Sulla parete, all’altezza del secondo piano, il buco dove l’Aermacchi s’infilò uccidendo 12 studenti e ferendone 88 è una grande orbita vuota, con i bordi sfregiati dallo sfasciume dei calcinacci penduli, e dentro una specie di fondale di compensato marcito per celarne, ma solo in parte, l’oscenità. Vittorio Gennari indica la cavità, vittima che guarda il carnefice. “Cercai di andare davanti alla scuola, però era tutto transennato, tutto bloccato. Fu allora che cominciai a guardarmi intorno e osservavo in giro cercando di incontrare il suo viso – o mio Dio fai che Alessandra sia qui – o di riconoscere la fisionomia di qualche suo compagno. C’erano persone pallide, impolverate. Riconosco il professore d’Inglese, gli dico: Andrew, per caso mia figlia…? Dice: io non lo so perché sono tutti usciti dalla scuola. La sua faccia era terribilmente bianca, cadaverica, e ricordo il tremore del labbro dell’insegnante di Geografia. Non mi accorgevo che stavano mentendo per pietà. Insisto: ma che è successo? E lui: è caduto un aereo. Provi a sentire alla sede centrale della scuola, magari le sanno dire qualcosa. Cominciai a correre verso la centrale che dista un chilometro, in direzione Marconi. Quando arrivai nessuno mi sapeva dare notizie: mah, si deve rivolgere all’Ospedale Maggiore, perché lì c’è qualcuno che è ferito. Però man mano che andavo avanti vedevo gente con gli occhi sbarrati, disorientata. All’Ospedale Maggiore trovai altri genitori nella sala d’attesa improvvisata nell’aula magna. Sapete niente di Alessandra? Mah, dicono, stanno dando tutti i nomi dei feriti. E infatti sul tabellone luminoso comparivano delle scritte. C’erano i nomi di tre o quattro ragazzi della Seconda A che conoscevo. Però non trovavo quello di mia figlia. Cominciavano ad arrivare notizie più precise: dicono che c’è qualcuno disperso… In quel momento il disperso per me era ancora uno che si poteva trovare. Invece, tecnicamente, il disperso è uno che non lo trovano in nessun modo – l’ho imparato dopo, però. Nel frattempo telefonavo a mia moglie e la rassicuravo: mi hanno detto che molto probabilmente Alessandra è in giro, sai, perché dopo quello che è successo magari uno è un po’ sotto choc…

In quel momento entrano nella sala alcuni di Bologna Soccorso, il 118, e dicono: tutti i genitori che non trovano sul tabellone il nome dei loro figli dovrebbero venire con noi all’istituto di Medicina legale. Richiamo mia moglie: ma com’era vestita l’Alessandra? E lei: aveva messo le scarpe che le avevo comprato l’altro giorno, e indossava un maglione fatto in un certo modo, e la camicia così e così… Vicino Medicina legale, c’era la stazione mobile della Pubblica sicurezza. Mi hanno chiesto chi fossi. Sono Vittorio Gennari, sono il papà di Alessandra… Mi può descrivere Alessandra? Mi sentii gelare. Fu in quell’attimo che per la prima volta mi resi conto che, probabilmente, Alessandra non c’era più. Dico: è una ragazza alta con un neo sulla gamba. Balbettavo. Ci portarono dentro una sala e ci dissero di attendere. Sì, era successo qualcosa di brutto, quello che io mi sforzavo di negare. Poi mi chiamarono, e qui diventa qualcosa di impossibile da raccontare, ma è bene che queste cose si sappiano, perché la gente deve capire che non si può morire nel modo in cui sono morti i nostri figli”. Gennari mi osserva e ho l’impressione che continui a interrogarsi sulle ragioni della mia presenza lì. È venuto, gentilissimo, a prendermi alla stazione di Bologna, quasi incredulo che trascorsi dieci anni questa storia galleggi ancora nella memoria di qualcuno. “Al processo il comportamento degli imputati era saccente, per il fatto stesso di essere dei piloti militari si sentivano già assolti. Quasi che l’aver provocato quella tragedia fosse da considerare un imprevisto che comunque faceva parte del loro lavoro. Consideravano l’assoluzione un fatto quasi scontato. Ci trattavano con sarcasmo. Nessuno gli ha mai sentito dire: abbiamo commesso un errore. Quando in un’intervista televisiva Enzo Biagi chiese al pilota come si sentiva dopo aver provocato la morte di tanti ragazzi, questo signore ha risposto: ‘Mi sento come uno che legge sul giornale la notizia’”.

Lo squarcio nella scuola fu provocato dal velivolo MB 326 dell’Aeronautica militare pilotato dal sottotenente Bruno Viviani. Che a causa di un’avaria si gettava con il paracadute alle ore 10.31 e 40 secondi. Due minuti più tardi l’aereo privo di pilota si schiantava contro l’edificio scolastico. Domenica 6 dicembre, il trentesimo anniversario della strage del Salvemini di Casalecchio, nel rispetto delle norme antiCovid, sarà ricordato attraverso Facebook e YouTube alla presenza dei genitori dei ragazzi deceduti. Nell’occasione ha scritto Vittorio Gennari: “È stato duro per noi, accettare la sentenza definitiva, che mandava assolti gli imputati perché il fatto non costituisce reato. Una beffa e, paradossalmente, la colpa era dei nostri figli che erano a scuola. Alessandra mi manca, la cerco nei visi delle ragazze, ora donne, immaginandola come potrebbe essere ora: alcune volte la vedo, cerco di abbracciarla, ma mi sfugge. Ci manca la sua solarità, il suo sorriso, il suo canto”. Il racconto dei momenti successivi alla strage è tratta dal mio libro: Senza cuore, pubblicato nel 2000.