La riforma della Sanità targata Moratti bocciata da Roma: “C’è troppo privato”

Fare buon viso e minimizzare. Anche rasentando il ridicolo. È l’ordine di scuderia di Attilio Fontana e Letizia Moratti, sui rilievi e le richieste di cambiamenti, mossi dai ministeri della Sanità, delle Finanze e della Giustizia alla riforma sanitaria lombarda. Tre lettere che chiedono rettifiche e sottolineano incongruenze nel testo della legge destinata a gestire gli oltre 20 miliardi l’anno della sanità lombarda. Tutti cambiamenti accettati da Fontana per evitare di ritrovarsi con una riforma impugnata dal governo. Le missive erano state recapitate ai vertici del Pirellone il 1° febbraio e sono rimaste segrete fino a ieri. Come segretata era anche la risposta di Fontana al governo. Solo ieri quelle comunicazioni sono state rese pubbliche e in molti hanno capito perché Fontana e Moratti avevano fatto voto del silenzio.

Al netto di marchiani errori lessicali (nell’ordinamento non esistono “professioni mediche e professioni sanitarie”, ma solo “sanitarie”) e di sfondoni tecnici (non esiste l’“ostetrica di famiglia”), il ministero della Sanità ha puntato il dito su alcuni passaggi centrali della riforma. A partire dal fatto che non posso essere le singole Ats a sottoscrivere gli accreditamenti con le strutture private, ma deve essere la Regione a livello centrale. Perché ciò rende più facili gli abusi e meno stringenti i controlli. Così come bocciato è stato il sistema di scelta dei dg della sanità, che deve seguire la legge e non un “rito lombardo”. Pollice verso anche per le Case di comunità, nelle quali per il Pirellone avrebbero potuto operare solo medici di famiglia o pediatri, mentre devono essere aperte a tutte le specialità assistenziali. Bocciate anche le farmacie che dovrebbero prendersi in carico i cronici. Ma lo schiaffo più forte è arrivato dal Mef, il quale ha stigmatizzato la parificazione totale tra pubblico e privato (fulcro della riforma). Scrive il Mef: “Chiediamo chiarimenti circa la coerenza di tale articolo con quanto previsto dal dl 302 del 1992, secondo il quale, con riferimento al preminente ruolo dell’ente pubblico che, in quanto titolare della funzione sanitaria, definisce il fabbisogno e, in coerenza con questo, decide quali prestazioni acquistare dal privato accreditato”. Ora la legge dovrà tornare in aula per i correttivi. Ma Moratti si è detta tranquilla: “L’esame al microscopio ha consentito di evidenziare alcune imperfezioni formali e burocratiche, profili non certamente centrali e decisivi”.

Laboratori Gran Sasso, poca sicurezza (e stipendi tagliati)

I laboratori di fisica nucleare del Gran Sasso, in provincia di L’Aquila, sono per legge classificati come luoghi a elevato rischio di incendio, ma i lavoratori addetti alla sicurezza sono inquadrati (e pagati) come semplici portieri. Il loro compito è prevenire incidenti, in un sito nel quale si usano molte sostanze altamente infiammabili, intervenire quando questi accadono, effettuare controlli sull’aria, sugli impianti elettrici, su quelli utilizzati per gli esperimenti, ma si vedono applicato il contratto dei “vigilanti non armati”. I loro turni possono durare oltre dodici ore e, come se non bastasse, da mesi segnalano di frequente la mancanza di attrezzature per la sicurezza.

Da quando, nella primavera del 2021, l’azienda campana Sms Spa si è aggiudicata il nuovo appalto per il monitoraggio dei sistemi di controllo, è nato un perenne botta e risposta con la Filcams Cgil: il sindacato rivendica di poter quantomeno nominare un rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls) del sito, vista la sua naturale pericolosità; l’impresa lo nega perché è sufficiente quello aziendale, che però è a Napoli. “Questa persona neanche lo conosce il laboratorio – spiegano alcuni dipendenti – non è mai venuta”. Il 19% delle azioni della Sms sono state sequestrate un anno fa, poiché sono a loro volta detenute da una società coinvolta in un’inchiesta per tangenti in Campania, che non riguarda l’appalto ottenuto al Gran Sasso dall’Istituto nazionale di Fisica nucleare. Tuttavia, annotano i lavoratori, anche qui ci sono diverse cose che non vanno: “Dovrebbero spendere oltre 1,7 milioni per le spese di personale – aggiungono – ma si fermeranno a 1,2 milioni. Non fanno altro che risparmiare dove è possibile e sembra che questo non interessi a nessuno”.

Questa mattina il presidente del Consiglio, Mario Draghi, visiterà i laboratori (progettati e costruiti sotto 1.400 metri di roccia con lo scopo di sfruttare la protezione della montagna dalla radiazione cosmica), insieme al professor Giorgio Parisi, premio Nobel 2021 per la Fisica. I lavoratori addetti alla sicurezza avrebbero voluto accogliere il premier con un sit-in di protesta, ma non c’è stato il tempo di organizzarlo. Si mobiliteranno comunque nei prossimi giorni per denunciare i problemi nelle dotazioni di sicurezza e il taglio degli stipendi. Circola, per esempio, un video in cui mostrano di non riuscire a far partire, nemmeno con lo starter, il pick-up che servirebbe a spegnere gli incendi. Fanno notare, poi, che nei turni di notte bisognerebbe garantire la presenza di quattro persone (due capi-turno, un capo-squadra e un addetto alla ronda) ma di solito ne vengono impiegate solo tre. Spesso le strumentazioni che dovrebbero essere già presenti vengono fornite solo dopo lettere di richieste esplicite. I turni superano le dodici ore perché un ordine di servizio impone di non lasciare il posto in caso di ritardo del cambio.

“Abbiamo solo tre divise di intervento – raccontano ancora – ma siamo in quindici. La ditta non ha condiviso né attivato il protocollo Covid. Dopo un’esercitazione, ci hanno messo settimane per sanificare le divise e solo dopo nostre sollecitazioni”. Questi lavoratori, tra l’altro, non possono scioperare, perché la loro presenza è indispensabile e sarebbero precettati. “Abbiamo la necessità di avere un rappresentante per la sicurezza – dice Andrea Frasca della Filcams di L’Aquila – vista l’altissima pericolosità del sito; questi appalti vengono affidati ad aziende che, usando il dumping, svuotano il contenuto professionale dei lavoratori. Viene disconosciuto il ruolo attivo dei lavoratori sulla sicurezza e dall’altro viene svalutata la qualità del lavoro”.

Con il contratto nazionale dei servizi fiduciari, secondo i calcoli sindacali gli stipendi sono calati del 20%. “In pratica – dice un lavoratore – siamo tornati alle stesse retribuzioni che prendevamo nel 2005”. Il segretario della Filcams locale, Luigi Antonietti, ha presentato un ricorso in Tribunale, redatto dall’avvocato Carlo De Marchis, per far riconoscere la nomina del rappresentante della sicurezza per i lavoratori. “In effetti è un sito unico in Italia – fa notare il sindacalista – quindi non esiste un contratto applicabile. Ecco perché bisognerebbe firmare un accordo aziendale che riconosca le giuste retribuzioni a questi lavoratori. Ci abbiamo provato, ma la Sms ha fatto saltare il tavolo”. L’azienda, su richiesta del Fatto di fornire la propria versione via email, non ha risposto.

La pantomima dell’Occidente

Nessun soldato occidentale morirà per Kiev e il primo a saperlo era Putin, memore della ritirata disonorevole della Nato da Kabul, neanche sei mesi fa.

La messinscena di un’alleanza atlantica ricompattata contro il nemico russo non può risultare credibile dopo la figuraccia afghana che ha svelato al mondo quanto poco valgano ormai le promesse e la capacità dissuasiva della Nato. Su tale convinzione Putin ha basato il suo minaccioso azzardo. Che si trattasse di una mossa propagandistica lo ha capito anche Volodymyr Zelenski, l’attore comico divenuto presidente dell’Ucraina, non a caso impegnato da giorni a smentire l’allarme invasione di Joe Biden. Le diplomazie europee, in barba ai proclami formali di lealtà, si sono smarcate dal presidente Usa, relegando nell’anacronismo i dottor Stranamore cui non è sembrato vero di poter riesumare sui mass media il linguaggio vintage della Guerra Fredda.

Peccato che questa de-escalation non rappresenti una buona notizia per gli ucraini, ai quali potrebbe toccare presto il colpo basso dell’annessione russa del Donbass. Continueranno a vedersela con le mire imperiali di Mosca come tocca loro da secoli, ben prima del comunismo.

Da quando nel 996 il regno Rus’ si convertì al cristianesimo sulle rive del Dnepr, assumendo Kiev come fonte battesimale della grande Madre Russia, e loro venivano chiamati cosacchi, tatari o ruteni, il destino di questo crogiuolo di nazionalità, chiese, alfabeti li ha visti mescolarsi ai russi, ai polacchi, ai tedeschi, agli armeni e agli ebrei in città cosmopolite; o disperdersi nelle steppose regioni cerealicole che negli anni Trenta del secolo scorso, per colpa della guerra di classe scatenata dai comunisti sovietici ai kulaki, i piccoli proprietari, conobbero l’ecatombe dell’holodomor, la peggiore delle carestie. Si calcola che tra guerre, fucilazioni di massa e per fame, l’Ucraina abbia contato 17 milioni di morti nel Ventesimo secolo. Il seguito di quella tragedia destabilizza ancora il mondo contemporaneo.

Gli ucraini non si libereranno mai dei russi perché con loro si sono sposati e hanno fatto figli, sono i vicini di casa immigrati dopo la rivoluzione bolscevica e dopo la carneficina della Seconda guerra mondiale. La guerra con Putin non sarebbe dunque un’invasione dai confini ma l’estensione di un conflitto fratricida come quello già in corso nel Donbass.

La degenerazione post-sovietica dell’Ucraina è il buco nero d’Europa, il precipizio dove va a perdersi la nostra cattiva coscienza. Là dove nel Novecento si perpetrò l’amputazione delle nazionalità conviventi, oggi allignano la corruzione, il mercato nero dell’energia e il fanatismo. Prendiamo la regione occidentale di Leopoli, dove gli Usa hanno trasferito l’ambasciata perché si considera la più stabile, per netta prevalenza etnica ucraina e minor influenza russa. Ebbene, questa apparente tranquillità altro non è che l’esito di una mutilazione. Per volontà di Hitler fra il 1941 e il 1943 fu annientato un terzo della popolazione locale, cioè gli ebrei, con l’attiva partecipazione dei nazionalisti locali arruolati nella Divisione SS Galizien. Nell’immediato dopoguerra, poi, un altro terzo della popolazione, costituito dai polacchi, per ordine di Stalin fu deportato verso la Slesia e la Pomerania, al posto dei tedeschi che ne venivano espulsi. Così la splendida Leopoli dal volto asburgico si è ritrovata interamente ucraina. Veri e propri trapianti etnici che, unitamente al genocidio e a 46 anni di regime sovietico, hanno abbruttito regioni un tempo floride. Terre fertili, riserve petrolifere, scuole e università di prim’ordine. Al posto loro, tanta desolazione e strascichi di reciproca ostilità.

Un esempio personale: quando da Leopoli sono andato verso i monti Carpazi a far visita alle fosse comuni in cui giace quasi tutta la mia famiglia paterna, pochi tornanti sotto quel luogo mi sono imbattuto nel monumento a Stepan Bandera, tuttora venerato leader antisemita dell’Oun, l’organizzazione nazionalista che aiutò i nazisti a perpetrare lo sterminio. Insieme a Symon Petljura, Bandera resta l’eroe dell’indipendentismo ucraino, non importa se di marca fascista: gli basta che combattessero il comunismo di cui gli ebrei, detti “giudeobolscevichi”, venivano accusati di essere complici. La rimozione della storia, praticata dallo stalinismo per negazione delle autonomie nazionali (fu Nikita Krusciov, segretario del Partito comunista ucraino dal 1938 al 1949, a guidare la repressione), nell’Ucraina indipendente dal 1991 ha sterzato nella direzione opposta. Nessun libro di testo scolastico ammette le infamie di cui si macchiarono i nazionalisti alleati di Hitler. Solo ora a Kiev, non senza polemiche perché si temeva di fare il gioco dei russi, è stata ammessa la commemorazione dell’“Olocausto dei proiettili” sull’immensa fossa comune di Babi Yar, dove furono accatastati 34 mila ebrei uccisi in soli due giorni tra il 29 e il 30 settembre 1941. Né la mattanza si fermò, superando la soglia di 100 mila morti nei mesi successivi.

Nei giorni scorsi lo schieramento dei contingenti Nato sulla frontiera occidentale dell’Ucraina, in Romania, Ungheria, Slovacchia e Polonia è stato meramente simbolico. Altrove sono posizionate a tenaglia le truppe di Mosca. A nord, sul confine con la Bielorussia, poco distanti da Charkiv, città con alta percentuale di popolazione russa, non a caso sede del governo sovietico dal 1917 al 1934. A sud con la flotta che presidia il Mar Nero minacciando Odessa, la patria di Lev Trockij e Isaak Babel (come il cristianesimo, anche la rivoluzione russa ha avuto forti radici in Ucraina). Ma è soprattutto a est che dal 2014, quando un’azione di forza ricongiunse alla madrepatria russa la Crimea donata da Krusciov nel 1954 all’Ucraina, mai si è smesso di combattere. Qui sono sorte le “repubbliche popolari” di Donetsk e di Luhansk, foraggiate da Mosca e contraddistinte da un nazionalismo fanatico che attira le simpatie dell’estrema destra europea, con tanto di volontari stranieri arruolati nelle loro file. Paradossalmente, anche il nazionalismo antirusso di chi le combatte s’identifica nella medesima radice fascista.

Nel 2013 fu improvvidamente bocciato un trattato di stabilizzazione e adesione dell’Ucraina all’Unione europea. Da allora, per scongiurare il pericolo di ricadere sotto la “sovranità limitata” di Mosca, una classe dirigente ucraina imbelle e corrotta ha fatto suo l’obiettivo di entrare nella Nato. Una scorciatoia pericolosa di cui oggi si è manifesta l’inefficacia.

 

Abusi, Andrew paga ed evita la causa di Giuffre

Niente tribunale per Andrew. Il terzogenito della Regina Elisabetta e Virginia Giuffre hanno raggiunto un accordo stragiudiziale di massima che, in cambio di una somma non resa nota, chiude il loro contenzioso civile. La Giuffre accusava il principe di essere uno dei vip dell’ampio giro di sfruttamento sessuale di minori creato dal finanziere americano Jeffrey Epstein e dalla sua ex compagna Ghislaine Maxwell e di aver abusato di lei in tre occasioni. Lui nega di averla mai incontrata. Nel comunicato stampa che annuncia la decisione si legge che “il principe Andrew non ha mai avuto l’intenzione di danneggiare la reputazione della signora Giuffre, e ne riconosce la sofferenza sia come vittima di abusi che come oggetto di attacchi pubblici”. Oltre al pagamento oggetto dell’accordo, Andrew promette una generosa donazione alla charity creata dalla Giuffre per supportare le vittime, ma ne esce senza ammettere responsabilità.

Appropriazione indebita: Navalny rischia altri 15 anni

“I miei processi” sono sempre particolari, ma qui hanno oltrepassato ogni limite”. Così Alexej Navalny, il dissidente russo già in carcere, ha commentato ieri mattina l’udienza del nuovo processo a suo carico: è accusato di appropriazione indebita e oltraggio alla Corte, rischia altri 15 anni di carcere. Il dibattimento si tiene in una colonia penale a 100 chilometri da Mosca, e per Navalny non è un caso. Nell’agosto 2020 il dissidente è sopravvissuto a un avvelenamento con un agente nervino mentre era su un volo dalla Siberia a Mosca. Navalny è stato poi curato in Germania, dove i medici hanno stabilito che le sue condizioni erano compatibili con l’esposizione a un agente nervino tipo Novichock: il Cremlino non ha mai riconosciuto questa circostanza. Al suo rientro in Russia, nel gennaio 2021, Navalny è stato arrestato con l’accusa di aver violato i termini di custodia cautelare di una precedente condanna: in questo nuovo processo è accusato di aver sottratto oltre 4,7 milioni di dollari di donazioni alla sua organizzazione politica anti corruzione, che in Russia ormai risulta fuorilegge. I collaboratori di Navalny hanno chiesto ieri al cancelliere tedesco Scholz, in visita a Mosca, una dichiarazione di solidarietà. Per Scholz la detenzione del dissidente “è contraria allo Stato di diritto”.

Putin non spara un colpo. “Ma la Nato dietro casa no”

Alla vigilia del giorno in cui l’intelligence occidentale aveva pronosticato l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe, l’Armata Rossa inizia a ritirare uomini e mezzi dalla linea delle manovre lungo le frontiere ucraine. È un segnale di potenziale de-escalation della crisi ucraina, che gli Usa e i loro alleati accolgono con cautela e diffidenza, perché esercitazioni su larga scala continuano e perché non è chiaro se l’apice della tensione sia stato superato. Il ministero della Difesa russo si esprime in modo formale: “Unità dei distretti militari meridionali e occidentali, che hanno completato i loro compiti, hanno già iniziato a caricare i mezzi di trasporto ferroviari e terrestri e oggi cominceranno a rientrare nelle loro basi”, afferma il generale maggiore Igor Konashenkov, portavoce della Difesa. “Mentre le manovre di addestramento al combattimento si avvicinano alla conclusione, le truppe, come sempre avviene, effettueranno marce combinate verso le proprie basi permanenti”. Il Cremlino e la diplomazia russa ironizzano: il ritiro delle truppe russe “era pianificato” e “non è in funzione dell’isteria occidentale”, dice il ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, per cui le notizie sull’invasione di fonte occidentale sono “terrorismo mediatico”. “Svergognati e annientati senza sparare un colpo” scrive su Telegram la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova: “Il 15 febbraio 2022 entrerà nella Storia come il giorno del fallimento della propaganda di guerra dell’Occidente”.

Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, rivela che Putin “scherza” sugli allarmi su un’invasione dell’Ucraina: “Ci chiede di controllare se hanno pubblicato l’ora esatta d’inizio della guerra … Ci è impossibile capire la follia di questa informazione maniacale” americana. I segnali dal terreno, ancora parziali, arrivano mentre la diplomazia continua a giocare le sue carte. Le più chiare le mette in tavola il cancelliere tedesco Olaf Scholz, che a Mosca dice che non si può negoziare sul diritto della Nato di fare aderire o meno l’Ucraina o un altro Paese terzo, dopo avere detto lunedì a Kiev che “l’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza non è in agenda”. Scholz trova al Cremlino lo stesso enorme tavolo a cui s’era ‘accomodato’ il presidente francese Emmanuel Macron. In una lunga conferenza stampa, insieme a Putin, il cancelliere esprime preoccupazione per una presenza militare così massiccia alle frontiere russo-ucraine: “Dobbiamo trovare una soluzione pacifica, affrontando tutti i temi della sicurezza, e portare avanti un processo di dialogo nella reciprocità.” Scholz ammette che l’inizio del ritiro delle truppe è “un buon segnale” e dice che gli sforzi diplomatici “non sono ancora terminati.” Putin, dal canto suo, assicura che la Russia non vuole la guerra. “La vogliamo o no? Certo che no. Questo è esattamente il motivo per cui abbiamo avanzato proposte per un processo negoziale”. Ma aggiunge: “Non accetteremo mai l’allargamento della Nato fino ai nostri confini, è una minaccia che noi percepiamo chiaramente”. Le risposte dell’Alleanza sulla sicurezza finora avute “non soddisfano le nostre richieste”, ma ci sono “ragionamenti” che possono essere portati avanti, purché i colloqui non si trascinino “troppo a lungo”.

La giornata di ieri è stata frenetica di contatti e telefonate, come l’ennesima fra il ministro russo Lavrov e il Segretario di Stato Usa, Antony Blinken. Macron parla col presidente Biden, auspica che la Russia passi “dalle parole ai fatti”.

La Duma russa ha lanciato un nuovo sasso nello stagno della Guerra Fredda, chiedendo a Putin di riconoscere come entità indipendenti le due repubbliche separatiste ucraine filo-russe di Luhansk e Donetsk. Putin non si sbilancia sul riconoscimento, ma dice che “quel che accade nel Donbass è un genocidio”. Invece, a Kiev e in tutto l’Occidente le reazioni all’iniziativa della Duma sono molto negative. Josep Borrell, ‘ministro degli Esteri’ europeo, twitta che “l’Ue condanna fermamente” l’iniziativa della Duma: “Il riconoscimento sarebbe una chiara violazione degli accordi di Minsk”. Scholz lo giudica “una catastrofe”, il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, è sulla stessa linea. Al lavorio per sventare la deflagrazione della crisi, partecipa l’Italia: una telefonata tra il premier Mario Draghi e il presidente ucraino Zelenski e la missione a Kiev del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Draghi ribadisce il sostegno all’integrità territoriale e alla sovranità dell’Ucraina; lui e Zelenski intendono rafforzare l’impegno comune per una soluzione sostenibile e durevole della crisi, mantenendo un canale di dialogo con Mosca; Zelenski apprezza “il sostegno dell’Italia all’Ucraina”. Di Maio conferma al collega ucraino Dmitry Kuleba che l’ambasciata d’Italia a Kiev resta operativa e manifesta preoccupazioni per “eventuali azioni di destabilizzazione, anche con modalità ibride”.

Maxar, l’occhio spaziale Usa con guai a terra

Gli occhi del mondo sono fissi sulla crisi in Ucraina, ma la lente attraverso la quale la scrutano è opaca. Le immagini delle truppe russe ammassate ai confini con Kiev, così come quelle della recente eruzione del vulcano sottomarino a Tonga, hanno una firma: quella di Maxar Technologies, una società del Delaware con quartier generale in Colorado, quotata al listino tecnologico Nasdaq di New York e alla Borsa di Toronto. Sono i suoi satelliti a monitorare e fotografare la terra dallo spazio. La sua storia è interessante, ma lo sono anche i suoi problemi legali.

Da oltre 60 anni di esperienza, Maxar progetta e produce satelliti (come l’ultima serie WorldView Legion) e componenti di veicoli spaziali per le comunicazioni, l’osservazione della Terra, l’esplorazione, la manutenzione e l’assemblaggio in orbita. I suoi clienti sono oltre 50 governi e agenzie di sicurezza per i quali fornisce intelligence a terra, monitora il cambiamento globale, realizza comunicazioni a banda larga e operazioni spaziali.

La società, che nell’esercizio 2020 ha realizzato un fatturato di 1,7 miliardi di dollari (1,5 miliardi di euro) con 4.400 dipendenti in una ventina di impianti nel mondo, una capitalizzazione di Borsa di 2,07 miliardi di dollari. Il 51% delle azioni è in mano a 17 investitori istituzionali: il maggiore azionista è Vanguard Group (8,7%), seguito da BlackRock (7,5%) e da State Street Global Advisors (4,4%). I piccoli azionisti detengono il 22% del flottante. I nomi degli amministratori non compaiono spesso nelle cronache finanziarie, ma l’attività della società è altamente strategica. Lo sanno bene al Pentagono: a dicembre il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha assegnato a Maxar Technologies un contratto da 9,3 milioni di dollari per la progettazione e fornitura di due bracci robotici per supportare le capacità di assemblaggio e manutenzione di satelliti nello spazio per la dell’Unità innovazione della Difesa. Una tecnologia che la società pensa poi di utilizzare per i suoi clienti commerciali.

Già, i clienti. Sono numerosi e riservati quelli di Maxar, che lavora con agenzie di sicurezza, governi e imprese della Difesa, esportando tecnologie segrete. Con rischi di conflitti di interesse e problemi legali che possono spuntare inattesi da un giorno con l’altro, anche in Ucraina. Nel 2010 la società aveva stipulato un accordo con “un cliente ucraino” per la fornitura di un sistema di comunicazione satellitare. Nel 2014, dopo l’annessione della Crimea alla Federazione Russa, Maxar ha fatto ricorso alla clausola di forza maggiore rispetto al programma e ha deciso di risolvere il contratto. Nel luglio 2018, il cliente ucraino ha avviato un arbitrato avviato nei confronti dell’azienda, contestandone il diritto di risolvere l’accordo per causa di forza maggiore, dichiarando l’inadempimento di Maxar e chiedendole danni per circa 227 milioni di dollari (200 milioni di euro). Ma il 31 marzo 2020 il tribunale arbitrale ha respinto integralmente le pretese del cliente e dato ragione alla società Usa.

Ma anche alcuni azionisti degli Usa e del Canada, negli anni scorsi, hanno avviato delle class action contro l’azienda quotata. Tra le accuse contro Maxar ci sono quelle di aver rilasciato dichiarazioni finanziarie in merito ai suoi metodi contabili e ai fattori di rischio, inclusi quelli relativi all’attività di comunicazione false o fuorvianti. Anche l’occhio satellitare più tecnologico rischia di inciampare nel suo percorso sul parterre di Borsa.

L’Ucraina li fa ricchi: i big delle armi esultano

I giochi di guerra sull’Ucraina sono già un grande affare per l’industria delle armi. Ancora prima che venga sparato il primo colpo, che ci si augura non accada. Il settore non conosce crisi. Perfino durante il Covid, mentre l’economia mondiale ha rallentato, il Pil di molti Paesi è crollato e, oltre ai morti, sono aumentati i disoccupati, le vendite di armi nel mondo hanno continuato a crescere.

I ricavi delle prime 100 aziende mondiali produttrici di armi e servizi militari hanno raggiunto i 531 miliardi di dollari nel 2020 (470 miliardi di euro), con un aumento dell’1,3% in termini reali, cioè depurando i valori dall’inflazione, secondo i dati del Sipri, l’istituto di Stoccolma di “ricerca per la pace”. L’anno in cui la pandemia ha colpito a fondo “è stato il sesto consecutivo di crescita per le vendite di armi dei primi 100 produttori”, sottolineano a Stoccolma.

Il 2022 per le aziende della difesa è cominciato con il botto. Le minacce della Russia sull’Ucraina hanno mobilitato i paesi della Nato. Il carico di armi e munizioni americane arrivato a Kiev con un Boeing 747 dell’Us Air Force il 21 gennaio è stato il primo di una serie. Ad oggi 17 voli sono già atterrati su 45 previsti per rafforzare gli arsenali. Duemila tonnellate di armi ed equipaggiamenti sono già stati spediti dai vari alleati. Gli ucraini vengono riforniti di lanciagranate, armi per contrastare l’assalto dei carri armati, lanciamissili portatili per sparare a spalla contro elicotteri e aerei a bassa quota.

Tra le forniture ci sono i missili contraerei a corto raggio Stinger, prodotti dall’americana Raytheon, numero uno al mondo nei missili. Segnalato anche l’arrivo di missili anticarro Javelin, guidati a infrarossi, prodotti da una joint venture tra i due colossi americani Raytheon e Lockheed Martin. Si possono sparare da un lanciatore a spalla, sono in grado di colpire un bersaglio a tre chilometri di distanza.

Alla Borsa di New York dall’inizio dell’anno a oggi le azioni dei principali produttori di armi e grandi appaltatori del Pentagono sono salite, mentre il principale indice di Borsa, S&P 500, ha perso il 7,9%. Tra il 3 gennaio e venerdì 11 febbraio le azioni di Lockheed, il primo gruppo mondiale della difesa per giro d’affari, sono salite dell’11,8%, da 354,36 a 396,19 dollari. La capitalizzazione di Borsa è arrivata a 107,9 miliardi di dollari, pari a 95 miliardi di euro al cambio corrente.

Per dare un’idea, il valore di Borsa di Lockheed è più alto di quello dei maggiori gruppi italiani quotati in Borsa, come Enel (64 miliardi) ed Eni (48 miliardi) e banca Intesa (53 miliardi). Nel catalogo di Lockheed ci sono il cacciabombardiere F-35, comprato anche dall’Italia, l’elicottero Black Hawk, l’aereo militare da trasporto C-130. È il velivolo famoso in Italia anche per lo scandalo delle tangenti pagate per l’acquisto di 14 Hercules nel 1971.

Dall’inizio dell’anno le azioni di Raytheon Technologies, secondo gruppo americano e mondiale della difesa, hanno guadagnato il 9,5% e la capitalizzazione ha raggiunto i 142,6 miliardi di dollari, circa 125 miliardi di euro. Raytheon vale più della somma di Eni ed Enel. Il numero tre americano, Boeing, conosciuta soprattutto per gli aerei civili per passeggeri, malgrado sia un po’ appannata dalle disavventure in questo settore e abbia chiuso il bilancio 2021 in perdita per 4,3 miliardi, nel settore militare va benissimo. Le azioni Boeing dal 3 gennaio all’11 febbraio hanno guadagnato il 2,14 per cento. La capitalizzazione di Borsa è pari a 123,8 miliardi di dollari. Nella graduatoria per dimensioni seguono altre due aziende americane, Northrop Grumman, produttrice dei grandi droni Global Hawk, le cui azioni hanno guadagnato il 3,58% e General Dynamics che ha guadagnato il 3 per cento.

Secondo fonti militari dal 2014, l’anno in cui la Russia si è annessa con la forza la Crimea, gli Stati Uniti hanno fornito all’Ucraina armi e “assistenza” militare per un valore di oltre 2,7 miliardi di dollari. Solo l’anno scorso gli aiuti militari sono stati oltre 650 milioni di dollari.

Arrivano dagli Stati Uniti anche i lanciagranate anticarro Smaw D (M141). Le bombe possono essere sparate da grossi tubi portati a spalla, sono in grado di sgretolare un bunker. Le forze ucraine hanno cominciato a fine gennaio ad addestrarsi con questi ordigni. Sono prodotti negli Stati Uniti, ma dopo vari passaggi le fabbriche sono finite a un’azienda norvegese, la Nammo, che ha come azionisti lo Stato norvegese e la società di difesa finlandese Patria. Chissà se è una coincidenza, ma dal primo ottobre 2014 è norvegese il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, appena designato come nuovo presidente della banca centrale di Oslo. Nel 2020 la Nammo ha fatto un bilancio molto positivo. I ricavi sono aumentati del 19% al record di 6,035 miliardi di corone (circa 598 milioni di euro al cambio corrente) e gli utili netti sono più che raddoppiati, da 192 a 422,5 milioni di corone, quasi 39 milioni di euro. Sul sito della società appare una foto dell’amministratore delegato, Morten Brandtzaeg, che si compiace per il “successo ottenuto nel 2020”, davanti a un pallet caricato con una dozzina di bombe, pronte per la spedizione.

Gli affari non si fanno solo con le armi spedite a Kiev. La crisi russo-ucraina ha mobilitato un po’ tutte le forze armate occidentali. Ci sono esercitazioni di truppe e impiego di mezzi terrestri e aerei caccia di paesi europei “pacifici”, dalla Gran Bretagna alla Polonia. A Costanza, in Romania, c’è l’avamposto orientale delle forze della Nato. C’è stata anche una missione dell’Aeronautica militare italiana, con quattro Eurofighter andati a supportare la sorveglianza dei vecchi Mig russi in dotazione ai rumeni. La Danimarca ha in corso colloqui con Washington per consentire alle truppe degli Stati Uniti di entrare nel suo territorio dopo decenni, ha sottolineato il Financial Times il 10 febbraio.

Anche le aziende europee di difesa hanno avuto rialzi in Borsa. Dall’inizio dell’anno all’11 febbraio le azioni della britannica Bae Systems hanno guadagnato l’8,4%, Airbus che fa soprattutto aerei civili ha guadagnato il 2%, la tedesca Rheinmetall che produce cannoni e carri armati +14%, la francese Thales che opera nell’elettronica, satelliti e missili +11%, l’italiana Leonardo ha guadagnato il 2,2 per cento. Nella classifica del Sipri dei primi 100 produttori mondiali di armi tra le prime dieci società per fatturato nel 2020 ci sono le cinque americane che abbiamo visto, in testa Lockheed con 58,2 miliardi di dollari, sesta Bae Systems. Quindi tre cinesi (Norinco, Avic e Cetc) e l’americana L3Harris Technologies. Leonardo nel 2020 ha guadagnato una posizione ed è tredicesima, con 11,16 miliardi di dollari di ricavi nella difesa, pari al 73% dei ricavi totali del gruppo guidato da Alessandro Profumo. Tra le prime 100 il Sipri include anche la Fincantieri guidata da Giuseppe Bono, passata dal 54º al 47º posto, con 2,66 miliardi di ricavi nella difesa, il 40% del fatturato totale. Ieri le azioni Fincantieri sono salite del 2,9%, quelle di Leonardo del 4,9 per cento.

Mail box

 

Ma ancora danno retta a gente come Ricciardi?

Vi chiedo, e mi chiedo, com’è possibile che il consulente del ministro della Salute, Walter Ricciardi, domenica scorsa in Tv abbia nuovamente affermato la stessa bugia detta da Draghi a luglio, e cioè che il Green pass crea ambienti dove il contagio non è possibile. Se a luglio il beneficio del dubbio era possibile, come può il ministro della Salute, dopo l’affermazione dell’altra sera, continuare a consultarsi con Ricciardi? Speranza si deve trovare un altro consulente, oppure in via alternativa dimettersi, perché ancora non ha capito come scegliersi i collaboratori.

Davide Doni

Caro Davide, il guaio di Ricciardi è anche la nostra fortuna: nessuno gli dà retta, a parte i talk show.

M. Trav.

 

I politici che vogliono trovare lavoro a Draghi

Ascoltando lo spiegone di Marco Damilano a Propaganda Live mi sono fatto una domanda: ma sono i 5 Stelle, e in particolare Di Maio e Patuanelli, i soli a cercare un lavoro al premier Draghi, oppure ce ne sono altri?

Gianluca Diodati

Caro Gianluca, la realtà è molto semplice e banale: Draghi ha brigato fino all’ultimo per farsi mandare dai partiti al Quirinale e non c’è riuscito. Così ora fa come la volpe con l’uva.

M. Trav.

 

Non bisogna nominare il Supremo invano!

Sto contando le volte in cui Giannini, Bernabè, Caracciolo e Viola hanno pronunciato la parola “Draghi” durante la puntata di Otto e mezzo. Non esiste altro che il suo nome, ho perso il conto: “Draghi di qua, Draghi di là, pesce fritto e baccalà”.

Michele Lenti

Caro Michele, al cuore non si comanda. E nemmeno alla lingua.

M. Trav.

 

Gli sproloqui sul M5S a “Porta a Porta”

Alessandro Sallusti, nella puntata di Porta a Porta dell’8 febbraio, ha detto a proposito dell’ordinanza del giudice di Napoli sul M5S: “È l’ennesimo nodo che arriva al pettine in un movimento dove fecero firmare i contratti a deputati e senatori eletti, come se fosse un’azienda privata, con notai e certificati. Sono figli della demagogia, e poi c’è pure un giudice che decide chi è il capo dei grillini, come se la politica fosse un contratto”. Poi Antonio Polito ha aggiunto: “Così come andò a finire anche col Pd con Marino: andarono dal notaio per decidere se doveva andar via”. Sembrava che parlassero di Forza Italia e di B., senza rendersene conto.

Giorgio De Tommaso

Caro Giorgio, tipica scenetta di due giornalisti che letteralmente non sanno di cosa parlano.

M. Trav.

 

Mes: dove sono quelli che lo volevano nel 2021?

Mi piacerebbe domandare al senatore Renzi come mai non chiede più l’attivazione del Mes, tanto evocato ai tempi del governo Conte. Un anno fa il suo capogruppo, Davide Faraone, rispose che è Draghi il nostro Mes, e ora? Poi, il 26 gennaio 2021, quando Conte si dimise, il Btp a 10 anni rendeva 0,75%, mentre ora 1,92%. Lo spread invece era di 118, oggi invece è a 167.

Giulio Rho

 

Quante contraddizioni su Ucraina e nucleare

In questi giorni sto constatando una perdita generale di memoria. Cominciamo da Biden, che non si ricorda che il suo predecessore Kennedy fece il diavolo a quattro quando Mosca tentò di installare i missili a Cuba, costringendo le navi russe a fare marcia indietro e a riportarsi i missili a casa. Adesso invece vuole mettere la Nato in Ucraina, e tutti dovrebbero stare zitti. Venendo a casa nostra, invece, mi chiedo da quale uovo di Pasqua abbiano tirato fuori questo ministro dell’Ambiente: ci sono stati due referendum che hanno respinto il nucleare in Italia, e lui lo ritira sempre fuori per risolvere la carenza energetica. E poi le scorie nuove, insieme a quelle delle vecchie centrali, dove le nascondiamo, sotto il tappeto di casa sua? Infine una considerazione sui referendum sull’acqua pubblica, di cui non parla più nessuno; e io continuo a pagare bollette da paura, di cui una parte va in tasca a un certo Caltagirone: se mi permette, mi scoccia parecchio.

Sergio Stentella liberati

Al 41-bis. “Le lettere restino secretate”. “E se contengono ordini di morte?”

Egregio Direttore, pur non condividendone toni e contenuti, dobbiamo dare atto che il suo giornale è stato tra i pochi che ha mostrato interesse per la sentenza della Corte costituzionale sul tema della censura della corrispondenza tra detenuto in regime di 41-bis e il suo difensore. Come lei ben sa, nel nostro ordinamento vi è il tassativo divieto di sottoporre a controllo la corrispondenza dell’avvocato con il proprio assistito, perché senza la garanzia di poter conferire in maniera riservata non esisterebbe nemmeno il diritto di difesa. La Consulta ha quindi ritenuto fondamentale chiarire il punto, dichiarando l’incostituzionalità dell’articolo 41-bis nella parte in cui “non esclude” dalla possibilità di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori. E lo fa muovendo dai principi basilari della nostra Costituzione. Ricorda che il diritto di difesa è un diritto inviolabile, che spetta a chiunque, a prescindere da ciò che ha fatto o è accusato di avere fatto. Ricorda che la segretezza dei rapporti tra assistito e difensore non è un privilegio di una categoria, ma prerogativa di uno Stato di diritto e presidio di legalità. Riconosce il ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello Stato di diritto nel suo complesso. È per questo che preoccupa leggere frettolosi giudizi negativi e commenti che possono offrire una lettura fuorviante e distorta della sentenza. Perché in quelle parole ci sembra di cogliere una sorta di insofferenza per valori che dovrebbero essere non solo unanimemente condivisi, ma divulgati e difesi. Lo spirito di questa lettera è quello di aprire un confronto civile, e perché no costruttivo. La invitiamo sin da ora a un nostro prossimo convegno in ordine a tematiche legate all’articolo 41-bis.

Andrea Soliani, presidente della Camera penale di Milano

Caro presidente,la ringrazio per i toni pacati della sua lettera, ben diversi da quelli usati da suoi colleghi o associazioni di categoria che mi hanno addirittura denunciato all’Ordine. Parteciperò volentieri al dibattito con voi, ma vorrei fosse chiaro fin da ora il mio pensiero: il diritto alla difesa è inalienabile per tutti, ma non può essere confuso con la licenza per i boss di violare il 41-bis veicolando ordini di morte ai loro affiliati usando avvocati senza scrupoli. Che sono un’esigua minoranza, ma purtroppo – come in ogni altra categoria – esistono ed esisteranno sempre.

Marco Travaglio