Super-Guido, autorevolissimo trollatore di se stesso

Lo potete leggere per intero su Facebook, il luogo dove si esprimono di preferenza i geni incompresi. Un post firmato Guido Bertolaso infiamma le folle, e non rileva che molti dei like siano di complottisti, salviniani, agnostici no-Covid e virologi presso sé stessi: il punto è che il governo deve chiedere scusa. Per cosa? Tanto per cominciare, ci tiene “segregati in casa in casa per tutte le feste”, poi “anziani abbandonati, turismo demolito, nazioni confinanti strapiene di sciatori”. Quindi 993 morti al giorno non bastano? “Strillate per i morti negli USA? Il rapporto di popolazione fra noi e gli americani è di 5,5 (voleva dire 1:5, ndr). I nostri 993 che abbiamo perso ieri fanno in proporzione 5.461 poco più del 50% degli USA!!”. Non scoraggiatevi, spesso la scienza usa un linguaggio astruso per veicolare le sue scoperte. In parole povere, “continuano a chiamarla EMERGENZA, a quasi un anno dall’inizio della pandemia. Chiamiamola con il giusto nome: INCOMPETENZA”. Quindi il governo è incompetente perché fa morire la gente? O perché davanti a mille morti al giorno non apre le piste da sci? Dunque è inutilmente allarmista? Lo capiamo qui: “Lo sapete quanti giorni di scuola hanno fatto i liceali della Campania dal 4 marzo scorso ad oggi? 14!”. Allora è inutilmente allarmista. “Tutto questo perché il Governo non è stato in grado di gestire la seconda ondata che loro stessi (sic, ndr) avevano previsto”. Cioè si è allarmato, ma non abbastanza. E però: “I Covid hospital della Fiera di Milano e di Civitanova Marche sono pieni da settimane (purtroppo) ma erano inutili giusto?”. Quindi il governo è poco allarmista se l’allarme lo lancia Bertolaso (i dati sui posti letto occupati sono a pag. 2). Bertolaso pronuncia parole gravi, definitive, che il giorno dopo nessuno ricorda più. Ed è un peccato, perché tra i troll antigovernativi è il più autorevole.

Reintegrato? No, cacciato: Glovo “slogga” il rider siciliano

Dovrebbero assumerlo a tempo pieno e indeterminato, ma per ora lo hanno disconnesso dalla piattaforma e gli hanno (nuovamente) impedito di lavorare. Non è ancora terminata l’agonia di Marco Tuttolomondo, il rider palermitano che una settimana fa ha sconfitto in Tribunale l’app spagnola di consegne a domicilio Glovo. Nonostante la netta vittoria giudiziaria ottenuta dalla Nidil Cgil nel capoluogo siciliano – prima volta in Italia che un giudice definisce dipendente a tutti gli effetti un fattorino della gig economy – l’azienda non ha ancora dato seguito alla sentenza. Semmai ha fatto un nuovo passo indietro, rimuovendolo per la seconda volta dal sistema informatico e quindi costringendolo ancora a fermarsi.

Il lavoratore lo ha scoperto giovedì sera, quando ha provato a effettuare il login per entrare in servizio. “Qualcosa è andato storto con il tuo account”, è la scritta apparsa sullo smartphone. Esattamente lo stesso problema che lo aveva portato a presentare la causa alla fine dell’estate: era stato “sloggato” dal sistema dopo aver rilasciato dichiarazioni alla stampa locale. Una ritorsione per il suo impegno sindacale, sostiene la Nidil Cgil, ma l’azienda si è difesa parlando di “disguido tecnico”. Fatto sta che il Tribunale ha poi dato pienamente ragione al rider e ordinato il reintegro, riconoscendo in quella mossa un licenziamento irregolare di un falso addetto autonomo.

“Con ampia riserva di impugnazione della sentenza – spiegano al Fatto dalla multinazionale – Glovo ha provveduto subito alla sua esecuzione inviando formale comunicazione al lavoratore. Allo stato la società sta valutando come gestire l’operatività del lavoratore in modo compatibile con il modello organizzativo attuale”. Dunque ancora non è chiaro come la piattaforma si adeguerà. A dire il vero, le modalità sono già state definite dai magistrati: Tuttolomondo dovrebbe semplicemente essere trattato come un dipendente subordinato, retribuito in base alle ore di disponibilità (e non al numero di consegne) con le tabelle salariali del contratto del Terziario. Gli avvocati Cgil Bidetti e De Marchis hanno già inviato una lettera di messa in mora, chiedendo l’immediata riattivazione dell’account.

Perché la legge ha tanti nemici (come i poveri)

“Gli italiani – diceva Longanesi – alla manutenzione preferiscono l’inaugurazione”. Se chi ha voluto una legge si azzarda a proporne un ritocco dopo un congruo periodo di collaudo, subito gli oppositori di quella legge la dichiarano deceduta e ne invocano una alternativa, nuova di zecca.

La legge n. 26, “recante disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni” è stata varata venti mesi fa, il 28 marzo 2019, preceduta e accompagnata da un bombardamento concentrico di critiche da parte di tutti gli schieramenti neo-liberisti: dai politici, agli intellettuali e ai giornalisti. L’argomentazione era quella standard millantata dai cultori delle teorie di Kuznets e Laffer, gli economisti che hanno ispirato i Bush, Reagan e la Thatcher sostenendo che bisogna ridurre le tasse ai ricchi per incentivarli a creare posti di lavoro sicché la ricchezza distribuita sotto forma di salari prima o poi sgoccioli fino a dissetare anche i poveri. Grazie alla scrupolosa applicazione di questo criterio, in Italia nel 2010 era a rischio di povertà un italiano su quattro; oggi un italiano su tre.

Questi nemici giurati del Reddito di cittadinanza sono attenti a ogni minimo indizio di cedimento per annunziare il suo totale fallimento. Durante la fase iniziale, giornali e talk show fecero a gara per screditare il Reddito scovando ed esibendo il mafioso o il furbetto di turno che era riuscito a intrufolarsi truffaldinamente tra i destinatari del sussidio. Dario Di Vico, sul Corriere della Sera di giovedì, ha addebitato alla legge sul Reddito la colpa di non essersi “costruita una rete di amici”. Altro che! Quella legge ha rivelato quale oscena rete di nemici circonda i poveri in Italia e chiunque osi occuparsene in chiave non caritatevole ma civile.

Non era trascorso un anno dal varo della legge e già l’8 febbraio 2020 Libero scriveva: “Reddito di cittadinanza flop”. Stesso titolo adottava ieri Il Mattino di Napoli, mentre l’altroieri Il Corriere preferiva il più romantico: “Il reddito illusione perduta”. L’articolo è quello già citato di Dario Di Vico, cui bisogna riconoscere un impegno tenace e militante contro il Reddito. Questa volta, però, l’autorevole giornalista fa un passo avanti. Spacchetta in due la legge n.26, boccia la parte dedicata al reimpiego e redime il sussidio ai poveri, cui modifica solo il nome, suggerendo “reddito minimo” al posto “reddito di cittadinanza”, troppo evocativo della rivoluzione francese. A sostegno della sua tesi, Di Vico chiama in causa Di Maio: “Dopo che il papà del Reddito di cittadinanza, Luigi Di Maio, ha pubblicato sul Foglio una corposa autocritica sul provvedimento-bandiera del Movimento 5 Stelle (‘credo che sia opportuno ripensare alcuni meccanismi’) possiamo dire che il figliolo non esiste più”. Che “ripensare alcuni meccanismi” rappresenti una “corposa autocritica” sembra improbabile e ancora più estremo sembra il tentativo di dedurne che il reddito di cittadinanza “non esiste più”.

In realtà Di Maio ha dichiarato al Foglio che occorre “affinare lo strumento del Reddito di cittadinanza” e ha suggerito sia di separare “nettamente gli strumenti di lotta alla povertà dai sostegni al reddito in mancanza di occupazione”, sia di “integrare le politiche di welfare con le politiche attive del lavoro”. C’è un’altra frase di Longanesi che ben si attaglia al caso nostro: “Gli italiani sposano un’idea e subito la lasciano con la scusa che non ha fatto figli”. A Di Maio va il merito di avere condotto tre battaglie colpevolmente disertate dalla sinistra: la sistemazione normativa dei precari della Gig economy, la lotta alla povertà, il potenziamento dei Centri per l’impiego. Ma, dopo avere varate le leggi e avviati i processi, Di Maio ha abbandonato a se stesse queste imprese di estrema complessità o le ha affidate a realizzatori inadatti al compito.

Quando fu varata la legge sul RdC, in Italia vi erano 4.917.000 poveri, raggruppati in 1,7 milioni di famiglie. Tra questi, 1.260.000 erano già occupati e dunque appartenevano alla categoria dei working poor; 669.000 erano inabili al lavoro o anziani con più di 65 anni; 1.260.000, secondo Save the Children, erano bambini. Solo 945.000 erano in cerca di occupazione. Come si vede, se è vero che povertà e disoccupazione non coincidono del tutto, lo fanno almeno in parte. Separarne le soluzioni, come suggerisce Di Vico, sarebbe un pasticcio non meno grave che unirle.

Qui sì che ci vorrebbe una terza via!

Tutti i numeri del redidito di cittadinanza

L’ennesimo attacco incrociato al Reddito di cittadinanza è in atto da qualche giorno. Pure questa volta, come nella penultima, il club di appassionati detrattori della misura anti-povertà (politici e commentatori) è impegnato nel far passare il concetto di un auto-sabotaggio in corso, una sorta di fuoco amico innescato dagli stessi che quella legge l’hanno pensata e introdotta. L’assist è arrivato dalla riflessione che il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha affidato una settimana fa al Foglio, nella quale ha lanciato l’idea di “ripensare alcuni meccanismi separando gli strumenti di contrasto alla povertà dai sostegni al reddito in mancanza di occupazione”. Tanto è bastato per farla sembrare l’ammissione di un flop, la volontà di stravolgerlo e addirittura di rinnegarne la paternità. Quando l’altroieri l’esponente 5 Stelle ha avvertito che “potrà essere cambiato, o meglio adeguato, ma nessuno si metta in testa di cancellarlo”, è stato come tentare di chiudere il recinto con i buoi già scappati. Ma come ha funzionato davvero il Reddito di cittadinanza? Quali sono i suoi veri risultati?

Meno poveri. L’ossessione di molti osservatori è poter sentenziare una bocciatura netta del Reddito di cittadinanza, una riforma che ha preso vita ad aprile del 2019. In questi diciotto mesi, lo strumento bandiera dei pentastellati ha prodotto effetti diversi a seconda del metro con cui lo si giudica. Nella lotta all’indigenza, ha portato un risultato immediato: nel 2019, anno di esordio del Reddito, la povertà assoluta in Italia è scesa del 9%. Nel nostro Paese, ha detto l’Istat, circa 450 mila persone sono uscite dalla condizione di difficoltà grave. Considerando che a fine anno le persone sostenute dalla carta acquisti “di cittadinanza” avevano già superato i due milioni, c’è chi è rimasto deluso da quel numero e si aspettava un impatto più dirompente anche in virtù degli annunci di “abolizione della povertà”. Fatto sta che era dal 2014 che non si assisteva a una retrocessione del disagio economico in Italia e, come rilevato da un working paper di Bankitalia a settembre, l’effetto è stato particolarmente rilevante per gli individui dai 17 anni in giù.

Il nodo risorse. Uno stanziamento superiore avrebbe permesso più efficacia su questo fronte. Il progetto originario dei Cinque Stelle prevedeva un costo di oltre 15 miliardi. L’obiettivo era far raggiungere a tutte le famiglie una soglia minima di reddito, 780 euro per i single a prescindere dalle spese di affitto. Già quel piano subì critiche da chi intravedeva uno spreco per una misura di “puro assistenzialismo e disincentivo al lavoro”. La necessità di dividere la torta con “Quota 100”, riforma pensionistica cara a Matteo Salvini, alleato di governo durante la scrittura della manovra 2019, ha dimezzato la dote. Si è optato per un inasprimento dei requisiti. I famosi 780 euro al mese può prenderli solo un single che viva in affitto. Il limite di reddito, invece, è stato portato a 500 euro al mese. C’è un altro problema: la scala di equivalenza, il meccanismo per cui più è numerosa la famiglia più si assottiglia la cifra divisa per ogni componente. Un nucleo con oltre quattro persone, con almeno un disabile, può prendere massimo 1.100 euro al mese più gli eventuali 280 di affitto. I dati dimostrano però che la povertà incide più severamente nelle famiglie con più componenti e l’attuale impostazione diventa penalizzante. Come detto, questo si può risolvere solo aumentando lo stanziamento totale, il che farebbe agitare i difensori dell’equilibrio dei conti pubblici. Nel 2019, nella fase di start up per così dire, a fronte di un fondo da 5,6 miliardi, l’esborso si è comunque fermato a 3,9.

Durante la pandemia. Oggi il Reddito di cittadinanza sta svolgendo un ruolo non previsto: un aiuto per tutte le famiglie piombate nella crisi per l’emergenza Covid. Il lockdown ha colpito le persone che svolgevano lavori a bassi salari, soprattutto nel turismo e nel commercio. Con le chiusure hanno perso tutto e questo ha contribuito a una nuova ondata di richieste di Rdc. A marzo 2020 le domande erano 1,8 milioni e i beneficiari fermi a poco più di 2,5 milioni; a settembre le istanze arrivate all’Inps sfioravano i 2,2 milioni e i percettori erano 3,1 milioni. Avendo però la pandemia creato nuove forme di povertà, è stato necessario un nuovo strumento: il Reddito di emergenza (Rem). Nei primi mesi ha sostenuto circa 700 mila persone; con la seconda ondata è stato prorogato e l’ultima rilevazione dell’Inps segna 547 mila beneficiari. La legge di Stabilità prevede un aumento di risorse in favore del Reddito di cittadinanza a partire dal 2021. Il governo sembra voler continuare a far leva anche su questo strumento per affrontare i prossimi mesi, che saranno probabilmente caratterizzati da una crisi occupazionale con la fine del blocco dei licenziamenti.

Il capitolo lavoro. Quella che ha dimostrato di marciare più lentamente è la macchina delle politiche attive. La cosiddetta “seconda gamba” della riforma ha intrapreso un passo più faticoso. Finora non è stato mai comunicato quanti beneficiari del Reddito abbiano trovato lavoro grazie ai centri per l’impiego e ai 2.700 navigator assunti a settembre 2019: è solo allora che è partita la fase due con la presa in carico dei percettori obbligati a cercare un posto. Sono 1,3 milioni e non tutti sono stati convocati per l’avvio del percorso: ecco, al 31 ottobre circa 352 mila di questi avevano già firmato un contratto di lavoro, seppur precario in più dell’80% dei casi, dopo aver iniziato a prendere il Rdc. Spesso, però, sono opportunità trovate direttamente dagli utenti senza l’intercessione dei centri per l’impiego: poche Regioni comunicano il numero di posti direttamente intestabili ai servizi pubblici, e in genere, non supera un terzo del totale. Soprattutto se calata in un mercato del lavoro fermo, e considerando la bassa occupabilità che di solito caratterizza queste persone, quella cifra – 352 mila – mostra un dato di fatto: buona parte di chi riceve il Reddito di cittadinanza non resta sul divano, come spesso si vuole far intendere, ma è disposta anche ad accettare lavoretti per migliorare la sua condizione. L’idea di combattere la povertà anche con le politiche del lavoro non è un’invenzione del Reddito di cittadinanza. Anche il Reddito di inclusione, introdotto nel 2018 dal governo Gentiloni e che spesso i critici richiamano come modello, conferiva un ruolo ai centri per l’impiego e prevedeva sanzioni per chi – invitato ad attivarsi – non rispondeva alla chiamata. La ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, ha detto di essere impegnata nella definizione di un piano straordinario di politiche attive con le Regioni: “Questo significa rafforzare il Reddito, non certo abolirlo”.

Pallottoliere FI: 26 stampelle per Conte

L’aneddotica, si sa, dura il tempo di un istante. Ma se a ritornare a quel 2 ottobre 2013 in cui Silvio Berlusconi cambiò idea votando la fiducia al governo Letta, oggi sono gli stessi parlamentari di Forza Italia, vuol dire che qualcosa bolle in pentola. La speranza è che succeda anche mercoledì prossimo sul Mes, condita da una certezza: “Silvio muta forma a seconda del momento e quindi anche stavolta potrebbe cambiare idea all’ultimo”, dice un forzista di peso tra i divanetti di Montecitorio.

Sicché tra le chat dei parlamentari di Forza Italia spunta il pallottoliere. Una lista di possibili dissidenti – alcuni sicuri, altri presunti – che potrebbero astenersi o uscire dall’aula. Alla Camera, dove il gruppo è guidato dalla governista Mariastella Gelmini che fa asse con Gianni Letta, si dice siano 20 tra cui – oltre a Renato Brunetta, che ha passato ore difficili tra le voci di chi lo voleva fuori – Stefania Prestigiacomo, Andrea Ruggieri, Luigi Casciello, Paolo Russo, Renata Polverini, Roberto Occhiuto e Osvaldo Napoli. I deputati vicini a Mara Carfagna, data in uscita da tempo. Poi c’è il Senato, dove il gruppo invece è quasi tutto filo-leghista perché manovrato dalla salviniana Licia Ronzulli, e qui i voti che potrebbero mancare al centrodestra sono di meno, circa 6, ma più pesanti perché a Palazzo Madama i numeri sono ballerini e un’uscita tattica potrebbe aiutare i giallorosa ad abbassare il quorum, visto che non servirà la maggioranza assoluta. E allora al Senato chi sta passando ore travagliate è Andrea Cangini, Barbara Masini ma anche Franco Dal Mas. Più i tre senatori fuoriusciti – Gaetano Quagliariello, Andrea Romano e Massimo Berruti – che sono addirittura intenzionati a votare “Sì”. “Se nel centrodestra non c’è una discussione e decide tutto Salvini, noi non ci stiamo”, spiega convinto Quagliariello. Così la soluzione potrebbe essere una risoluzione equilibrista, scritta da Tajani e Brunetta: dire “no” alla riforma del Mes, ma “sì” a quello sanitario. Ma in quel caso, la spaccatura nel centrodestra è quasi sicura visto che in aula si voterà per punti e se la coalizione potrebbe trovare un’intesa sul “niet” alla riforma, si spaccherà sulla richiesta dei 37 miliardi.

Così ieri Matteo Salvini ha telefonato a Berlusconi chiedendogli di non fare “la stampella” al governo, messaggio prontamente fatto filtrare da fonti leghiste. E che i rapporti tra Lega e FI siano gelidi lo dimostra anche il caso di Torino dove ieri si è candidato l’imprenditore in quota Lega, Paolo Damilano, stoppato subito dai forzisti locali che rilanciano il nome di Claudia Porchietto. Ma la spaccatura in FI si riflette anche sul cerchio magico. Berlusconi è tornato a Nizza, nella villa della figlia Marina, insieme alla fidanzata Marta Fascina e ora è assediato dai colonnelli romani: da una parte il trio Tajani-Ronzulli-Ghedini, dall’altra Letta e Marina furiosi con l’assistente di Berlusconi perché considerata “il braccio armato di Salvini” nel partito. Ronzulli, infatti, ha anticipato l’ex Cavaliere sostenendo il “no” al Mes e sparge veleni contro Gelmini che “non è in grado di tenere il gruppo alla Camera”. E così Berlusconi si sarebbe convinto ad allontanarla perché Licia “fa il gioco di Salvini”. Un tutti contro tutti che potrebbe riemergere in aula il 9 dicembre. “Non credo che Berlusconi voterà no alla riforma del Mes”, profetizzava ieri Pier Ferdinando Casini.

Grillo spiazza Di Maio. Al Senato i 5S rischiano

In un lunghissimo venerdì notte, i Cinque Stelle ballano sull’orlo del dirupo, e assieme a loro il governo. “Non vogliamo il Mes, resteremo sempre contrari, ma mercoledì chi voterà contro la risoluzione in Parlamento voterà contro Giuseppe Conte”, si sgola Luigi Di Maio nell’assemblea dei parlamentari, convocata all’ora di cena dal reggente Vito Crimi. Rincorre una tregua con le decine di parlamentari che minacciano di votare no alla mozione sulle comunicazioni all’aula del premier, dove si dovrebbe aprire almeno alla riforma del Mes.

Ma di mattina ai dissidenti è già arrivato un assist, chissà se volontario: quello di Beppe Grillo. Di solito silente, questa volta il garante semina frasi come candelotti. “Non sto qui a elencare le mille ragioni che fanno del fondo salva Stati uno strumento inadatto e del tutto inutile” scandisce in un post. “Sono soldi a debito, incaponirsi è una mera perdita di tempo” insiste. Certo, era e resta contiano, e per questo cita il premier: “Conte ha detto più e più volte che disponiamo già di tantissime risorse e dobbiamo saperle spendere”. Però di fatto soffia sopra il fuoco che nel M5S faticano a spegnere. E picchia forte sul primo pompiere, Di Maio. Perché per trovare altri soldi senza usare il Mes propone la patrimoniale, quella che l’ex capo aveva respinto per tre giorni come eresia. “Un contributo del 2% per i patrimoni che vanno dai 50 milioni di euro al miliardo genererebbe più di 6 miliardi” teorizza, lanciando una patrimoniale “per i super-ricchi”. E visto che c’è, propone anche di far pagare l’Imu e l’Ici non versata alla Chiesa. Benzina, per le decine di anti-Mes e per il faro dei dissidenti, Alessandro Di Battista, che esulta con i suoi: “Sono d’accordissimo con Beppe”. E figurarsi Nicola Morra, il più in vista dei 16 senatori che hanno firmato la lettera contro la riforma del Mes: “Sono convinto che in Aula il 9 dicembre il Movimento saprà fare il Movimento, anche e soprattutto grazie all’intervento di Beppe”. Tra i cosiddetti governisti invece è sconcerto. “Le parole di Beppe sono interpretabili, mica ha detto di votare contro in Aula” argomentano. Ma la botta è forte. Così Di Maio attende per ore prima di commentare. Poi diffonde una nota: “Grillo ha fatto bene a scansare l’idea di patrimoniale formulata da alcuni parlamentari, che colpirebbe il ceto medio”. Si aggrappa al passaggio in cui il Garante ha bocciato come “nefasta” la proposta di Pd e Leu. Invece da palazzo Chigi fanno filtrare che Grillo non aveva certo intenzione di indebolire il governo. Però è una rogna quel post, piovuto mentre si tratta con i rivoltosi. Alla Camera provano a convincere molti dei deputati contrari a non presentarsi alla votazione mercoledì.

Ma c’è un’altra mina a complicare tutto, il voto in mattinata sul dl sicurezza, sempre a Montecitorio. “Su quel decreto potrebbero mancare tantissimi voti dei nostri, e la Lega lo sa” sussurra un parlamentare di peso. Lo sa anche il Pd, non a caso nervosissimo. Poi ci sono i senatori. “Se già 7-8 votano contro rischiamo grosso” raccontano dai piani alti. Se non di cadere, quanto meno di dover accettare l’aiuto di Forza Italia, che potrebbe far rimanere fuori un po’ di eletti.

In questo scenario, Crimi rende noto che il 10 e l’11 dicembre sulla piattaforma Rousseau si voterà il documento di sintesi degli Stati generali. Ergo, visto che gli iscritti dovranno essere riconvocati per votare modifiche allo Statuto, e con un preavviso di diversi giorni, l’elezione della segreteria scivolerà a gennaio. In serata però c’è l’assemblea, con oltre 180 partecipanti collegati. E inizia il reggente: “Con noi al governo il Mes non verrà mai attivato, anche nel Pd dicono che non è all’altezza. La riforma non ci piace, ma ho detto che non faremo ostruzionismo se tutti gli altri Paesi vanno in quella direzione”. Giura che si cercherà di abbinare altre riforme a quella del Mes: cioè “la logica di pacchetto” invocata dai dissidenti. “Essere una forza di governo significa anche accettare idee diverse” chiosa. Poi tocca al capodelegazione, Alfonso Bonafede: “Rispetto tutte le opinioni, ma certe uscite ci indeboliscono e mettono Conte in una posizione che non merita”. Infine, Di Maio, che prima lo dice al Tg1: “Mercoledì Conte chiederà un mandato per sbloccare i 209 miliardi del Recovery Fund, non si vota sull’accesso al Mes”. Quindi alza la voce in assemblea: “Chi vuole far cadere Conte lo dica, non possiamo farci male così”. Ma la notte è ancora lunga, per il M5S.

Morto Nicoletti il “cassiere” della Magliana

Enrico Nicoletti, il mago che ripuliva i soldi dei boss della Magliana, il “cravattaro” più generoso della mala romana (che se uno non restituiva il debito non si arrabbiava, si limitava a prendersi case, negozi, ristoranti) insomma il “cassiere della bandaccia” è morto ieri a 84 anni in una clinica romana dove era ricoverato per i molti malanni che lo affliggevano. Non nel suo letto come forse desiderava ma neppure in carcere, da belva in gabbia, che era la cosa che più temeva. Lo confidò ai carabinieri di Tor Vergata, con le lacrime agli occhi, l’ultima volta che fu arrestato nel febbraio 2012. L’ordinanza di custodia cautelare riassumeva la sua carriera criminale: rapina, usura ed estorsione, dal 1999 al 2003. Si difese dicendo che ormai era solo un vecchio signore di 77 anni, e malato. In carcere rimase poco, non fu difficile nelle sue condizioni ottenere il trasferimento all’ospedale di Parma e poi ai domiciliari in Umbria.

Con i carabinieri era in buoni rapporti forse perché da giovane lui stesso aveva indossato la divisa. Poi si era messo in affari, capendo subito come i soldi possono lievitare se si passa da un mercato finanziario all’altro per poi metterli a disposizione di “chi ne aveva bisogno”. Nella banda, Nicoletti era un marchio di qualità, il primo a fidarsi di lui fu Enrico De Pedis, detto Renatino, il boss che i soldi amava investirli e non sperperarli. Bastava rivolgersi al “cassiere”, glieli davi sporchi e lui li restituiva che scintillavano: insieme crearono un impero gestito da una fitta rete di prestanome. Poi Renatino fu ammazzato, a Nicoletti rimase una tenuta sulle mura Aureliane che poi, sequestrata, divenne la Casa del Jazz. Nicoletti continuò a frequentare i colletti bianchi di camorra, ‘ndrangheta e mafia. Negli anni 80, quando la resa dei conti diventa strage, molti muoiono e pochi sopravvivono, Nicoletti è uno di questi. Molti beni sono stati sequestrati, è vero, ma altri sono svaniti. È uno dei segreti che il cassiere porta con sé.

Sentenza-vergogna tedesca: “Falcone, memoria svanita”

“Giovanni Falcone è senza dubbio molto rispettato per il suo lavoro, il suo coraggio e le circostanze del suo assassinio. Anche in Germania”. Tuttavia “il giudice ha operato principalmente in Italia e in Germania è noto solo a una cerchia ristretta di addetti ai lavori e non alla gente comune che frequenta la pizzeria”. E, soprattutto, “la salvaguardia post mortem della persona diminuisce col passare del tempo dal momento della morte: termina quando la memoria del defunto è svanita. Falcone è morto nel 1992, quindi sono passati circa 28 anni”. Per concludere, però, con una grande triste verità: “Trent’anni fa il tema della lotta alla mafia era sotto agli occhi di tutti, non è più così per la collettività”.

Sono soloalcuni passaggi della sconcertante sentenza tedesca con cui il Tribunale di Francoforte sul Meno respinge il ricorso presentato da Maria Falcone per denunciare la violazione della memoria di suo fratello Giovanni e di Paolo Borsellino da parte di tal Costantin Ulbrich che ha chiamato la sua pizzeria “Falcone e Borsellino” accomunando alle foto dei due giudici immagini del film Il padrino e una simbologia, non mancano i finti fori di proiettili, tesa a rendere il suo un locale a tema mafia, inserendo bene e male, realtà e finzione, in un unico imbarazzante calderone. Maria Falcone ha commentato con fermezza ed eleganza: “È una sentenza che ci addolora molto. Proprio nel momento in cui il valore del lavoro e dell’eredità umana di Giovanni Falcone viene riconosciuto a livello mondiale, un magistrato di un Paese che soffre il pesante ingombro della presenza delle mafie scrive un verdetto simile. Meno di due mesi fa, e cito solo l’ultimo di una lunga serie di episodi simili, al termine della Conferenza delle parti sulla Convenzione Onu contro la criminalità riunita a Vienna, è stata approvata all’unanimità da 190 Paesi una risoluzione che riconosce il contributo di Falcone alla lotta al crimine organizzato internazionale. E numerosi sono stati i riconoscimenti alla figura di mio fratello tributati da istituzioni ed enti della Germania nel tempo, mostrando grande sensibilità ai temi della mafia e della legalità. Faremo ricorso in appello – conclude Maria Falcone – contro un provvedimento che riteniamo ingiusto anche alla luce che assume in una città, Francoforte, con una fortissima presenza di italiani che ben conoscono il significato della lotta alla mafia”.

E anche la politica, in Italia, appresa la notizia, è saltata sulla seggiola. Il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra attacca “la miopia, anzi la cecità, di chi ancora non ha capito che le organizzazioni mafiose sono un problema internazionale in Germania un giudice ritiene che Falcone sia solo italiano; è proprio vero, si deve sbattere e farsi male per capire. Evidentemente la strage di Duisburg non è stata ben compresa nella sua rilevanza semantica, non ho parole”. Ma soprattutto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede annuncia: “Ho già dato incarico ai competenti uffici del ministero di verificare le condizioni per promuovere le più idonee ed efficaci azioni giudiziarie, in Germania e in Italia, a tutela del prestigio dei giudici Falcone e Borsellino e, dunque, delle istituzioni italiane”. E il magistrato Roberto Tartaglia, attualmente vicecapo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, puntualizza: “Falcone con la sua proverbiale e indimenticabile lungimiranza, è stato tra i primi a indirizzare le sue indagini, anche quelle economiche e patrimoniali, verso gli investimenti di Cosa nostra all’estero”.

In attesa di ricorsi e azioni, intanto, nel locale pizzeria “Falcone e Borsellino” di Costantin Ulbrich a Francoforte altri clienti, restrizioni pandemiche permettendo, continueranno per chissà quanto tempo a sedersi ai tavoli al cospetto della storica foto con cui Tony Gentile ritrasse Falcone sussurrare all’orecchio di Borsellino o al primo piano di Marlon Brando nei panni di don Vito Corleone ne Il padrino. Sacro, profano, leggenda e indecenza.

Vitalizi: Del Turco va “in freezer”, la truppa resiste

Conquistarlo è un attimo, ma farselo togliere è un’impresa: come i diamanti, il vitalizio è per sempre pure per chi è stato condannato per reati di particolare gravità. Palazzo Madama ha solo ora congelato i 5.500 euro percepiti ogni mese dall’ex governatore abruzzese, Ottaviano del Turco, la cui condanna per induzione indebita di dare o promettere utilità è definitiva dal 2018. Addirittura meglio è andata a Luigi Grillo, parlamentare forzista con sei legislature alle spalle e una lunga frequentazione dei salotti dell’alta finanza: non perderà nemmeno un centesimo degli oltre 10 mila euro (per la precisione, 10.382,66) che ogni mese scuce in suo favore il Senato nonostante sia stato condannato per associazione per delinquere, turbata libertà degli incanti, corruzione aggravata e utilizzazione di segreti d’ufficio. “La sentenza a suo carico risulta di applicazione della pena su richiesta delle parti ed è precedente al 6 luglio 2015 (la data in cui è stata deliberato lo stop dei vitalizi ai condannati, ndr). Pertanto in tal caso non si applica la cessazione dell’erogazione dei trattamenti previdenziali” si legge tra gli atti del Consiglio di presidenza guidato da Maria Elisabetta Alberti Casellati. Stesso discorso per Giovanni Di Benedetto, diccì di rito andreottiano sparito dai radar politici dopo Mani pulite, anche lui con un casellario giudiziario di tutto rispetto: violazione delle norma sul finanziamento dei partiti, corruzione aggravata, turbata libertà degli incanti, abuso d’ufficio continuato e altri reati, diciamo così, minori.

Questo curriculum di tutto rispetto non è bastato per far chiudere i rubinetti al Senato che, per la legislatura in cui ha onorato la patria, gli ha erogato per anni oltre 3 mila euro al mese, oggi ridotti a 1.600 dopo il taglio degli assegni in vigore dall’inizio del 2019. La motivazione? Anche lui ha patteggiato prima del 2015 “ma anche a voler prescindere da questa circostanza soltanto alcuni dei reati per cui sono stati determinati i cumuli di pena rientrano tra quelli per cui è prevista la cessazione del vitalizio nel caso di condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione”. Graziato nel portafogli anche il leghista Piergiorgio Stiffoni: potrà continuare a godersi i 7 mila euro mensili da ex senatore nonostante la condanna per peculato rimediata nel 2013 dopo il patteggiamento. E che dire dell’altro epigono del Cav. Salvatore Marano? Al netto del suo coinvolgimento nella recente inchiesta sul voto di scambio della Procura di Napoli, ha già sul groppone una sentenza diventata irrevocabile nel 2012 per un complesso di 17 (diciassette) reati di bancarotta fraudolenta in concorso e omessa tenuta delle scritture contabili e un’altra definitiva dal 2017 sempre dello stesso tenore. Ma anche il suo vitalizio è salvo e non dovrà neppure attendere la riabilitazione per averlo: il Senato anzi aspetta di erogargli anche gli arretrati ché, avendo maturato i requisiti di età per percepirlo solo a giugno di quest’anno, non ha ancora fatto domanda. Il Celeste Roberto Formigoni, riconosciuto colpevole di aver asservito la sua funzione agli interessi economici della Fondazione Maugeri e del San Raffaele dietro lauto compenso, si è invece fatto subito sotto: ha sostenuto di essere alla canna del gas e il Senato si è mosso a compassione e gli ha accordato un vitalizio di cittadinanza di 700 euro, ben poca cosa rispetto all’assegno (ora congelato per via della condanna) da 7 mila e 7 euro di cui ha goduto fino al 2019. Che naturalmente rivuole tutto e con gli interessi sperando che l’organismo di giustizia interna di Palazzo Madama, presieduto da Giacomo Caliendo, si metta una mano sulla coscienza e l’altra sul portafoglio. Dei contribuenti.

“Il fedelissimo di Centemero mi istruì sul Sistema Lega”

Michele Scillieri non ha dubbi: per ogni incarico ricevuto dalla nuova Lega di Matteo Salvini bisogna restituire fino al 15%. Il commercialista indagato nell’inchiesta milanese sulla fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc), durante l’interrogatorio della scorsa settimana, rivelato ieri dal Fatto, è apparso netto. A verbale aggiunge però un tassello inedito ai magistrati: “Manzoni stesso mi confidò il sistema” delle retrocessioni al Carroccio. Si tratta di Andrea Manzoni, uno dei revisori contabili del Carroccio, vicino al tesoriere Giulio Centemero e a Matteo Salvini.

Manzoni e Alberto Di Rubba, altro ex revisore dei gruppi parlamentari ed ex presidente di Lfc, sono indagati dalla Procura nel fascicolo coordinato dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi. Accusa: peculato. Motivo: l’acquisto da parte di Lfc di una capannone a Cormano. Prezzo: 800mila euro. Interrogato, Scillieri spiega: “La gestione finanziaria della Lega è in mano a Di Rubba e Manzoni”. Il verbale è di 10 pagine. Poche, ma dense di rivelazioni. Scillieri sulle retrocessioni: “Ho incontrato Manzoni nell’estate del 2018 in via Bellerio, lui aveva avuto un pranzo di lavoro con esponenti politici della Lega”. A quel punto i due si allontanano. “Parlammo in auto – riprende Scillieri –. Gli ho presentato un cliente che voleva lavorare con noi”. La risposta fu però negativa. “Manzoni fu esplicito, non poteva dare incarichi a persone non fidate. Perché non c’era garanzia delle restituzioni”.

In quel 2018 Scillieri dice di comprendere quello che durante l’interrogatorio viene definito il “sistema Caianiello”, riferendosi a Nino Caianiello, ex coordinatore provinciale di FI, coinvolto nell’indagine antimafia sul nuovo tangentificio Lombardia. Dal fascicolo emerge come Caianiello ricevesse una “decima” su ogni incarico pubblico procurato. Davanti alle parole di Scillieri, i magistrati chiedono: “È una prassi?”. Scillieri: “Manzoni stesso mi confidò il sistema. Mi mise in chiaro che gli incarichi prevedevano sistematicamente una restituzione al partito”. Detto in altro modo: “Parte degli emolumenti dovevano essere restituiti alla Lega”. Del resto anche l’incarico che Scillieri ricopriva in Lfc (due trienni a 25mila euro l’anno, dal 2015 al 2020) aveva, per sua ammissione, quella caratteristica. “Il mio incarico era di matrice politica. Lo ho avuto da Di Rubba che lo ha avuto da Manzoni che mi disse che se non avessi fatto così non sarei stato rinnovato”. Manzoni, in un suo primo verbale, spiega che la nomina di Di Rubba a capo di Lfc era stata suggerita dall’amico Giulio Centemero (a oggi non indagato).

Secondo Scillieri, se da un lato, ogni nomina prevede una retrocessione al partito, dall’altro il commercialista spiega come il presunto piano per spartirsi gli 800mila euro della vendita del capannone dalla società Andromeda a Lfc fosse stato programmato nel novembre 2016: “Già allora era stata decisa la spartizione per la vendita del capannone. Manzoni aveva un file Excel sul suo Pc portatile dove ho potuto constatare la spartizione così pensata: 400mila euro a Barachetti, 75 mila a me, Di Rubba e Manzoni, 50mila a Luca Sostegni”. Sostegni, accusato di essere un prestanome, ha richiesto ieri un patteggiamento a 4 anni e 10 mesi.

Sempre ieri si è tenuta l’udienza davanti al Tribunale del Riesame per la posizione dell’imprenditore Francesco Barachetti che per i giudici deve restare ai domiciliari. Barachetti, chiamato dalla Procura, non ha risposto. Così come hanno fatto Di Rubba e Manzoni. La Procura ha depositato una nota della Finanza che contiene, secondo i pm, la prova del concorso in peculato per Barachetti, tra i fornitori privilegiati del partito. Nella nota si parla della Eco srl di Pino Maffeis (indagato). La Eco è tra i destinatari degli 800mila euro pagati da Lfc. Sui suoi conti arrivano 488mila euro, poi girati a Barachetti e a società del duo Di Rubba-Manzoni, tra cui la Dea Consulting. La Finanza ha scovato un’email che dalla Dea arriva a Barachetti e contiene gli atti societari di Eco. Maffeis agli investigatori spiegherà di non aver mai operato sul conto home banking della società. Questi due elementi, per l’accusa, comporrebbero la prova che dietro alla Eco c’era Barachetti, ex consigliere di Casnigo e vicino di casa di Di Rubba.