“Io mi sono ‘svejatooo’ accanto al genio di Sordi”

Anno 1990. Mosca. “Ero lì per una tournée teatrale e, ogni sera, a spettacolo finito, era di rito una passeggiata, spesso sulla Piazza Rossa. A mezzanotte, davanti al mausoleo di Lenin, tra freddo, neve e assenza di esseri umani, si avvicina un signore. Mi guarda. Alza di un millimetro il colbacco, libera la fronte e con l’accento russo conferma di avermi riconosciuto: ‘S’è svejatooo!’. Gli altri della compagnia non volevano crederci, risero alle lacrime”.

Giorgio Gobbi è da quasi 40 anni il Ricciotto de Il marchese del Grillo, il servo-confidente-spalla-complice di Alberto Sordi nel film girato nel 1981 da Mario Monicelli, “per me un momento meraviglioso, nato quasi per caso, perché all’inizio Alberto non voleva, mi considerava troppo giovane per stare accanto a lui e in quel ruolo. Poi è nato un rapporto intenso: sono uno dei pochi ad aver varcato la soglia di casa sua; (sorride) comunque ancora oggi, almeno quattro o cinque persone, ogni giorno, mi gridano ‘s’è svejatooo!’, e sempre mi chiedono di quel film, per questo ho scritto un libro”. Che, ovvio, si intitola proprio S’è svejatooo! e ricorda, e ricostruisce, e svela i mesi di quel set.

Ricciotto.

Lo sono diventato grazie a un provino; (ride) quella mattina ho affrontato l’avventura della mia vita a bordo di un motorino Ciao mentre percorrevo il Grande Raccordo Anulare. Una follia. Ma avevo paura di arrivare tardi.

E andò bene.

Sì, ma come dicevo, all’inizio Sordi non ne era convinto, preferiva altri, magari Ninetto Davoli o Franco Califano, quindi persone più grandi di me; comunque il provino avvenne davanti a una macchina da presa, e appena finito chi mi riprendeva mi battezzò: “Speramo che non sta a fa’ du’ film insieme”. “Scusi, non ho capito”. “Er primo e l’ultimo”. E giù a ridere.

E poi?

Piano piano con Sordi è cresciuto l’affiatamento, ed è proseguito negli anni. Ma all’inizio me la sono fatta sotto per la paura.

Addirittura.

Forse non è chiaro, ma sono passato dal recitare in un teatro di parrocchia e, insieme ai miei fratelli, ad Alberto Sordi e Mario Monicelli. (sorride) Mi sento un privilegiato.

Lei in mezzo a dei “mostri”.

Alberto tutti i giorni, prima di girare, mi chiamava per studiare le scene. Era categorico. Preciso. Puntuale. Poi durante le riprese dava il tocco di genio, come la scena di quando prende al volo un chicco d’uva. Solo lui.

Nel cast c’era pure Flavio Bucci.

Alto fenomeno, ma con Alberto non si prendevano, forse per rivalità; un giorno dovevamo girare due monologhi, quello finale di don Bastiano sul patibolo, e l’altro di Gasperino il carbonaro, anche lui condannato. La mattina Bucci fu eccezionale, le 300 comparse si spellarono le mani per la bellezza della sua prova; il pomeriggio, invece, quello di Alberto ebbe minore impatto, se ne accorse, e andò via infuriato; (cambia tono) ad Alberto ho voluto proprio bene.

Uno dei pochi a conoscere casa Sordi.

E quando superavi la porta, dovevi stare attento a tutto, non potevi toccare neanche un portacenere; Alberto viveva in un museo, con pezzi pregiatissimi di antiquariato: era capace di partire per Parigi e solo per acquistare delle abat-jour Luigi XVI.

Torniamo al set.

Alberto aveva dei riti intoccabili: alle 12 arrivava lo spuntino, ed era inderogabile, composto da un camparino e tre o quattro mollichelle di parmigiano; (ride) senza dimenticare che alle 10 era il momento della pizza con la mortazza (mortadella in romano). Senza quella ci si inimicava la troupe.

Sordi per lei.

Figura complessa, articolata; personaggio generoso e allo stesso tempo tirchio; (ci pensa) nel 1983 arriva sul set Fulvio Lucisano (produttore): Alberto lo vede e lo sollecita: “È il mio compleanno, perché non prendi qualcosa da mangiare e bere?”. In sostanza: Lucisano fu costretto a pagare la sua festa dentro Cinecittà.

Quasi goliardia.

Sì, perché di nascosto Alberto poi finanziava orfanotrofi e case per anziani; lo guardavo e cercavo di imparare tutto. Il massimo fu in sala di doppiaggio: ho passato nottate insieme a lui e Monicelli, poi gli spaghetti con il tonno, pane burro e alici, e alle quattro e mezzo del mattino il caffè. Nel frattempo li ascoltavo spiegare e raccontare, spiegare e ricordare il loro cinema, le loro storie, le loro avventure sentimentali.

Esempio.

Non posso, alcune di quelle confidenze sono nate e morte in quella saletta, ma riguardavano donne come la Mangano, la Loren e la Pampanini.

Lei chi è?

Uno fortunato. Mi spiego: quando sono andato al provino era il luglio del 1981. Esattamente 30 anni dopo, luglio 2011, sempre sul GRA, sono stato coinvolto in un grave incidente, e ho impiegato mesi e mesi per riprendermi; lì la mia carriera si è fermata. Con un però: sono riuscito a recitare con i più grandi, da Sordi a Gassman fino a Bruce Willis, e con questo lavoro ho campato e bene. Così l’ho detto a mio figlio: quando morirò, ricordami come un uomo fortunato.

Nucleare: Zarif tenta Biden, ma l’accordo è ancora lontano

Passa per Roma il dialogo a distanza tra l’Iran e gli Stati Uniti di Joe Biden, che al New York Times conferma che “se Teheran tornasse a rispettare rigorosamente l’accordo sul nucleare, gli Stati Uniti tornerebbero a farne parte, come punto di partenza per successivi negoziati”, revocando le sanzioni reintrodotte e inasprite da Donald Trump, che, d’intesa con Arabia saudita e Israele, voleva serrare l’Iran in un cordone di sicurezza. A Biden, il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif risponde dai Med Dialogues 2020 di Roma: fin quando l’accordo del 2015 non è stato denunciato dagli Stati Uniti, “l’Iran ha mostrato la sua buona fede”, rispettandolo alla lettera. L’Amministrazione Biden dovrà ora “mostrare la sua”. A quel punto, “l’Iran annullerà le sue azioni correttive”, cioè le violazioni dell’intesa, con arricchimenti di uranio oltre il previsto. Biden e Zarif piantano i rispettivi paletti, ma non alzano barricate. Gli ostacoli, però, non sono tutti superati: chi non vuole il dialogo ha già provato a renderlo più difficile, se non impossibile, uccidendo lo scienziato di punta del programma nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh, assassinato in un agguato nei pressi di Teheran una settimana fa. E in Iran c’è chi preme sul governo dei moderati perché attui ritorsioni, che inasprirebbero le tensioni nella Regione e rafforzerebbero a Washington il fronte di chi condivide l’ostilità di Israele verso l’Iran. Un ruolo di stimolo al dialogo e di ponte potranno svolgerlo gli altri Paesi firmatari, Russia e Cina e, fra gli europei, oltre all’Ue, Gran Bretagna, Francia e Germania. Zarif non è tenero nei confronti del trio europeo: “Da quando gli Usa si sono ritirati dall’accordo e hanno reintrodotto le sanzioni – denuncia il ministro degli Esteri iraniano –, i Paesi europei non hanno fatto la loro parte dell’intesa: dicono di farlo, ma non lo fanno… Non vediamo compagnie europee in Iran. Non vediamo Paesi dell’Ue comprarci petrolio. Non abbiamo sentito condanne dell’assassinio di Fakhrizadeh, un atto d’aggressione internazionale, un atto di terrorismo contro di noi”. Che la situazione sia tesa, a Teheran e nella Regione, lo confermano due sviluppi: l’approvazione, nel parlamento iraniano, contro il parere del governo di una legge che blocca le ispezioni dell’Aiea e la riduzione “temporanea”, “per ragioni di sicurezza”, del personale diplomatico dell’ambasciata degli Usa a Baghdad, in Iraq, dove da mesi si sono intensificati gli attacchi di miliziani, identificati come filo-iraniani, contro basi militari Usa.

Berlino si fa gli Imam suoi. Via alla scuola dei predicatori

C’è chi in Europa l’islam politico lo mette al bando, come ha annunciato il cancelliere austriaco Sebastian Kurz dopo il recente attentato di Vienna, e chi persegue strategie parallele di lungo periodo. Come la formazione di imam made in Europe. E così, mentre il presidente francese Emmanuel Macron riceveva all’Eliseo Kurz per “dare una risposta rapida e coordinata” al terrorismo di matrice islamista in Europa, a diversi chilometri di distanza il ministro degli Interni tedesco Horst Seehofer si sedeva al tavolo dell’Islam Konferenz (Dik) per discutere della formazione di imam nati e cresciuti in Germania.

Il progetto, in preparazione da tempo, è arrivato alla fase attuativa: a partire dal prossimo aprile a Osnabrück, in Bassa Sassonia, sarà aperto un Islam Kolleg, un seminario di teologia islamica in lingua tedesca per formare 20-30 imam che poi andranno a predicare nelle moschee in giro per il Paese. Il corso sarà aperto a uomini e donne laureati, durerà due anni e accanto a moduli di teologia e pratica islamica, saranno offerti corsi di formazione politica e di lavoro sociale, illustrano i due professori dell’Islam Konferenz, Esnaf Begi e Bülent Uçar. Lo scopo del seminario, dice il responsabile del centro di teologia islamica dell’Università di Münster Mouhanad Khorchide, è promuovere la creazione di un’identità collettiva, un “noi” che non sia separato dal resto dalla società. Attraverso l’uso della lingua del Paese in cui si è nati e lo studio delle istituzioni politiche dello Stato di appartenenza si punta a evitare una frattura tra il Paese in cui si vive e la fede religiosa. “State facendo un passo enorme per il nostro Paese e per la vostra patria” ha detto il ministro Seehofer intervenendo alla conferenza del Dik. “È importante che imam che parlano tedesco e sono culturalmente autoctoni diventino attivi nelle moschee” ha detto una portavoce del ministero degli Interni. L’obiettivo politico è ridurre progressivamente l’influenza degli imam di importazione provenienti dal Golfo e dalla Turchia, non di rado radicali e poco integrati nella società ospitante. Secondo il presidente del Consiglio centrale dei musulmani in Germania (Zdm) Ayman Mazyek una formazione superiore di questo tipo aiuta a prevenire un pensiero estremista.

Il progetto di un corso di studi “autoctono” è nato nella Deutsche islam konferenz, un’istituzione fondata nel 2006 da Wolfgang Schäuble per favorire il dialogo tra lo Stato tedesco e le comunità musulmane in Germania. Inizialmente sarà finanziato dal Land della Bassa Sassonia con 450 milioni in 5 anni (90 milioni all’anno) e dal governo federale che ha stanziato 1 miliardo di euro.

Cinque organizzazioni islamiche sostengono il progetto, tra queste il Consiglio centrale dei musulmani in Germania, la comunità islamica dei bosniaci e la comunità marocchina. Ditib invece, la potente Unione turco-islamica per gli affari religiosi sostenuta economicamente dalla Turchia, è andata per la sua strada. Da gennaio scorso ha istituito la propria accademia in tedesco di formazione degli imam. L’accademia si trova a Dahlem nella regione dell’Eifel, in Renania Palatinato, e già a partire dal 2022 fornirà i propri imam capaci di predicare nella sua rete di quasi 800 moschee, sulle circa 2.500 presenti in Germania (fonte, Bundestag 2020). Dunque circa un terzo degli imam rimarranno anche in futuro estranei alla formazione nata in seno al Dik.

In ogni caso il progetto del Kollegseminar non incontra solo voci favorevoli. Secondo il pubblicista tedesco-egiziano Hamed Abdel-Samad la decisione di coinvolgere nella formazione degli imam le associazioni delle comunità musulmane del Dik potrebbe rivelarsi un boomerang e aumentare l’influenza delle organizzazioni più estremiste. Ad esempio l’Atib (Circolo culturale turco-islamico in Europa), che fa parte del Consiglio centrale islamico, è riconducibile ai Lupi grigi turchi, sostengono i servizi di informazione tedeschi, a quanto riporta Die Welt. Proprio i Servizi tengono da tempo sotto osservazione i Lupi grigi e i suoi 11.000 affiliati in Germania, tanto che il Bundestag sta valutando di metterli fuori legge in quanto associazione razzista di estrema destra.

“Si può lavorare anche di sera. E i dirigenti diventano manager”

Ministra Dadone, pandemia e smart working anche nella Pa: come sta andando?

Dopo anni in cui si è parlato di difficoltà culturali e strumentali, questi mesi dimostrano che ci sono sia gli strumenti sia lavoratori disponibili a formarsi e a superare la paura di un modo diverso di lavorare.

Dai dati sembra che il lavoro agile sia però meno diffuso a livello locale.

La maggior parte dei comuni italiani ha meno di 5mila abitanti, pochi dipendenti e strumenti limitati. Andranno fatti investimenti anche grazie al Recovery Fund, a partire dalla Rete. Ma per i piccoli la gestione è comunque più facile. La spinta sul lavoro agile servirà soprattutto all’efficienza degli enti più grandi.

Con che percentuali?

Oggi siamo ad almeno il 50 per cento di quel personale con mansioni possibili da remoto. L’idea è di arrivare almeno al 60 e cambiare l’idea di lavoro. Se un dipendente lavora meglio di sera, potrà farlo su pratiche che possano essere evase di notte: contano i risultati su obiettivi individuali, che tengano conto della persona e del suo valore aggiunto.

E che implichino forte responsabilità dei dirigenti.

Il dirigente pubblico deve diventare sempre più un manager, rivendicare il suo ruolo. Il lavoro agile spinge poi a un maggior controllo: se non ho di fronte le persone, mi domando cosa stiano facendo e poi pretendo dei risultati concreti.

Misurare la produttività è difficile. Anche il monitoraggio ha dati discordanti.

Perché finora è stata misurata con risultati sul lungo termine. Il Piano organizzativo del lavoro agile (Pola) prevede invece anche indicatori di valutazione della performance individuale, inclusa la valutazione dell’utenza. Inoltre, vorremmo dare ai dirigenti uno strumento snello, facilmente compilabile, per report e monitoraggi frequenti.

Dai dati sembra emergere un gap di strumentazione tra nord e sud.

Credo ci sia più tra grandi e piccoli centri. Certo, al Nord in alcuni comuni ci sono società in house dell’Ict che hanno lavorato a supporto della Pa, che stiamo incoraggiando. Ma se dal punto di vista strumentale il gap si colma con gli investimenti, il lavoro agile scardina dinamiche culturali anche nel modo di pensare il lavoro.

Emerge anche scarsa interoperabilità tra gli enti: come mai?

Anni di stratificazione normativa per le autorizzazioni e governance multilivello hanno creato un clima in cui si fa fatica a cedere i dati. All’ostacolo tecnologico, mentre si attende che sia ultimata la banca dati unica, si è fatto fronte con gli accordi di fruizione. Magari i ministeri si considerano separati dall’Inps o dall’Agenzia delle entrate mentre per il cittadino non c’è differenza.

I lavoratori della Pa sono spesso accusati di essere fannulloni tutelati.

Chi muove queste accuse si dimentica che sta parlando di insegnanti, medici, vigili del fuoco, polizia. Certo, hanno un livello di solidità diversa perché costituiscono l’ossatura dello Stato e ne devono garantire il funzionamento ma chi sbaglia o non produce il giusto deve essere allontanato. Il lavoro agile può aiutare: finora ci siamo chiesti come verificare chi entrasse in ufficio ma non cosa facesse.

Serve nuova linfa?

Negli anni sono state bloccate le assunzioni l’esito è stato un’età media elevata e capitale umano limitato. Ora, tra sblocco del turn over e quota 100 faremo nuove assunzioni. Mi chiedo però: serve davvero una sostituzione uno a uno? Non che non voglia farle, ma servono di più nuovi profili con nuove competenze e soft skill. Finora magari ho assunto il più competente sul diritto amministrativo ma senza sapere quanto fosse veloce o capace di risolvere una pratica complessa.

I sindacati sono in agitazione perché denunciano decisioni calate dall’alto e insufficienti fondi per i rinnovi contrattuali.

Fatico a capirli in questa fase. Sul lavoro agile abbiamo previsto strumenti che non toccano gli istituti tipici della contrattazione. Saranno discussi ai tavoli, ma è chiaro che per parlare ad esempio del diritto alla disconnessione serve una norma che lo preveda e la faremo nel collegato alla legge di Bilancio. Se discutiamo su come la situazione attuale abbia cambiato le condizioni del lavoro, abbiamo punti di interesse comuni. Se invece si tratta solo di mettere bandiere ideologiche, non riusciremo mai a incontrarci.

Smart working nella Pa. Più donne, meno enti locali

È stato detto loro di tutto: che erano nullafacenti, fannulloni, senza controllo. I dipendenti della Pubblica amministrazione, in questi mesi, sono stati lo sfogatoio di fronte alla crisi di interi comparti dell’economia. Eppure, anche se non fisicamente in ufficio, hanno continuato a far funzionare la macchina dello Stato. L’obiettivo, ora, è fare in modo che almeno il 60 per cento svolga in modalità agile le mansioni che possono essere gestite da remoto. Ma come è andata finora? Parte delle risposte è in un rapporto basato su 1.500 pubbliche amministrazioni (che rappresentano circa 300mila lavoratori). A redigerlo, il dicastero guidato dalla ministra Fabiana Dadone, che ha effettuato due rilevazioni per il periodo 1° gennaio-15 settembre.

Secondo i dati, il tasso più alto di lavoratori della Pa in smart working arriva a maggio, quando si raggiunge il 64%. La percentuale maggiore è nella Pa centrale dove a maggio si arriva all’87% e a metà settembre sopra il 71%. Il più ricettivo è il comparto “Università e Ricerca” . “Gli enti locali hanno qualche difficoltà in più ad adottare il lavoro agile su ampia scala – si legge invece – ad aprile un dipendente su 2 era in lavoro agile; a settembre 1 su 3”. Non ci sono invece grandi differenze geografiche: “A maggio il Nord tocca il 49% e il Sud circa il 51%. A settembre il 32% al Nord e il 29% al Sud”. La quantificazione viene fatta anche per numero di giornate: a gennaio la quota era inferiore all’1%, a maggio il 57% (all’80% nelle Pa centrali, al 44% negli enti locali). A settembre c’è una forte contrazione: il 32% totale, il 19% per gli enti locali. Maggiore la percentuale di lavoro agile per le donne rispetto agli uomini. A maggio la differenza è del 6 per cento. Sul lato tecnologico, non ci sono grosse criticità ma, si legge, sono poche le amministrazioni che dichiarano di avere l’interoperabilità dei sistemi informativi: solo il comparto Università e Ricerca supera il 50%. E la produttività? Per circa il 15% di chi ha risposto è aumentata, diminuita per l’11%. Sull’erogazione dei servizi all’utenza, circa il 20%dichiara che sia peggiorata. “Quest’ultimo – si legge – è un punto al quale dedicare attenzione nelle indagini successive”.

Il 96,3% dei dipendenti ritiene comunque che consenta di impiegare meglio il proprio tempo e l’85,4% di conciliare le esigenze di cura personali e familiari. Il 73%che aumenti la produttività del proprio lavoro. E i risparmi? Sulle utenze (49%), sulla carta (circa il 31%) e sui buoni pasto (11%).

La Missione Natale: salvarci dal parente negazionista a cena

Qui di seguito, l’interpretazione del nuovo Dpcm, con tutte le più preziose indicazioni per trascorrere le festività senza dubbi ed equivoci.

 

1. Messa di Natale

Sarà celebrata entro le 22, quindi, come annunciato dal ministro Boccia, Gesù Bambino nascerà prematuro e rimarrà in un’incubatrice per un paio di giorni, prima di essere trasferito nella stalla (che sarà munita di termoscanner).

I re Magi potranno entrare scaglionati e previo tampone. Il panettiere e il ciabattino potranno essere inseriti nel presepe perché lavori essenziali, il vasaio e la sartina andranno rimossi nel weekend. Il perdigiorno inseguito dalle oche è ufficialmente considerato l’equivalente del runner, quindi non va inserito nel presepe, pena sanzioni salatissime. Il tamburino e lo zampognaro potranno tenere concerti in streaming. Il consueto tizio che porta la pecora in spalla dovrà finalmente spiegare nell’autocertificazione perché cazzo porta una pecora in spalla.

 

2. Capodanno

Qui il coprifuoco va dalle 22 fino alle 7 del mattino, quindi tutta l’attività pirotecnica si sposta ufficialmente sulle terrazze. Ergo, nel giro di 9 mesi, si passerà dai canti dai balconi a offensive balistiche e lanci di missili a raggio intermedio, per cui è raccomandato a tutti i cittadini di organizzare una difesa contraerea condominiale e di adibire le cantine a bunker con viveri sufficienti per affrontare il resto dell’inverno. Nel caso vengano fatti dei prigionieri dal palazzo di fronte, si raccomanda il rispetto dei diritti umani.

 

3. Spostamenti

Saranno vietati tutti il 24, il 25, il 26 e il primo gennaio. La raccomandazione di non spostarsi il primo gennaio appare superflua, visto che il primo gennaio l’italiano medio versa in uno stadio tra il coma etilico e il disturbo allucinatorio almeno fino al giorno 2.

 

4. Sci

Sarà vietato sciare fino al 7 gennaio. Chi andrà a sciare in Austria, al ritorno dovrà sottoporsi a 10 giorni di quarantena, che poi sono esattamente il tempo necessario per digerire gulasch e canederli. Non sarà consentito sparare neve finta in città su dossi, collinette ecologiche, rampe di accesso alla tangenziale, scivoli per bambini, scale condominiali e grattacieli inclinati. Alle fasce di sciatori più sensibili è sconsigliato l’utilizzo dello zucchero a velo sul Pandoro, per evitare l’effetto nostalgia da nevicata in alta quota.

 

5. Seconde case

Dal 21 dicembre al 6 gennaio si potranno raggiungere le seconde case solo se ubicate nella regione di residenza. Silvio Berlusconi sarà dunque a Natale ad Arcore, il 27 a Milano, il 29 a Macherio, a Capodanno a Torino. Le altre date del suo tour lombardo sono disponibili su Ticket One.

 

6. Pranzo di Natale

In caso di inviti estesi a parenti in odore di negazionismo, bisogna considerare che con alta probabilità il parente complottista esordirà subito rivelando ai vostri figli piccoli che Babbo Natale non esiste, è un’invenzione della Coca Cola la quale vuole sostituire la figura paterna con quella di un estraneo che si cala dal camino della nostra abitazione per impossessarsi dei dati sensibili. Il puntale dell’albero verrà tacciato di essere un’antenna del 5G che attiva gli isotopi del mercurio presenti nelle prugne secche strategicamente posizionate a centrotavola. Tutto ciò è un subdolo piano della nonna finanziata da Soros per il controllo mentale di chi estrarrà i numeri della tombola. È ancor più vivamente sconsigliato invitare parenti negazionisti il giorno della Befana. Il suddetto parente infatti affermerà che il carbone presente nella calza è un chiaro endorsement alle multinazionali del carbone e che la Befana, guarda caso, pur vecchia, senza mascherina e in visita a 60 milioni di persone in meno di 12 ore, è sana come un pesce. Alla vostra timida contestazione: “È perché la Befana non esiste, ti pare plausibile che una vecchia viaggi su una scopa volante?”, il parente negazionista citerà lo studio di un omeopata australiano che ha raccolto dati grezzi sull’esistenza di tutti gli oggetti volanti avvistati nel 2020, dal tappeto di Aladino all’assorbente con le ali fino, appunto, alla scopa in saggina.

 

7. Regioni gialle

I liberi spostamenti tra regioni gialle sembrano confermati. Ciò vuol dire che “la teoria scientifica dei vasi comunicanti” promossa dal presidente della Liguria, Giovanni Toti, è stata ritenuta valida. Tuttavia, il premier Giuseppe Conte, dopo aver ceduto alle pressioni delle Regioni, per riappropriarsi della sua autorità, prenderà di tanto in tanto decisioni gratuitamente arbitrarie quali: a) metto la musica in filodiffusione su autostrade e provinciali del Paese e, quando la spengo, i cittadini devono fermarsi ovunque si trovino, pernottando sul posto, teoria nota come “del ballo della scopa”; b) puoi spostarti solo tra regioni il cui colore del giorno sarà quello della pochette del premier, detta anche teoria “Strega comanda colore”; c) puoi spostarti tra camera e salotto e tra salotto e cucina, ma senza mai entrare in bagno, detta anche “teoria dei vasi da notte”.

B. e Ghedini contro Brunetta: “Dimettiti da FI”

Il giorno dopo l’assemblea della fronda a Silvio Berlusconi sul Mes, in Forza Italia il clima resta tesissimo. Questa volta le telefonate del Cavaliere ai “ribelli” pro-Mes non sono state risolutive. E il clima è da notte dei lunghi coltelli. In tarda mattinata si diffonde la voce che il leader forzista abbia chiesto le dimissioni di Renato Brunetta da responsabile economico. A far traboccare il vaso sarebbero state le fughe in avanti verso il governo, compreso il suo intervento elogiativo di Luigi Di Maio sul Foglio. Brunetta smentisce e fa trapelare che siano voci messe in giro ad hoc dall’asse filoleghista Ronzulli-Ghedini-Bernini. Qualcuno dice pure che B. stia valutando di sostituire Mariastella Gelmini, ma altri sostengono che non la cambierebbe mai.

Accuse incrociate, stilettate, veleni, colpi bassi e musi lunghi. Questo il clima di un partito in macerie e diviso in tre parti: governisti, filoleghisti e un correntone (maggioritario) nel mezzo. E ognuno gioca anche la partita per sé. Intanto ieri Salvini e Meloni hanno messo a segno un altro colpo, portando il centrodestra fuori da Palazzo Chigi per un flash mob di protesta contro il decreto immigrazione. “Imprese chiuse e porti aperti. Conte dimettiti!”, recitavano i cartelli, con Salvini e Meloni a guidare la truppa. Nel frattempo Antonio Tajani sta lavorando a un documento che possa ricucire tra i forzisti, ma in vista del 9 dicembre può succedere di tutto, con l’assemblea dei senatori convocata poco prima del voto. Però, i ribelli alla fine potrebbero astenersi, per non spaccare il partito.

Renzi e l’avvocato delle cene di Palamara. Ma anche Masi (che spera nel Recovery)

Lo avevamo lasciato nel 2011, direttore generale della Rai. Qualche mese dopo, Berlusconi saliva per l’ultima volta da premier al Quirinale e Mauro Masi nel frattempo era già approdato alla guida di Consap, la società in house del ministero dell’Economia che si occupa di assicurazioni, e dove regna incontrastato da due lustri. E da cui sogna – lui che è stato a Palazzo Chigi con B. e con D’Alema e che ha fatto breccia perfino in alcuni 5Stelle grazie alla comune passione per la Lazio – di spiccare il volo nella partita delle partite, quella della task force che muoverà le gesta dei 209 miliardi del Recovery Fund. È così che quella che sembrava una partita tutto sommato piccola, tanto piccola non è. Parliamo delle nomine nelle partecipate in house, non le grandi società quotate, quelle per cui nemmeno la pandemia ha impedito il rinnovo dei vertici. Ma anche dove non ci sono di mezzo Borsa e dividendi, restano pur sempre i posti chiave per gli equilibri di potere nella maggioranza. Come la Consap di Masi. E così – in ossequio alla “pausa di riflessione” che ci si è presi sul rimpasto di governo – anche qui si è guadagnato tempo, e ancora si aspetta, per capire come conviene muoversi. Come il Fatto ha raccontato l’8 novembre, a guastare i piani dei vertici in scadenza è arrivato un parere pro veritate chiesto dal ministero dell’Economia, che ha segnato la fine del regime di prorogatio, scaduto nonostante i continui rinvii delle assemblee che avrebbero dovuto approvare i bilanci. Poi è arrivato l’emendamento della dem Valente, che ha allungato la finestra a gennaio e dato copertura giuridica agli atti firmati sin lì da chi, di fatto, aveva esercitato il ruolo al di fuori dei propri poteri. Così si sono salvate le gare bandite da Consip – che segue la partita degli approvvigionamenti Covid – dove è arrivata la riconferma per Cannarsa, di primigenitura renziana, ma gradito anche al Mef. Le quotazioni dell’ex premier, d’altronde, sono tutt’altro che in discesa. Renzi conferma anche Paolo Bernardini a Equitalia Giustizia. Manager secondo il quale, visto mentre pedala, Matteo “ricorda Indurain”. Ma non mancano gli ammiccamenti a destra: presidente di Equitalia Giustizia diventa Giuseppina Rubinetti, già nota per le cene organizzate con Palamara in vista della scelta del procuratore capo di Roma. Viene dallo studio dell’ex presidente del Csm Michele Vietti, area Udc di Lorenzo Cesa. Una mano tesa ai centristi, in attesa di capire se quella che Masi chiede a Gianni Letta di stringere, avrà successo.

Nominato Mancini, pure lui nelle chat di Luca Palamara

Le chat di Luca Palamara sono la croce di questo Csm. Il plenum si è spaccato e la nomina del procuratore del Tribunale per i minorenni L’Aquila è diventata un altro caso su cui membri togati e laici sono andati in ordine sparso. Il vicepresidente David Ermini, che non ha partecipato al voto, ha promesso una riunione con i presidenti delle Commissioni per trovare un criterio unico sulla valutazione delle chat. Conclusione: David Mancini, pm a L’Aquila, è passato con soli 10 voti: dei togati di Mi e Unicost, di Suriano, Area e dei laici Lanzi, FI e Donati, M5s. In ben 9 si sono astenuti, compresi i capi di Corte Curzio e Salvi. In 5 hanno votato contro: Cascini, Chinaglia e Dal Moro, Area; Ardita e Di Matteo. Prima era stato respinto a maggioranza il ritorno in Commissione proposto da Cascini. La chat, che non è stata letta in plenum, è del 18 aprile 2018. Mancini vuole diventare sostituto pg della Cassazione: “Confiderei in un appoggio” scrive a Palamara. “Farò il possibile”, promette, invano, l’ex pm.

I ritardi di Bagnoli: 900 milioni di euro e nessuna bonifica

Malgrado centinaia di milioni pubblici per la bonifica e la riqualificazione, l’ex area industriale di Bagnoli resta un’eterna incompiuta. È quanto scrive la Corte dei Conti sui finanziamenti destinati al territorio dell’ex acciaierie a Napoli. “Criticità e ritardi tra il 2015 e il 2018”, notano i giudici contabili, hanno consentito di realizzare finora “soltanto attività di studio e di caratterizzazione delle aree”. La bonifica vera e propria deve ancora iniziare, malgrado la pioggia di investimenti pubblici: “Un recente finanziamento assegnato ad Invitalia s.p.a. di 442,7 milioni di euro (di cui 87,5 effettivamente erogati), che si aggiungono ai 177 e ai 285 milioni erogati ai precedenti soggetti attuatori e che hanno consentito, finora, di realizzare soltanto attività propedeutiche alla progettazione degli interventi di bonifica e di risanamento”. Allo stato attuale il commissario ad hoc di Bagnoli è impegnato nella configurazione urbanistica e nella programmazione delle opere di bonifica. Nel 2016 l’ex premier Matteo Renzi aveva promesso la fine dei lavori entro il 2019.