5Stelle, a Bruxelles se ne vanno in quattro. Di Battista: “La vostra scelta è un errore”

È un addio che si aspettavano tutti. Ma fa ugualmente rumore, nel Movimento lacerato dal Mes, ancora privo di una segreteria e con un reggente, Vito Crimi, su cui piovono accuse e sfoghi. È in questo quadro che ieri mattina arriva la notizia dell’uscita dal M5S di quattro parlamentari europei, Ignazio Corrao, Piernicola Pedicini, Eleonora Evi e Rosa D’Amato, da tempo in rotta con il gruppo sulla linea politica. Distanza sancita da diversi voti in dissenso dagli altri dieci grillini a Bruxelles, tra cui quello della scorsa primavera proprio sul fondo salva-Stati. Di fatto il vero strappo, con i quattro che dissero no a una risoluzione parlamentare che prevedeva anche l’uso del Mes, mentre il resto della delegazione si astenne, visto che il testo contemplava come strumenti anche il Recovery Fund e il Sure.

La rivolta portò a un procedimento disciplinare nei confronti dei dissidenti: una ferita che ora potrebbe spingerli a traslocare nei Verdi. “Da tempo non partecipavano più neppure alle riunioni” sostengono dal gruppo grillino, da dove esortano i quattro a dimettersi anche dal Parlamento europeo “per coerenza”. Invito rilanciato dal vicepresidente dei senatori 5Stelle, Andrea Cioffi: “Se vieni eletto come portavoce dei cittadini che votano il M5S non puoi occupare quel posto sotto altre bandiere”. Ma gli ormai ex grillini attendono la decisione dei Verdi, che oggi inizieranno a valutare la loro domanda di adesione, come confermato dal co-presidente del gruppo a Bruxelles, il belga Philippe Lamberts. Però l’uscita ha ovvi riflessi anche in Italia. Anche perché Corrao, siciliano al secondo mandato, è vicinissimo ad Alessandro Di Battista. Per questo l’ex deputato lo scrive su Facebook: “Ignazio, sei un amico ma questa vostra scelta mi dispiace e come ti ho detto tante volte per me è un errore”. Parole scritte come commento a un lungo post di Corrao, in cui l’eurodeputato motiva l’addio: “L’aria dentro è irrespirabile da mesi e gli spazi di confronto del tutto azzerati”. Per poi assicurare: “Non credete alle fake news che i difensori del nuovo partito mettono in giro, non vi è in corso alcuna manovra per far cadere il governo e Di Battista non c’entra niente”. E le dimissioni dal Parlamento? “Mi chiedo se non si dovrebbe dimettere chi contravviene al nostro statuto svendendo il nostro programma elettorale”, sostiene Corrao.

Mail Box

 

Sì all’obbligo cinture se salverà i nostri giovani

Caro Travaglio, nel 2005, anno precedente all’entrata in vigore dell’obbligo delle cinture di sicurezza, i morti per incidenti stradali in Italia furono 5.400. Cinque anni dopo, furono 4.100. Considerato che la maggior parte dei morti per incidente sono giovani, cioè i nostri figli, che non ci ascoltano manco morti, ben venga questo obbligo se è servito e servirà a salvare qualcuno di loro.

Franco Riccardi

 

In questa diatriba, sono dalla parte del Direttore

Caro Travaglio, sulla diatriba cinture sì o no con alcuni lettori, sono d’accordo con lei al 100%. Anche perché con la scusa che se non ho le cinture e mi faccio male, poi il sistema sanitario deve spendere per curarmi, allora dovrebbero vietare di fumare, di bere superalcolici e bevande iperzuccherate, fare sport pericolosi e simili. Tutte cose che avrebbero lo stesso effetto di non mettere le cinture in caso di crash.

Enrico Costantini

 

Pressiamo sulla giustezza di farsi il vaccino

Ho letto sui giornali e ascoltato su vari media che circa il 40-50% degli italiani non si vaccineranno. Perché sul Fatto Quotidiano non fate una proposta provocatoria? Chi non si vaccina, nel caso dovesse infettarsi e ammalarsi di Covid-19, dovrà pagare tutte le spese sanitarie necessarie per essere curato.

Aurelio Scuppa

 

Dubito sulla correttezza di alcuni scontrini fiscali

Mi capita abbastanza spesso di ricevere scontrini con la dicitura “pagamento in contanti” anche se in effetti il pagamento è avvenuto con carta di credito o bancomat. Ritengo che, salvo errori in buona fede, questa pratica possa nascondere un enorme riciclaggio di danaro sporco, centellinato in mille e mille rivoli!

Guido Rapalo

 

Vedere condannati in tv non è di buon auspicio

Ma quale cambio di passo ci possiamo aspettare per l’Italia se tante trasmissioni danno spazio a opinionisti condannati? Quale esempio da seguire? Quale giustizia è stata perseguita? Per evitare di vedere certi programmi inizio a fare zapping, di conseguenza mi viene sonno, perciò vado a dormire e inizio a fare incubi catastrofici per il futuro dell’Italia.

Andrea Masina

 

Un’opinione su carceri, amnistia e indulto

A proposito della “querelle” tra Travaglio e Saviano, ha ragione il direttore quando afferma che la diffusione del virus è più probabile fuori dalle carceri. Ma al di là del Covid, l’odierna situazione della gran parte delle carceri italiane è quasi al collasso e non da ora. Se è vero che parte dei fondi del Recovery Fund saranno destinati alla costruzione di nuove carceri, nel frattempo bisogna trovare le soluzioni più immediate. Sono trascorsi ormai 30 anni dall’ultima amnistia e 14 dall’ultimo indulto, mentre dal 1978 al 1990 venivano promulgati ben 4 provvedimenti di amnistia e indulto. Molti forse storceranno il naso, ma entrambi i provvedimenti di clemenza sono di rango costituzionale e quelle modifiche introdotte nel ’92 oggi potrebbero mettere d’accordo tutti, maggioranza compresa.

Peppino Macchitella

 

Caro Peppino, Dio ce ne scampi! C’è già troppa impunità, in Italia.

M. Trav.

 

Ecco un giornale davvero aperto a voci discordanti

Mi compiaccio per la vera democraticità del nostro giornale che consente davvero l’espressione delle più varie opinioni, anche di quelle più dissonanti. Lo dimostra il contraddittorio Lerner-Travaglio: siamo d’accordo, la pena deve avere una funzione rieducativa, ma è pur sempre pena e va espiata, sia pure in condizioni dignitose.

Luigi Cirillo

 

I “virologi da talk show” ora devono rassicurarci

Tra non molto sarà disponibile un vaccino! Siamo stati mesi ad ascoltare i pareri contrastanti dei “virologi da talk show”, ora sarebbe il caso che gli stessi si facessero promotori della validità e della sicurezza dello stesso.

Nadia Giliberti

 

DIRITTO DI REPLICA

In rettifica all’articolo pubblicato in data 2 dicembre 2020 dal titolo “Sanità, inchieste sui crediti. Il business di 2 politici locali”, si segnala ai lettori che: le cartolarizzazioni dei crediti sono operazioni finanziarie lecite e previste dalla legge n. 130/1999 e, secondo le norme dell’Unione Europea, rispondono alla finalità economico–sociale di migliorare l’efficienza del sistema finanziario. Le SPV menzionate nell’articolo hanno sempre acquistato i crediti oggetto di cartolarizzazione con modalità trasparenti, nel rispetto dei criteri revisti dalla legge n. 130/1999, dandone comunicazione mediante pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. All’atto dell’acquisto, le SPV menzionate hanno sempre ricevuto i documenti che provano l’esistenza dei crediti (fatture, bolle di accompagnamento, contratti o atti da cui origina ciascun credito) e hanno chiesto e ottenuto dalle società cedenti i crediti ampie garanzie sulla esistenza ed esigibilità dei crediti oggetto di cessione e sulla legittimità e validità dei contratti da cui i crediti derivano.

Argo spv S.r.l.

Tocai spv S.r.l.

Astrea Quattro Spv S.r.l.

Sportivi senza un soldo. Da Holyfield a Tyson: sono solo prede di predatori

 

Caro Fatto, ho letto del pugile Holyfield, anche lui senza più un soldo, proprio come Tyson e molti altri atleti dopo la fine della carriera. Ma come possono tutti sperperare una tali quantità di beni?

Gianluca Giorelli

 

Caro Gianluca, non tutti i grandi campioni hanno l’accortezza finanziaria di Ronaldo, la rapacità finanziaria di Messi (e di suo padre che gli fa da oculatissimo manager), o la capacità di riciclarsi come Beckham, abile imprenditore nel sofisticato mondo della fashion, coadiuvato dall’ex Spice girl Victoria. Tyson ha confessato di aver bruciato 500 milioni di dollari, i soldi gli scappavano di mano, li dava a tutti in modo esagerato, folle, ed è inaccettabile ai nostri occhi, immorale, terribile. Il grande tennista tedesco Boris Becker detto “Bum Bum” sbancò a 17 anni Wimbledon, ma a 47 è finito in bancarotta (2017). A ottobre il Tribunale di Londra gli ha ingiunto di vendere all’asta i suoi trofei per saldare i debiti, e il fisco. Pure Arantxa Sanchez è precipitata dall’essere numero 1 del tennis femminile all’essere arrestata per evasione fiscale. I 45 milioni di euro guadagnati in carriera li hanno maldestramente amministrati i genitori e lei è rimasta senza un soldo in tasca. L’elenco è lungo, mi vengono in mente le tribolazioni di Primo Carnera, saccheggiato dai suoi impresari, e certi sventurati esempi calcistici. Come quello di Mané Garrincha, formidabile attaccante della Nazionale brasiliana, capace di colpire con una pallonata una bottiglia da 50 metri, morto povero in canna, dopo aver guadagnato somme astronomiche. Dissipate da una vita di eccessi. E di cattive frequentazioni. Maradona è stato dissanguato dagli spacciatori, e dalla sua vita spericolata in amore. Adriano dalle sue notti brave. Droga. Sesso. Investimenti fasulli. O passioni costose come il gioco d’azzardo, ben lo sapeva Antonio Maspes, il re del Vigorelli, sette titoli iridati, si faceva spennare come un pollo… Più uno sportivo accumula capitali, più qualche mascalzone, fingendo l’amicizia, s’ingegna a fregarli. È lo sport della vita.

Leonardo Coen

La buoncostume social di ‘Detto Fatto’

Non c’è dubbio, la pole dancer Emily Angelillo è il personaggio televisivo di questo frizzante inizio di stagione. Poi dicono che la tv non ha più niente da insegnare, e invece molti (compreso chi scrive) prima del suo passaggio a Detto fatto, nemmeno sapevano cosa fosse la pole dance, ovvero la danza con la pertica, eravamo rimasti al fachiro sul materasso di chiodi, o ai carboni ardenti di Mino Damato.

Sulla performance in sé – come fare la spesa al supermercato in modo sexy, minigonna, tacchi a spillo e scaffale dei detersivi – non c’è più nulla da aggiungere, essendo diventata più virale dei gol di Maradona, con conseguenti levate di scudi, lapidazioni, epurazioni, scaricabarili. Difficilmente vedremo alla Esselunga delle seguaci della Angelillo, però il tutorial un paio di lezioni le ha regalate lo stesso.

Prima lezione: la Buoncostume del social network si conferma completamente priva di senso dell’ironia, non c’è gioco o battuta che non venga preso sul serio; a volte, come in questo caso, si tratta di battute idiote, ma la cosa è inessenziale perché i talebani dei social non capiscono che si tratta di giochi, sono capaci di inferocirsi per la spesa sexy e un attimo dopo postare su instagram una loro foto sexy. E se sui social è assente l’ironia – seconda lezione –, troppo spesso l’immagine della donna in tv si ispira al Calendario del camionista, dove rinvenire l’ironia non è semplicissimo. Qualcuno ricorderà la campagna progresso “Perché sposare una donna dell’Est” lanciata sempre in Rai, ma qui siamo oltre. Cosa sia accaduto nel trust di cervelli di Detto fatto, come abbiano potuto concepire un siparietto sulla perfetta spesa sexy al supermercato, è un enigma che tende al metafisico. Più misterioso ancora è capire quale potesse essere il fine ultimo della genialata: turbare Giovanni Rana, proclamare Mastro Lindo l’erede di Rocco Siffredi, o addirittura scongelare Capitan Findus?

Bugiardi senza gloria: i padroni delle news

Vi siete mai domandati perché, da quando il mondo è in guerra contro il Covid-19, siamo l’unico Paese dove i mass media combattono il governo anziché il virus?

Perché, mentre all’estero si complimentano con Conte, i nostri giornali e tv passano il tempo a lapidarlo? Perché Salvini viene gonfiato come un tacchino sia da chi lo esalta sia da chi lo critica? Perché, negli ultimi trent’anni, tutti i politici e i magistrati perbene che si opponevano al Partito degli Affari sono stati linciati e distrutti con una foga, una voluttà e un accanimento mai visti contro i ladri e i mafiosi? Perché in Italia i cazzari, i palloni gonfiati e i venditori di fumo piacciono tanto e durano così a lungo? Perché qui l’unico cambiamento accettabile è quello dei gattopardi che fingono di cambiare tutto per lasciare tutto com’è? Perché “Spelacchio”, l’albero di Natale sfigato nella Roma targata Raggi, ha attirato più titoli sui giornali e sui telegiornali della trattativa fra lo Stato e la mafia? Perché la maggioranza degli italiani s’è fatta l’idea che Andreotti, salvato dalla prescrizione per associazione per delinquere con la mafia, reato “commesso fino alla primavera del 1980”, sia stato assolto e dunque perseguitato? Perché Berlusconi, dopo una condanna definitiva per frode fiscale, nove prescrizioni, altrettanti processi mandati in fumo da leggi fatte da lui, un’indagine in corso per le stragi del 1993-94 e tutti i suoi fedelissimi in galera per corruzione o per mafia, passa ancora per uno statista con cui dialogare? Perché l’Eni, con tutte le sue tangenti pagate in giro per il mondo, e i Benetton, con tutti i disastri che hanno combinato dal ponte Morandi alle autostrade, sono tabù per l’“informazione”? Perché i 5 Stelle, che non hanno mai rubato un euro allo Stato, anzi hanno restituito o rinunciato a centinaia di milioni, sono il nemico pubblico numero uno? Perché in Italia le bugie hanno gambe lunghissime, mentre la verità è monca?

Tante domande diverse, una sola risposta per tutte. Esistono due storie d’Italia. La storia vera, che tutti afferriamo per un attimo in presa diretta e poi subito dimentichiamo. E la storia falsa, riveduta e corrotta a suon di balle dai giornali e dalle tv dei padroni, che prima la taroccano e poi ce la fanno ricordare come vogliono loro. Ecco perché in Italia il problema numero uno non è né la politica, né l’economia, né la giustizia: è l’informazione, che le condiziona tutte e ne impedisce il miglioramento, anzi ne agevola il degrado (…). Per questo i giornali “di carta” continuano a uscire in edicola, anche se hanno quasi tutti i bilanci in rosso. Convengono ai rispettivi padroni. Non per i ricavi, spesso magri o inesistenti, anche con i finanziamenti pubblici e/o gli introiti pubblicitari. Ma perché condizionano la percezione della realtà, dunque l’opinione pubblica, quindi la politica, l’economia, la magistratura. I padroni dei giornali e delle tv non hanno nulla a che fare con gli editori, anche se si fanno chiamare così: usano i loro media come bastoni e carote. Bastoni per malmenare chi ostacola i loro interessi (in tutt’altri campi: quelli dei loro veri business). Carote per nutrire chi li asseconda e si mette al loro servizio.

Provate a immaginare come saremmo tutti migliori, più liberi di sapere, di ricordare e di votare, se qualcuno finalmente depurasse la fonte delle informazioni dai conflitti d’interessi di chi apre e chiude il rubinetto. Se la Rai non fosse dei partiti, ma dei cittadini che pagano il canone. Se Mediaset non fosse di Berlusconi, ma di un editore puro, magari straniero. E se i principali quotidiani e settimanali non fossero della Fiat-Fca, di Berlusconi, di Caltagirone, di De Benedetti, di Angelucci, di Romeo, della Confindustria, delle banche, delle assicurazioni, insomma del Partito degli Affari. Che, proprio perché possiede tv e giornali, continua a piazzare i suoi maggiordomi in Parlamento e al governo per conservare il potere e affossare ogni tentativo di cambiamento. O per cooptare e comprarsi chiunque intenda cambiare qualcosa. Che aspettiamo a ribellarci? Da una decina d’anni la rivolta dei popoli contro gli establishment e le élite cova sotto la cenere un po’ in tutto il mondo, e ogni tanto tracima nelle urne con manifestazioni a volte sacrosante, altre non proprio edificanti, ma comunque indicative di un’esasperazione non più controllabile. Il referendum contro la Troika europea in Grecia, quello per la Brexit nel Regno Unito, l’elezione di Trump negli Stati Uniti, la bocciatura della schiforma costituzionale di Renzi, l’incredibile boom dei 5 Stelle in Italia. Da quando gli elettori si son messi a votare contro i partiti e l’informazione mainstream, le élite reagiscono in modo isterico, puerile e anche un po’ comico. Strillano al “sovranismo” e al “populismo” per demonizzare ed esorcizzare con paroloni insensati ciò che non riescono a comprendere. Anziché guardarsi dentro per capire cosa non va in se stessi, di farsi un esame di coscienza, di riconoscere i propri errori e di chiedere scusa, cercano i colpevoli all’esterno: i social network che subornerebbero gli elettori ignoranti a colpi di fake news e “post verità”. E, non potendo abolire il popolo, tentano in ogni modo di censurare i social, che guardacaso sono gli unici media che non controllano (diversamente da quelli tradizionali: tv e giornali). Ora, le fake news sono vecchie come il mondo. Da Adamo ed Eva. Da Caino e Abele. Si chiamano bugie, menzogne, balle. Politici e giornalisti le hanno sempre raccontate. Basti pensare a quelle che hanno garantito 25 anni di fortune a Berlusconi, due a Monti, nove a Napolitano, sette a Renzi e già quattro a Salvini. Ma ora il Dizionario Mainstream le chiama fake news, per fingere che siano una novità. E nascondere la gelosia delle élite perché il web le ha private dell’esclusiva sulle menzogne, finalmente democratiche e accessibili a tutti. Ora tutti, non più soltanto i padroni, possono fabbricare e diffondere bugie (molto meno pericolose di quelle certificate dal bollino di garanzia di testate storiche, famose, dunque autorevoli per definizione; senza contare che la Rete, essendo libera, contiene tutto e il suo contrario e ogni fake news viene neutralizzata da un’altra di segno opposto, totalizzando quasi sempre il saldo zero). La democratizzazione della bugia fa imbestialire gli establishment che, per quanto ultraliberisti devoti del Dio Mercato, detestano la concorrenza e pretendono il monopolio. Anche delle balle (…).

L’unica rottura del circolo vizioso è una ribellione dei lettori. O dei giornalisti. O di entrambi (…). Il 5 novembre, la sera dopo le Presidenziali Usa, Trump è in svantaggio su Biden e convoca la stampa per un monologo senza domande, in cui grida ai brogli e nega la sconfitta. Sei fra i principali network televisivi – Cnn, Nbc, Cbs, Abc, Cnbc, Msnbc – lo interrompono, o lo sfumano, o lo tagliano, o lo oscurano per precisare subito, in diretta, che sta mentendo. Se l’avessero fatto prima della sua sicura sconfitta, sarebbero stati più credibili. Ma quella rivolta dei giornalisti fa comunque il giro del mondo. Anche in Italia, dove molte grandi firme si spellano le mani per applaudire i colleghi americani, non avendo mai osato fare altrettanto una sola volta nella loro vita. Del resto, se il “Var” prendesse piede anche da noi, molti politici non potrebbero più finire una frase (…).

 

Oggi la vera lotta di classe è (pure) tra ricchi e più ricchi

Domina la convinzione che il successo del populismo respiri in sintonia con i rancori dei nuovi poveri, i ceti deboli tartassati dalla globalizzazione, le vittime della nuova manodopera a basso costo disponibile ai bordi di tutti i nostri confini o direttamente dentro i nostri Paesi spaesati, e insomma con gli esclusi dalla pacchia del consumismo di roba, roba, roba, per lo più robaccia, che è la meta dei loro desideri, aspirazioni, vite. Il risarcimento così tanto conturbante che li spinge a credere l’inverosimile e cioè che saranno proprio i miliardari come i Berlusconi o i Trump – più altre decine di tycoon epigoni – a occuparsi di loro e dei loro debiti. E che saranno i più carognoni, come i Salvini, gli Orbán, i Bolsonaro – e altre decine di autoritari epigoni – a vendicarli della penuria che li opprime.

Ma le cose stanno così solo a metà. E lo spiega in modo convincente Peter Turchin, visionario professore russo americano di questioni sociali, nella sua ultima ricerca The Real Class War Is Within The Rich, la vera lotta di classe è tra i ricchi. Titolo al quale avremmo volentieri aggiunto un “anche” per completezza di consuntivo. Dove racconta che le tensioni dentro le nostre turbolente democrazie che hanno prodotto il populismo in Europa, America, Russia, Brasile, eccetera, non sono cresciute soltanto a causa dell’impoverimento delle classi lavoratrici, ma anche per la “sovrapproduzione delle élite” cioè dei ceti alti e medio-alti della nostra scala sociale ai quali non è stata offerta – nell’euforia del liberismo trionfante – una quantità adeguata di lavori glamour e di opportunità coerenti con le loro aspettative. Non abbastanza da ripagare il tempo, i soldi, i desideri e la fatica impiegati nei molti anni della loro formazione professionale. Non solo la scuola, l’università, ma anche la specializzazione, magari all’estero, gli infiniti corsi aggiuntivi, gli infiniti aggiornamenti professionali per non diventare inservibili ai nuovi processi, alle nuove tecnologie, e cancellati dalla velocità delle macchine.

Così che questo sovrappiù di competenza, di fatica, di sforzi professionali, di attese – stiamo parlando di professori, avvocati, ingegneri, medici, dirigenti, d’azienda, creativi, addetti culturali, artisti, giornalisti – ha gonfiato le aspettative e moltiplicato le delusioni anche di quella classe abbiente svincolata dal bisogno, ma non dal desiderio di status, successo, soldi. Che diventa frustrazione davanti allo spettacolo quotidiano dei privilegi “esclusivi” dei vincenti da rotocalco. Per poi trasformarsi in rancore sociale. E il rancore in protesta elettorale nutrita da un diffuso senso di esclusione dalle élite maggiori che navigano dentro il potere, lo spettacolo, i media. La Brexit, in Inghilterra, ha vinto nelle contee agricole benestanti, ancorché periferiche. A Liverpool, la città operaia più povera, ha vinto il Remain. Trump ha guadagnato consensi dividendo l’America non tra i ricchi e i poveri, ma tra “noi e loro”, la gente comune “autenticamente americana”, e l’establishment di Washington che progetta “la sostituzione etnica” per perfezionare il dominio.

È la ribellione dei ricchi non abbastanza ricchi. E stavolta non si tratta dell’antico “sovversivismo delle classi dirigenti” analizzato da Gramsci cento anni fa. Quella era una reazione all’egualitarismo che marciava insieme con le rivendicazioni sindacali, esistenziali, politiche del nuovo soggetto operaio della grande fabbrica. Oggi il rancore delle nuove classi dirigenti non si occupa di chi sta sotto di loro, ma di chi sta sopra. Avere di più, essere di più è l’aspirazione che preme, il modello di vita ripetuto nel milione di specchi sociali, fino allo stordimento. Il modello culturale che si fa largo (a spallate) tra tutti gli altri.

De Luca, da “guru” a politico in crisi davanti alla realtà

Il caso di Vincenzo De Luca andrebbe studiato nelle scuole di comunicazione politica. Non accade spesso che i toni utilizzati per parlare ai cittadini e ottenere un largo consenso si trasformino nel giro di poche settimane in un boomerang verosimilmente destinato a segnare per sempre e in negativo la carriera di un uomo politico. Nella prima fase della pandemia, quando grazie al lockdown nazionale la Campania era stata di fatto risparmiata dai contagi, De Luca giganteggiava. Le dirette facebook e su Lira tv, in cui il presidente della Regione se la prendeva con i proprietari di cani “dalla prostata infiammata” sempre a spasso con i loro beniamini e minacciava l’utilizzo del lanciafiamme contro chi trasgrediva le regole, avevano reso popolarissimo l’esponente del Pd. Di lui parlava persino la stampa internazionale e i campani, che in settembre lo hanno riconfermato al suo posto con una votazione quasi bulgara, lo consideravano una sorta di salvatore della patria. Poi il Coronavirus in Campania ci è arrivato per davvero. E da quel momento in poi, De Luca ha iniziato a sbagliare tutto. Dopo essere stato per anni commissario alla Sanità, il presidente della Regione conosceva bene la reale situazione degli ospedali e della medicina di base. E se pubblicamente in luglio continuava a ripetere che la “sanità Campania è un’eccellenza internazionale” (affermazione in tutta evidenza falsa, ma utile per vincere le elezioni) già in ottobre aveva cominciato a rendersi conto che il bluff non avrebbe retto alla prova dei fatti. Di qui il celebre annuncio, corredato persino da una radiografia dei polmoni di un paziente colpito da polmonite bilaterale, sul lockdown regionale: “Siamo a un passo dalla tragedia. Dobbiamo chiudere tutto. Si deve decidere oggi e non domani”.

Il tono, durante quella diretta del 23 ottobre, era quello di sempre. Decisionista, ultimativo, sicuro. Eppure, con sorpresa di De Luca, i cittadini non reagiscono con gli applausi, ma con le proteste. A Napoli si scende in piazza in massa, scoppiano disordini, la situazione sembra a un passo dallo sfuggire di mano. Cosa era successo? De Luca non aveva capito che provvedimenti destinati a limitare la libertà personale ed economica delle persone possono essere introdotti solo gradualmente. Perché per accettarli la popolazione deve rendersi conto di quanto sia grave la situazione. Ma questa consapevolezza non può mai maturare in un giorno. Per questo in tutta Europa i lockdown sono sempre partiti in ritardo rispetto alle richieste degli scienziati. Perché i vari leader sanno che se i cittadini non sono pronti l’unico risultato è la rivolta. Angela Merkel, secondo i retroscena riportati da alcuni giornali, qualche settimana fa, durante una riunione riservata, ha detto: “La gente per seguirci deve avere paura”. Una frase brutale, ma vera. In Campania, invece, ad aver avuto paura è stato De Luca. Che dopo aver annunciato il lockdown (scelta in quel momento sensata dal punto di vista epidemiologico) ha fatto marcia indietro. E dopo poco tempo è arrivato a contestare persino quello imposto dal governo. Risultato: da decisionista è apparso come un re travicello o se preferite, come un guappo di cartone. Peggiorando ulteriormente la sua situazione quando se l’è presa con una piccola minoranza di medici “farabutti” che, secondo lui, negli ospedali sostenevano di avere le terapie intensive piene pur in presenza di posti liberi. Ma un capo, se vuole essere seguito, non può scaricare sui sottoposti le inefficienze. Pena l’assoluta sfiducia. Quella a cui sta ora andando incontro De Luca.

 

In Italia non c’è mai stata una destra “moderna”

Le recenti acrobazie parlamentari del centrodestra (sì allo scostamento di bilancio, no al Mes) hanno rilanciato un interrogativo che si è prolungato per tutta la nostra storia repubblicana: è mai esistito nel nostro sistema politico un partito di destra conservatore ma non eversivo, legalitario ma non liberticida, con il senso dello Stato e delle istituzioni ma non statolatrico, laicamente contrario a uno Stato con una propria fede religiosa ufficiale contrapposta ad altre fedi? Un partito così non c’è mai stato. Non lo è stato la berlusconiana Forza Italia, stritolata nella morsa tra il carisma televisivo del proprio leader e i suoi interessi aziendali; così come non si possono ritenere tali sia la destra sovranista di Salvini, sia quella di Giorgia Meloni, gravata da una pesante eredità neofascista. Questa assenza sottolinea un’anomalia che ci caratterizza rispetto alle altre grandi democrazie occidentali, rendendo impossibile ogni ipotesi di “grossa coalizione” subito gravata dal sospetto dell’“inciucio” e del trasformismo.

C’è quindi una “questione liberale” che, sulla destra dello schieramento parlamentare, ha lo stesso rilievo assunto a sinistra dalla “questione comunista” e che chiama in causa innanzitutto l’assenza di un’importante borghesia produttiva urbana, che in almeno il 40% del Paese è inesistente. Oltre a questa questione strutturale, ce n’è un’altra più squisitamente politica, emersa già all’alba della nostra storia repubblicana. Tutte le grandi famiglie della tradizione politica italiana, cattolica, socialista e liberale, erano crollate nel 1922 sotto l’urto del fascismo; pure le prime due ritornarono a essere protagoniste alla fine del fascismo, fino a rappresentare – con la Dc, il Pci, il Psi – l’asse politico su cui si strutturò la storia dell’Italia repubblicana. Non fu così per i liberali. Rinchiusi nel ghetto di un’accanita difesa della memoria dell’Italia prefascista, religiosamente fedeli ai valori ereditati dal Risorgimento, si resero impermeabili alla drammaticità delle fratture apertesi negli anni della ricostruzione (1945-1948), consegnandosi inermi alla sconfitta proprio di fronte a quelle forze che al Risorgimento erano risultate estranee (socialisti e comunisti) o addirittura nemiche (i cattolici). “Ombre del tempo di Giolitti” fu la definizione sarcastica che allora ne diede Carlo Levi.

L’unica, effimera alternativa, alla continuità con il passato fu il flirt elettorale con le masse degli elettori dell’Uomo Qualunque. Affascinati dall’antipolitica di Guglielmo Giannini i liberali si limitarono così a incarnare gli aspetti più inquietanti di un certo sovversivismo delle classi dirigenti italiane. Il qualunquismo del biennio 1945-1947 fu infatti la forma politica assunta da una tradizione e da un costume che veniva da lontano e che nel rifiuto dei partiti e della loro politica trovava un suo assetto, per così dire, congiunturale. I partiti allora erano i sei che avevano dato vita alla coalizione del Comitato di Liberazione Nazionale. Essere contro i partiti voleva dire sostanzialmente schierarsi contro quello che era il lascito più significativo della Resistenza. Fu su queste basi che l’Uomo Qualunque trovò nel Partito liberale un compiacente alleato. Il liberismo dei qualunquisti, la loro fiducia nell’economia di mercato, lo stesso auspicio di uno Stato amministrativo, gestito da un ragioniere in grado di far quadrare i conti, ai notabili liberali – Orlando, Bonomi, Nitti – sembrarono una ghiotta opportunità per presentarsi sulla scena del dopoguerra smettendo i panni dimessi dei révenant e legandosi a una forza popolare, diffusa nel paese e sedotta dalle qualità istrioniche di Guglielmo Giannini. Così, nel connubio tra i sopravvissuti del passato e gli scalmanati qualunquisti del presente si inabissò il progetto di una destra rispettabile e riconoscibile nei suoi valori di fondo; si spalancò un vuoto che successivamente sarebbe stato riempito da un partito confessionale e di massa come la Dc, con qualche appendice anche negli ambienti neofascisti che avrebbero dato vita al Msi.

Contro ogni deriva maggioritaria e populista, Francesco Ruffini aveva a suo tempo posto un limite invalicabile per ogni sistema democratico e liberale: “Il potere della maggioranza deve essere sempre compatibile con il diritto delle minoranze”. Lo stesso Ruffini aveva propugnato il diritto all’aconfessionalismo, alla miscredenza, all’incredulità e, nel 1929, si era strenuamente opposto al Concordato in difesa non solo della libertà religiosa, ma di tutti i diritti di libertà. Ruffini era morto. Ai suoi funerali, il 21 marzo 1931, a Borgofranco di Ivrea, avevano partecipato Croce, Albertini, Soleri, Einaudi, Salvatorelli, Solari, Jemolo. Non lo sapevano, ma avevano definitivamente sepolto la tradizione liberale italiana.

 

Il volo e il curioso caso della nuvola d’acciaio: si cercano dei testimoni

E ora, per la serie “Come russare da entrambe le estremità”, la posta della settimana.

Caro Daniele, sono un comandante pilota e ho al mio attivo più di 10.000 ore di volo. L’altro giorno mi è successa una cosa così strana che devo dirla a qualcuno. Stavo volando sull’Atlantico diretto a New York. A un certo punto attraversiamo un banco di nuvole. D’improvviso sento questo frastuono metallico. CLANG! L’aereo era andato a sbattere con un motore contro una nuvola. Hai capito bene: quel cazzo di nuvola era SOLIDA! Abbiamo perso km di altitudine in pochi secondi, ma per fortuna io e il mio secondo siamo riusciti a correggere la rotta e ad atterrare sani e salvi. Qualcuno deve aver pensato fosse uno scherzo divertente, mettere nel cielo una nuvola D’ACCIAIO e camuffarla come fosse una vera nuvola. Forse qualche ragazzino che voleva divertirsi. Io non mi sono divertito per niente. Adesso ci sono beghe con l’assicurazione e ho bisogno di testimoni. Qualcuno dei tuoi lettori era su quel volo, per caso? (Eriprando Sanna, Roma)

Conoscendoli tutti, non mi stupirebbe che qualcuno di loro abbia messo la nuvola: magari se ne vanterà su Facebook e lo beccheranno. Nel frattempo, il caso della nuvola d’acciaio ha avuto vasta eco sulla stampa mondiale, perché anche Mike Pompeo, il Segretario di Stato Usa, ha detto di aver notato, durante il volo di ritorno dall’ultimo tour mediorientale (Israele, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Arabia Saudita, per intralciare la ripresa del dialogo con l’Iran annunciata da Biden; e visita agli insediamenti ebraici, per confermare che l’Amministrazione Trump è così stronza da riconoscere la sovranità israeliana sulle Alture del Golan), ha notato qualcosa di molto strano, e decisamente in contrasto con le nuvole rossastre circostanti: una nuvola di un colore argentato scintillante, grande circa 3 metri e piantata nella troposfera. Pompeo ha detto di credere che si tratti dell’installazione artistica di qualche squilibrato strafatto di peyote. Il Dipartimento dell’aviazione non ha specificato la zona in cui è stata vista la nuvola d’acciaio per evitare che la gente si mettesse a cercarla con deltaplani, Cessna e mongolfiere; ha detto che non è chiaro chi l’abbia messa lì; e ha aggiunto che è illegale posizionare strutture o installazioni artistiche nei cieli statunitensi, “a prescindere dal pianeta da cui si proviene”, una excusatio non petita

che ha fatto sborrare di gioia gli ufologi di tutto il mondo. La storia è circolata sui social, dove sono state fatte diverse ipotesi sull’origine della nuvola; e un utente di Reddit

, attraverso le analisi di alcune immagini satellitari, in circa mezz’ora è riuscito a localizzarla, e a capire che si trovava lì da qualche anno. La rivista specializzata Flash Art

ha notato la somiglianza tra la nuvola d’acciaio e la foto di una nuvola scattata da Carlo Verdone, un regista italiano. L’ipotesi più probabile, condivisa dalle autorità, è diventata quella di una lucherinata per lanciare il nuovo film di Verdone, ma Lucherini ha negato, il che ha rafforzato l’ipotesi. Il portavoce del Dipartimento, Jimmy Hendricks, ha spiegato al New York Times

che adesso si dovrà decidere se portare avanti le indagini sull’origine della nuvola o se sarà il caso di spostarla.

Ultim’ora. La nuvola d’acciaio è sparita. Lo ha annunciato il Dipartimento dell’aviazione, specificando che non sono stati loro. Trump ha accusato l’Iran, e ha fissato l’attacco a sorpresa contro il sito nucleare di Natanz per il 6 gennaio.

 

Aereo di Lotito, i proprietari del Boeing sono finiti nei radar di tre Procure

Il vecchio Boeing 737 della Lazio vola sugli schermi radar di tre Procure. I pubblici ministeri di Roma, Catania e Brescia hanno messo sotto la lente gli affari della famiglia Di Grandi di Modica (Ragusa) attiva tra siderurgia, immobiliare, resort turistici e commercio di materiali ferrosi, oltre che nei trasporti aerei con la compagnia bulgara Tayaranjet che trasporta la squadra di Claudio Lotito.

I pm della Capitale indagano sui rapporti tra il capostipite e patron del gruppo, il 62enne Vincenzo Di Grandi, e Antonio Morabito, ex ambasciatore nel Principato di Monaco, sotto inchiesta per corruzione. Morabito era già stato intercettato nelle indagini sulla latitanza dell’ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, condannato a 3 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, costate due anni in primo grado all’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola (sentenza contro la quale ha presentato ricorso).

I pm di Catania indagano invece sulla decozione di molte delle 200 società collegate alla famiglia siciliana anche attraverso Mosteel, impresa intestata a Monte Paschi Fiduciaria e attiva nelle aste fallimentari su aziende dell’acciaio. Nelle scorse settimane perquisizioni locali e informatiche, disposte dai pm di Catania, hanno portato al sequestro di un’enorme mole di documenti. La Procura etnea ha poi già recapitato la richiesta di rinvio a giudizio per traffico illecito di rifiuti al 32enne Paolo Di Grandi, amministratore di Hadid Mediterraean Steel, al vertice di una rete di partecipazioni e attiva nel commercio di materiali ferrosi anche nei porti di Pozzallo, Ragusa, Gioia Tauro e Oristano. Paolo Di Grandi è anche Ad della Tayaranjet (società non coinvolta in nessuna indagine), alla quale fa capo l’aereo della Lazio.

In Sicilia i Di Grandi sono noti per il collasso di un’altra compagnia, la maltese Fly Hermes, alla quale le autorità di Malta sospesero la licenza di volo e che tra il 2014 e il 2015 mollò a piedi centinaia di passeggeri. A Brescia invece s’indaga su un’altra società siderurgica collega al gruppo, la Bredina.

Oltre a Tayaranjet, controllata tramite una rete di scatole cinesi, in Bulgaria i Di Grandi vantano anche una joint venture per produrre auto elettriche tra la Hadid e la sino-coreana Songuo Motors. Ma Vincenzo Di Grandi puntava sull’Africa, come emerge dagli atti dell’indagine della Procura di Roma. Grazie alle entrature di Morabito, l’imprenditore avrebbe incontrato diversi diplomatici per espandere il raggio d’azione della Hadid. “Il presidente”, com’è chiamato nelle intercettazioni della Guardia di Finanza capitolina, era interessato “a grosse operazioni” e per realizzarle cercava “un aggancio a Roma”. Per favorirle, secondo la Procura della Capitale, sarebbe intervenuto Morabito che avrebbe asservito “stabilmente la sua funzione agli interessi personali del Di Grandi e di Nicolò Corso”, ritenuto suo stretto collaboratore. Corso, commercialista natìo di Trapani e attivo in Veneto, in passato è stato processato e assolto per bancarotta. Di Grandi, Corso e Morabito sono indagati per corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio. Dall’inchiesta risultano diversi incontri favoriti dall’ambasciatore tra i due imprenditori e diplomatici di Senegal, Tunisia, Spagna, Costa D’Avorio e Marocco. Si parla di un viaggio in Senegal per “prendere contratti con autorità e imprenditori senegalesi per avviare un finanziamento europeo per la Hadid secondo gli accordi di Cotonou”. In cambio, Morabito avrebbe incassato 12mila euro partiti dalla Hadid e mille dalla Studio Fc Associati di Corso come “rimborsi spese”, “prestito” e “finanziamento”. Corso ha poi acquistato 650 copie del libro “Valigia diplomatica” scritto da Morabito e organizzato una presentazione del volume a Modica nel novembre 2017 alla presenza di diplomatici di Spagna, Senegal e Marocco.