“Non ha scrupoli per la vita”. Su Castellucci ora 4 indagini

Un “quadro in cui emerge la persistente e totale mancanza di scrupoli per la vita e l’integrità degli utenti delle autostrade”, in cui le costanti “omissioni” in tema di “manutenzione” sono spiegate da una “poliedrica e persistente politica di profitto aziendale”. Era questo, il “sistema Castellucci”.

Lo sostiene il tribunale del Riesame di Genova, che ieri ha revocato al manager i domiciliari, decisi nell’ambito dell’inchiesta sulle barriere antirumore fallate: nei suoi confronti sono stati riconosciuti i gravi indizi, ma non l’attualità dell’inquinamento probatorio. In altre parole, secondo i magistrati, non ci sono abbastanza prove che l’ex Ad di Autostrade per l’Italia e di Atlantia abbia continuato a influenzare le scelte delle società anche dopo aver lasciato le cariche. L’episodio clou, secondo l’accusa, sarebbe stato il pagamento di bonus a un sottoposto, Paolo Berti, che in cambio non lo avrebbe coinvolto nel processo per la strage di Avellino (43 morti). Dalle carte emerge per la prima volta anche come Castellucci sia indagato in tutti i procedimenti nati dal crollo del viadotto di Genova (altre 43 vittime): non solo per il disastro, ma anche per le falsificazioni dei report sui viadotti, ammorbiditi per abbassare i costi sulla manutenzione, e per il filone gemello che riguarda le valutazioni sulle gallerie, avviato dopo il cedimento della galleria Bertè, sulla A26, alla fine del 2019. Le indagini, condotte dal primo gruppo e dal nucleo metropolitano della Finanza di Genova, nascono dai cedimenti di alcune barriere fonoassorbenti. I vertici della società sapevano che erano difettose, ma piuttosto che ripararle nascosero il problema, rischiando l’incolumità degli utenti.

“Ovviamente neppure può dirsi che le condotte illecite siano state tenute da Castellucci solo nell’interesse di terzi, in quanto i soddisfatti azionisti di maggioranza avevano modo di compensarlo adeguatamente. Riceveva rilevantissimi compensi economici già nel 2010: oltre € 1 milione e 250mila euro annuali lordi per il lavoro svolto per Aspi e 750mila per Atlantia”. Dopo la strage del ponte di Genova, scrivono i magistrati, l’ex ad di Aspi non smette di mettere in atto “manovre avvolgenti”, come il tentativo di strappare “accordi di scambio”. Va letto in questo modo, per i giudici, il contatto con il governatore ligure Giovanni Toti, con cui Castellucci parla “addirittura di un salvataggio di Banca Carige con capitali di Atlantia”, in cambio di una “vestita aspettativa di mancata revoca della concessione”. Nel marzo 2020 spunta anche un tentativo di Castellucci di contattare “il presidente di Cassa Depositi e Prestiti, interessata a subentrare nel capitale di Aspi” e un abboccamento coi vertici di Airfrance. Ai francesi, Castellucci, che tenta di riciclarsi come presidente di Alitalia, si presenta come l’uomo che portò la partnership di Etihad. I legali di Castellucci hanno espresso soddisfazione per la decisione: “Dimostrerà la sua estraneità”.

Il contabile Scillieri a verbale: “Chi ha incarichi paga la Lega”

Dai milioni della Lega custoditi in Lussemburgo al nuovo presunto sistema occulto di finanziamento al partito. Il commercialista Michele Scillieri dopo dieci ore di verbale apre finalmente il suo “cassetto della memoria”. E spiega come il dettaglio del denaro leghista volato verso il Granducato gli sia arrivato da una confidenza gestuale di Alberto Di Rubba, altro commercialista che assieme al collega Andrea Manzoni (e allo stesso Scillieri) è indagato nell’inchiesta milanese sul caso della fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc), coordinata dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi.

Davanti a Scillieri i pm prima di tutto mettono due strane fatture. Il professionista fa sì con il capo e inizia a spiegare: incarichi politici, nomine nelle società partecipate, consulenze. Chi le ottiene deve poi ripagare la Lega con percentuali fino al 15%. Denaro retrocesso anche con fatture ad hoc mediate dai due commercialisti fedelissimi di Matteo Salvini.

Sul fronte dei conti esteri, invece, la “confidenza” che potrebbe cambiare il verso di questa storia avviene durante un abboccamento romano. Michele Scillieri racconta di aver raggiunto Di Rubba, che in quel momento gravita intorno al Parlamento, dove opera come revisore dei conti per la Lega. I due stanno commentando i giornali su cui è appena deflagrata la notizia sui soldi in Lussemburgo; qui i pm di Genova stanno cercando il collegamento tra i 10 milioni partiti da Banca Sparkasse di Bolzano e i conti della Lega. Dice Scillieri: “Di Rubba mi disse che 3 milioni erano rientrati”. Gli altri 7, aggiunge, sarebbero finiti nelle sette società sorelle, che avevano sede nello studio dei commercialisti. E per descrivere l’operazione, sostiene Scillieri, Di Rubba avrebbe fatto “un gesto con la mano”. Come a indicare una sorta di fiume destinato a perdersi tra i vari rivoli, tra Italia e Granducato.

Scillieri poi ha allargato il campo svelando ai pm un flusso di denaro occulto da ritornare alla politica anche attraverso fatture false. Tanto chiare sono apparse le parole di Scillieri che questa modalità durante l’interrogatorio è stata paragonata al sistema Caianiello, per come chiarito dall’inchiesta Mensa dei poveri sul tangentificio Lombardia. In quell’indagine era emerso con limpidezza come Nino Caianiello, già coordinatore provinciale di Forza Italia a Varese e regista degli affari politici in quella zona, intascasse una “decima” da chi aveva ottenuto incarichi politici o nomine nelle partecipate grazie ai suoi rapporti istituzionali.

Scillieri, interrogato sabato scorso, va ricordato, ottiene una consulenza di 25mila euro da Lfc per due anni a partire dal 2018. In quel periodo Alberto Di Rubba è presidente uscente della fondazione. Secondo quanto messo a verbale, il commercialista retrocederà ai due commercialisti circa il 40% attraverso le emissioni di due fatture che la Procura ha individuato nei server sequestrati. Messo davanti all’evidenza, Scillieri ha confermato la retrocessione del denaro per finanziare il partito. Valore: oltre 20mila euro per difetto.

Dopodiché ha spiegato che il sistema leghista riguarda buona parte delle cariche politiche e delle nomine nelle società partecipate. Secondo il professionista la percentuale di retrocessione alla Lega mediata dai contabili del Carroccio sta tra il 5 e il 15%. Il quadro, stando al verbale, viene confermato in un passaggio ritenuto fondamentale. Durante un incontro nei pressi di via Bellerio, Scillieri chiede ai commercialisti della Lega di dare una consulenza o un incarico a una persona a lui vicina. I commercialisti rispondono in modo negativo. Spiegano che non possono dare incarichi o consulenze a persone non interne al giro leghista perché non avrebbero poi la garanzia di aver retrocesso parte del denaro. Al momento, va detto, il racconto di Scillieri viene considerato una importante ipotesi investigativa. Il verbale sarà trasmesso alla Procura di Genova. Oggi è prevista l’udienza davanti al Tribunale del Riesame sul ricorso dell’imprenditore Francesco Barachetti, legato alla Lega, ai domiciliari e accusato di concorso in peculato.

Da Open al rotolo di carta igienica: Renzi scatenato

Il senatore Matteo Renzi ha avviato finora 18 azioni legali nei confronti di giornalisti del Fatto Quotidiano. Mentre andiamo in stampa, Renzi ci ha recapitato 15 istanze di mediazione civile, che solitamente precedono l’azione giudiziaria davanti ai giudici competenti. Poi ci sono due citazioni civili vere e proprie e, al momento, una sola querela penale. L’obiettivo principale dell’ex presidente del Consiglio è il nostro direttore Marco Travaglio, citato in qualità di direttore responsabile o autore degli articoli in quasi tutti gli atti.

Il primo atto di citazione civile chiede al giudice di condannare Marco Travaglio, perché durante un collegamento con la trasmissione tv Tagadà “esponeva a prima vista alle sue spalle sulla libreria un rotolo di carta igienica con sopra stampato il volto del senatore Renzi”. Secondo i legali del senatore (che non considerano l’ipotesi della dimenticanza di un oggetto messo lì da qualcuno per farsi due risate in redazione) Travaglio puntava a ‘disumanizzare’ il povero Renzi. Il danno non è quantificato ma, a leggere i criteri usati per determinarlo (audience della tv La7, carica rivestita dalla sedicente vittima e notorietà del giornalista accusato) Renzi punta a ricavare una bella cifra dal rotolo ‘disumanizzante’.

Nel mazzo delle mediazioni sono finiti un articolo di Wanda Marra, che raccontava l’attivismo sociale di Renzi nei circoli della Capitale (mentre il senatore giura di andare all’Aniene solo per giocare a tennis), un intervento critico di Gianni Barbacetto sulla Fondazione Open renziana nella solita trasmissione Tagadà, evidentemente molto seguita da Renzi, poi un articolo di Ilaria Proietti sulla riforma delle solite Fondazioni e persino una vignetta di Mannelli. Una delle firme più indigeste a Renzi è quella di Tomaso Montanari. Il professore di Storia dell’arte, che l’ex sindaco conosce dai tempi del liceo a Firenze, è destinatario di due richieste di mediazione. Renzi non ha digerito tra l’altro il paragone tra il senatore di Rignano e il brigante di Radicofani, Ghino di Tacco, personaggio invece gradito a Bettino Craxi.

La seconda citazione civile contro il Fatto porta la data del 7 agosto scorso e mette insieme molte richieste di mediazione che l’hanno preceduta. La tesi di Renzi è che sia in atto non un’azione di controllo del potere politico da parte della libera stampa, ma una vera e propria campagna del Fatto per ‘demolire’ la sua immagine pubblica. I legali dell’ex premier hanno allegato una trentina di articoli e nel mirino sono finiti soprattutto gli editoriali del direttore e i titoli dissacranti come ‘Odo Gelli far festa’ o ‘Natale ad Hammamet’. Sotto accusa anche molti articoli che descrivono gli interessi economici di Renzi (come quelli sull’acquisto della sua casa fiorentina o sui cachet pagati per i suoi discorsi pubblici) o della fondazione Open, che ha sostenuto la sua azione politica. Alla fine la richiesta di danni è rotonda: 2 milioni di euro. Per avere un’idea, il capitale sociale della Società editoriale Il Fatto Spa è di 2,5 milioni di euro.

Lady Senato si infuria se si parla di figli e vitalizio

E sì che di conflitti di interessi se ne intende, data la lunga militanza al fianco di Silvio Berlusconi. Ma Maria Elisabetta Alberti Casellati fin da quando ha mosso i primi passi come presidente del Senato, ha dimostrato di essere all’altezza dell’ex Cav. E così, al nostro quotidiano, che si è limitato a raccontare semplicemente fatti che la riguardano con articoli puntuali e dettagliati a cui non sono mai seguite né querele né smentite o richieste di rettifica, ora ha intentato un processo per lesa maestà (richiesta danni di 150mila euro) che ha e non può avere che un obiettivo: scoraggiare il libero esercizio del diritto di cronaca e soprattutto di critica e condizionare la libertà stampa.

Messa in discussione, ad esempio, per aver osato raccontare del vitalizio che proprio il Senato che presiede le ha accordato quando già era diventata la seconda carica dello Stato, anche per gli anni che ha trascorso al Consiglio superiore della magistratura. Una ricostruzione per tabulas che, a quanto pare, l’ha fatta infuriare al punto da spingerla a regalarci una notizia e la confessione di un macroscopico conflitto di interessi, contenuti nell’atto di citazione insieme alle espressioni poco gratificanti rivolti ai cronisti e all’invito, diciamo così, a smettere di fare il loro lavoro.

“Proprio al fine di evitare ogni possibile accusa di interferenza, l’Attrice (Sua presidenza che agisce in giudizio, ndr) ha voluto che decidessero sulla sua posizione i componenti del Consiglio di Garanzia nominati dal predecessore Pietro Grasso”, si legge nella citazione di fronte al Tribunale di Padova vergata dai legali di Casellati. Che mettono nero su bianco che a decidere che sì, era giusto assegnarle anche per il periodo trascorso al Csm il ricco assegno, che invece le era stato negato in primo grado, quando ancora non era a Palazzo, è stato un collegio di oramai ex senatori trattenuti all’uopo in servizio, non è dato sapere se gratis et amore dei. Quel che è certo è che per sei mesi, a causa dell’affare presidenziale, è stata ritardata la nomina dei nuovi organi di giustizia interna di Palazzo Madama che sarebbero dovuti subentrare all’inizio della legislatura. E che invece sono stati da lei insediati solo a ottobre 2018, dopo la sentenza che le stava a cuore vergata grazie a una prorogatio ad personam.

Ma non è tutto. Casellati si duole anche del racconto delle vicende dei suoi due figli che si sono ripetutamente intrecciate con la carriera di mammà, così come di molti altri articoli che si riserva di produrre in giudizio a “ulteriore dimostrazione dell’astio personale nei suoi confronti e dell’animus diffamandi dei convenuti (che saremmo noi, ndr)”. I nostri lettori sanno già di cosa si tratta: ci siamo permessi di associare Casellati (giurista di fama, angelo del focolare e donna sempre al fianco delle donne, nel ritratto tratteggiato dai suoi legali), alla sua sarta di fiducia e al di lei figliolo finito nei guai per una storiaccia di molestie a sfondo sessuale. O di riferire del tamponamento avvenuto in quel di Padova a causa di una manovra spericolata dell’auto su cui viaggiava la Casellati ai danni del corteo del capo dello Stato, Sergio Mattarella, attuale inquilino del Colle, ruolo a cui lei stessa aspirerebbe. Ma soprattutto della sua gestione del Palazzo e dell’aula che le sono valse non poche critiche dai gruppi parlamentari. Nessun cecchinaggio, ma pura cronaca. È la stampa, bellezza.

Eni. È vietato raccontare i guai di Descalzi & C.

La più grande causa civile che il Fatto abbia mai subìto. Ce l’ha intentata Eni: non per un singolo articolo ritenuto diffamatorio, ma per l’intera produzione di articoli, inchieste, cronache politiche, interventi, commenti, perfino schede e calendari giudiziari riguardanti la compagnia petrolifera che abbiamo pubblicato negli ultimi anni.

Nelle 63 pagine dell’atto di citazione civile sono messi in fila ben 29 articoli, indicati come denigratori e diffamatori, tanto da meritare una richiesta di danni per 350 mila euro, a cui aggiungere una non precisata sanzione pecuniaria per il direttore del Fatto e una ridicola “restituzione dell’illecito arricchimento” che il nostro giornale avrebbe conseguito per il solo fatto di scrivere di Eni. Poi, censura finale: richiesta di rimuovere dal web tutti gli articoli del Fatto su Eni sgraditi a Eni.

È un attacco mai visto che proviene dalla potentissima compagnia petrolifera italiana, che – non dimentichiamolo – è a controllo pubblico. E che si aggiunge a una causa da 5 milioni per il libro di Claudio Gatti Enigate (Paper First). Eni è da sempre una grande protagonista delle cronache italiane e internazionali: economiche, finanziarie, politiche, giudiziarie. Fin dai tempi delle vicende Eni-Petromin, conto Protezione, Eni-Sai, Enimont. Anzi, fin dai tempi del suo fondatore, Enrico Mattei (incautamente richiamato nell’atto di citazione dai suoi attuali successori pro tempore, nani al confronto di un gigante forgiato nel fuoco della guerra partigiana ed eroe della ricostruzione italiana, che riusciva comunque a pronunciare frasi del tipo: “Io uso i partiti come taxi. Pago la corsa e scendo”. Tanto da meritarsi l’indimenticabile definizione di Montanelli: “L’incorruttibile corruttore”). Nel nostro meno epico presente, Eni è stata interessata da alcune grandi inchieste giudiziarie. Su presunte corruzioni internazionali in Algeria, in Nigeria, in Congo; su questioni ambientali in Basilicata; su un complesso “complotto” che sarebbe stato ordito per infangare un paio di membri del cda e intorbidare e rallentare le inchieste della Procura di Milano; sul conflitto d’interessi dell’attuale amministratore delegato, accusato di non aver comunicato che società estere, secondo la Procura di Milano riconducibili alla moglie, hanno fornito servizi a Eni, incassando negli anni 300 milioni di dollari. È dunque normale che un giornale attento alla realtà abbia dedicato alla più strategica delle aziende italiane molti articoli, nessuno dei quali è mai stato ritenuto diffamatorio dalla compagnia al punto da rendere necessaria una querela.

Negli ultimi mesi c’è stato poi il dibattito pubblico sulla riconferma al vertice dell’amministratore delegato, imputato e indagato in due diverse inchieste giudiziarie. È quindi naturale che il Fatto abbia riservato a queste vicende la necessaria attenzione: per denunciare un conflitto d’interessi in famiglia che sarebbe inaccettabile in qualunque Paese civile; e per sostenere con vigore l’inopportunità della riconferma di Claudio Descalzi al vertice di una società a controllo pubblico.

È evidente che la richiamata “difesa della storia e delle origini di Eni” si fa non silenziando le inchieste giornalistiche, né promuovendo azioni giudiziarie che si concluderanno tra molti anni, ma ripulendo subito l’azienda dalle incrostazioni e chiudendo con personaggi compromessi, indagati, imputati, o semplicemente unfit, impresentabili per motivi reputazionali. A parlare di “tangenti e mazzette”, scandali e “complotti” – non certo invenzioni del Fatto – sono le autorità giudiziarie, che contestano ai vertici Eni, per esempio, la più grossa tangente mai indagata (1,092 miliardi di dollari che, secondo la Procura di Milano, sarebbero stati pagati per ottenere in Nigeria il campo petrolifero Opl 245). Il nostro giornale ha soltanto raccontato i fatti e allineato legittime opinioni, dando conto degli argomenti dell’accusa e di quelli della difesa. Non ha fatto “propaganda politica” (per chi?), non ha condotto una “campagna denigratoria e diffamatoria”, ma ha esercitato il diritto-dovere di informazione e di controllo sui beni pubblici garantito dalla Costituzione. Si chiama giornalismo, evidentemente insopportabile per Eni, abituata a essere trattata con reverenza dalla stampa in nome dell’“interesse nazionale” e degli ingenti investimenti pubblicitari distribuiti a giornali e tv. La compagnia sembra non sopportare cronache scomode e opinioni critiche. Così ha intentato una causa civile omnibus che rischia di diventare la replica della somma di tutti i procedimenti penali e civili già in corso a Milano e a Londra (dove è stata trascinata in giudizio dallo Stato della Nigeria). Tutto ciò dimostra quanto fossero ridicoli gli strepiti di chi ha scritto che, con il rinnovo del consiglio d’amministrazione, il Fatto aveva “conquistato Eni”, con l’arrivo come presidente della professoressa Lucia Calvosa, già componente indipendente del cda del Fatto. Stiano tranquilli, nei palazzi di San Donato: noi non ci lasceremo intimidire e, avendo come unico padrone i lettori, continueremo a fare il nostro mestiere che si chiama giornalismo.

“Dopo l’ok dell’Ema io mi vaccinerei. Ma i governi rendano pubblici i dati”

“L’opinione pubblica va rassicurata sui vaccini anti-Covid. Subito dopo l’approvazione dell’Ema, i governi dovrebbero pubblicare e pubblicizzare i dati delle case farmaceutiche”. Silvio Garattini, 92 anni, luminare fondatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri nel 1961, prova a far chiarezza dall’alto del suo prestigio ed esperienza, sul dibattito nella comunità scientifica. “Dibattito caratterizzato da contraddizioni più apparenti che reali”.

Intanto, professore, ci dica: è poi riuscito a farsi somministrare il vaccino anti-influenzale?

Fortunatamente sì, grazie al mio medico di base, ma con molta difficoltà. E, purtroppo, so di molti, troppi, che ancora non ce l’hanno fatta qui in Lombardia. Non è tollerabile.

Passiamo al vaccino anti-Covid: l’ultimo dibattito verte sull’opportunità o meno di somministrarlo anche a chi ha avuto l’infezione da SarsCov2 o la malattia. Lei che posizione ha in merito a questo?

Non ci può essere una posizione in questo momento, perché non sappiamo con certezza quanto dura la risposta immunitaria. E, in generale, non conosciamo ancora i risultati dei vaccini. Non sappiamo con certezza neppure qual è di preciso la popolazione coinvolta nelle sperimentazioni: se è stato somministrato più a giovani o più ad anziani. Non possiamo decidere sulla base dei comunicati delle case farmaceutiche, questo mi pare chiaro. Su questa malattia, in assoluto, ci sono ancora troppi interrogativi.

Quindi lei è d’accordo con chi dice, penso al professor Andrea Crisanti, che in assenza di dati il vaccino è meglio non farselo somministrare?

Attenzione, io non avrò più alcuna perplessità dopo l’approvazione dell’Ema, l’agenzia del farmaco europea preposta a dare il via libera. Una volta approvato dall’Ema per me il vaccino anti-Covid è sicuro e me lo farei somministrare eccome, avrei sufficienti garanzie per accettarlo. Ma aggiungo che le contraddizioni nella comunità scientifica sono più apparenti che reali. In fondo io dico la stessa cosa perché l’Ema una volta approvato metterà a disposizione le carte. Quel che i governi dovrebbero fare in più è rassicurare l’opinione pubblica.

In che modo?

Appena li avranno dalle case farmaceutiche, dopo l’ok delle agenzie del farmaco, dovrebbero rilanciare i dati dei vari vaccini con campagne informative adeguate. Miliardi di persone in tutto il mondo stanno attendendo.

Vede dei pericoli?

Sì. Per la disponibilità del vaccino su larga scala credo ci vorrà molto tempo e quindi sarebbe sbagliato far passare un messaggio di ritorno alla normalità perché tanto arrivano i vaccini. E poi mi auguro che anche in Italia sia predisposta un’adeguata organizzazione, perché qui in Lombardia, appunto, siamo ancora in ballo con gli anti-influenzali e anche per farsi sottoporre a un tampone è un dramma e spesso un dramma a pagamento. In Germania mi pare siano già molto avanti su logistica e potenziale distribuzione dei vaccini anti-Covid. Se anche su questo aspetteremo l’ultimo momento sperando nell’improvvisazione sarà un disastro.

Come passerà le feste di Natale e Capodanno, professore?

Questa è la peggiore pandemia in Occidente che si possa ricordare. Rimarrò a casa da solo o al massimo con uno dei miei cinque figli. Ho anche molti nipoti, ma per quest’anno non penso affatto a fare feste, bisogna rimanere nel minor numero di persone possibile dentro casa, seppur con dispiacere.

Mai così tanti decessi: 993. In arrivo stretta sui controlli

Mai così tanti dal 27 marzo. Ed è un numero che sfiora il pugno nello stomaco del mille: ieri i decessi per Covid in Italia sono stati 993, un record assoluto che sorpassa i 969 registrati nel pieno del lockdown di primavera. Numeri che spaventano (il totale dall’inizio della pandemia si avvicina ormai ai 60 mila morti) ma che – come sottolinea Massimo Clementi, ordinario di Microbiologia e Virologia del San Raffaele di Milano – rispecchiano “l’incremento molto rapido delle terapie intensive di un mese fa. Sono sicuro che tra una settimana inizieranno a scendere, come stanno diminuendo di intensità gli altri parametri”. La curva del contagio, infatti, si conferma “congelata”, per dirla con il commissario all’emergenza Domenico Arcuri. I nuovi casi Covid ieri sono stati 23.225, circa 2.500 in più di mercoledì a fronte però di 226.729 tamponi, quasi 20 mila in più delle scorse 24 ore, dati che lasciano pressoché invariato il tasso di positività (10,24% contro 10%). “Al momento risulta che un italiano su 36 è stato contagiato – comunica il commissario all’emergenza Domenico Arcuri – sono numeri che fanno tremare e non vanno dimenticati”.

Si allenta ulteriormente anche la pressione sugli ospedali forse anche, purtroppo, per l’elevatissimo numero di decessi: attualmente i ricoverati con sintomi sono 31.772, 682 in meno rispetto a mercoledì, i malati gravi in terapia intensiva 3.597, -19 in 24 ore.

Tornando ai contagi, la più colpita (nonostante il presidente Attilio Fontana si dica “sicuro” che dall’11 dicembre la Regione tornerà “gialla”) è la Lombardia con 3.751 nuovi positivi e 175 morti, seguita da Veneto (3.581, 69), Campania (2.295, 54) e Piemonte (2.230, 92). Sopra i mille nuovi casi Lazio (1.769, 45), Emilia-Romagna (1.766, 85), Puglia (1.602, 42) e Sicilia (1.294, 34). La provincia che registra il maggior aumento di casi, invece, è Roma (1.636), seguita da Milano (1.311), Torino (1.214) e Napoli (1.188).

Nei prossimi giorni, intanto, varato il Dpcm che vieta “dal 21 dicembre 2020 al 6 gennaio 2021, nell’ambito del territorio nazionale, ogni spostamento in entrata e in uscita tra i territori di diverse regioni o province autonome” e “nelle giornate del 25 e del 26 dicembre 2020 e del 1° gennaio 2021 ogni spostamento tra Comuni, salvi gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità, ovvero per motivi di salute”. Il ministero dell’Interno emanerà una circolare che dovrebbe prevedere – inevitabilmente – una stretta sui controlli nelle stazioni ferroviarie e ai caselli autostradali. Tuttavia far rispettare il divieto di spostamento tra Comuni limitrofi – specie nelle grandi aree metropolitane – potrebbe rivelarsi un’impresa tutt’altro che facile. Ancora una volta sarà decisiva l’autodisciplina dei cittadini.

Liberi (quasi) tutti: l’Europa a quattro s’allenta per le feste

Non sarà un liberi tutti, ma per chi pensa che qui si esageri con le restrizioni natalizie quasi lo sembrerà. Se in Italia, infatti, sembra prevalere la linea della fermezza, in Francia, Germania, Spagna e Gran Bretagna le maglie sono un po’ più larghe.

Francia Per le feste, Parigi preferisce evitare misure impopolari e allenta le misure anti-Covid. Il 15 dicembre termina il lockdown ed entra in vigore un nuovo coprifuoco dalle 21 alle 7, sospeso però il 24, 25 e 30 per permettere ai francesi di raggiungere i cari ovunque essi vivano. Feste e cenoni sono vietati. I ristoranti restano chiusi (fino al 20 gennaio), proibito affittare locali. A casa è raccomandato un numero massimo di sei persone al tavolo, ma senza contare i bambini. Messe a capienza limitata. Impianti di risalita fermi, ma nella vicina Svizzera e in Spagna le piste saranno aperte. I fanatici degli sci che andranno all’estero dovranno sottoporsi a quarantena al loro ritorno.

Germania Prorogato fino al 10 gennaio il lockdown parziale a cui si aggiunge la chiusura degli impianti da sci. Ma perfino nel paese della cautela sono previsti allentamenti. Dal 23 dicembre al 1° gennaio permesse cene e riunioni con un massimo di 10 persone di diversi nuclei familiari, i bambini sotto i 14 anni non rientrano nel conto. Ma solo nelle regioni dove il contagio non supera i 200 nuovi casi in 7 giorni su 100.000 abitanti. Altrove, come a Berlino, consentite massimo 5 persone di 2 nuclei familiari, bambini esclusi. Alcuni regolamenti, però, sono competenza dei Länder, quindi il sindaco di Berlino ha deciso di riaprire gli alberghi per ospitare i parenti in arrivo. “Mi mancava la fantasia di immaginare che proprio le regioni più colpite riaprissero gli hotel” ha commentato caustica la Cancelliera Merkel. Vietati i botti in piazza per Capodanno, ma la vendita resta ammessa. Lo sparo da balconi e finestre è infatti pratica assai diffusa diffusa nei quartieri multietnici berlinesi di Kreuzberg e Neukoelln.

Spagna Riunioni con non più di 10 persone, coprifuoco all’1:30 a Natale e Capodanno, lockdown regionale tranne per i ricongiungimenti familiari o le visite ai parenti stretti. La Spagna, allenta, seppure di poco, le restrizioni. “Più di così non si può o si rischia la terza ondata a gennaio. Per Natale bisogna restare a casa”, è stato l’appello del ministro della Sanità Salvador Illa. Le restrizioni sono in vigore dal 23 dicembre al 6 gennaio. In un paese in cui anticipare il coprifuoco è pressoché impossibile – gli spagnoli non cenano mai prima delle 22 –, Sanchez ha dovuto escogitare qualche trucco per non vedere tutti per strada, come è usanza. Il decreto vieta di bere per strada per evitare il botellon; le campanadas, i rintocchi dell’anno nuovo, suoneranno virtualmente in tv o in “forma telematica”; i re magi, infine, non cavalcheranno, ma saranno “statici” e “in luoghi che impediscano assembramenti”.

Quanto a bar, ristoranti e commercio, tutto aperto con i limiti alla capacità già in vigore per ogni comunità. Nei bar si precisa di rimettere la mascherina quando non si beve (sic!). Piste da sci aperte. A niente è servito l’invito a chiudere della confinante Francia. Dopo il flop della stagione estiva, a quella invernale, con le dovute misure di sicurezza, non si rinuncia.

Regno Unito Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord si allineano nel rilassare le restrizioni anti-Covid per consentire alle famiglie di riunirsi per Natale. Fra il 23 e il 27 dicembre sarà permesso viaggiare anche fra regioni con livelli diversi di rischio per le Christmas Bubbles, “bolle natalizie” fino a un massimo di tre famiglie che dovranno restare le stesse per tutto il periodo, potranno incontrarsi a casa, in spazi pubblici all’aperto o in luoghi di culto, rispettando le restrizioni della propria regione, che variano anche notevolmente. Una misura imposta al governo dalla certezza che, altrimenti, le violazioni sarebbero state massicce. Proibiti eventi in ogni genere di locale, i pub saranno accessibili secondo le restrizioni regionali con un orario di chiusura variabile tra le 22 alle 23. I furbastri saranno punti con pesanti multe: la polizia promette di disperdere raduni irregolari. Permesso dormire in strutture ricettive, sempre secondo le regole locali; le visite ai familiari in casa di riposo; i canti di Natale purché nel rispetto del distanziamento. Aperte le località sciistiche in Scozia, ma solo per un terzo della capienza normale.

 

Restrizioni e riforme: c’è pure la fronda Pd

Venticinque senatori del Pd firmano una lettera al loro capogruppo Andrea Marcucci per chiedergli di “attivarsi con il governo” per permettere gli spostamenti tra Comuni il 25, 26 dicembre e 1° gennaio e dunque i ricongiungimenti familiari. La stessa lettera alla Camera raccoglie 30 firme. Intanto, il tavolo delle riforme si blocca, per l’insistenza di Iv sul superamento del bicameralismo perfetto. È la giornata in cui emerge con chiarezza lo scontro dentro al Pd, ma anche del Pd contro il governo. E che allunga le sue ombre sul voto sulla riforma del Mes di mercoledì. Ma è la fronda dem al Senato la spia che la tensione è fuori controllo. Su un gruppo di 35, firmano in 25. Esclusi i 3 membri del governo (Misiani, Malpezzi e Margiotta) tutti tranne i senatori dell’area Franceschini. È “la vendetta” (per dirla con qualche collega di partito) del capogruppo Andrea Marcucci, che era stato sconfessato mercoledì da Nicola Zingaretti e Dario Franceschini.

Ma le grandi manovre sono in atto: nel gruppo dem di Palazzo Madama ci sono ancora persone vicine a Matteo Renzi. E che l’ex premier punti quantomeno a un Conte ter ormai lo dicono pure i suoi. La rivolta, in primis, è contro il capodelegazione, reo di non ascoltare il Parlamento. Promotore della raccolta di firme è stato Alessandro Alfieri, uomo di fiducia di Lorenzo Guerini, ministro della Difesa. Possibile che non fosse informato? “Sono in Israele, non so nulla di ciò che accade in Parlamento”, dice lui. “Si tratta di un testo molto misurato”, prova a smussare Alfieri. C’è chi nel Pd mette in giro veleni: “Guerini vuole far fuori Franceschini, perché punta al Colle”. Il ministro della Difesa è un altro considerato candidato a tutto, anche a Palazzo Chigi. Finora ha fatto asse con Franceschini. Raccontano che ieri nella chat dei ministri dem si sia espresso duramente contro l’iniziativa in Senato. Quel che è certo è che la sua corrente – Base Riformista, la stessa di Marcucci – conta il più alto numero di parlamentari.

“Noi dobbiamo occuparci solo di gestire la pandemia. Si scherza col fuoco. E poi l’incidente arriva”, dice un furibondo Franco Mirabelli, vicecapogruppo Pd in Senato, uomo di Franceschini. I sindaci del Pd attaccano i senatori. Graziano Delrio (capogruppo dem alla Camera) e Marcucci chiedono a Conte di intervenire sulle riforme. Lui risponde in conferenza stampa rimandando le responsabilità al mittente: “Ho visto i leader dei partiti e li vedrò alla fine”, ma ora il lavoro “è affidato ai capigruppo della maggioranza e agli esponenti dei partiti”, la linea del ragionamento. Intanto Roberto Gualtieri (Mef) e Enzo Amendola (Affari europei) lavorano sotto traccia per arrivare a una risoluzione sulla riforma del Mes che possa essere votata sia dal M5S che dal Pd. “Qual è il punto di caduta? La caduta”, è la battuta che chiarisce il clima.

Natale a casa (ma col bonus). Conte tenta la carta regalo

Parte celebrando un metodo: “La divisione in aree colorate funziona, la curva dei contagi sta calando e l’Rt, l’indice di trasmissione, è sceso allo 0,91”. Così Giuseppe Conte può rivendicarlo: “Abbiamo evitato il lockdown generalizzato e nelle prossime due settimane contiamo di avere tutte le regioni gialle”. Ma nella conferenza stampa per presentare l’ennesimo Dpcm, il presidente del Consiglio illustra ulteriori restrizioni, in vigore dal 21 al dicembre al 6 gennaio, perché “dobbiamo evitare la terza ondata”. Saranno vietati gli spostamenti tra Regioni e nei principali giorni festivi (25, 26 dicembre e primo gennaio), non ci si potrà muovere neppure tra i Comuni. “Però è consentito il rientro nel Comune di residenza o dove si abita con continuità, e ciò consentirà il ricongiungimento delle coppie” fa notare, così come l’assistenza a persone non autosufficienti. Ma sul resto è linea dura. A partire dalla scuola, perché la didattica in presenza negli istituti superiori riprenderà solo dal 7 gennaio. Gli impianti di sci rimarranno chiusi fino al 6 gennaio. Stop alle crociere dal 20 dicembre. Cene solo in camera negli alberghi a San Silvestro. Per compensare, Conte sottolinea che i negozi resteranno aperti fino alle 21, da oggi fino all’Epifania. E si gioca la carta del rimborso fiscale. “Partiamo con Italia cashless, ci sarà il rimborso del 10 per cento e fino a 150 euro per chi acquista nei negozi con carte di credito”.

Ma a margine si sente ancora l’eco dello scontro con le Regioni. Perché nel pomeriggio Conte le aveva incontrate insieme al ministro agli Affari regionali Boccia. E i governatori avevano invocato modifiche per il Dpcm, in particolare sul divieto di spostamenti tra Comuni. Corredate da un diffuso malessere, soprattutto per “il metodo” che non è piaciuto nemmeno al presidente della conferenza, il dem Stefano Bonaccini. Per dirla come il presidente delle Marche, Francesco Acquaroli (FdI): “Questo Dpcm penalizza alcuni territori, discriminati come se fossero periferici”. Conte ascolta, ma non cambia idea. “Sono solo tre giorni” riassume. Così a fine riunione il ligure Giovanni Toti si lamenta: “Purtroppo dobbiamo rilevare che il governo non ha accolto nessuna delle nostre proposte”. Non passa nessuno degli allentamenti chiesti con tanta forza dai governatori e osteggiati con altrettanta veemenza invece dai sindaci. Il presidente dell’Anci Antonio Decaro parla soprattutto a nome di chi guida grandi città come la sua, Bari: “Siamo preoccupati per quel che può accadere per esempio il giorno della vigilia di Natale, quando migliaia di persone si ritrovano per il rito degli auguri e dell’aperitivo”. Resta il problema dei piccoli Comuni che rischiano di restare isolati nei giorni di festa, impedendo anche le riunioni di familiari che abitano a pochi chilometri di distanza.

È sulla scuola, raccontano, che è andato in scena lo scontro più duro con le Regioni. Salta il “graduale rientro” dal 14 dicembre. A fare muro – già nel Consiglio dei ministri di mercoledì notte – i ministri Franceschini e Boccia: “Lucia, tanto se riapri le scuole le Regioni te le richiudono subito”. Così si decide di investire tutto su gennaio: Azzolina ottiene che la Dad per le superiori sia limitata al 25 per cento. E insieme a Conte chiede un protocollo nazionale per la riapertura in cui siano le Regioni a scrivere un piano per i trasporti e per il tracciamento: “Non possiamo governare tutto da Roma”.

Anche perché a Roma c’è un governo da tenere in piedi. Così Conte prova a sminare la grana Mes: “Il 9 dicembre in Parlamento non si vota sul suo utilizzo o sulla riforma, ma solo sulle mie comunicazioni, non drammatizziamo”. E respinge l’ipotesi rimpasto: “Rabbrividisco solo a sentire la parola, che evoca liturgie da vecchia politica. E poi i miei ministri sono i migliori”. Meglio lasciare tutto com’è.