Stormir di fronde

Per non farci mancare nulla, ora abbiamo pure le fronde. Tre, senza contare quella dei renziani che ce l’hanno nel Dna. C’è quella di un drappello di senatori Pd che contestano il governo sul divieto agli spostamenti tra Comuni durante le feste. C’è quella dei 46 parlamentari 5Stelle capitanati da Morra, Toninelli e Lezzi che contestano il sì dell’Italia alla riforma del Mes. E c’è quella di 4 eurodeputati M5S che se ne vanno con supercazzole sulla buonanima di Casaleggio, sulla “difesa del pianeta e la tutela della salute dei cittadini” e sulla “fine del Movimento” a far data da cotanta perdita. Tre fronde diverse, un comune denominatore: l’assoluto e irresponsabile distacco dalla realtà. Alla fronda pidina ha risposto, a stretto giro, il dato terrificante dei morti di ieri per o con Covid: quasi mille, record assoluto dall’inizio della pandemia. In quattro giorni abbiamo avuto più vittime dell’11 Settembre e certi decerebrati vanno dietro ai capricci dei parenti stretti ed eventuali elettori. La miglior risposta alle due fronde grilline sarebbe una risata, ma siccome c’è in ballo il governo va articolata meglio.

La riforma del Mes, secondo alcuni addirittura peggiorativa di quel prestito-capestro per gli Stati in bancarotta, passerà comunque: FI o chi per essa, viste le pressioni europee, nel voto del 9 dicembre rimpiazzerà i dissidenti 5Stelle. Che così avranno ottenuto questo triplice risultato: screditare vieppiù il M5S, proprio mentre i poteri marci vogliono buttarli fuori da Palazzo Chigi e i giornaloni fanno a gara a demolire le loro conquiste (vedi le fake news del Corriere sul Reddito di cittadinanza); indebolire il governo Conte (di cui il M5S è l’azionista n.1 e che per questo è così inviso ai padroni del vapore); rafforzare il partito delle larghe intese e del governo Draghi all’insaputa di Draghi. La solita eterogenesi dei fini, già sperimentata con la linea Di Battista-Laricchia alle Regionali: il M5S rifiutò l’alleanza col Pd in Puglia, perse per strada un bel po’ di elettori che provvidero da soli, salvo poi entrare nella giunta Emiliano con un peso molto più marginale di quello che avrebbe avuto con un’intesa preventiva. Una soluzione di buonsenso l’ha indicata il viceministro Pierpaolo Sileri: il M5S fa passare la riforma del Mes e gli alleati Pd-Iv-Leu la piantano di invocare il prestito anti-Covid di 36 miliardi, visto che Conte e Gualtieri hanno ribadito mille volte che l’Italia non ne ha bisogno perché non ha problemi di cassa, non è alla bancarotta e ha già stanziato per la sanità quasi 10 miliardi in 9 mesi con vari scostamenti di bilancio. Se ne servono altri, basta prenderli dalle convenzioni fra Regioni e cliniche private. Ma, come tutte le soluzioni di buon senso, anche questa ha un’aspettativa di vita sottozero.

Marinetti pensa con la pelle: la rivoluzione del tatto nell’arte

Può essere “eccitante”, “volitivo”, “morbido” ma anche “freddo”, “irritante”, “nostalgico”: è il tatto, senso che – per Filippo Tommaso Marinetti – è il nuovo cuore pulsante dell’arte. Lo annuncia cento anni fa, il 14 gennaio 1921, al Théâtre de l’Oeuvre di Parigi. Il padre del Futurismo declama a gran voce: “Nasce un senso visivo alla punta delle dita, il tatto si scinde in diversi modi e si localizza in altri punti. I gomiti vedono. Le ginocchia ascoltano”.

Da dove gli provenga il pensiero del Tattilismo – il cui manifesto originale è esposto al Museo Tattile Omero di Ancona e che oggi l’editore Fve pubblica per la prima volta in volume (Tattilismo. Lo splendore geometrico e meccanico) – è lui stesso a raccontarlo. “Una notte dell’inverno 1917, scendevo tastoni nel sotterraneo buio di una batteria di bombarde per raggiungere senza candela il mio giaciglio. Mi preoccupavo di non urtare ma urtavo baionette, gavette e teste di soldati dormienti. Mi coricai e non dormii, ossessionato dalle sensazioni tattili che avevo provate e catalogate. Quella volta, per la prima volta, pensai ad un’arte tattile”.

È la guerra, l’esperienza in trincea nella Grande Guerra a ispirargli l’idea della pelle come “conduttrice di pensiero”, quale soluzione al disarmo emotivo degli uomini e delle donne che portano, secondo Marinetti, “i sintomi di un male profondo e misterioso”, stretti nella morsa di “un pessimismo senza speranza” che li induce ad accumulare beni materiali. Per rimarginare questa ferita e salvare l’essere umano dall’inabilità ad accostarsi alla vita, l’artista intuisce la necessità di un nuovo vitalismo basato su un ritrovato contatto con il mondo: riscoprire e la propria sensibilità percettiva. Nascono così le Tavole tattili, opere d’arte per il rinascimento della “conoscenza sensoriale”. Rinascimento, sì, perché occorre tornare a uno stadio di pre-conoscenza: come il bambino si muove, spaventato ed eccitato, alla scoperta del mondo e tocca tutto, lo stesso deve fare l’uomo per fare pace con l’esistere. I materiali sono i nuovi trasmettitori delle emozioni (intuizione che si rivelerà importante per artisti quali Munari o Burri): il velluto per eccitarsi, la lana per immalinconirsi, la carta vetrata per irritarsi. Nella sua folie creatrice, Marinetti consiglia di stare chiusi in casa e indossare guanti per “allenare i sensi”. Ed ecco che facciamo un salto ai giorni nostri, ai tempi del confinamento e delle restrizioni da pandemia, quando proprio toccare (l’altro, le cose, il mondo) è la proibizione maestra. E chissà se anche stavolta giungerà l’Arte a salvarci.

Vassalli dà (ancora) voce ai veri “soli” ospiti della Rsa

I soli stanno soli e fanno luce/ nel pensiero: una soglia, un orizzonte,/ oltre il fiume un’aurora, un giorno, un’ora/ che ora è passata. Che non c’è mai stata”.

La poesia è di Sebastiano Vassalli (1941-2015), risale al 1984.

Fu pubblicata in un piccolo volume della casa editrice Pulcinoelefante di Alberto Casiraghy. I versi danno ora il titolo a I soli stanno soli e fanno luce (Editrice Baima-Ronchetti & C., pagine 178, euro 15), un libro unico perché è nato sotto il segno delle vittime principali del Covid-19: i “vecchi”.

Ovvero gli ospiti delle Rsa, quelli tanto “improduttivi” secondo le dichiarazioni di un noto esponente politico, che più di tutti hanno pagato e stanno pagando.

La “polifonia di voci” del libro, spiega la curatrice Eliana Gai, medico psichiatra, si declina in una “testimonianza scritta e fotografica” che ha coinvolto, attraverso video-interviste, gli ospiti di una residenza per anziani: la casa di riposo della Fondazione Elvio Pescarmona, a San Damiano d’Asti.

Siamo nei mesi della paura e della solitudine, della reclusione e della separazione dalle loro famiglie.

Alle voci degli anziani si sono unite quelle di alcuni esterni: medici e farmacisti, parroci e amministratori vecchi e nuovi della Fondazione Pescarmona, poeti e artisti, giovani laureati, filosofi e insegnanti. Ne risultano felicemente, rammenta lo psichiatra Eugenio Borgna in un messaggio pubblicato nel volume, “quelle che sono le straordinarie esperienze umane e sociali che a San Damiano d’Asti risplendono con una luce davvero intensa”.

Che cosa c’entra Vassalli con la Rsa piemontese?

A spiegarlo è Franco Vaccaneo, saggista e scrittore, studioso di Cesare Pavese.

Tutto nasce nelle settimane in cui la dottoressa Gai, che è presidente della Fondazione Pescarmona, stava lavorando alla stesura del libro. Assieme a Vaccaneo, ha avuto la possibilità, non consueta, di visitare la Marangana, nella campagna novarese. È l’antica casa che è stata “buen ritiro e luogo dell’anima” dell’autore di L’oro del mondo, “uno scrittore che amava vivere appartato dal mondo e che nei suoi romanzi ha spesso narrato di emarginati, di ‘matti’, di solitari, di vittime”.

Nel corso della visita, “guidati da Paola Todeschino, la fedele compagna di Sebastiano Vassalli negli ultimi 15 anni della sua vita”, continua Vaccaneo, si sono imbattuti nel libretto stampato da Casiraghy con la poesia dei Soli. E quel “piccolo gioiello, un insperato cammeo”, aggiunge, “ci ha dato – nello spirito di Vassalli, dei protagonisti delle sue storie – l’idea per il titolo del libro sulla Rsa di San Damiano. Un titolo che lanciamo come una lucerna per rischiarare il buio del presente”.

Una sorta di spirito guida, quello di Vassalli.

D’altro canto, è lo scrittore che, parlando dei coltivatori del riso nelle sue pianure novaresi, ha ricordato come tra loro ci fossero “i vecchi ormai inabili a qualsiasi altro lavoro, e morivano di stenti e di malaria, secondo ciò che riferiscono le ‘gride’ degli spagnoli, senza che nessuno si occupasse di loro”.

Questo libro vassalliano, invece, è una “lucerna per rischiarare il buio del presente”. Scrive la Gai: “Nel corso dell’isolamento ho pensato spesso a come dare voce agli ospiti della Rsa e creare un ponte emozionale tra interno ed esterno, un esterno che non riguardasse solamente parenti, congiunti, amici, cui le notizie giungevano puntualmente. Desideravo che anche l’esterno portasse in dono agli anziani qui residenti vissuti ed emozioni”.

E lucerne di speranza sono molte delle considerazioni dei “vecchi” di San Damiano, rispetto al Covid.

“Tutto ciò è come una torta, se non ci sono gli ingredienti giusti non si va mai alla fine… per cui speriamo trovino gli ingredienti per il vaccino! I giovani hanno bisogno di vivere tranquilli!”, ha detto Lia.

E Angela: “’Sto virus è stato peggio della guerra… almeno allora ci si poteva abbracciare!”.

Infine Vienna: “Mi chiedete un messaggio/consiglio che volete lasciare ai giovani? Siate più buoni di noi, più positivi e imparate a mantenervi da soli!”.

Il profumo dei libri di Nerone

Pubblichiamo stralci di “L’ultimo giorno di Roma. Viaggio nella città di Nerone poco prima del Grande incendio” di Alberto Angela, in libreria con HarperCollins.

Marziale ci ha svelato l’aspetto delle librerie in età romana: sulle porte d’ingresso ci sono scritte che segnalano ai passanti le ultime novità e i testi degli autori che sono in vendita. Qualcosa di molto simile alle vetrine delle nostre librerie, ma con una differenza: non vedrete mai esposto un libro all’esterno, non tanto perché nelle botteghe non esistono ancora le vetrine, quanto perché il rischio di furto è troppo alto. I libri, in effetti, sono un prodotto di lusso. Sono l’equivalente dei quadri al giorno d’oggi: oggetti fatti a mano e di cui esistono solo pochi esemplari.

Internamente, le pareti sono ricoperte da scaffalature di legno a più piani con settori separati, esattamente come nelle librerie moderne. In questi ripiani sono allineati i best-seller dell’antichità: non vi aspettate un classico libro in forma di codice, che diventerà comune solo a partire dal prossimo secolo. Qui tutto è scritto su rotoli (volumina) di papiro o molto più raramente di pergamena. Le librerie e le biblioteche quindi hanno gli scaffali pieni di rotoli disposti a piramide.

Ma come è fatto esattamente un libro? Plinio sceglie un’opera sullo scaffale leggendo il titolo (titulus) e il nome dell’autore su un nastro di cuoio che pende dal centro del rotolo. Una volta sfilato il volumen dalla catasta lo apre, srotolandolo. Il libro in età romana e greca è costituito da una ventina di fogli, quasi sempre di papiro, incollati gli uni agli altri sul lato corto fino a formare una lunga striscia la cui estremità è poi fissata su un piccolo bastoncino di legno, l’umbilicus (che può essere anche in osso o avorio): l’intero “libro” viene arrotolato attorno a questo cilindro, che nelle edizioni più raffinate ha due pomelli alle estremità, bianchi o neri. Lo si legge srotolando il volumen orizzontalmente con un gesto simile a quello che siete soliti compiere quando aprite un giornale. Il testo, scritto finemente su un solo lato del foglio, è suddiviso in colonne (paginae o plagulae), e segue le fibre del papiro. Potete capire a prima vista il valore della copia che avete in mano guardando la “rilegatura”: nelle edizioni più economiche e nei brogliacci l’umbilicus manca totalmente, mentre in quelle di lusso, oltre al bastoncino in avorio avete anche un foglio protettivo (protokollon), spesso color porpora, saldato alla prima pagina, che avvolge l’opera quando questa viene arrotolata.

Quanto può valere un libro? Bisogna subito dire che a comprarli non è certo il popolino. I volumina sono appannaggio di un’élite della società. Si tratta di una clientela selezionata, appassionata e di solito agiata, anche se i libri, in realtà, non hanno dei costi poi così proibitivi. Servono infatti essenzialmente per l’educazione, l’erudizione, ma anche… come status symbol. Molti romani hanno delle vere e proprie biblioteche in casa, più per dare un tocco di eleganza e dichiarare il proprio livello sociale che per reale passione nei confronti dei libri e della lettura. È un aspetto che tanti intellettuali romani criticano. Come Seneca: “A che servono libri innumerevoli e intere collezioni se, nell’arco della vita, il padrone riesce a mala pena a leggerne i titoli?… Non fu né buon gusto né premura, ma sfarzo culturale, anzi, nemmeno culturale, perché non avevamo procurato quei libri per studio, ma per ostentazione, come per molti ignoranti, al di sotto del livello d’istruzione elementare, i libri non sono strumenti di studio, ma arredi di sale da pranzo”.

Per riconoscere un libro di valore, come abbiamo visto, possiamo basarci su alcuni elementi. Innanzitutto, la qualità dell’edizione. La carta è indicativa: i libri più importanti sono scritti sulla cosiddetta “Carta di Augusto”, un tipo di papiro di altissimo pregio, con poche venature scure e macchie, proveniente essenzialmente dalle botteghe di Alessandria d’Egitto. Anche l’odore e il colore dei fogli sono importanti. Per proteggerli da insetti e muffe vengono infatti spalmati con olio di cedro, che dà una tinta giallina e un odore inconfondibile anche a tutta la taberna libraria.

E i prezzi? Marziale, negli Epigrammi, dice che il costo di un volumen di qualità medio-bassa oscilla tra i due e i quattro sesterzi (equivalenti all’incirca a dodici e ventiquattro euro). Un libro di qualità superiore arriva anche al doppio. Sappiamo però di libri ben più cari, come ci fa capire lo stesso Marziale quando afferma che una bella rilegatura non trasforma l’autore in un grande poeta: “Ti sbagli, o avido ladro dei miei libri, se pensi che puoi diventare un poeta con ciò che spendi per un volgare rotolo di papiro e per la sua copiatura: non si acquistano gli applausi con sei o dieci sesterzi”.

Il libraio è anche l’editore.

Marziale sottolinea un altro aspetto particolare: nessun editore, a quanto pare, paga i suoi autori. Gli scrittori, insomma, non ricevono, come oggi, onorari stabiliti con dei contratti. Chi vuole pubblicare un libro lo fa a proprie spese, e senza compenso… Gli autori quindi vivono in genere con i propri mezzi, grazie ai patrimoni personali e ai proventi derivati da altre attività.

I librai-editori dell’antica Roma sono quindi personaggi davvero influenti nel mondo intellettuale romano. Alcuni, come Doro, sono molto famosi. Le loro tabernae librariae sono le case editrici dell’epoca e hanno quindi un folto gruppo di “impiegati”: dai copisti ai rilegatori, fino ai commessi che accolgono i clienti, cioè il settore vendite, come diremmo oggi.

Natale, la rinascita collettiva è diventata “comprare cose”

Si verifica la bizzarra circostanza per cui se si riaprono le attività commerciali per far respirare gli esercenti dopo un periodo di clausura la gente si riversa in massa per fruirne, e siccome i corpi occupano uno spazio e vige il principio della loro impenetrabilità, si creeranno assembramenti promiscui, fonte primaria di contagi, come già nelle processioni de I promessi sposi.

Interessantetuttavia è che la ritrovata libertà, per chi vive in regioni che sono passate dal rosso all’arancione, abbia portato con sé come primo atto collettivo la corsa allo shopping. Sembra proprio che la Covid ci abbia tolto più di tutto la libertà di essere consumatori; che poter comprare oggetti abbia avuto un effetto rassicurante e sedativo, se non il potere di silenziare le angosce; che l’energia liberatoria della fine (provvisoria) del lockdown, che poi è l’energia liberata dalla diminuzione del tasso Rt, si sia riversata negli spazi urbani non dello svago culturale, ma del consumo.

Non interessa il giudizio moralistico: è comprensibile che i cittadini vogliano riappropriarsi quanto prima della normalità; il punto è capire perché la normalità consista principalmente nella libertà di comprare; perché, se il potere d’acquisto delle famiglie è diminuito drasticamente e ci sono 5 milioni di nuovi poveri (oltre agli 8 di epoca pre-Covid), il momento della libera uscita sia stato riservato in modo così massivo dalla corsa agli acquisti, tanto da indurre questure e prefetture a disporre l’invio di “pattuglie interforze” per limitare gli assembramenti.

La pandemia non ha interrotto una routine che è diventata rito: ormai da tempo il Natale non è una festa intima, e il vero scambio dei doni avviene nei centri commerciali, dove ci danno oggetti in cambio di denaro (un bel salto, dallo scambio di ramoscelli dal bosco dedicato a Strenia, la Dea della salute, da cui “strenna”).

Si sono intrecciati tre fattori nella corsa allo shopping di questi giorni: la scarica adrenalica pre-festiva; il Black Friday, una specie di festa profana introdotta negli Stati Uniti negli anni 60 per smaltire le merci invendute dopo il Giorno del Ringraziamento; la sensazione di liberazione dopo la serrata.

Sulla celebrazione massima ed epifanica dello sconto effimero si è innestato lo stato di privazione da pandemia: dacché i negozi di beni di prima necessità erano aperti anche prima, le lunghe file davanti agli esercizi appena riaperti di Torino e Milano confermano che niente è più necessario del superfluo. A Roma, dove la chiusura riguardava solo i fine settimana, l’apertura di un nuovo centro commerciale ha richiamato migliaia di avventori. Abbiamo bramato prodotti visti in Tv o su Internet, ma comprare online è un’esperienza sterile, per quanto sufficientemente compulsiva da inserirsi perfettamente nella nostra economia esistenziale. Il “sex appeal dell’inorganico” (Walter Benjamin) che la merce esercita sui nostri sensi necessita dei corpi, della condivisione e dello sperpero depensante, quindi di un’esperienza fisica che è sociale solo fino a un certo punto.

Fare shopping ha sostituito le attività di comunità; la piazzola del centro commerciale ha surrogato la piazza; gli spettacoli d’intrattenimento dei mall hanno preso il posto della messa domenicale; i libri si presentano nelle librerie in franchising tra gli effluvi di hamburger di Old Wild West e musichette di giostre al chiuso. I bambini corrono lungo i corridoi dei grandi magazzini, non sui prati.

Il consumismo funziona proprio in questo perfetto incastro tra investimento emozionale del singolo, bombardato dalla “narrazione” dei brand che inducono bisogni prima inesistenti, e interessi privati: la libertà di comprare beni di consumo superflui è ribadita dagli acquirenti – spesso molto meno che benestanti – in perfetta sintonia con le varie Confindustria e Confcommercio e con la politica aperturista che le rappresenta (per il presidente della Liguria Toti il Natale è “la finale di Champions dell’economia”). La nostra libertà si estrinseca nella non-libertà prescritta dalle leggi del capitale. Se non compriamo non siamo (lo spiega Bauman in Consumo dunque sono), e invero consumiamo e siamo consumati anche se non compriamo, perché siamo destinatari di pubblicità. Passando davanti ai negozi, siamo investiti da luci contundenti e musica a tutto volume, come quella che invade i dehors dei locali del centro.

Lo shopping (un’attività che conta a sua volta su una sterminata propaganda culturale fatta di narrativa, saggistica, cinema, etc.) ha assunto vicariamente il ruolo che un tempo era delle agenzie di socializzazione, benché sia totalmente priva dell’elemento della solidarietà e si fondi invece sulla competizione e l’accaparramento. Nell’affollata solitudine delle compere c’è una promessa di consolazione: molti dei nuovi prodotti dell’economia compulsiva richiamano il ristoro e il conforto dell’abbondanza (“comfort food”), che è in sé un ossimoro.

Nell’epoca neoliberalista il legame tra capitalismo e emozioni è strettissimo; anzi, è lo stesso capitalismo consumistico a creare emozioni e desideri ex novo, suscitando nel nostro sistema limbico un maggiore stimolo all’acquisto. Il lockdown ha esacerbato i sentimenti e affetti, mentre ha compresso le nostre emozioni intese come desiderio compulsivo e libidico. Ma se i sentimenti e gli affetti non si possono comprare e il loro sorgere non può essere risolto comprando cose, l’emozione è suscitabile ad arte e la sua pressione può essere ridotta comprando. La fiammata dopaminica che segue l’acquisto, totalmente solipsistica e consolatoria, è vissuta come una specie di rinascita collettiva.

Trump e l’ultimo dispetto a Biden

Non tutti i mali vengono per nuocere: Donald Trump s’appresta a riprendere a fare affari all’estero, quando non sarà più presidente, per rimettere in sesto le finanze di famiglia anche in previsione d’una ricandidatura alle Presidenziali del 2024. I suoi detrattori dicono che, in realtà, non ha mai smesso (di fare affari all’estero), mischiando per tutta la presidenza interessi pubblici e privati.

La riconversione del magnate al business as usual solleva dubbi dal punto di vista etico: sarebbe una ‘prima’, un presidente uscente che sfrutta e monetizza la sua esperienza non scrivendo libri o facendo discorsi, ma intrecciando rapporti d’affari. Fonti vicine alla Trump Organization rivelano che si sta già lavorando ad accordi multimilionari con aziende e governi stranieri, rispolverando progetti in Cina – proprio nel campo nemico! – e in altri Paesi. Pur senza ammettere la sconfitta, Trump incomincia a rendersi conto che non sarà lui il presidente nei prossimi quattro anni. In una festa di Natale alla Casa Bianca zeppa di suoi fan, il magnate ha per la prima volta affermato in pubblico che intende ricandidarsi nel 2024. “Sono stati quattro anni meravigliosi – ha detto –. Stiamo tentando di farne altri quattro, se no ci vedremo tra quattro anni”. Un video mostra gli astanti in visibilio dopo l’annuncio.

L’ipotesi di una ricandidatura di Trump nel 2024 lascia perplesso Biden, che al New York Times dice di dubitare che il magnate possa mantenere il consenso una volta perso il potere: “Ci sono indipendenti e anche repubblicani che potrebbero cominciare a guardare il mondo in modo diverso nelle prossime settimane”. E il presidente eletto auspica che i repubblicani collaborino in Congresso con i democratici. L’ultimo dispetto di Trump a Biden prima di lasciare la Casa Bianca potrebbe essere un evento stile campagna elettorale nel giorno dell’insediamento del nuovo presidente, il 20 gennaio. Citando fonti bene informate, vari media indicano che Trump vorrebbe lanciare, proprio nell’Inauguration Day, la sua candidatura per le Presidenziali 2024. Dalla Casa Bianca continuano a uscire voci non confermate di grazie imminenti a figli, congiunti, amici e collaboratori di Trump e persino di un tentativo di corruzione, bollato come fake news, sui perdoni (tangenti in cambio di una grazia presidenziale, si ignora a favore di chi: il Dipartimento della Giustizia indaga). Il magnate discuterebbe coi suoi consiglieri se concedere una grazia preventiva ai tre figli maggiori, Donald Jr., Ivanka ed Eric, e a suo genero Jared Kusher, oltre che al suo avvocato Rudy Giuliani, nel timore che il Dipartimento della Giustizia dell’Amministrazione Biden li colpisca. Le voci di perdoni presidenziali sono ormai vorticose, mettendo in evidenza – scrive il New York Times – quanto l’Amministrazione Trump sia stata segnata da indagini e incriminazioni su e di persone nell’orbita presidenziale”.

Sir Arcadia, in bancarotta il “bandito di Bond Street”

Questa non è solo la storia dell’ascesa e caduta di un impero commerciale. È, vista dal Regno Unito, dai negozi ormai vuoti di quello che è stato un impero dell’abbigliamento, dalle famiglie di migliaia di lavoratori mandati a casa negli anni, molto di più: la parabola di un capitalismo cattivo, predatorio, parassitario. La notizia è tristemente già sentita: il Covid dà il colpo di grazia a uno dei maggiori gruppi mondiali dell’abbigliamento, Arcadia, 900 punti vendita in 40 Paesi, nei guai da tempo. Va in bancarotta, trascina con sé una serie di marchi famosi: Topshop, Topman, Miss Selfridge, Dorothy Perkins, per i quali all’orizzonte non si vedono ancora compratori, e mette a rischio 13mila posti di lavoro, difficilmente salvabili nel mare di licenziamenti di un settore, il commercio al dettaglio, già in crisi prima della paralisi da Covid.

Ma, soprattutto, questo ennesimo fallimento segna la fine della carriera di Sir Philip Nigel Ross Green, l’uomo che più di tutti ha lasciato un segno negativo nella tradizione imprenditoriale britannica. Green 68 anni, lascia la scuola prima del diploma, che non gli serve per creare la sua enorme fortuna. A 16 trova lavoro in una società di import-export di scarpe di proprietà di amici di famiglia: poi passa a comprare abiti a prezzi stracciati da venditori falliti e li rivende a costi maggiorati. Nel 1980 apre una serie di discount di abbigliamento nel quartiere esclusivo di Mayfair. Uno si chiama Bond Street Bandit, il Bandito di Bond Street, titolo perfetto per la sua ascesa, fatta di spregiudicatezza commerciale e familiarità con i quartieri alti. Sfrutta amicizie potenti per operazioni spericolate, che spesso finiscono in fallimenti. Ma i suoi protettori non lo abbandonano, gli investitori lo supportano: nel 2000 compra la catena di centri commerciali Bhs per 200 milioni, nel 2002 il gruppo Arcadia per 770. Tre anni dopo, Arcadia paga un dividendo da 1,2 miliardi alla moglie di Green, Tania, a cui la società è intestata. Lei risulta residente a Monaco, e su quella cifra monstre non paga una sterlina di tasse. Malgrado tutto, Green è l’imprenditore del cuore, quello dal tocco d’oro, di politici, dai premier Tony Blair a David Cameron, e celebrities. Si vanta del suo potere: dichiara che perfino Anne Wintour, la gelida direttrice di Vogue, accorra a ogni suo cenno. Al culmine della sua ricchezza è valutato quasi 4,3 miliardi di dollari. Il declino inizia nel 2015, quando vende Bhs per la cifra simbolica di 1 sterlina: l’anno dopo la catena collassa, schiacciata dai debiti, con 571 milioni di buco nel fondo pensioni e 11mila addetti a spasso. Green precipita con il suo impero, e arrivano le rivelazioni: è accusato di essere un capitalista senza scrupoli, che maltratta i suoi dipendenti, li obbliga a firmare contratti capestro, molesta le impiegate, fa commenti razzisti.

Il magazine Spectator, vicino ai conservatori, scrive: “Lascia una eredità negativa. La sua fortuna, ora stimata in 900 milioni, è stata una terribile pubblicità per il capitalismo da libero mercato. I suoi modi rozzi, volgari e cafoni. La sua prepotenza leggendaria. Ha devastato le società che ha comprato, eluso le tasse, ignorato il suo staff, i fornitori e i beneficiari dei suoi fondi pensione”. Quello dei dipendenti di Arcadia ha un buco da 350 milioni. Lavoratori e sindacati chiedono di colmarlo. Uno ha proposto che Sir Philip venda il suo yacht Lionhearth, Cuor di Leone, 90 metri, 21 cabine. Vale 100 milioni.

“Mi camuffo e svelo complotti, ma sognavo di fare il capotreno”

In Liberia, per investigare il traffico di diamanti, si è finto ambasciatore. Negli Stati Uniti, per stare gomito a gomito con i Repubblicani, ha impersonato un conservatore danese. In Nord Corea, alle autorità del regime ha raccontato di essere a capo di una compagnia di attori comunisti che desiderava uno scambio culturale. Ma il paragone con l’attore Sacha Baron Cohen e il suo personaggio Borat, il giornalista kazako, è improprio. Brugger giornalista lo è davvero e la sua fama ha definitivamente varcato i confini della Danimarca con Cold Case Hammarskjold, uno dei documentari più visti su Amazon Prime, premiato ai festival internazionali. Tutto è cominciato quando Brugger ha letto per caso un articolo sull’aereo precipitato nel 1961 in Rhodesia, oggi Zambia. A bordo c’era il Segretario generale dell’Onu, Dag Hammarskjold, la cui morte, senza colpevoli, è stata oggetto d’indagine da parte del giornalista per sei anni: “Girare il film è stato un incubo, ogni anno dovevo spiegare all’Istituto cinematografico danese che ha finanziato il progetto perché non avevo finito, nonostante le decine di interviste raccolte. Poi, quando l’Onu ha riaperto il caso sulla morte di Hammarskjold, tuttora irrisolto, nessuno ha più bollato le ipotesi sul suo assassinio come roba cospirazionista”.

Alcune delle persone da lei intervistate nel documentario sulla morte del Segretario generale Onu sono finite nell’inchiesta giudiziaria.

Siamo riusciti a ricostruire l’esistenza della Samir, milizia segreta che pianificava il genocidio dei neri in Sudafrica, coinvolta nella morte del Segretario. Se il documentario è nato come un tentativo di fare il punto su un caso irrisolto, è diventato definitivamente un film dell’orrore quando abbiamo scoperto che c’era una carta da gioco sul cadavere di Hammarskjold: un asso di picche, simbolo della morte usato da Servizi segreti americani e britannici. Mi aspettavo che grandi giornali e agenzie mandassero i loro migliori reporter a investigare: non è accaduto.

Lei ha lavorato per la tv pubblica danese. Poi ha sviluppato un tipo di giornalismo fatto di performance, travestimenti, doppie identità, recitazione. Come lo definirebbe?

Qui in Danimarca qualcuno lo chiama giornalismo “performativo”, ma suona pretenzioso, io non ho un termine per definire quello che faccio. Ho cominciato questo modo di raccontare le storie durante la campagna elettorale di Bush nel 2004: io e un amico in America ci fingemmo giovani conservatori danesi. I Repubblicani erano entusiasti di accoglierci, non riuscivano a capire che eravamo una caricatura. Ma qualcosa di più controverso è accaduto: anche dopo aver visto la serie nata dalle nostre avventure, Danesi per Bush, molti elettori di Bush continuavano a farci i complimenti per il lavoro. Un collega poi mi disse: “Non c’è rischio a prendere in giro gli americani: dovresti fare lo stesso in un Paese sotto dittatura”. Allora ho provato in quello di Kim Jong-un.

Per documentare la vita in Nord Corea lei si è finto un imprenditore teatrale comunista, con tanto di compagnia di attori al seguito: è nato così “The Red Chapel”, la Cappella rossa.

Ogni giorno entravo in un ufficio e mi interrogavano: “Chi sei? Che vuoi fare?”. I funzionari di regime si appassionavano al progetto, andavamo a bere insieme la sera, ma la mattina dopo, quando entravo di nuovo nel loro ufficio, ricominciavano come se non ci fossimo mai visti appena poche ore prima: “Chi sei? Che vuoi fare?”. E si ripartiva da zero. Alla fine, la tv nazionale nordcoreana ha approvato il progetto e ci siamo trovati alla parata militare di Pyongyang.

La stessa tecnica l’ha usata per girare “The Ambassador” in Liberia in modo da documentare il traffico di diamanti: si presentava come ambasciatore.

Se fossi andato lì dicendo “salve, sono un giornalista”, mi avrebbero espulso subito. Così ho comprato a un altissimo prezzo documenti falsi da diplomatico sul mercato nero, e con la raccomandazione di un ufficiale di alto grado, sono arrivato fino al figlio del presidente.

Non ha mai avuto paura mentre girava?

In posti così il pericolo esiste per tutti, sia tu un cameriere o un documentarista. Conta solo avere sul territorio i tuoi amici, persone di cui ti puoi fidare. Se non ti abitui all’idea che quello è lo stato naturale delle cose, è meglio non andarci.

Era questo il lavoro che sognava di fare da piccolo?

In realtà da piccolo volevo fare il capotreno: adoravo le loro uniformi, un desiderio dettato dalla mia natura feticista. Poi ha prevalso il tratto genetico di famiglia: entrambi i miei genitori sono giornalisti. Mio padre era a capo del maggior quotidiano economico danese, mia madre si occupava di cronaca nera per un tabloid. Mi piace pensare di aver avuto il meglio dei due mondi.

Lei adesso sta per girare un altro documentario: ci dice su cosa?

No!

Usa, la democrazia al condizionale

La giornalista Robin Wright, scrivendo su The New Yorker (l’8 settembre 2020, online), chiedeva: “L’America è un mito?”. Un mito che comunque non mantiene più unito il Paese.

I sociologi ci hanno detto che gli Stati Uniti, diversamente da altri Paesi accomunati dal sangue e dal suolo, sono stati tenuti insieme da una serie di idee, ossia dalle verità evidenti contenute nella Dichiarazione di indipendenza: “Tutti gli uomini sono creati uguali” e “sono stati dotati dal loro creatore di alcuni inalienabili diritti [alla] vita, libertà e ricerca della felicità”. Il mito americano oggi è esposto a sfide esistenziali, che non provengono più solo dalle periferie. Molte persone sono consumate dalla rabbia. Al centro di questa situazione, c’è un senso di rettitudine morale, non totalmente genuino, frutto del passato puritano dell’America, che pervade la mentalità di alcuni gruppi politicamente o economicamente influenti. Nel Secondo dopoguerra molti statunitensi ritenevano che il proprio Paese fosse un’eccezione rispetto alle fragilità politiche che affliggevano gran parte del resto del mondo. Sta di fatto, però, che gli Stati Uniti sono stati lacerati da lotte intestine per gran parte della loro storia. Agli inizi della Repubblica imperversava una feroce competizione politica tra federalisti e repubblicani, a base di imbrogli e assassini. Dal 1820 al 1860 i sostenitori della schiavitù e i loro avversari hanno ingaggiato un’aspra lotta, che è sfociata nella guerra civile. La Ricostituzione (1863-1877) fornì solo una soluzione temporanea, fino a quando le leggi Jim Crow ristabilirono la supremazia dei bianchi sui neri. La guerra del Vietnam e il movimento per i diritti civili hanno portato un decennio di contestazioni, che hanno tracciato linee divisive generali per le due generazioni successive. A ciò si deve aggiungere il fatto che la divisione più dolorosa, come ci ha ricordato il movimento “Black Lives Matter”, riguarda la giustizia razziale e l’esercizio a volte abusivo del potere della polizia.

(…) Negli ultimi anni, i social media sono stati accusati di esercitare un’influenza divisiva sulla cultura politica americana. Gran parte della colpa però va attribuita alla stampa cartacea e ai media radiotelevisivi, che per decenni hanno ridotto la loro attenzione verso l’estero. La copertura delle notizie non soltanto si è notevolmente focalizzata sulle questioni nazionali, ma si è concentrata progressivamente sulla politica, riducendola a un talk show. Anche i media hanno contribuito al crollo dei valori nella società americana. Quando negli anni Ottanta The Real World, della rete HBO, si è fatto pioniere della Reality Tv, ha trasformato la cattiva condotta degli adolescenti e dei giovani adulti in intrattenimento per un pubblico di nicchia. Negli anni successivi quella è diventata la norma. Le donne, tradizionalmente promotrici e custodi della virtù, non hanno fatto eccezione. Girls Behaving Badly ha generato The Real Housewives of Beverly Hills, The Real Housewives of New York City, The Real Housewives of Potomac e così via. I reality oggi affollano i palinsesti delle trasmissioni di prima serata in cui gli adulti si comportano come fossero adolescenti fuori controllo che recitano il Signore delle mosche. Lo stesso presidente Trump ha attirato su di sé l’attenzione per i suoi interventi a The Apprentice e a WrestleMania.

(…) La crisi culturale americana è diventata una crisi politica, perché in una società in cui “chi vince prende tutto” sono state rimosse le barriere di protezione. Con la sentenza pronunciata in “Cittadini uniti contro la Commissione delle elezioni federali” (2010), la Corte Suprema ha annullato i limiti ai contributi alle campagne politiche, equiparando il denaro alla libertà di parola. Di conseguenza, i grandi gruppi economici e le persone facoltose hanno acquisito un’influenza spropositata nelle campagne politiche. Subito dopo la sentenza “Shelby County v. Holder”, l’Alabama, l’Arizona, il North Carolina, il North Dakota, l’Ohio, il Texas e il Wisconsin si sono attivati per limitare il diritto di voto delle minoranze.

(…) La crisi della democrazia statunitense deriva da disfunzioni nel sistema costituzionale. Si presume che il compromesso sia il modo in cui le democrazie fanno affari. Due accordi di questo genere contribuiscono all’attuale crisi della democrazia americana. Il primo riguarda il sistema elettorale del Senato, in base al quale ogni Stato ha diritto a due senatori. Si presume che esso serva a mantenere un equilibrio tra Stati piccoli e grandi e tra popolazioni rurali e urbane. Il secondo è il Collegio elettorale, l’organo che compie l’effettiva scelta dei presidenti, quello che, in elezioni incerte, può dare un peso determinante ai voti della minoranza popolare. Il Senato è progettato per essere un organo deliberativo, un organo che può impedire ai legislatori di dare risposte affrettate alla volontà pubblica. La Camera dei rappresentanti, che ha un mandato di 2 anni, è considerata “la Casa del Popolo”. I senatori, con un mandato di 6 anni, dovrebbero risultare più resistenti ai cambiamenti dell’opinione popolare. Nella suddivisione tra blu e rossi, i popolosi Stati costieri sono contrapposti agli Stati interni, più ricchi di terra e meno popolosi. Dato che la popolazione conta 330 milioni di abitanti, di cui la stragrande maggioranza risiede nelle aree urbane, il Senato conferisce un potere sproporzionato agli Stati rurali, sfidando le aspettative di legittimità democratica. Come il Senato, anche il Collegio elettorale è stato concepito quale strumento di controllo del potere popolare prima che le “elezioni democratiche” diventassero il modello della legittimità. Per due volte negli ultimi vent’anni – 2000 e 2016 – le elezioni presidenziali hanno prodotto un vincitore che, in sede di Collegio elettorale, non aveva raggiunto neppure la maggioranza relativa a livello di voto popolare nazionale. Soprattutto se combinate con la soppressione degli elettori, le vittorie ottenute da maggioranze ristrette, in alcuni Stati incerti, danno una percezione di illegittimità dei risultati elettorali.

(…) Il 7 novembre i principali organi di stampa hanno annunciato che Biden era stato eletto presidente con 306 voti elettorali, contro i 232 di Trump. Dieci giorni dopo, Trump non aveva ancora riconosciuto la vittoria del suo avversario. Per i democratici, il risvolto è quello di aver perso seggi alla Camera e il fatto che il Senato sia ancora in bilico, in attesa di un doppio ballottaggio senatoriale in Georgia (5 gennaio). Sebbene durante la campagna elettorale si parlasse di una nuova maggioranza democratica, i repubblicani sono riusciti a vincere, mantenendo la maggioranza dei parlamentari e dei governatori statali. Il voto è stato una vittoria per la democrazia Usa, grazie all’affluenza record di 145 milioni di elettori. I tribunali, ora dominati dai repubblicani, nominati da Trump, uno dopo l’altro hanno respinto le azioni legali volte a contestare i conteggi dei voti.

(…) Gli statunitensi non hanno sempre pensato al loro sistema di governo come a una democrazia. Si narra che nel 1787 Benjamin Franklin, al termine di un’assemblea durante i lavori della Convenzione, sia stato interpellato dalla moglie del sindaco di Filadelfia, Elizabeth Willing Powel, su quale forma costituzionale avrebbero assunto gli Stati Uniti. Questa la sua risposta: “Avremo una Repubblica, se sarete in grado di mantenerla”. Franklin e gli altri Padri Fondatori, guardando al passato, si preoccupavano per la democrazia popolare e progettarono la Costituzione dotandola di una serie di controlli contro l’affermazione del potere del popolo. Una visione più favorevole alla democrazia si fece strada con le riforme elettorali dell’Era progressista (1890-1920) – elezioni primarie, referendum, recall, elezione diretta dei senatori e suffragio femminile –, che annullarono i vincoli del modello repubblicano per costruirne uno più democratico. Due guerre mondiali combattute “in difesa della democrazia” hanno alimentato nell’opinione pubblica la convinzione che gli Usa fossero una democrazia. Sono state per lo più le passioni popolari, temute sia dai Fondatori sia dagli antichi che essi leggevano, a portare gli Usa a un momento di crisi. Finora né i vincoli costituzionali, né le virtù delle élite odierne sono riuscite a fermare la demolizione dell’American Experiment. Che si tratti di una Repubblica o di una democrazia, l’interrogativo è: i cittadini americani sapranno mantenerla?

 

Barr passa ai “buoni”, ma senza rapporto

Scherza Joe Biden, ma mica tanto, quando dice che William Barr “mi ha chiesto se posso farlo entrare nel programma di protezione dei testimoni ora che mi ha sostenuto”. Perché la posizione del Procuratore generale, fino a ieri tra gli alleati più stretti di Donald Trump, e che invece ha ammesso l’inesistenza di frodi elettorali riconoscendo di fatto la vittoria democratica, è una svolta. La battuta di Joe Biden è contenuta nella sua prima intervista di rilievo dopo la vittoria concessa al New York Times e offre uno spaccato particolarmente gustoso delle vicende statunitensi. Barr non è (era) un pasdaran trumpiano, ma anche l’autore di quel famigerato “rapporto” che lo scorso anno veniva sbandierato da tutti i principali quotidiani italiani e dai loro commentatori nelle trasmissioni tv come la pistola fumante che avrebbe provato le complicità italiane nella trama filo-russa imbastita da Trump contro Hillary Clinton. Il rapporto Barr si sarebbe dovuto abbattere come una mannaia sulla politichetta italiana dominata dagli sfaccendati 5 Stelle e dal loro premier, Giuseppe Conte, come un angelo vendicatore. Ora Barr ha mollato i “cattivi” ed è passato ai “buoni”. Senza rapporto.