Fronda 5S, la maggioranza sul Mes non ha i numeri

Non è un ultimatum da fine del mondo, ma una bella grana da risolvere sì. Dopo giorni di proteste e occhiatacce, la mina del Mes deflagra dentro i 5Stelle, con 42 deputati e 16 senatori che sottoscrivono una lettera in cui dicono no alla riforma del fondo salva-Stati. Un muro nero su bianco, mitigato dalla richiesta di assicurazioni che i firmatari pretendono di leggere nella risoluzione di maggioranza, quella che andrà votata mercoledì prossimo quando il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, riferirà in Parlamento sul Consiglio europeo dell’indomani.

Tradotto: i frondisti potrebbero anche votare il testo con il via libera alla riforma, ma alle loro condizioni. In caso contrario, i giallorosa non avrebbero i voti per reggere. Almeno a Palazzo Madama, visto che Forza Italia sarebbe rientrata nei ranghi del centrodestra nel nome del no al Mes. E già questo basta ad agitare ancora il M5S che è una nave nella tempesta congressuale. Ma anche per provocare la reazione del Pd, che in serata fa trapelare: “Non voteremo mai una mozione sulla riforma del Mes dove non ci sia scritto che il fondo va usato per le spese sanitarie”. Così in serata diversi deputati a 5Stelle si sfilano, come Mattia Fantinati e Iolanda Di Stasio (“non l’abbiamo firmata”) o Sabrina De Carlo (“Ho tolto la firma per evitare strumentalizzazioni”). Contraccolpi, da un testo costruito in gran parte dai deputati alfieri del no al Mes: Alvise Maniero, Raphael Raduzzi e Pino Cabras. “Non vogliamo in nessun modo mettere a rischio la maggioranza” scrivono in neretto i grillini, come a salvarsi l’anima. Frase centrale nella missiva inviata al reggente Vito Crimi, ai capigruppo e ai ministri competenti in materia, Luigi Di Maio e Alfonso Bonafede. E tra i firmatari affiorano i senatori Nicola Morra e Barbara Lezzi, probabilissimi candidati alla segreteria, e l’ex ministra Giulia Grillo, fino a parlamentari come il lombardo Cristian Romaniello. Uniti da un testo che invoca il ripristino della logica di pacchetto, ossia l’esigenza di accompagnare alla riforma del Mes l’Unione bancaria europea e il Bicc, strumento di bilancio per finanziare riforme e investimenti nella zona euro. E citano risoluzioni in tal senso fatte sia con la Lega che con il Pd. Poi però c’è il resto. “Le numerose posizioni contrarie alla riforma sui canali ufficiali del M5S” ricordano, per poi citare i punti critici del nuovo Mes: dal “ruolo rafforzato del fondo nella valutazione dell’accesso alle linee di credito”, alla “nuova suddivisione tra paesi ‘virtuosi’ e ‘viziosi’, secondo logiche che diciamo di voler cambiare”. Quindi i firmatari chiedono che “nella risoluzione venga chiesto che la riforma sia subordinata alla chiusura degli altri elementi delle riforme economico-finanziarie europee, in ossequio alla logica di pacchetto, o in subordine, di rinviare gli aspetti più critici della riforma del Mes”.

Se ne discuterà anche domani, in un’assemblea dei parlamentari con Crimi. “Un punto di caduta si può trovare” dicono dai vertici del M5S. Tutto dipende dalla risoluzione. Ieri una riunione sul testo dei capigruppo di commissione con il ministro agli Affari europei Amendola è stata “interlocutoria”. Ma c’è ancora tempo, dicono da entrambi i fronti.

Europarlamento: Lega con i ricchi, uniti (o quasi) Pd e Cinquestelle

In che modo vota il Parlamento europeo sui temi fiscali? E come si comportano i deputati italiani a Strasburgo? L’indagine è stata condotta da votewatcheurope.eu su commissione della Uil che il Fatto ha potuto leggere.

E si nota che in Europa la distinzione destra/sinistra vige a pieno con una congiunzione di voti elevata tra Pd e M5S e con un centrodestra, soprattutto la Lega, che mostra il volto liberista e incline a sostenere le grandi corporation. L’istituzione di una Autorità europea contro la frode e l’evasione fiscale, ad esempio, è stata respinta dal 60% dell’Europarlamento con il centrodestra allineato al voto contrario e Pd-M5S favorevoli. Sulla fissazione di una base imponibile comune per l’imposta sulle società, in modo da ridurre o eliminare l’elusione fiscale e il trasferimento dei profitti delle aziende che operano all’interno dei diversi stati membri Pd, 5Stelle, Italia Viva e anche Forza Italia a favore mentre solo la Lega contro e Fratelli d’Italia astenuto.

Il Pd si sposta a destra sull’imposta minima al 20% alle aziende multinazionali, respinta anche da Lega, FI e Fdi.

Sulla lista nera dei paradisi fiscali dell’Ue M5S, Pd e Iv votano di nuovo insieme a favore e il centrodestra contro (alla faccia dei partiti del popolo). La Lega è poi l’unico tra i partiti italiani che non vota a favore della web tax né a favore di una tassazione internazionale sulle transazioni finanziarie preferendo astenersi.

“Come emerge dallo studio che abbiamo condotto – dice al Fatto il segretario Uil, Pierpaolo Bombardieri – tematiche come l’imposta sulle transazioni finanziarie, web tax e tassazione delle Big Tech, la lotta ai paradisi fiscali e all’elusione, o più semplicemente il superamento del meccanismo del voto all’unanimità sulle questioni fiscali, sono argomenti che trovano ancora profonda divisione all’interno del Parlamento e delle istituzioni comunitarie. Noi crediamo fortemente nell’Europa, e pensiamo che la costruzione di un’Unione diversa, più equa e più giusta, passi anche e soprattutto da queste decisioni”.

Ma c’è un ostacolo: dove si nasconde oggi la ricchezza?

Che l’argomento sia scivoloso pressoché da sempre lo lasciamo testimoniare a un appunto riservato di Luciano Barca, economista e dirigente del Pci, per Enrico Berlinguer in vista di un incontro con Aldo Moro: “Per la finanza straordinaria occorre fare attenzione. Quando si parla con facilità di ‘imposta straordinaria patrimoniale’ non ci si può dimenticare che in Italia abbiamo 12 milioni di proprietari di case e milioni di piccoli proprietari di terreni”. Era il 12 giugno 1974 e la situazione, quanto al dibattito pubblico, non pare cambiata.

Si spera che i numeri del pezzo che leggete qui accanto abbiano guarito le eventuali perplessità sulla natura delle proposte di patrimoniale sul tavolo e su chi finirebbe per pagare (persino in assenza di una pur necessaria riforma del catasto), eppure l’estemporaneità di queste uscite – da ultimo quella di Orfini e Fratoianni – rischia di oscurarne il sacrosanto obiettivo e anche i punti che vanno meglio precisati.

Rispetto al 1974, ad esempio, l’intero sistema fiscale è diventato più oscuro e di gran lunga meno progressivo, specie per quanto riguarda i redditi: nell’ambito di una riforma complessiva spostare il carico fiscale sul patrimonio e in generale sui più ricchi – che sono spesso anche quelli che hanno ereditato ricchezza pagando quasi nulla – deve servire a renderlo più equo, cioè a sgravare i redditi da lavoro rispetto alle rendite da un prelievo oggi davvero eccessivo (e che penalizza il ceto medio vero, non quello con tre case e un ricco portafoglio titoli sognato dai media), non a “fare cassa”, specie durante una crisi. L’aumento del prelievo ha sempre effetti depressivi, anche se in misura minore sui redditi più alti: non proprio la cosa che uno vorrebbe col Pil che torna indietro di decenni.

Quali sono oggi i problemi di una patrimoniale sui più ricchi? Dando per assodato che una maggiore progressività è necessaria (meglio ribadirlo in tempi di flat tax), sono almeno un paio: uno c’era già nel 1974, uno è figlio degli ultimi decenni e incrocia un altro grande problema non solo italiano. Intanto l’Italia ha storicamente un problema di fedeltà fiscale, a livello percentuale specie nel Mezzogiorno: significa che, al di là delle stime, è spesso difficile nei fatti aggredire o persino conoscere lo stato reale di redditi e ricchezze di un bel pezzo della popolazione. Ovviamente un numero di “furbi” troppo alto rischia di vanificare l’obiettivo di una tassazione più equa: migliorare questo aspetto, che significa in larga parte migliorare la pubblica amministrazione, potrebbe essere meno semplice di quanto si pensi.

Il secondo ostacolo che una riforma del genere dovrebbe affrontare è ancora più complicato da superare: i capitali non hanno più frontiere. Se si prende la famosa classifica dei super-ricchi di Forbes per il 2020 vi si trovano 36 italiani – da Giovanni Ferrero in giù – con patrimoni calcolati in circa 130 miliardi di euro: in molti casi, però, anzi in quasi tutti, il passaporto italiano del proprietario non significa che quella ricchezza sia in Italia o sia assoggettata alla legge italiana (né che non possa spostarsi in un amen alla bisogna). Persino gli immobili, non solo i redditi o le azioni, possono essere “inscatolati” in una società di diritto estero, cosa che peraltro già fanno in molti. I super-ricchi, in un sistema di piena mobilità dei capitali, si scelgono su un menu gentilmente fornito da Paesi compiacenti dove e spesso quanto vogliono essere tassati: persino l’Unione europea, com’è noto, annovera tra i suoi membri dei veri e propri “paradisi fiscali” (e per il fisco contestare la mobilità all’interno dell’Ue è ancor più complicato del normale).

Per dare solo un’idea, visto che anche qui è difficile avere una dimensione esatta del fenomeno, secondo un rapporto pubblicato da poco del Tax Justice Network nel solo 2019 gli Stati mondiali hanno perso 427 miliardi di dollari in tasse grazie ai paradisi fiscali e ai trucchi finanziari di aziende e persone fisiche. Per la sola Italia questo giochino l’anno scorso valeva 12,3 miliardi di dollari: 8 per l’elusione di aziende (soprattutto multinazionali) e il resto di singoli contribuenti. In questo contesto, il vero rischio è che la patrimoniale sia la tassa di chi non è abbastanza ricco, sveglio o disonesto da comprarsi un sistema su misura in qualche altra parte del mondo.

Chi ha davvero paura della patrimoniale

Che paura che fa la patrimoniale. Basta solo accennarne l’introduzione che in Italia scatta una reazione isterica, prevalentemente a destra, ma non solo, da far impallidire i camionisti cileni che diedero il via all’affossamento di Salvador Allende.

La proposta avanzata da LeU con qualche improbabile compagno di strada democratico (vedi Matteo Orfini, che da presidente del Pd avallò il Jobs Act) non ha certo brillato per fattibilità, come ha già argomentato su queste pagine Antonio Padellaro. Non a caso quell’emendamento alla legge di Bilancio è stato giudicato ieri “inammissibile” dalla commissione Bilancio della Camera per “carenza o inidoneità della compensazione”, cioè per mancanza di coperture.

Qui viene a galla il primo paradosso. L’inammissibilità, infatti, dipende da ragioni opposte a quelle per cui il provvedimento è stato duramente attaccato. A fronte di un prelievo sul patrimonio, infatti, l’emendamento prevedeva anche l’abolizione dell’Imu sulle persone fisiche (oggi esistente solo sulle seconde case) e dell’imposta di bollo sui conti correnti bancari e deposito titoli.

L’abolizione provocherebbe un mancato gettito di circa 19 miliardi da compensare con la “patrimoniale” che è stata pensata così: un’imposta sui grandi patrimoni superiori a 500 mila euro comprensivi di attività mobiliari e immobiliari al netto delle passività finanziarie, con un’aliquota base dello 0,2% che sale allo 0,5% oltre 1 milione di euro e fino a 5 milioni di euro e poi sale ancora all’1% sopra i 5 milioni e al 2% sopra i 50 milioni. Per la commissione Bilancio, però, la compensazione non è chiara e quindi l’emendamento non è stato accolto.

Nicola Fratoianni, mostrandosi sorpreso e minacciando ricorsi, dice al Fatto che secondo i calcoli di Sinistra italiana il saldo netto positivo della misura sarebbe di 10 miliardi, “ma in Italia manca una valutazione del patrimonio e quindi è difficile fare valutazioni esatte”.

Lasciando da parte l’improvvisazione con cui l’iniziativa è stata presa, quello che colpisce è il furore con cui la destra italiana e quel manipolo di “liberisti de noantri” che popola le pagine dei principali giornali ha reagito al grido di “giù le mani dai nostri portafogli”. Tra i più esagitati, Alessandro De Nicola, presidente dell’Adam Smith society e Nicola Porro, vicedirettore del Giornale e uomo-Mediaset.

Gli attacchi vengono portati senza alcuna attinenza ai numeri reali e con la reale condizione delle famiglie italiane preferendo urlare a un generico “assalto criminale” al bene supremo degli italiani, la casa. Qui, però, si fa sempre finta di non sapere che le imposte si pagano sui valori catastali e non sul valore commerciale, che è di circa tre volte il valore di riferimento per l’imposta. Ne troviamo conferma sia in uno studio della Cisl che nelle stime di Salvatore Morelli, Research Assistant Professor presso il Graduate Center della City University of New York.

Quando si pensa a un valore immobiliare di 500 mila euro occorre pensare a un bene che sul mercato vale circa 1,5 milioni, una piccola reggia se non è collocato di fronte al Duomo di Milano. Ma non è neanche questo a inquinare il dibattito. Il vero problema è la concentrazione della ricchezza in Italia dimostrata da tutti gli studi da qualunque parte provengano. I numeri di Banca d’Italia parlano chiaro. Solo il 10% più ricco delle famiglie italiane ha un patrimonio complessivo, finanziario e non, superiore ai 500 mila euro, anzi, stando ai dati riferiti al 2016, gli ultimi disponibili, ai 462 mila euro.

Questo decile della popolazione, come si vede nella tabella, detiene il 44% della ricchezza complessiva stimata, al lordo delle passività finanziarie, in 9.742 miliardi di euro. Significa che il 10% delle famiglie detiene circa 4.286 miliardi di euro della ricchezza complessiva. Quella detenuta dal 30% più povero delle famiglie è appena l’1% di quella complessiva, e come sottolinea la Banca d’Italia, “tre quarti di queste famiglie sono anche a rischio di povertà. Il 30% più ricco delle famiglie, invece, detiene circa il 75% del patrimonio complessivo, con una ricchezza netta media pari a 510 mila euro, il doppio della ricchezza media delle famiglie pari a 206 mila euro.

“Tra il 2014 e il 2016 la ricchezza netta media è diminuita del 5%”, ricorda ancora Banca d’Italia mentre uno studio di Morelli e di Paolo Acciari, dirigente del Mef, mostra come dal 1995 al 2014 la ricchezza dell’1% più ricco della popolazione sia passata dal 17 al 27% della ricchezza netta complessiva.

Altro che “ceto medio” in lacrime di fronte alla patrimoniale, qui c’è un nucleo molto ristretto di super-ricchi – spesso evasori fiscali, beneficiari di paradisi intra ed extra-europei, meri beneficiari di eredità – che monopolizza il patrimonio nazionale.

Per questo la discussione sulla tassazione dei patrimoni non è un tabù e infatti è entrata nel dibattito spagnolo, grazie a Podemos, con un’imposta del 2% sulle attività nette superiori a 1 milione di euro, per poi salire progressivamente. Anche in Francia, benché a governare ci sia il liberista Emmanuel Macron, l’imposta sulla fortuna (Isf) non è stata eliminata del tutto lasciando in vigore quella sui patrimoni immobiliari con aliquote progressive a partire da 1,3 milioni.

L’economista Thomas Piketty nel suo recente Capitale e ideologia mostra come la quota di reddito a disposizione del 10% di popolazione più ricca (di Usa, Europa, Cina, India e Russia) sia passata dal 25-35% del 1980 al 35-55% del 2018. E ispirandosi alla “giustizia” di John Rawls propone una robusta tassazione patrimoniale per finanziare una “dotazione di capitale” ai giovani di 25 anni dall’importo di 120 mila euro.

Una idea simile rilancia il Forum Diseguaglianze e Diversità coordinato da Fabrizio Barca, che ha lanciato l’ipotesi di offrire ai giovani di 18 anni una “eredità universale” di 15 mila euro al compimento della maggiore età da prelevare proprio con una imposizione sulla successione. Figurarsi dopo il napalm berlusconiano cosa succederebbe se si discutesse di nuovo di tassa di successione. Eppure, ai “liberisti de noantri” non farebbe male rileggere Alexis de Tocqueville: “Mi stupisco – scriveva ne La democrazia in America – che gli scrittori politici non abbiano attribuito alle leggi sulle successioni una maggiore influenza sulle cose umane: dovrebbero essere messe in testa a tutte le istituzioni politiche”. Già.

Aspi, il dirigente condannato: “Ho coperto Castellucci, ora mi bacia il c… per vent’anni”

Igiudici hanno appena condannato manager e tecnici di Autostrade per l’Italia per i 43 morti di Avellino, ma per i vertici della società questo risultato è un “successo”, perché la sentenza ha risparmiato l’amministratore delegato, Giovanni Castellucci. Il “capo” è stato salvato dalla fedeltà del numero tre Paolo Berti, manager che sovrintende le manutenzioni. Berti si è accollato cinque anni e ora passa all’incasso. Il patto del silenzio ha un prezzo e questo prezzo viene deciso, secondo la Guardia di finanza, nell’ufficio di Castellucci: “Gli ho detto – riferisce Berti a proposito dell’incontro – che il risultato di oggi per l’azienda è straordinario. E questo risultato è arrivato grazie a sei coglioni che ci hanno messo la faccia. Adesso a questi sei coglioni e alle loro famiglie bisogna garantire la business continuity”.

Le nuove intercettazioni sono state depositate in questi giorni dalla Procura di Genova, per ottenere la conferma delle misure cautelari nei confronti di Castellucci, Berti e di Michele Donferri Mitelli, indagati successivamente anche nel procedimento per il crollo del Ponte Morandi e nell’indagine parallela sulle barriere antirumore fallate. In quelle conversazioni, per chi indaga, c’è la dimostrazione che l’ex gruppo dirigente di Aspi ha continuato a inquinare le prove, anche dopo il disastro di Genova. In particolare, gli inquirenti ricostruiscono un momento cruciale, l’11 gennaio 2019, giorno della sentenza di Avellino. Giovanni Castellucci, in quel momento amministratore delegato di Atlantia, convoca nel suo ufficio Berti, che confida a Donferri di sentirsi “scaricato” e usato” dal “capo”. Castellucci lo cerca insistentemente tutta la mattina, poi lo fa prelevare all’aeroporto dal suo fedelissimo Donferri. Berti minaccia di parlare in Appello, e mettere nei guai “il capo”, che chiama anche “la bestia”. Rivendica di averlo difeso mentendo e impedendo ai pm “di arrivare a lui”: “Gagliardi (ufficio legale) ha fatto carne da porco. Per difendere la linea di Autostrade ci sono andati di mezzo i piccoli, i direttori di tronco. I tabulati telefonici e le successive telefonate dimostrano che l’incontro, alla fine, si tiene davvero. E qui Berti ha proposto la sua offerta “in doppia copia”. “Dieci anni in Atlantia”, “la certezza di non essere licenziato” e la “sicurezza per i familiari”. Il suo stipendio dall’inizio del processo è lievitato da 240mila a oltre 700mila euro l’anno, una “premialità anomala”, annota la Finanza. “Ti conviene che lui rimane amministratore – gli dice Donferri – se qualcuno si accorge che guadagni quei soldi ti manda via…”. “Castellucci – replica Berti – adesso mi bacia il culo per vent’anni”.

Concorsi truccati a Careggi: “Rettore vada a giudizio”

Secondo i pm, stabilivano “a monte” l’ordine di priorità dei concorsi per professori ordinari rispetto ad altri settori che avrebbero avuto la “priorità” individuando già “i vincitori” ancor prima che “il concorso venisse espletato”. La Procura di Firenze ha chiuso le indagini sui presunti concorsi truccati che nel gennaio del 2019 avevano travolto l’ospedale universitario di Careggi: oltre agli 11 professori universitari, sono indagati anche l’ex dg della Sanità Toscana, Monica Calamai (dall’estate scorsa alla Asl di Ferrara), e il dg di Careggi, Rocco Damone. Le accuse, a vario titolo, sono di abuso d’ufficio e turbativa libertà del procedimento di scelta. L’inchiesta era partita dalla denuncia del professore associato di Otorinolaringoiatria che per anni aveva aspettato invano la cattedra da ordinario nel suo dipartimento, risultando uno dei docenti danneggiati. Secondo l’accusa, l’ex dg dell’Azienda Universitaria Calamai aveva individuato il professor Alessandro Della Puppa come nuovo professore associato di Neurochirurgia “ancor prima che il concorso venisse espletato” incontrandosi con lui e con gli altri docenti mentre Damone – successore di Calamai – aveva confermato la decisione. Riguardo a un altro concorso truccato, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio nei confronti di Calamai, del rettore Luigi Dei e di altri 7 docenti. L’inchiesta riguarda la nomina a professore associato del cardiochirurgo Pierluigi Stefàno: secondo i pm sarebbe stato cucito “un bando funzionale” a garantire la vittoria di Stefano fino a far pressioni su un altro cardiochirurgo perché citasse i suoi lavori nelle proprie pubblicazioni. Da qui l’accusa, a vario titolo, di tentata concussione e abuso d’ufficio. Per quest’ultimo reato è stato chiesto il rinvio a giudizio di Dei: non avrebbe escluso Stefàno dal concorso nonostante non avesse i requisiti.

Foggia Calcio, incendiata la porta della casa del capitano Gentile: “Potrei lasciare il club”

Opera di tifosi violenti o della criminalità foggiana? È uno degli interrogativi a cui la Procura dauna sta cercando di rispondere per l’attentato intimidatorio subito martedì notte dal capitano del Foggia Calcio, Federico Gentile. Qualcuno, mentre lui era in casa con la famiglia, ha appiccato il fuoco alla porta d’ingresso. “Sono sconvolto, è un episodio molto grave che non ha nulla a che fare con il calcio”, ha commentato Gentile che non ha nascosto l’idea di lasciare il club. Il presidente Roberto Felleca, la cui gestione ha provocato l’ira di una frangia della tifoseria, ha chiesto ai foggiani di far sentire la propria vicinanza al calciatore. Al coro si sono uniti anche il ds Ninni Corda, il sindaco Franco Landella e il presidente della Lega Pro in cui milita il club Francesco Ghirelli. Non è la prima volta che il calcio foggiano finisce nel mirino: nell’aprile 2019 al calciatore Pietro Iemmello fu incendiata l’auto. Ma il club è finito anche nel mirino della mafia foggiana che imponeva il pizzo all’ex presidente e l’ingaggio di calciatori vicini ai clan.

“Insulti sessisti a Raggi, zero solidarietà”

Maria Latella, editorialista del Messaggero, lo chiama “silenzio a intermittenza”. Ne ha scritto ieri sul suo giornale e oggi lo ribadisce al Fatto: in politica non tutti gli insulti alle donne sono uguali, qualcuno provoca scandalo e qualche altro passa inspiegabilmente sotto silenzio.

L’ultimo esempio è l’attacco di Matteo Salvini a Virginia Raggi, sbeffeggiata l’altro giorno davanti alla telecamere: “Questa è scema proprio, poverina”. “Quando è capitato a Mara Carfagna o a Maria Elena Boschi – è la versione di Maria Latella – le reazioni delle colleghe parlamentari ci sono state. Per la Raggi, invece, solo silenzio”. Da tutti: politiche, politici, opinioniste e opinionisti, compresi i più attenti ai temi di genere. Perché?

Latella ne fa un discorso di “effetto clan”: “Se si tratta di una persona che fa parte del tuo mondo politico di riferimento, del tuo clan, allora la solidarietà scatta quasi automatica. In caso contrario, diciamo che ci si distrae”. E non può essere una scusante il fatto che l’insulto di Salvini sia un termine riferibile anche a un uomo: “Non è la stessa cosa e non deve essere sottovalutata – ci dice Latella– perché questi insulti servono proprio a screditare la competenza di una donna”. Come a dire che, in quanto donna, non sa far nulla.

L’esempio citato è quello della Raggi, ma situazioni analoghe sono state denunciate più volte da altre esponenti politiche.

Al Fatto ne parla Daniela Santanchè, che riconduce tutto allo scontro politico: “Mi sembra chiaro che ci siano insulti di Serie A e insulti di Serie B, a seconda se le insultate sono di destra o di sinistra. È sempre stato così, non mi stupisco. Ma ci sono donne che vanno difese e altre che possono essere insultate liberamente”.

Di certo c’è che l’argomento è delicato persino per chi di solito non ha problemi a esporsi sul tema. Una dozzina di giornaliste hanno preferito declinare il nostro invito a parlarne, mentre ancora ieri il caso Salvini-Raggi non meritava particolare attenzione né sui social né sulle rubriche delle migliori firme sul tema. Una risposta viene allora dalla deputata del Pd Monica Cirinnà, a sua volta spesso vittima di attacchi sessisti: “Io ho sempre solidarizzato con le mie colleghe a prescindere dal colore politico, anche se questa volta – ammette– mi era sfuggito l’episodio contro la Raggi. Ma in realtà posso dire che pure nei miei confronti c’è una solidarietà a tempi alterni”. Michela Di Biase, consigliera laziale dem da sempre attiva contro le discriminazioni di genere, riconosce la necessità di farne una battaglia condivisa: “Ho difeso Giorgia Meloni quando le dicevano che non poteva fare politica perché incinta e ho difeso la Raggi dalle orrende prime pagine di Libero nei suoi confronti. Su questo bisogna essere trasversali, dobbiamo lavorare perché la condanna sia comune e superi differenziazioni”. Anche sul caso più recente: “Non ho mai sentito Salvini dare dello scemo a un uomo. In più, Raggi ha l’aggravante di essere giovane”.

Da tutt’altra parte va invece Lucia Annunziata, secondo cui la solidarietà “di facciata” non sposta nulla nel dibattito: “La verità è che nessuna donna è mai difesa abbastanza, né la Raggi né nessun’altra. Magari qualcuna può contare su qualche tweet in più, ma nella sostanza che cambia?”. Il punto, allora, è “che l’insulto alle donne resta l’arma atomica in mano agli uomini”. E tanto basta.

Summit ultradestra-radicali, alleati per liberare i camerati

È in fondo una questione di clan. Anzi, “clanica”, per usare le parole del rifondatore di Ordine Nuovo, Rainaldo Graziani, fulminato dal verbo radicale. Per i camerati la campagna per l’amnistia promossa da Rita Bernardini, impegnata nello sciopero della fame, è appena una sorta di passepartout. Un grimaldello per far uscire i neofascisti che ancora scontano la pena per reati di terrorismo e omicidio.

L’alleanza è nata sulla riva del lago di Varese, all’interno della cascina “La Corte dei Brut”, i bravi di manzoniana memoria. Un antico avamposto militare trasformato in ristorante, da almeno un paio di decenni punto di riferimento per tanti movimenti neofascisti. Qui, nel 2018, il padrone di casa Rainaldo Graziani, figlio di Clemente, cofondatore di Ordine nuovo insieme a Pino Rauti, offrì ad Aleksander Dugin la lampada di Yule, oggetto votivo delle SS, usata per festeggiare il solstizio di inverno. A fine agosto, Graziani, insieme all’inseparabile Maurizio Murelli – a capo del gruppo Orion, fedeli sostenitori prima dell’Iran e poi della Russia di Putin – hanno accolto sorridenti Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, radicali legati a Nessuno tocchi Caino. A suggellare l’alleanza una foto di gruppo, postata sui social.

Se quell’immagine è passata sotto silenzio tra i radicali, ha invece fatto un certo rumore nell’ambiente dei neri. Arriva novembre e la campagna di Rita Bernardini per “un provvedimento di amnistia e di indulto” entra nel vivo. Rainaldo Graziani annuncia pubblicamente su Facebook che parteciperà anche lui allo sciopero della fame. “Non si tratta mica della stessa che alzò un polverone in difesa dei sei rumeni che violentarono quella ragazzina di Guidonia, vero?”, gli chiede un utente su Facebook. E la risposta è rivelatrice: “Si tratta della Rita che sta rifacendo le chiavi della cella di Pasquale B. o di Egidio G.”, risponde Graziani, richiamando i nomi di Pasquale Belsito ed Egidio Giuliani. Belsito è stato condannato all’ergastolo in contumacia per costituzione di banda armata, concorso in attentato con finalità terroristiche ed è stato arrestato in Spagna nel 2001, dopo 20 anni di latitanza. Egidio Giuliani, ex Nar, è stato a sua volta condannato per l’omicidio di Fanella, il cassiere di Gennaro Mockbel rimasto ucciso in un agguato a Roma nel 2014. Il figlio del fondatore del Movimento politico Ordine nuovo – sciolto nel 1973 e indicato nei processi come la matrice ideologica della stagione delle stragi – ha poi spiegato che in fondo l’obiettivo per l’area neofascista è solo uno: “Io sono così preso dalla volontà di riportare a casa i ‘nostri’ amici che considero compagni di viaggio chiunque sia sulla stessa linea di intenti”. Insomma, dalle parti di Varese, tra lampade delle SS e cene tra camerati il pensiero va ai terroristi mai pentiti: “Vivo una dimensione clanica”, spiega.

Graziani è una figura centrale all’interno dei movimenti dell’estrema destra italiana fin dagli Anni 80. Trent’anni fa fondò a Roma il movimento Meridiano zero, che si autosciolse dopo l’emanazione della legge Mancino. Nel 2018, durante un incontro riservato, annunciò la rinascita dell’organizzazione fondata dal padre negli Anni 50: “Presiedo il centro studi Ordine nuovo, che è stato rifondato”. Da quel momento una serie di associazioni legate a Graziani hanno promosso i tour di Aleksander Dugin in Italia. “L’estrema destra sta diventando forte a livello di consenso, ma è alla ricerca di teorie – spiega al Fatto Matteo Albanese, professore a contratto di Storia dei partiti e movimenti politici dell’Università di Padova – e questa è sempre stata la funzione di Ordine nuovo. Puntano a ribadire un serie di concetti di tradizionalismo antidemocratico, per riempire il vuoto teorico della destra in Italia”. E, in attesa dell’improbabile golpe, puntano tutto sulla liberazione dei camerati. Una questione di clan.

Compensi per mascherine. I primi indagati in Procura

L’indagine della Procura di Roma sulle maxi commesse di mascherine comprate dalla Cina nel marzo-aprile scorso è a un punto di svolta. Al Fatto risulta che il fascicolo è iscritto a modello 21 e dunque ci sono i primi indagati. L’inchiesta parte da una segnalazione di operazione sospetta (Sos) fatta all’Autorità Antiriciclaggio Uif di Bankitalia da parte di un istituto bancario, sui guadagni per decine di milioni di euro realizzati da alcune società italiane. Lo scenario è noto: nei mesi del lockdown l’Italia era alla ricerca disperata di mascherine. Molte aziende inondavano gli uffici del Commissario di mail proponendo commesse da aziende cinesi. Qualcuna è riuscita a fare l’affare della vita. Molte altre no. La Sos dalla quale parte l’indagine mette nel mirino i guadagni che sarebbero stati realizzati dalla Sunsky Srl di Milano di Andrea Vincenzo Tommasi e da un’altra società che fa capo all’ex giornalista Rai Mario Benotti.

Il 25 marzo, il 6 aprile e il 15 aprile scorso il Commissario per l’emergenza sanitaria guidato da Domenico Arcuri ha acquistato complessivamente con vari ordini 801 milioni circa di mascherine per circa un miliardo e 251 milioni. Su questo affare sarebbero state riconosciute (secondo il quotidiano La Verità che ha pubblicato le segnalazioni di operazioni sospette giunte all’Uif) provvigioni per 72 milioni di euro a beneficio della Sunsky e, in parte minore, del suo intermediario Mario Benotti.

Sunsky è una società milanese che nella nota integrativa del bilancio 2019 approvato a giugno dichiara: “Nel corrente esercizio 2020 importanti contratti commerciali aventi ad oggetto presidi sanitari per far fronte all’emergenza sanitaria nazionale hanno dato un enorme impulso all’attività della Sunsky Srl consentendo un fatturato che potrebbe raggiungere alcune decine di milioni di euro”. Nello stesso bilancio si legge che nel 2019 il fatturato non arrivava a 1,8 milioni di euro e nel 2018 superava di poco i 900 mila euro. Nella segnalazione della banca finita nella relazione dell’Uif, secondo La Verità, si leggerebbe che “sospette appaiono anche le provvigioni che sembra sarebbero riconosciute oltre che a Sunsky anche a Microproducts It srl per quasi 12 milioni di euro a fronte di ricavi nel 2019 di circa 72 mila euro”.

La suddetta Microproducts It è presieduta e controllata, mediante la Partecipazioni Spa, da Mario Benotti, ex giornalista Rai che gode di ottimi rapporti in Vaticano e con il mondo dell’ex Dc emiliana. Recentemente ha pubblicato il libro “Un democristiano borghese” ed era caposegreteria non retribuito del sottosegretario Sandro Gozi alla presidenza del consiglio, ai tempi di Renzi. In quella fase aggancia buoni rapporti con Mauro Bonaretti, allora capo di gabinetto del sottosegretario e poi del ministro Graziano Delrio. Bonaretti oggi collabora con Arcuri ma non è lui il gancio di Benotti, come non lo è nemmeno il responsabile dell’Ufficio acquisti Antonio Fabbrocini.

Al Fatto risulta che Benotti conosce personalmente dai tempi di Palazzo Chigi il Commissario Arcuri. Benotti lo contatta personalmente senza intermediazioni e Arcuri, dopo aver ascoltato la sua proposta, lo gira agli uffici preposti.

L’offerta delle società cinesi in contatto con Tommasi, veicolata attraverso Benotti ad Arcuri, viene recepita. Sul sito del Commissario si legge che i fornitori cinesi “erano tra i pochi al mondo in grado di offrire in modo affidabile notevoli quantità di mascherine a prezzi per l’epoca concorrenziali”. Inoltre in via ufficiosa dallo staff del Commissario fanno sapere che altre società in quel periodo si erano offerte con prezzi simili ma chiedevano un acconto prima della consegna. Mentre i fornitori cinesi proposti da Benotti e Tommasi sono stati pagati solo dopo la consegna. Una differenza non da poco viste le esperienze di altri soggetti pubblici come la Regione Lazio.

I prezzi, che oggi possono apparire alti (2,2 euro per una mascherina Ffp2; 3,4 euro per una Ffp3 e 0,49 per una chirurgica), in quel momento sempre secondo la versione ufficiosa degli uomini vicini al Commissario, rendevano appetibile l’offerta veicolata da Benotti.

La Procura di Roma ora sta studiando le carte. Non si conoscono gli indagati. Il Commissario è estraneo alle indagini e non è detto che sotto inchiesta ci siano i protagonisti delle segnalazioni dell’Uif. Anche perché il ‘sospetto’ dell’Antiriciclaggio è un presidio preventivo ma spesso le situazioni segnalate non configurano un illecito.