Londra annuncia: “Autorizzato Pfizer” Ema: “Non è così”

“Il Regno Unito è il primo Paese al mondo ad avere ottenuto l’approvazione per la fornitura di un vaccino” anti-Covid, ha annunciato il ministro della Salute, Matt Hancock. Secondo Hancock, l’Agenzia regolatoria del Farmaco (Mhra) avrebbe battuto sul tempo tre delle più grandi agenzie del farmaco al mondo – Fda Usa, Ema europea e Pmda giapponese – sull’approvazione del primo vaccino anti-Covid, quello di Pfizer/BioNTech. Ottocentomila dei 40 milioni di dosi saranno disponibili già dalla prossima settimana, con priorità a ospiti e lavoratori delle case di riposo, seguiti da ultraottantenni e personale sanitario. Per Hancock le ragioni del primato sono due: “Mhra ha lavorato con Pfizer esaminando i dati man mano che arrivavano,” e questo le ha fatto guadagnare tempo; secondo: “mentre fino allo scorso anno eravamo membri dell’Agenzia europea del Farmaco, oggi grazie a Brexit ci siamo basati sulle scelte del regolatore britannico, un’eccellenza mondiale; gli europei, si stanno muovendo più lentamente”. Dichiarazione coerente con la linea pro Brexit del governo Johnson, ma subito smentita dal direttore generale di Mhra, June Raine, che ha chiarito come il processo di approvazione abbia seguito i requisiti Ue fino a fine 2020.

La verità è un’altra, come il Fatto ha riscontrato. “Mhra ha rilasciato un’autorizzazione temporanea di un certo quantitativo, e per uno specifico gruppo di persone, di un vaccino non ancora approvato per il commercio,” spiega Ema. L’autorizzazione temporanea e l’approvazione al commercio sono due cose molto diverse. Prima di tutto “nel livello delle prove presentate e dei controlli richiesti,” molto più blandi, rispetto alla procedura disposta da Ema. “Quella britannica è un’approvazione all’uso di alcuni lotti, non dell’intero vaccino – spiega Armando Genazzani, rappresentante italiano al Comitato per i medicinali a uso umano (Chmp) di Ema che valuta i vaccini Covid – Ema non ha questa possibilità, ma ogni Stato membro avrebbe potuto adottare la stessa scorciatoia”, spiega. “Meno male che nessuno lo abbia fatto”. Perché? Fare domanda a Ema per l’approvazione al commercio significa sottoporre tutti i dati delle sperimentazioni, da quelle pre-cliniche a quelle sull’uomo, richiede un mese di tempo e gli occhi di 100 esperti, prima di fornire una prima opinione (prevista per il 29 dicembre) – e non ancora un’autorizzazione. Quella rilasciata nel Regno Unito prevede la sottomissione di una piccola parte di dati, avvenuta solo il 23 novembre e valutati da Mhra in una sola settimana. La procedura non offre la stessa affidabilità.

Ema aveva ricevuto questa estate il dossier sugli esperimenti pre-clicnici e sulla qualità del prodotto. Anche rispetto a questa tranche ci sono problemi irrisolti. “Abbiamo fatto ulteriori domande su qualità, stabilità del prodotto, catena del freddo, dubbi che ancora non sono risolti”, spiega Genazzani. Sui dati clinici arrivati due giorni fa, “a prima vista, non sembrano esserci elementi negativi da balzare sulla sedia, ma una cosa è dire che a prima vista sembra che funzioni, un’altra è avere il controllo di 100 esperti su ogni dettaglio”. Eppure per i media l’approvazione è scontata, quasi che Ema svolgesse un’attività proforma. “Non è così – aggiunge – Oltre ai tre vaccini principali, ne abbiamo altri 15 da valutare. Di sicuro avremo un vaccino, ma non sappiamo ancora quali saranno approvati e quali no”.

Vaccino: all’Italia 200 milioni di dosi e non sarà obbligatorio

Ventimila persone impegnate: medici, infermieri e operatori sanitari, ma anche giovani laureati in Medicina iscritti ai corsi di specializzazione. Un luogo di stoccaggio nazionale e 300 punti vaccino in tutta Italia per conservare anche prodotti che, come quello dell’americana Pfizer, e della tedesca Biontech destinato a quanto pare ad arrivare per primo, richiedono temperature fino a -70 gradi. Un elenco delle categorie da vaccinare prioritariamente: operatori sanitari, personale e anziani delle Rsa e over 80, seguiti da over 60, malati cronici e lavoratori dei servizi essenziali. Stavolta si centralizza, almeno “logistica, approvvigionamento, stoccaggio e trasporto – ha spiegato ieri il ministro della Salute, Roberto Speranza, illustrando il piano vaccini – saranno di competenza del Commissario straordinario” Domenico Arcuri e non delle Regioni. Avranno un ruolo anche le forze armate. Servirà una piattaforma informatica che faccia tesoro del flop di Immuni.

“C’è luce in fondo al tunnel”, ha detto Speranza al Senato anche se, ha spiegato, “al momento nessun vaccino è stato approvato” dalle agenzie Usa (Fda) e Ue (Ema). L’Italia, attraverso i sei contratti segreti stipulati dalla Commissione Ue per gli Stati membri, “ha opzionato 202.573 milioni di dosi” che basterebbero per tutti anche con la doppia somministrazione che si dà per necessaria. Sono sei prodotti diversi: AstraZeneca (per 40,38 milioni di dosi), Johnson e Johnson (53,84 milioni), Sanofi (40,38 milioni), Pfizer/Bnt (26,92), CureVac (30,285), Moderna (10,768). È il 13,46% del totale opzionato dall’Ue, pari al peso demografico del nostro Paese. Questo, naturalmente, “se tutti i processi autorizzativi andassero a buon fine”.

Certezze non può averne, la scelta è stata pagare per stare su tutti i tavoli, anche firmando contratti segreti che trasferiscono al contraente pubblico, non si sa in quale misura, la responsabilità per eventuali danni. L’alternativa sarebbe attendere che il virus sparisca da sé.

Non ci sono ancora studi pubblicati, Pfizer/Biontech e Moderna hanno dichiarato efficacia superiore al 90% nel prevenire forme sintomatiche più o meno gravi di Covid-19; meno certezze sulla protezione dall’infezione in sé, che Pfizer potrebbe garantire. Questi due vaccini sono tra i più costosi, circa 20 dollari a dose. I dati clinici arriveranno a breve, anche perché le riviste scientifiche hanno criticato la politica degli annunci delle scorse settimane. Le autorizzazioni, se e quando ci saranno, avranno carattere provvisorio e d’emergenza, il che richiederà “una sorveglianza aggiuntiva sulla sicurezza dei vaccini stessi – ha spiegato ancora Speranza –, monitorando gli eventuali eventi avversi” per ciascun vaccinato. Le agenzie regolatorie di Stati Uniti (Fda) e Unione europea (Ema), per ora, hanno ricevuto i primi risultati solo da Pfizer/Biontech e Moderna. Sono vaccini a Rna messaggero, basati cioè sulla sequenza genetica del virus secondo un processo diverso dalla produzione di virus depotenziati o proteine, che sono tecniche più tradizionali. L’agenzia europea “potrebbe esprimersi il 29 dicembre sul vaccino Pfizer-Biontech e il 12 gennaio sul vaccino Moderna – ha spiegato il ministro –. Queste due aziende nel primo trimestre dell’anno prossimo, da contratto, dovrebbero fornirci rispettivamente 8,749 milioni di dosi Pfizer-Biontech e 1.346.000 Moderna”. È più indietro l’anglo-svedese AstraZeneca, che lavora con l’Università di Oxford ed era arrivata terza negli annunci: il suo vaccino, più tradizionale, costa molto meno. Le prime dosi, poco più di 10 milioni, sarebbero dunque destinate agli operatori sanitari (1.404.037 secondo i dati forniti da Speranza), al personale e agli ospiti delle Rsa (507.287) e agli anziani over 80 (4.442.048): in totale sono 6.416.372 persone. Poi toccherà ai 13,4 milioni di italiani che hanno tra i 60 e i 79 anni e ai 7,4 milioni con patologie croniche (in parte già compresi). Per la seconda fase Speranza ha indicato “gli insegnanti ed il personale scolastico, le forze dell’ordine, il personale delle carceri e dei luoghi di comunità”.

“Noi dobbiamo essere pronti allo scenario migliore. E poi adattarci se le scadenze dovessero cambiare. Il cuore della campagna vaccinale, secondo le nostre previsioni, sarà l’arco di tempo tra la prossima primavera e l’estate”. Si esclude l’obbligo: “Valuteremo l’adesione dei cittadini. L’obiettivo è raggiungere l’immunità di gregge”. Che vuol dire dal 70 per cento di vaccinati in su.

Miracolo del Bambinello: riapre la via dei presepi

Gesù bambino quest’ anno può ben permettersi di nascere un paio d’ore prima, ma di arrivare un mese dopo, proprio no. Almeno a Napoli, dove il Natale, per dirla con il vicesindaco Enrico Panini, “inizia a novembre, dopo i Morti e Ognissanti”. E il Natale di Napoli – sperando nella clemenza di Gesù Bambino – è pronto a sfidare il Covid: s’inaugura infatti sabato (e non venerdì come previsto in un primo momento) la Fiera del Natale di San Gregorio Armeno, la celebre via dei Presepi che – com’è facile verificare – non è esattamente estesa come l’Avenue des Champs-Élysées. Dunque il rischio assembramento è quasi scontato e non è difficile immaginare nei prossimi giorni foto e polemiche a non finire.

“Domani (oggi, ndr) scade il Dpcm, dunque ufficialmente siamo liberi – sospira Gabriele Casillo, presidente dell’associazione “Le Botteghe di San Gregorio Armeno” – a meno che non intervengano Conte, Speranza, De Luca e chissà chi altro, noi inauguriamo la Fiera”. Nessun timore per gli assembramenti? “La soluzione è semplice – risponde Casillo – e vale per noi come per ogni altra manifestazione: barriere, ingressi contingentati e rispetto delle distanze. Altrimenti l’alternativa è chiudersi in casa e chiedere al governo di garantire direttamente la sopravvivenza degli artigiani”.

Più cauta Rosaria Galliero, assessora al commercio: “Per il momento la Fiera è un’iniziativa autonoma dell’associazione delle botteghe, noi aspettiamo di vedere il testo definitivo del nuovo Dpcm”. Più possibilista il vicesindaco Panini: “Oggi faremo ancora una riunione – dichiara – ma con l’aiuto della Protezione civile e della Polizia municipale contiamo di garantire la sicurezza”. Niente allarme dunque? “No – ribadisce – la Fiera è solo un insieme di eventi, qui è Natale da settimane e di gente ce ne è stata pochissima sulla via”. Forse perché a causa della zona rossa le botteghe erano chiuse?: “Sì – risponde Panini – non si potevano fare acquisti ma erano aperte per l’esposizione”.

Ma con l’esposizione non si mangia: “La nostra – racconta Marco Ferrigno, titolare di una delle botteghe più famose – è una microeconomia che dura da novembre a dicembre. Senza quel ricavo, e siamo già in ritardo di un mese, non solo non possiamo fare investimenti per l’anno prossimo, ma non abbiamo nemmeno di che sopravvivere. Si aggiunga che non abbiamo per ora goduto di alcun ristoro: Il governo ha catalogato la nostra attività con lo stesso codice di quello dei piastrellisti. Ma noi non lavoriamo nell’edilizia, siamo il motore del turismo a Napoli”. “San Gregorio Armeno per Napoli – sottolinea Casillo – è come un libro antico in una biblioteca che va a fuoco. Dev’essere la prima cosa da salvare per ripartire”.

E con la città in lutto per la morte di Diego Maradona (a cui sarà dedicata la Fiera, in un primo momento intitolata a Gigi Proietti) a tagliare il nastro dell’inaugurazione sarà Hugo, il fratello “normale” di Diego, che gli appassionati di calcio ricorderanno con la casacca dell’Ascoli a fine anni 80 e – soprattutto – come protagonista della rubrica “Fenomeni parastatali” del Mai Dire Gol della Gialappas Band: “Hugo vive a Napoli da molto tempo – conclude Casillo – taglia il nastro e basta. Non vedo pericolo di assembramenti per questo”.

Cenoni e crociere: rissa tra i ministri e i renziani

“Non ha senso che negli alberghi non si possa fare il cenone. Vi pare possibile che si debba mangiare alle 18 in camera?”. Nel primo pomeriggio in Senato risuona la voce del dem Andrea Marcucci, uno dei più loquaci alla riunione tra i capigruppo di maggioranza e i ministri Roberto Speranza (Salute) e Federico d’Incà (Rapporti con il Parlamento). Tra lui e il collega Davide Faraone (Iv) è una gara a chi urla più forte. “E le crociere?”, insiste il renziano. Loredana De Petris (LeU) pensa addirittura che sia uno scherzo, ma per poco non si arriva alle mani. Fuori dalla porta si sentono le urla.

Il corpo a corpo è quasi tutto tra Marcucci, Faraone e i due ministri. Tra i nodi principali, la possibilità di andare al ristorante fuori dal proprio Comune a Natale e Capodanno. La De Petris ed Ettore Licheri (M5S) cercano di inserirsi e di introdurre il tema dei ricongiungimenti familiari. Ma gli altri si prendono tutta la scena. La riunione si svolge in tarda mattinata e arriva dopo una conference call del giorno prima tra i capigruppo e il premier Conte, convocata proprio per ascoltare le opinioni dei parlamentari sul Dpcm di Natale. Ma il giorno dopo delle richieste e delle perplessità avanzate non resta molto. Tanto che Speranza conclude la riunione con un “riferirò”. Per tutto il giorno si attende una nuova riunione dei capigruppo, questa volta con Conte. Ma alla fine, dopo vari rinvii, l’incontro salta. Segno di un clima sempre più incandescente e più sfilacciato ogni giorno che passa.

A Palazzo Madama Marcucci, Faraone e Dario Stefàno (presidente della commissione Unione europea, rimasto nel Pd, ma vicino a Iv) si muovono insieme, anche fisicamente. Non a caso, a metà pomeriggio, arriva una dichiarazione di Dario Franceschini che sconfessa quella parte del Pd sempre troppo renziana: “Condivido la linea del rigore di Speranza”. Dal Nazareno fanno sapere che Nicola Zingaretti è d’accordo. Ma il segretario è furibondo non solo per il doppio gioco di Marcucci, ma anche per il comportamento di Conte, accusato di non risolvere i problemi. Nel frattempo però Matteo Renzi è tornato attivissimo. Martedì sera al tavolo di maggioranza Maria Elena Boschi ha insistito sulla necessità di usare il Mes, eresia per i 5Stelle, mentre il Pd cercava di gettare acqua sul fuoco. E ieri Faraone ha guidato il fronte degli aperturisti. Tradotto, i renziani cercano di guidare tutti quelli che puntano a ridimensionare il premier, magari dando vita a un Conte ter. Tanto che in molti temono un intervento duro di Renzi in aula mercoledì, quando si voterà la risoluzione sulla riforma del Mes, al solo scopo di far saltare gli equilibri. L’ex premier vuole un ministero, forse per sé, ma soprattutto vuole contare, ripetere l’operazione che lo portò a intestarsi la nascita del governo giallorosso.

E su questa linea fa asse con Goffredo Bettini, teorico di una maggioranza con tutti dentro, da FI a M5S, tranne i sovranisti. E punta sui malumori nel Pd. Graziano Delrio è sul piede di guerra da mesi, Andrea Orlando (che ieri ha passato buona parte del pomeriggio su un divanetto del Transatlantico con Luca Lotti) pare punti a un ministero per il Recovery Fund. Indizio del panorama in movimento: sabato alla fondazione dalemiana ItalianiEuropei ci sarà un dibattito a cui parteciperanno, tra gli altri, i principali azionisti del governo: oltre allo stesso D’Alema e a Roberto Speranza, Renzi, Zingaretti, Franceschini, Bettini.

Ma se il fronte dem-Iv ribolle, i 5Stelle cercano di reggere. Così in serata il capodelegazione Alfonso Bonafede detta la linea sul Dpcm con un post su Facebook: “È un sacrificio enorme, inutile girarci intorno. Ma è questo il momento di stringere i denti per evitare un’ulteriore impennata della curva dei contagi e tornare alla normalità nel più breve tempo possibile”. È la sua linea, quella del rigore, affine alle posizioni di Speranza e Franceschini. Dietro la prima linea, nonostante le smentite, anche nel M5S si ragiona di rimpasto. Tanto che sere fa un big di governo lo ha scritto in una chat: “Il rimpasto dobbiamo guidarlo e non subirlo da Pd e Iv”. Perché è quella la vera partita, dietro le urla sui ristoranti.

Prevale la linea dura: no agli spostamenti Deroga “genitori soli”

Alla fine è prevalso il rigore. E l’accesa discussione nella maggioranza sugli allentamenti per le festività natalizie è finita con una serie di “no”. Niente spostamenti tra Regioni, niente deroghe al coprifuoco, niente aperture serali dei ristoranti. Non è tempo di abbassare la guardia. Né di replicare il nefasto esperimento dell’estate scorsa. Oggi il premier Conte firmerà il nuovo Dpcm – di cui ha discusso con i ministri fino a tarda sera – e illustrerà personalmente le misure agli italiani.

SpostamentiDal 20 dicembre al 7 gennaio sarà vietato muoversi tra Regioni, anche se diventeranno “gialle”: per questo serve un apposito decreto legge. Nessuna deroga per ricongiungimenti familiari o raggiungimento delle seconde case: si muove solo chi deve rientrare nella propria residenza o chi, previa autocertificazione, dichiara di dover assistere un genitore solo e anziano. Un piccolo segnale che lo stesso Conte avrebbe particolarmente avuto a cuore. Resta la preoccupazione – e quindi il monito – per chi riuscirà comunque a spostarsi prima che scatti il divieto, “approfittando” di smart working e chiusura delle scuole. Salvo sorprese, sarebbe confermato il divieto di uscita dai Comuni nei giorni festivi, ovvero 25 e 26 dicembre e 1° gennaio.

Bar e ristorantiL’ala renziana ha ottenuto l’apertura a pranzo dei ristoranti a Natale, Santo Stefano e Capodanno, che – nelle intenzioni dei “rigoristi” – avrebbero dovuto rimanere chiusi, ma che comunque potranno accogliere solo clienti residenti nel Comune, visto il divieto di spostamento. Valgono ovviamente anche le regole già in vigore, massimo quattro commensali. Nessuna maglia allargata sulla sera, come chiedevano i presidenti di Regione: nelle regioni “gialle” bar e ristoranti continueranno a chiudere alle 18.

AlberghiResta anche lo stop alle vacanze in montagna: le piste da sci resteranno chiuse. Durissimo lo scontro con la Valle d’Aosta, tuttora “rossa”, che ieri ha approvato una legge in cui rivendica l’autonomia nella gestione dell’emergenza sanitaria del coronavirus, a cominciare dall’apertura dei negozi e dalla ripresa dell’attività sportiva, perché “la montagna” non è “un parco giochi per le grandi città”. Nel Consiglio dei ministri di ieri sera, il ministro Bonafede ha chiesto di impugnare la legge. Nel Dpcm dovrebbe anche entrare il divieto di cenoni per il 31 anche negli alberghi, per evitare che – grazie al pernottamento – venga aggirata la norma anti-festeggiamenti. Identica ratio per lo stop alle crociere.

Cena e messa Per rispettare il coprifuoco – che resta alle 22 anche per le notti di Natale e San Silvestro – è stato trovato l’accordo con la Cei per celebrare le funzioni al massimo alle 20.30. Si confida, tra l’altro, che a quell’ora molti saranno scoraggiati dal partecipare, vista la concomitanza con la cena. Il governo si limiterà a raccomandare di evitare banchetti tra non conviventi nelle case.

ScuolaÈ un punto ancora in discussione: l’ipotesi, sostenuta anche dal premier oltre che dalla ministra Lucia Azzolina, di ricominciare gradualmente le lezioni in presenza già nell’ultima settimana prima delle vacanze di Natale è fortemente osteggiata, dunque la didattica a distanza potrebbe continuare fino al rientro a gennaio. Ma la decisione finale si prenderà solo oggi.

I numeri I dati dell’epidemia continuano a migliorare, domani salvo sorprese, il monitoraggio settimanale dovrebbe confermare che il tasso di riproduzione del virus Rt è sceso sotto 1 (era all’1,08 la scorsa settimana, all’1,7 un mese fa). Entro domenica a dovrebbero passare da zone rosse ad arancioni la Campania, la Toscana, l’Alto Adige e la Val d’Aosta e forse anche l’Abruzzo. Ieri i contagi sono stati 20.709 (con 207 mila tamponi) per una media settimanale che scende poco sotto i 23 mila dai 35 mila di tre settimane fa. Il rapporto positivi/tamponi è diminuito al 10% dal 10,6 di martedì. I decessi sono stati 684, meno dei 785 di martedì ma in linea con una media settimanale superiore a quella di sette giorni fa: la speranza è che inizino finalmente a calare. Dichiarate guarite 38.740 persone in 24 ore: record della seconda ondata. Prosegue il trend positivo negli ospedali: ieri altri 357 pazienti in meno nei reparti ordinari (in totale sono 32.454) e 41 in meno nelle terapie intensive (in totale 3.616 ). Agenas dà conto del 41% di letti occupati nelle rianimazioni (la soglia d’allerta è il 30%) e del 48% nelle aree mediche (la soglia è il 40%), con punte del 60% nelle rianimazioni della Lombardia e del 79 e del 99% nelle aree mediche di Piemonte e Alto Adige.

Montezuma

L’altra sera, facendo zapping, mi è parso di intravedere a Dimartedì il mio amico Giannini che citava se stesso. E il mio amico Carofiglio che citava se stesso e poi dava fondo all’intero dizionario delle citazioni, che evidentemente sa a memoria. Roso dall’invidia, stavo per spegnere, quando mi è apparso Luca Cordero di Montezemolo che, collegato da una qualche Versailles, piagnucolava perché c’è un sacco di gente che soffre ed è alla fame, ma soprattutto perché il governo è sempre in ritardo su tutto (rispetto a cosa? boh), vuole pure negarci quella leccornia del Mes e non si circonda delle persone giuste, signora mia. E dire che su piazza ci sarebbe lui, prêt-à-porter, se solo lo chiamassero a insegnare un po’ d’efficienza. Ma niente, non lo chiamano. È stato allora che mi sono convinto di avere sognato: quel signore dalla chioma giallo-canarino-metallizzato che dava lezioni al “governo della paralisi” che “non pensa al futuro”, non poteva essere Montezemolo. Altrimenti gli sarebbe scappato da ridere.

Il Montezemolo vero, detto “Libera e bella” per il crine fluente e cotonato d’un tempo, nasce nel 1947 a Bologna da nobili lombi sabaudi. Amico del cuore di Cristiano Rattazzi, figlio di Suni Agnelli, fa tanto divertire l’Avvocato. Così nel 1973 approda alla Ferrari. È il suo più grande e forse unico successo della vita (donne a parte), anche perché alla guida delle Rosse c’è Niki Lauda. Appena passa alle Relazioni esterne della Fiat, si scopre che si fa pagare da finanzieri straccioni per presentarli ad Agnelli, per giunta con banconote nascoste dentro libri svuotati di Enzo Biagi. Romiti lo caccia su due piedi e anni dopo racconterà: “Abbiamo pescato un paio di persone che pretendevano soldi per presentare qualcuno all’Avvocato. Uno l’abbiamo mandato in galera, l’altro alla Cinzano”. Tra i fumi dei vermouth, Libera e bella resiste poco. Eccolo dunque sulla tolda di Azzurra all’America’s Cup. E poi al vertice del comitato dei Mondiali di Italia 90, altra calamità naturale: opere sballate, sprechi faraonici, ritardi mostruosi, costi degli stadi alle stelle (ultima rata pagata dallo Stato nel 2015). Ma, come diceva Totò, il talento va premiato. L’Avvocato lo ripesca e lo manda a rilanciare la Juventus con il “calcio champagne” di Gigi Maifredi. Risultato: la Juve arriva settima, esclusa dopo ben 28 anni da tutte le Coppe internazionali. In più, la società paga 4 miliardi di lire in nero al Torino per l’acquisto di Dino Baggio, con fondi gentilmente forniti da un conto svizzero di Agnelli. “Vedremo che cosa saprà fare da grande”, dice l’Avvocato mentre lo congeda dalla Juve dopo appena un anno e richiama in servizio il grande Giampiero Boniperti.

Montezuma viene parcheggiato a Rcs Video, a occuparsi di videocassette: altro flop catastrofico da centinaia di miliardi. Così torna in Ferrari, l’unica cosa che gli riesce bene. Ma, lievemente bulimico, non si contenta e inizia una collezione di poltrone e sofà da Guinness: Corriere, Stampa, Le Monde, Tf1, Fiera di Bologna, Confindustria, Luiss, Indesit, Merloni, Poltrona Frau, Maserati, Unicredit, Ntv treni, Tod’s, Federazione Editori, Campari, Assonime, Citi Inc., Pinault, Fnac, Ppr Sa, Telethon, Unione Industriali Europei, Confindustria Modena, Cnel, Citigroup, Fondo Charme (sede in Lussemburgo, ci mancherebbe), senza contare una candidatura a ministro di Qualcosa nel governo Berlusconi-2 (2001), annunciata dal Caimano per acchiappare voti in campagna elettorale, mai smentita dall’interessato e poi tramontata. Dall’alto di cotanti successi, è pronto per la politica. Nel 2009 fonda Italia Futura in vista della discesa in campo, circondato da un trust di cervelli da paura: Umberto Ranieri, Andrea Romano, Carlo Calenda, Linda Lanzillotta. Il meglio sono i fratelli Vanzina, che almeno un mestiere ce l’hanno e lo fanno bene. Lui intanto si fa beccare al telefono col faccendiere pregiudicato della P2 e della P4 Luigi Bisignani, a cui ha assunto il figlio alla Ferrari, ma solo perché “è in gamba”. Naufragata anche Italia Futura, che confluisce in Scelta Civica di Mario Monti, cioè nel nulla cosmico, la maledizione di Montezuma si riabbatte sulla Fiat, di cui diventa presidente dopo la morte di Umberto Agnelli. Poi arriva Marchionne e nel 2010 lo liquida con una buonuscita di 27 milioni. E nel 2014 lo caccia anche dalla Ferrari: pure lì ha perso il tocco magico.
Ma l’Innominabile è pronto a riciclarlo, come mediatore con gli arabi di Etihad e poi come presidente della “nuova Alitalia”. Che perde più soldi di quella vecchia, tant’è che ora il nostro è indagato a Civitavecchia per bancarotta. Non bastando, lo piazzano anche al comitato per la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024, in tandem col suo dioscuro Giovannino Malagò. Ma lì, a impedirgli di fare altri danni, provvede Virginia Raggi col gran rifiuto. Lui, appena uscito da Ntv con 250 milioni in saccoccia, si rifà con la presidenza del Sigaro Toscano, perché non si dia del venditore di fumo: nel 2018 ne annuncia financo la quotazione in Borsa, ma ovviamente non se ne saprà mai più nulla. Voi capite perché, l’altra sera, quando l’ho visto pontificare di efficienza e buona gestione e piagnucolare per la povertà che avanza e l’inadeguatezza della classe dirigente, ho empatizzato col povero generale Cotticelli. E ho pensato che avessero drogato anche me.

“Senza pubblico divento loffio. Dopo l’album, sogno altri live”

“Si chiamava Bonaccini”. Non quello… “Il vecchietto che vendeva le ‘bruscolate’, i semi di zucca fuori dal cinema”.

Lei, Ligabue, era piccolissimo.

La prima volta avevo un anno, i miei genitori videro che stavo buono. Così papà ci tornò spesso con me. Le chiamava ‘serate da uomini’.

Cosa andavate a vedere?

A Correggio c’erano due cinema. Ogni sera un film diverso. Mi piacevano i western, papà li chiamava ‘le sceriffate’. Il mio idolo era Giuliano Gemma, mi pareva buono, confidavo che le sue vittime si rialzassero incolumi. Clint Eastwood era più complesso. Le bucce dei semi cospargevano la sala. Che fossero pellicole di serie A o B, I magnifici 7 o gli storici come Nerone, mio padre li definiva tutti ‘baggianate’. Lo diceva a Bonaccini e voleva il mio consenso. Però tornavamo sempre. Mi regalarono un proiettore giocattolo. Non so se e quando girerò un altro film. Chissà.

Già allora quel numero creava magie attorno a lei. I magnifici 7.

Molto tempo dopo ricevetti le lettere di due numerologhe non collegate fra loro. Il 7 era la mia buona sorte: le lettere di nome e cognome, le iniziali LL che rovesciate fanno 77, il primo concerto nell’87, il debutto allo stadio nel ’97. Dovrei farmi nemiche le stelle?.

Dopodomani pubblica due dischi con titoli inequivocabili: la raccolta “77+7”, come i singoli in carriera e gli inediti, e l’album “7” con solo le nuove canzoni.

Nel lockdown, costretto allo stop dei live, per la prima volta ho gettato lo sguardo indietro su questi 30 anni facendo i conti col mio lavoro. Non è come analizzare se stessi, ma comunque duro. E ho visto che ho dato anche troppo, lanciandomi per superare i dubbi, i successi, le crisi, le separazioni. Sono tornate su le emozioni, che ho fissato anche nel libro autobiografico, È andata così, scritto con Cotto. Guardarmi dentro è stato un salvagente emotivo. Ho scoperto che i singoli della mia storia erano 77. Li abbiamo rimasterizzati con Fabrizio Barbacci.

Più le 7 canzoni tirate fuori dai cassetti.

Che avevano un alluce, un polpaccio o mezzo piede nella mia storia. Di Mi ci pulisco il cuore avevo solo il titolo sfacciato. La ragazza dei tuoi sogni era un demo, ma odiavo il testo originario. Si dice che mi pare attuale, visto che in Rete ognuno si permette di dire tutto. Tra l’altro questo pezzo è stato reinventato attorno al giro di basso registrato all’epoca. Ho scoperto solo in extremis che l’aveva suonato Luciano Ghezzi, il bassista dei miei ClanDestino. Me lo disse lui a cena, pochi giorni prima della sua morte improvvisa.

Poi c’è un nuovo duetto con Elisa.

Volente o nolente. Due voci che si rimbalzano desideri perché condannate a una distanza forzata. Sembra oggi, ma lo incidemmo 15 anni fa, nello stesso giorno de Gli ostacoli del cuore. Abbiamo tenuto la voce di Elisa di allora, con il suo poetico candore.

Torniamo al primo concerto. 1987, Correggio, Circolo Lombardo Radice.

Una domenica pomeriggio. Palco alto 40 cm, il soffitto due metri. Un paio di luci, un mixer ridicolo. Cento amici a vedermi, mio fratello Marco con gli occhi sgranati che diceva ‘mostro, esci dal corpo di Luciano’. Ero un altro lì sopra, improvvisamente. Eppure avevo già 27 anni. Claudio Maioli, il mio manager, fumatore accanito, accese direttamente il pacchetto. Trafficava intorno al tecnico come se ne capisse qualcosa. Gli dissi: dammi una storia così ogni sera, facciamo un patto di sangue.

All’esordio a San Siro il sangue scorse davvero.

Mi tagliai un dito alla prima pennata. La camicia bianca diventò rossa. Maioli voleva tirarmi giù, rifiutai. Gli dico ancora: pensavi mi avessero accoltellato? Invece all’Olimpico, nel 2002, venne giù un uragano. I cavi sotto il palco erano sommersi. Restai lì sopra.

Il 19 giugno 2021 c’è l’evento celebrativo a Campovolo. “I 30 anni in un nuovo giorno”. Era programmato nel 2020.

I centomila biglietti sono già venduti. Speriamo che il concerto si possa fare: deve essere una liberazione per tutti, a partire da me. Che se non ho la gente davanti divento loffio: ho bisogno di corpi, di sguardi. Gli show in streaming? Senza pubblico intorno tutto sembra più brutto. Come le partite con gli stadi vuoti.

Lei ha due figli: Lorenzo Lenny e Linda. Cosa tramanderà dell’Emilia che ha vissuto da ragazzo?

Lorenzo è un polistrumentista con un orecchio raffinato. Vuole dedicarsi alla produzione. Ha 22 anni, sua sorella 16. Vorrei ascoltassero le storie della provincia che sentivo raccontare al Bar Tobino, i narratori spontanei di ogni età che tenevano in vita le nostre radici tra nebbia, notti e zanzare.

Il ragazzo Con la leica: Revelli

“Mi occorre la macchina fotografica, costi quel che costi, per fotografare la mia Annetta, infinite volte, in tutte le pose curate da sola e con me”. È l’inizio degli anni Quaranta, precisamente il 1941. Ufficiale degli alpini e partigiano di Giustizia e Libertà, cantore degli umiliati e offesi delle vallate cuneesi del Novecento, dai poveri montanari ai soldati massacrati nella guerra fascista di Russia, agli emigrati per fame, Nuto Revelli (Cuneo, 1919-2004) conosce Anna Delfino e se ne innamora. Finalmente, dopo la Liberazione, i due potranno sposarsi a Cuneo nel maggio del 1945.

La macchina fotografica, usata dapprima per ritrarre Annetta, avrà una nuova vita nel dopoguerra. Servirà a Revelli per dare testimonianza e storia, memoria e voce, ai senza voce, ai senza storia. Vale a dire all’epopea contadina dei suoi libri: da La guerra dei poveri a L’ultimo fronte, da Il mondo dei vinti a L’anello forte. Nel segno dello sguardo, e soprattutto del Nuto fotografo, si declina infatti Ricordati di non dimenticare. Nuto Revelli, una vita per immagini. Curato dalla fotografa Paola Agosti, che ha collaborato con lui ai tempi delle interviste per Il mondo dei vinti, e dalla storica Alessandra Demichelis, il volume è stato appena pubblicato da L’Artistica Editrice, nell’ambito delle iniziative con cui si è rammentato il centenario della nascita di Revelli.

È un libro che nasce, come scrivono le due curatrici, dal giacimento di circa ottomila foto custodite, tra le altre sue carte, nella casa cuneese di Nuto, ora sede della Fondazione Revelli. Aprendo quelle buste, le scatole, i raccoglitori, Agosti e Demichelis hanno così cominciato un viaggio per immagini nella sua vita: dal fascismo alla guerra, dalla Resistenza ai compagni e agli amici (tra i tanti Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco, Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone, Mario Giovana, Primo Levi, Ferruccio Parri, Mario Rigoni Stern), e ai “vinti”. Un viaggio in bianco e nero che, infine, è sfociato in una vera biografia (o autobiografia, se si vuole) visiva. Con una novità, appunto: la scoperta del Nuto fotografo.

Aveva iniziato con Anna. E aveva proseguito nei mesi della ritirata dalla Russia, poi durante la guerra partigiana. Prima con una Leica, abbandonata in Russia; quindi con una Rolleiflex. Fino agli anni Sessanta, quando, nel raccogliere i racconti per i suoi libri, “chiedeva ai suoi testimoni di posare per lui e scattava”. Lo faceva, dicono Agosti e Demichelis, forse “per aiutarsi a ricordare i volti quando avesse cominciato l’elaborazione delle interviste, o semplicemente per conservarne il ricordo”. L’insieme di quei ritratti, insomma, “rappresenta un repertorio inedito e straordinario, quasi un completamento visivo dell’epopea contadina scritta da Nuto”.

Il bel libro di Agosti e Demichelis, oltre naturalmente a Nuto Revelli, narra il suo mondo. Cioè un pezzo drammatico della storia del Novecento: la dittatura e la guerra di Mussolini, la lotta antifascista, le speranze tradite del dopoguerra (per i poveri, per i “vinti” delle colline e delle montagne) e al tempo del Miracolo Economico. Nuto aveva giurato di non scordare ciò che era stato, e ciò che continuava a essere. Anche con la Rolleiflex aveva seguito il suo comandamento: “Ricordati di non dimenticare”.

L’arma segreta di Pechino si chiama Istituto Confucio

Sono due le strade che la Cina sta percorrendo da anni per infiltrare capillarmente gli altri continenti e nazioni. Una è la via della Seta che usa la leva degli scambi commerciali, l’altra è quella degli Istituti “di cultura” Confucio. Più che una strada, quella degli Istituti è una vera e propria rete di propaganda che da Pechino si è allargata fino a coprire tutto il mondo.

Il peso della superpotenza asiatica sta schiacciando in modo sempre più evidente molti Paesi, per esempio l’Australia. Incurante dei propri crimini, tra cui l’utilizzo di campi di rieducazione (denunciati recentemente anche da Papa Francesco) per normalizzare la minoranza musulmana uigura e la repressione degli studenti di Hong Kong, il Dragone non avverte alcuna contraddizione nel reiterare l’accusa mossa in questi giorni nei confronti di Canberra.

Pechino ha denunciato che l’Australia tenta di “distogliere l’attenzione del pubblico” dai presunti crimini di guerra dei suoi soldati in Afghanistan. Canberra, dopo aver lanciato un’inchiesta in merito ai crimini commessi da alcuni suoi soldati a Kabul, ha tuttavia espresso “indignazione per il tweet ripugnante” del ministro degli Esteri cinese, Lijian Zhao. Nel tweet il capo della diplomazia cinese non si era fatto scrupoli nel condividere un’immagine falsa di un soldato australiano che uccide un bambino afghano. Pechino controbatte che l’Australia sta cercando di “incolpare la Cina per il peggioramento dei rapporti bilaterali”. Il punto è che l’Australia sembra accorgersi dell’ingerenza cinese solo quando vengono criticate le proprie forze armate in missione all’estero, ma non ha mosso, ad esempio, un dito per difendere lo studente Drew Pavlou, sospeso per ben due anni dall’Università di Brisbane nello Stato australiano del Queensland. I problemi per lo studente, tra i migliori dell’ateneo, sono cominciati dopo aver organizzato un sit-in nel campus universitario per denunciare l’atteggiamento repressivo della Cina nei confronti delle minoranze e dei cittadini di Hong Kong. Peccato che l’università abbia stretti legami di collaborazione con Pechino, tanto che ospita al proprio interno un Istituto Confucio, in teoria un ente per la promozione della lingua e cultura cinesi nel mondo che in realtà ha come obiettivo principale quello di esercitare soft-power sull’Occidente. Il senatore James Paterson ha tenuto un discorso davanti ai colleghi in cui sono stati svelati alcuni dettagli sui corsi di studio finanziati da Pechino e sugli incentivi salariali del vice-rettore dell’Università di Brisbane, il professor Peter Høj. L’accademico fino al 2018 occupava un ruolo di consulente pro bono per la Hanban, l’organizzazione del governo cinese responsabile degli Istituti Confucio in tutto il mondo, e avrebbe ricevuto un importante bonus salariale dalla Queensland in gran parte proprio per aver intensificato i legami con la Cina. Negli ultimi mesi però sembra che le autorità di Canberra abbiano compreso la pericolosità degli Istituti Confucio. “Mentre moltissime università nel mondo accolgono gli Istituti Confucio senza porsi dubbi sui rischi di interferenza, in Australia le critiche circa le influenze e la censura su alcuni temi sensibili per la Cina hanno spinto il governo a intensificare i controlli.

Inoltre, di recente, sia l’Università del Queensland sia quella di Melbourne hanno rinegoziato il loro contratto con gli Istituti Confucio chiarendo il principio di autonomia dell’università e della libertà accademica e intellettuale, anche in termini di ricerca e di insegnamento, ed eliminando la clausola per cui l’università deve prendere sempre in considerazione qualsiasi valutazione dell’Istituto sulla qualità dell’insegnamento”, spiega Eleonora Mongelli, vicepresidente della Federazione italiana diritti umani. Ma gli studenti australiani hanno avviato varie petizioni per chiedere alle loro università di chiudere gli Istituti Confucio. Il primo fu inaugurato nel 2004 in Corea del Sud. Secondo i dati, oggi ce ne sono 548 nel mondo mentre sono 1.193 le classi Confucio nelle scuole primarie e secondarie. L’anno scorso solo la Queensland ha registrato l’iscrizione di 9 mila studenti cinesi, le cui tasse hanno rappresentato il 20% delle entrate complessive dell’università. Pechino ora sconsiglia agli studenti di andare in Australia.

La neo ministra Yellen e il ‘sogno americano’ pieno di ostacoli

L’emergenza coronavirus presenta i conti al presidente eletto Joe Biden: tragici, quelli sanitari, quasi 270 mila i deceduti; drammatici, quelli socio-economici, con decine di milioni di lavoratori che, dopo il posto, rischiano di perdere l’accesso agli ammortizzatori e all’assistenza. È la sfida più grossa e più urgente per la nuova Amministrazione, a 50 giorni dal suo insediamento. Rudolph Giuliani, invece, presenta il suo conto al presidente uscente Donald Trump: il New York Times ha saputo che l’avvocato personale del magnate vorrebbe una “grazia preventiva”, che lo mandi ‘assolto’ delle inchieste già avviate nei suoi confronti – una riguarda le sue mene in Ucraina, nell’interesse di Trump – e anche da quelle che non sono ancora partite per reati non ancora emersi. Giuliani è stato spregiudicato nel gestire i ricorsi del magnate contro il risultato elettorale, con risultati, però, negativi. Da giorni, si dice che il presidente uscente potrebbe persino tentare di fare graziare se stesso prima di lasciare la Casa Bianca, per mettersi al riparo dalle inchieste che lo vedono coinvolto; e un anchor della Fox, Sean Hannity, lo incoraggia a farlo. La grazia preventiva è una mossa inusuale, ma ha precedenti illustri: George Washington graziò cospiratori sospetti traditori; Gerald Ford nel 1974 perdonò Richard Nixon per il Watergate; e Jimmy Carter graziò migliaia di americani che si sottrassero dall’andare in guerra in Vietnam. Proprio per ovviare alle crescenti disuguaglianze sociali indotte dalla pandemia, Biden ha chiamato Heather Boushey nel suo Consiglio dei consulenti economici: 50 anni, era già inserita nella squadra di Hillary Clinton, che però perse il voto del 2016, è ora responsabile del Centro per la crescita equa, un think tank di Washington che vuole promuovere la crescita dell’economia e la riduzione delle disuguaglianze. A proposito di economia, ieri è stata presentata la squadra, con Janet Yellen prima donna segretario al Tesoro che ha dichiarato: “Ricostruiremo il sogno americano. È essenziale muoverci con urgenza. L’inazione produrrà una recessione che si auto-alimenta causando ancora più devastazione”. Ma la situazione è complicata dalle reticenze del Congresso a varare misure a sostegno dell’economia e del lavoro a fine corsa; – senatori e deputati neo-eletti s’insedieranno a gennaio. Politico scrive che 87 milioni di lavoratori dei settori pubblico e privati rischiano di restare senza ammortizzatori e senza assistenza.