I camorristi sono gente riservata

I camorristi sono gente riservata; niente follower, niente selfie, niente amici su Facebook. Anzi, niente amici in assoluto. Solo affiliati. Quando nel 2006 Roberto Saviano pubblicò Gomorra, a Casal di Principe non vendette molto; e più aveva successo, meno vendeva. Dal carcere, il boss Francesco Bidognetti lo aveva messo all’indice perché raccontava dall’interno le dinamiche e i business del clan. Ma cos’era esattamente quel libro? Alcuni considerano Gomorra un romanzo, altri un reportage; di sicuro, è un coraggioso esempio di new journalism, che ha tolto dall’ombra tante verità nascoste e ha dato alla ferocia della camorra una visibilità inaudita (cosa che gli è stata rinfacciata non solo dai camorristi, e loro si possono capire, ma anche da pezzi della politica e delle istituzioni).

Ma l’attrazione per infiltrarsi nei luoghi equivoci deve essere irresistibile in Saviano, che da un pezzo ha preso a frequentare la tv generalista. In un tempo in cui gli scrittori non se li fila più nessuno, è diventato l’unico giornalista che è anche uno scrittore, che è anche una popstar, l’unica popstar con la scorta. Cose che accadono solo in Italia.

Il suo nuovo programma si intitola Insider (Rai3, sabato sera), e a giudicare dalla prima puntata è la sua prova migliore. Seduto e non più oscillante e periclitante per lo studio, faccia a faccia con personaggi come Anna Carrino, ex compagna di Bidognetti, a chiedere perché abbia scelto di diventare collaboratrice di giustizia. Indagare il crimine da dentro, guardarlo negli occhi, significa togliere le bucce e spremerne il succo. Un lavoro di pazienza, freddezza e pathos. La via di Saviano alla narrazione. Se fa l’opinionista, o il predicatore, Saviano è uno dei mille che prova a bucare il video con la cerbottana. Quando fa il cronista del male, e con tale puntualità da dare alla banalità del male una patina immaginaria, il giornalista Saviano diventa scrittore, e come tutti gli scrittori assomiglia solo a se stesso.

La lettera di papà Tiziano racconta dei fatti processuali

Le polemiche seguite alla pubblicazione di una lettera di Tiziano Renzi indirizzata al figlio Matteo sono la cartina di tornasole di come ormai in Italia vengano ignorati i fatti pur di non disturbare le opinioni. La missiva, depositata in un processo che vede imputati tra gli altri proprio Tiziano e la moglie Laura Bovoli per la presunta bancarotta fraudolenta di tre cooperative, ripercorre alcuni passaggi della vita dell’azienda di famiglia Eventi 6 legata alle società saltate per aria. Ed è pure ricca di pesanti considerazioni su quattro amici e sodali del leader di Italia Viva. Maria Elena Boschi, Francesco Bonifazi e Alberto Bianchi vengono definiti la “banda Bassotti”. Mentre Marco Carrai viene dipinto come “un uomo falso”. Così i supporter di Renzi, ma anche chi in perfetta buona fede ha l’abitudine di esprimere giudizi senza prima essersi informato, ha bollato il deposito e la pubblicazione come “violazione dello Stato di diritto” o come “giornalismo spazzatura”. La tesi prevalente è che il documento, definito “una lettera privata priva di qualsiasi valore probatorio”, sia stata prodotta dall’accusa per vendicarsi contro Renzi junior reo di aver denunciato penalmente a Genova i pm fiorentini titolari dell’indagine sulla fondazione Open. Detto in altre parole, la missiva sarebbe finita agli atti e poi sui giornali allo scopo di sputtanare Renzi, la sua famiglia e i suoi amici.

La prima domanda cui dobbiamo rispondere è dunque questa: davvero il deposito è una vendetta per la denuncia contro i pubblici ministeri? Le date parlano da sole: Renzi junior si è rivolto alla magistratura genovese il 10 febbraio, i file riguardanti suo padre sono invece stati prodotti quasi un mese prima, il 18 gennaio, anche se la stampa ne ha scoperto l’esistenza solo due giorni fa. Chi, come Alessandro Sallusti su Libero, sostiene che la missiva dopo anni sia stata “data in pasto all’opinione pubblica, guarda caso nel momento in cui Renzi ha scatenato una campagna contro di loro” ha insomma torto. Carta, o meglio data, canta.

La seconda domanda ruota invece sul contenuto della lettera: davvero, come sostiene tra gli altri Teresa Bellanova, “non sembra avere nessuna attinenza con l’ipotesi processuale”? La risposta (negativa) arriva dalla lettura del documento. Per righe e righe Tiziano Renzi si dilunga sui propri affari e sulla figura dell’ex coimputato Mariano Massone, uscito dal processo fiorentino grazie a un patteggiamento della pena. Nei suoi confronti Tiziano dice di aver un debito di riconoscenza. Ricorda, tra l’altro, che Massone non lo ha tirato in ballo in un’altra inchiesta. E se la prende con Carrai, perché non è intervenuto sull’amministratore di Poste, Matteo Del Fante, per far nominare un direttore commerciale che avrebbe potuto, secondo lui, favorire le aziende di Massone. Ma non basta. Tiziano considera Carrai “un uomo falso” anche perché avrebbe garantito un aiuto con Seat-Pagine Gialle che poi non è arrivato. A ben vedere sia Renzi junior sia Carrai, stando alla lettera, ci fanno una bella figura: non hanno raccomandato nessuno. Ma il punto in ogni caso è un altro: chiunque leggendo il documento per intero si rende conto dell’attinenza con il processo per bancarotta. Resta l’ultima domanda: pubblicare è stato “giornalismo spazzatura”? Qui non diciamo nulla. Preferiamo invece rispondere ricordando una frase del grande inviato argentino Horacio Verbitsky, collaboratore de El Paìs, del New York Times e del Wall Street Journal: “Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole che si sappia. Il resto è propaganda”.

 

Al governo dacci oggi il nostro bonus quotidiano (del resto chi se ne importa)

Impazza dunque la battaglia dei bonus, edilizia canaglia, delle truffe, del signor Gino con ventisei ditte di costruzioni e, per dipendenti, il cugino e il cane. Ora è in corso il tradizionale balletto, sei stato tu, no, sei stato tu, e comunque – lo dico come regola generale – se dai dei soldi a qualcuno, un sistema di controlli devi in qualche modo prevederlo. La rogna contabile (i vari bonus, anche senza truffe, succhiano oltre le aspettative e mancano soldi per coprirli) diventa subito una rogna politica. Però fatto sta: i bonus in sostegno al comparto edile fanno 38 miliardi, una bella sommetta. Siccome parlo da Milano, e qui si fa lo slalom tra cantieri, direi che la norma è stata “messa a terra” perbene, e conosco gente tutta contenta perché con la facciata rifatta il palazzo vale di più. Insomma, si vantano con me che con le mie tasse gli ho aumentato il valore della casa. Grazie. Prego. Rimane un retropensiero vergognoso e populista: ma se rifacevano le scuole, per dire, l’edilizia non si metteva in moto lo stesso? Guarda cosa vado a pensare.

Ci sarebbe anche la questione della sicurezza. E qui mi illumina un tweet del ministro del Lavoro Orlando che (10 febbraio) dice: “Tra le misure da adottare in tema di sicurezza sul lavoro dovremmo subordinare il rilascio del superbonus 110% e dei sostegni all’edilizia al rispetto di alcuni requisiti contrattuali”. Eh? Dovremmo? Come, dovremmo, non è già così? Cioè uno può aprire un cantiere, con o senza bonus, e avere operai arrampicati qui e là, ma senza contratto? Dovremmo subordinare… che dovendolo tradurre in italiano diremmo: cadere dal pero. Ora si tenterà con un emendamento, nel decreto correttivo al Sostegni Ter, vedremo, ma la sensazione che si chiuda la stalla quando i buoi sono già andati rimane forte e chiara.

Ma questa è cronaca di questi giorni, che ci mette un attimo a diventare chiacchiericcio, mentre la questione sostanziale, la vera questione politica, trascende il singolo bonus. È che da qualche anno, complice la pandemia e le falle da tappare in emergenza, la politica economica e la politica sociale sono diventate una mappa da gestire e governare a colpi di bonus. A fare l’elenco non ci si crede, e non parlo solo di quelli a sostegno delle categorie in crisi per il Covid. Bene, l’intervento dello Stato come pianificatore e regolatore economico non è niente male, non sarò certo io a lamentarmi. In più, strappa sempre un ghigno amaro vedere tutti i liberisti che allungano le mani verso i sostegni pubblici. I rischi del sistema sono però evidenti: in campo economico la scelta di quali settori favorire a colpi di bonus e quali no, è una valutazione politica, lo si vede oggi a proposito dell’edilizia, ma anche all’apparire del “bonus Terme” se ne era un po’ discusso, e in un anno elettorale rischia di diventare rissa perenne, si vedrà con il tradizionale decreto Milleproroghe. Le norme, le strettoie, le regole, insomma la curvatura di ogni bonus sarà oggetto di trattative, interessi, pressioni. Dall’altro lato – ancora più grave – c’è che la logica del bonus contagia la sfera del welfare e c’è il timore che alimentando questa logica si arriverà ad avere più bonus (da rifinanziare, rinnovare, rivotare, quindi sottoposti ai venti mutevoli della politica) che diritti (fissi e conclamati, uguali per tutti). Ecco, sommessamente suggerirei di pensare un po’ alla faccenda prima che si arrivi al “bonus elementari”, al “bonus analisi del sangue”, magari esultando per la straordinaria conquista.

 

I renziani, i loro babbi e la saga da paperopoli

Da dottori in renzologia con pubblicazioni scientifiche all’attivo, ci sembra che la “lettera al figlio” messa agli atti del processo a Tiziano Renzi per bancarotta sia stata un po’ sottovalutata; invece è una miniera di riferimenti a quella antropologia di provincia disegnata dalla classe dirigente di giovanotti toscani, con relativi babbi, che innamorò analisti e psicoanalisti, giornalisti e imprenditori. Non vogliamo infierire su un padre, già avere quel figlio dev’essere dura, e i guai giudiziari se li vedranno loro; ma il conflitto famigliare, con relativi giudizi morali del padre sugli amici e quindi ministri e collaboratori di Renzi, è utile a decifrare ulteriormente quel fenomeno italiano che è stato il renzismo. Naturalmente i renziani (e altri di destra) strillano alla violazione della privacy (Renzi è il solito ottimista: pensa che qualcosa possa ancora minarne la reputazione), ma vedete voi se non è interessante questa silloge (non riportiamo gli scoramenti privati del signor Tiziano).

“A fronte… della banda bassotti (Bianchi, Bonifazi, Boschi) che hanno davvero lucrato senza ritegno dalla posizione di accoliti tuoi io sono stato quello che è passato per ladro prendendolo nel culo”, scrive Tiziano. Bianchi, presidente dell’associazione Open (accusato di finanziamento illecito e corruzione); Bonifazi, tesoriere del Pd (a processo per finanziamento illecito alla fondazione Eyu); Boschi (accusata di finanziamento illecito per Open), ministra, che voleva firmare una modifica della Costituzione col sostegno di Verdini, (ex?) amico del padre: paragonati ai tre malviventi di Paperopoli con la mascherina da ladro e la targhetta col numero di matricola carceraria. Non dovrebbe essere rilevante che quei giovani freschi, entusiasti, che volevano cambiare l’Italia (così li ritraevano i giornali in quei mesi gagliardi) erano considerati dal padre del loro capo un’accolita di trafficoni sleali, interessati, persino loschi? In che modo hanno lucrato “senza ritegno” alle spalle del presidente del Consiglio? Cos’hanno ottenuto in cambio della loro finta fedeltà?

Intanto uscivano le carte Consip: La Ve rità riferiva che Tiziano andava a parlare nel boschetto di ulivi per non essere intercettato, mentre Matteo al telefono con lui lo accusava di essere un bugiardo, poi però lo invitava a mentire ai magistrati in merito a un convegno al Four Season in compagnia di imprenditori tra cui forse Romeo (“Non dire che c’era mamma altrimenti interrogano anche lei”). Nel marzo 2017 ci fu il proliferare di babbi toscani sui giornali, ritratti nei circoli Pd, in pellegrinaggio a Medjugorje o a fare “braciate” in giardino con alti generali dell’Arma. Memorabile il padre di Luca Lotti, che interpellato dal Corriere a Montelupo fiorentino chiariva: “Anche io sono un babbo, ma credo di non essere minimamente messo allo stesso pari di altri babbi”, riferendosi forse a Tiziano, forse a babbo Boschi. Intanto Matteo gridava alla “gogna mediatica” e a Otto e mezzo disse che il padre, se colpevole, avrebbe meritato il doppio della pena. Tiziano gli dice che vuole querelare i giornali: “Tutta questa campagna di stampa orchestrata in sintonia dal falso quotidiano alla verità alla sette ha… creato un’immagine distorta della nostra azienda”. Con lo stesso senso della realtà (e dell’umorismo) del figlio, credeva che gli articoli riguardanti le indagini a carico del padre del presidente del Consiglio per presunte interazioni illecite coi vertici Consip (la centrale acquisti della Pubblica amministrazione) fossero una campagna tesa a screditare le sue aziende. Il figlio sosteneva invece che attraverso il babbo si voleva colpire lui. Si intravede l’antica lotta tra padre e figlio per il potere: “Ora tu hai l’immunità, non esiste più il rischio che tramite me arrivino a te”. Intanto emerge chi era il vero spin doctor di Renzi: “La gente è stufa dei signor no a prescindere”, scrive Tiziano; “Basta a chi dice no a tutto”, diceva Matteo. Tiziano lo invitava a epurare la minoranza Pd: “Democrazia non è anarchia. Se tu dessi un segnale cacciando coloro che minano all’immagine del partito con continue dichiarazioni di distinguo… Occorre depurare il Pd”. Matteo, mentre alla Leopolda si levava il coro “Fuori, fuori!”, minacciava il “lanciafiamme” e attaccava “i teorici della ditta quando ci sono loro e dell’anarchia quando ci sono gli altri”.

Chiudiamo volando in alto. Il prof. Recalcati, psicoanalista simpatizzante del renzismo, faceva diagnosi di “masochismo, conservatorismo e paternalismo” a chi votava No al referendum (20 milioni di persone: una pandemia), mentre Renzi era Telemaco, cioè “il figlio buono”. Noi spiegammo che Renzi era il contrario di Telemaco: garrulo, gaglioffo, circondato da “accoliti”, dove Telemaco è malinconico e solo; violento coi padri laddove Telemaco ne aveva nostalgia; e che semmai era più simile al capo dei Proci, che distrugge la casa dei padri condannandosi al nulla. Chiediamo a Tiziano chi aveva ragione.

 

Sfogo sul Giglio magico, la carne per la Cartabia e Di Maio spedito a Kiev

La vita in Italia ha marciato così in fretta in questi ultimi vent’anni che moltissime cose hanno avuto il tempo di cambiare faccia e tornare a quella iniziale. Prendiamo fiato con queste nuove barzellette.

Tiziano Renzi scrive al figlio Matteo una lettera dove si sfoga contro i suoi amici del Giglio Magico: “Ieri al bar ne raccontavano una non male. Crociera, naufragio: Bianchi, Bonifazi, Carrai e la Boschi finiscono su un’isola deserta. Dopo una settimana, la Boschi si vergogna così tanto di quello che sta facendo che si uccide. Dopo un’altra settimana, Bianchi, Bonifazi e Carrai si vergognano così tanto di quello che stanno facendo che la seppelliscono. Dopo un’altra settimana, si vergognano così tanto di quello che stanno facendo che la tirano fuori di nuovo”.

È una bella giornata di sole ed è ora di pranzo: la ministra Cartabia esce dal suo ufficio, diretta a Campo dei Fiori, quando un buon profumo di carne arrostita l’attira a un chiosco, dove ordina un hamburger. La ragazza alla cassa urla: “Hamburger!”. Il cuoco lardoso, in canotta unta di grasso e ragù, prende una polpetta, se la schiaccia sotto un’ascella e la mette sulla piastra a sfrigolare. La ministra inorridisce: “È la cosa più disgustosa che abbia mai visto in vita mia!”. E la ragazza: “Venga la mattina quando prepara le ciambelle” “Non sono peggio della sua riforma della Giustizia, comunque”, commenta ad alta voce un passante che si sta recando al circolo Pd lì vicino.

Cavedani, barbi, gozzi: la moria di pesci nel Tevere preoccupa le autorità locali, che chiedono l’intervento del ministero dell’Ambiente. Un mese dopo Cingolani invia un dossier: nel Tevere c’è un’alta concentrazione di metalli pesanti, idrocarburi, microplastiche, pesticidi e altre sostanze chimiche molto pericolose per la salute e per l’ambiente. Soluzione: basta cambiare l’acqua tre volte la settimana. Indispensabile il nucleare.

New York, 1970. Una ragazza nubile va dal dottore per abortire, approfittando della nuova legge sull’interruzione di gravidanza, ma scopre con sgomento che la gravidanza ha superato le 24 settimane previste dalla legge. “Non preoccuparti”, dice il dottore comprensivo. “Quando sarà il momento, vieni in ospedale a partorire. Ci sarà sicuramente una paziente ricoverata per un’operazione alla cistifellea: le daremo il bambino e le diremo che non si trattava della cistifellea”. La ragazza segue il piano, ma quando nasce il bambino l’unico caso di cistifellea in ospedale è un prete di quarant’anni. “Che cavolo” pensa il dottore “ci provo lo stesso”. Così presenta il neonato al sacerdote, che ne è felicissimo: “Questo è un miracolo del Signore!”, esclama, e porta il bambino con sé in canonica. Vivono insieme una vita serena, finché il prete si ritrova sul letto di morte. Chiama il ragazzo e dice: “Figlio mio, devo dirti una cosa. Non sono davvero tuo padre, sono tua madre. Tuo padre è il vescovo McCarrick”.

Draghi invia il ministro Di Maio a Kiev per scongiurare la guerra fra Russia e Ucraina: non possiamo permettere che una guerra porti a sanzioni contro la Russia che bloccherebbero il gas russo che ci serve. Di Maio torna vittorioso, la guerra non si farà. “Come ci sei riuscito?” gli chiede Draghi. E Di Maio: “Ho detto a Putin che, se non se la piantava, mi mettevo con sua figlia”.

 

Il senso dei dem per la vigilanza

Il corto circuito tra controllati e controllori, va detto, gode di una certa anzianità di servizio. Relazioni, conflitti d’interessi, antichi legami indissolubili: per carità, per dare scandalo, ormai, ci vuole una discreta pervicacia. Eppure, ieri, s’è registrata un’innovazione di tutto rispetto. Merito del deputato del Pd Gianni Dal Moro, uomo ombra del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, e incidentalmente membro della commissione parlamentare di vigilanza su Cassa Depositi e Prestiti. Dev’essergli sfuggita, d’altronde, la sua carica di vigilante quando ieri mattina ha vergato un comunicato in cui faceva sapere di aver “molto apprezzato” la nomina del dott. Massimo Di Carlo a direttore Business di Cdp. Così come dev’essergli scappata la frizione mentre elogiava “la determinazione” dell’amministratore delegato, Dario Scannapieco. A meno che Dal Moro non abbia qualcosa da dirci: nel tal caso, lo invitiamo a farlo con la stessa disarmante franchezza con cui plaude ai vertici della partecipata che dovrebbe controllare.

Le due destre di Lega e FdI sulla giustizia

Come dare torto a Giorgia Meloni quando afferma che quella con Matteo Salvini “non è una banale incomprensione”, perché esiste una diversa posizione che esige un “chiarimento politico”? Il pensiero corre subito alla divaricazione, strutturale, tra centrodestra di governo (Lega) e di opposizione (FdI). E all’alleanza che si è “sciolta come neve al sole” (Meloni) nella battaglia del Quirinale dopo le candidature bruciate in serie dal piromane verde. Ieri, però, è stato lo stesso leader leghista a inciampare nella spaccatura a destra su due quesiti del referendum giustizia (promossi da Radicali e Carroccio). E a difendersi con un irritato “noi costruiamo e saranno gli italiani a scegliere”. In polemica con la (ex?) partner che già nel luglio scorso, all’inizio della raccolta firme, si era apertamente smarcata sulle limitazioni alla custodia cautelare e sull’abolizione della legge Severino. La leader di FdI aveva spiegato che “sicurezza e lotta alla corruzione sono valori non negoziabili” e che i relativi quesiti sono “figli più della legittima cultura radicale che di quella appartenente alla destra nazionale”.

Infatti, “la proposta referendaria sulla carcerazione preventiva impedirebbe di arrestare spacciatori e delinquenti comuni che vivono dei proventi dei loro crimini”. Mentre abrogare la legge che sancisce l’incandidabilità per i condannati definitivi “sarebbe un passo indietro nella lotta alla corruzione”. Un modo inteso a sottolineare, per contrasto, l’incoerenza della posizione del capo leghista che da strenuo paladino del binomio legge e ordine da un giorno all’altro ha scelto di arruolarsi nella trincea garantista. Con la stessa naturalezza di un poliziotto con scudo e manganello che si scopre figlio dei fiori. Per carità, va bene tutto anche se nell’attesa delle decisioni della Consulta a Salvini non riesce facilissimo spiegare che lui è contro la cannabis e l’eutanasia. Poiché non v’è chi non veda che l’intero pacchetto referendario possiede una robusta impronta radicale e che, dunque, i suoi distinguo ci stanno come i cavoli a merenda. Quanto alla Meloni, sarebbe un apprezzabile contributo alla chiarezza se tornasse a esplicitare i suoi no poiché forse non tutti gli italiani hanno ben compreso che su temi di così grande rilievo c’è destra e destra.

Robinho condannato per stupro a Milano, c’è mandato d’arresto

La Procura di Milano ha inoltrato al ministero della Giustizia la richiesta di estradizione e il mandato d’arresto internazionale per l’ex attaccante del Milan, Robinho, condannato in via definitiva, assieme a un amico, il 19 gennaio a 9 anni per violenza sessuale di gruppo su una 23enne albanese, che subì abusi in un locale il 22 gennaio 2013. Gli atti a carico dell’ex calciatore e dell’amico, entrambi in Brasile, sono stati firmati dal pm Adriana Blasco. Pare scontato che non saranno consegnati perché la Costituzione brasiliana non consente l’estradizione dei propri cittadini.

Stupro, ex prof insegnò anche dopo 2 condanne

Un ex docentedi 51 anni, residente nella provincia di Bari, è stato arrestato per violenza sessuale aggravata ed estorsione aggravata nei confronti di un alunno minorenne. Le indagini della Procura di Potenza riguardano un episodio avvenuto nel 2016, quando l’uomo insegnava diritto in un istituto superiore della provincia di Potenza: dopo averlo invitato nella sua abitazione, abusò dell’alunno e nel tempo gli estorse 3.660 euro. Nonostante nel 2019 fossero diventate definitive due condanne inflittegli dalla Corte d’Appello di Brescia nel 2013 e nel 2014 per episodi di violenza sessuale su alcuni minori avvenuti nel 2006 e nel 2009, con l’interdizione perpetua dalle scuole, l’ex prof ha ottenuto incarichi come insegnante fino al 2021.

Morto a 16 anni in stage. “Non doveva uscire”

La Procura di Ancona aprirà un fascicolo per omicidio stradale in relazione alla morte di Giuseppe Lenoci, il 16enne originario di Monte Urano (Fermo), studente del centro di formazione professionale Artigianelli di Fermo morto lunedì in un incidente stradale mentre era in viaggio a Serra de’ Conti (Ancona) sul furgone di una ditta termoidraulica nella quale stava svolgendo uno stage. I pm non si sono pronunciati, ma dovrebbero procedere nei confronti del conducente del furgone aziendale finito fuori strada, un dipendente 37enne della ditta rimasto ferito. “È una tragedia che si poteva evitare. A quanto pare il ragazzo non doveva uscire fuori sede e invece e’ uscito”, dice Angela, zia di Giuseppe