L’assassino senza ideali. Una bimba fra i 4 morti

“Uno spettacolo dell’orrore”. Così ha commentato il sindaco di Treviri, Wolfram Leibe, il sopralluogo nel centro pedonale della sua città, subito dopo la corsa di un automobilista su una Range Rover che a circa 100 km all’ora è piombato sulla folla, facendo quattro vittime e quindici feriti gravi. Era primo pomeriggio, poco prima delle 14, quando l’assassino si è lanciata a zig-zag sui passanti intenti allo shopping natalizio. “Ho attraversato da poco il centro ed è stato orribile”, ha detto il sindaco, che tratteneva a stento le lacrime nel raccontare di aver visto una minuscola scarpa da ginnastica di una bimba vicina a un corpicino coperto da un lenzuolo.

Tra le vittime, infatti, c’è anche una bambina di nove mesi, due donne, di 73 e di 25 anni e un uomo di 45 anni. Tutti del luogo. Alcuni testimoni raccontano di aver visto persone “volare in aria” spinte dall’urto del veicolo. “È successo a Treviri quello che tante altre volte abbiamo visto accadere in televisione”, ha dichiarato in tv il sindaco socialdemocratico davanti alla porta Nigra, a 200 metri dal luogo dove è stata fermata l’auto pirata dalla polizia, dopo circa un km di corsa a tutta velocità. Alla guida del Suv c’era un tedesco di 51 anni del distretto di Treviri-Saarburg: per il portavoce della polizia, Karl-Peter Jochem, il responsabile è stato “immediatamente arrestato”. Peccato che a terra siano rimaste così tante vittime. Bernd W., nato a Treviri nel 1969, viveva nell’auto prestata negli ultimi giorni e non aveva un indirizzo fisso, ha riferito il procuratore di Stato di Treviri, Peter Frintzen, in conferenza stampa. “Al momento non abbiamo nessun movente” ha annunciato il procuratore che ha definito il fatto “il più insensato della mia carriera trentennale nella città”. Di sicuro al momento dell’arresto Bernd W. aveva un tasso alcolemico di 1,4 (di molto superiore al limite di 0,8 previsto in Germania) ed è stato dichiarato ubriaco e alcolizzato dal medico che lo ha visitato.

Si prevede per i prossimi giorni una perizia psichiatrica sul responsabile del massacro, accusato di omicidio. Non ci sono al momento prove per supporre un movente religioso, politico o terroristico del gesto “insensato”. Per i suoi vicini, sentiti da Focus online il killer sarebbe un tipo solitario e schivo, con momenti di aggressività, che ha vissuto a lungo con i genitori, con cui si sentiva litigare spesso, e poi con la madre fino alla sua morte qualche anno fa. Bernd W. aveva lavorato come elettricista ma ora sembra fosse disoccupato e stando alle testimonianze, lo si vedeva spesso a una bancarella di kebab, dove si ubriacava. Sul suo profilo Facebook ha scritto: “Sulla mia lapide scrivete: risparmia le lacrime, dov’eri quando ero vivo?”, mentre nemmeno un biglietto o un indizio è stato ritrovato nella sua auto. Quattro minuti è durata la sua corsa, dal momento in cui la polizia ha ricevuto la richiesta di soccorso, alle 13:40, all’istante in cui l’auto è stata bloccata. Per il sindaco un ottimo risultato, “non scontato”. In un paese gemellato con Ascoli Piceno, di certo l’antiterrorismo non era sul piede di guerra. “È la cosa peggiore che è accaduta a Treviri dalla fine della seconda guerra mondiale”, ha rincarato ancora il sindaco. “Non capisco come a qualcuno possa venire l’idea di prendere l’auto e correre contro le persone nell’area pedonale” ha aggiunto “ma mi fa piacer aver ricevuto le telefonate dei parenti delle vittime di Breitscheid Platz”, la piazza di Berlino che fu teatro della strage del 2016, quando Anis Amri guidò il tir rubato sulla folla del mercatino di Natale, facendo 12 vittime, tra cui un’italiana. Troppo simili i due eventi e al tempo stesso troppo distanti. A mancare è il trait-d’union di una motivazione “sensata”, appunto.

“Ha usato l’auto come un’arma” ha detto il procuratore generale. E non è la prima volta in Germania. Oltre a Berlino, era già successo nell’aprile 2018 a Munster, dove un uomo psicologicamente instabile aveva travolto i tavolini della zona pedonale uccidendo 5 persone, e più recentemente lo scorso febbraio a Volksmarsen, dove un’auto guidata da un 29enne depresso era piombata sul corteo di carnevale del Rosenmontag, facendo diversi feriti, tra cui oltre 20 bambini. Nel duomo di Treviri-Augusta-Treverorum, sede vescovile di una delle più antiche comunità cattoliche in Germania, ieri sera hanno risuonato le campane a morto.

O insieme ci salviamo o insieme moriamo

In questo lungo periodo della pandemia, praticamente ho fatto vita da recluso o, più propriamente, da eremita. Infatti, il Superiore del nostro istituto Aloisianum a Gallarate, è stato molto rigido: nessun padre può uscire di casa e nessun estraneo vi può entrare. In pratica, ci ha messi tutti in quarantena!

Tanto rigore si spiega non solo in fedeltà alle disposizioni governative, ma anche perché l’istituto Aloisianum, antica sede della nostra facoltà filosofica, è stata trasformata in infermeria per i gesuiti anziani o ammalati: se vi entrasse il virus, sarebbe una strage! Del resto, il Covid ha fermato l’intera umanità, tanto che ho avuto la sensazione di assistere alle prove generali del Giudizio Universale! Molte volte mi sono chiesto: “Come farà l’intera umanità, una popolazione di miliardi e miliardi, a prendere visione e a rendere conto della storia intera di millenni, tutti insieme e nello stesso momento?”. Il fatto che un virus, minuscolo e invisibile, sia riuscito a bloccare contemporaneamente l’umanità intera, obbligando gli individui di tutte le latitudini a chiudersi in casa e a riflettere sulla gravità della situazione, mi ha fatto pensare istintivamente al Giudizio Universale. Infatti, tutti abbiamo preso consapevolezza del fatto che l’umanità è una sola grande famiglia, che c’è un destino comune di cui tutti siamo corresponsabili. (…) In altre parole, la pandemia ha smascherato l’inganno dell’individualismo, perché ci ha fatto toccare con mano che gli esseri umani sono fatti per darsi la mano tra di loro, per aiutarsi l’un l’altro in spirito di fraterna solidarietà: o ci salviamo tutti insieme o tutti insieme periamo. (…) Abbiamo bisogno di restituire alla nostra società un’anima etica, occorre cioè realizzare un nuovo umanesimo che ci raccolga tutti attorno al valore fondante della convivenza civile, che è la solidarietà. Questo binario – etica e solidarietà – è l’unica direzione verso cui andare, dopo l’esperienza del coronavirus, per ricostruire un’Italia e un’Europa secondo la volontà di Dio e in vista di un effettivo bene comune. Etica, cioè rispetto dei valori comuni con al centro la dignità della persona e i suoi diritti fondamentali inalienabili (che nessuno può togliere perché nessuno glieli dà se non Dio), e al tempo stesso solidarietà. Se non accettiamo questo binomio, non abbiamo appreso la lezione venuta dalla crisi della pandemia. Pertanto, il lavoro che dobbiamo fare a livello economico, giuridico, sanitario, artistico è riscoprire la dimensione etica e trascendente delle relazioni sociali, sapendo che nessuno riesce a salvarsi da solo, né tantomeno si potrà costruire un’umanità migliore, se non tutti insieme. (…) Ha ragione papa Francesco quando denuncia le gravi conseguenze della “cultura dello scarto”, quella cultura che si fonda sulla logica, oggi sempre più diffusa, dell’“usa e getta” e colpisce non solo gli esseri umani, come purtroppo è avvenuto con gli anziani in molte Rsa, ma anche gli oggetti che si trasformano velocemente in spazzatura. Perciò, applicando quanto il Papa scrive nell’enciclica Laudato si’, occorre che noi oggi sappiamo cogliere l’occasione dell’epidemia per diffondere una nuova “cultura della cura” o della responsabilità, attraverso un cambiamento profondo di mentalità e di stile di vita individuale, familiare e collettivo. (…) Teniamo a mente che la longevità è un privilegio, e lo dico con gratitudine pensando ai miei 91 anni. Quello su cui dobbiamo vigilare è la solitudine, come ci ha detto papa Francesco in occasione del I Congresso internazionale di pastorale degli anziani: “La vecchiaia non è una malattia, è un privilegio! La solitudine può essere una malattia, ma con la carità, la vicinanza e il conforto spirituale possiamo guarirla”. (…)

Il vero problema sta nel fatto che noi oggi abbiamo rimosso il pensiero della morte. In passato non era così. Con la morte avevamo imparato a convivere quotidianamente; e quanto ci tenevamo che una persona cara non morisse in ospedale, ma venisse a morire in casa! Oggi è cambiato il costume e muta anche l’aspetto esterno dei nostri cimiteri, sempre più simili a musei pieni di statue e di lapidi inneggianti alla vita che a “dormitori” dove i defunti giacciono in attesa della risurrezione! Il Covid, con le sue centinaia di morti ogni giorno, ci ha richiamati alla realtà. E qual è questa realtà? La nostra Costituzione riconosce la salute come un diritto fondamentale del singolo in relazione alla comunità. Infatti, all’art. 32 è scritto: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. La salute, cioè, deve essere trattata come una questione di interesse collettivo, come un bene comune al pari ad esempio dell’istruzione o dell’ambiente. Se invece noi riduciamo la salute a merce, attorno alla quale sviluppare interessi economici e aziendali – così come avviene da diversi anni in alcune nostre Regioni – ne paghiamo le conseguenze, che sono sotto gli occhi di tutti.

È poi vero che anche il nostro rapporto con la salute si è modificato nel tempo, e di questo abbiamo perso la memoria. Una volta era quasi “normale” ammalarsi, e persino morire anche in giovane età, dato che le cure mediche a disposizione erano limitate. Ora forse si è caduti nell’eccesso opposto, cioè non prendiamo più in considerazione l’eventualità di ammalarsi, “pretendiamo” di essere sempre sani e abbiamo rimosso la morte dal nostro orizzonte di vita, oltre che dal discorso pubblico. La malattia e la morte oggi sono diventate un tabù! Mi piace ricordare che nell’atto costitutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, firmato a New York nel 1946, è scritto: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in un’assenza di malattia o di infermità”. E come dimenticare le parole di papa Francesco, nel bel mezzo del lockdown del marzo 2020? “Siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”. La salute nostra e del mondo intero è collegata a tutte le relazioni tra di noi esseri umani e anche con gli altri esseri viventi; e questo virus, probabilmente passato dal pipistrello all’uomo, ce lo dimostra!

Dinanzi a tutto quello che stiamo vivendo, invece di lasciarci prendere dall’ansia, che non aiuta e crea solo più confusione, chiediamoci piuttosto che cosa ci domanda di cambiare la pandemia. Ci chiede forse di ripensare il nostro rapporto con la salute, che non è solo assenza di malattia – e lo scrivo dall’infermeria di Gallarate! –, di misurarci con la morte?

 

Le carceri smettano di essere atenei della criminalità

Caro Marco, ho letto gli editoriali che hai scritto in questi giorni in risposta a quelli di Manconi, Veronesi e mio, che chiediamo al ministro Bonafede misure immediate per rendere le carceri luoghi sicuri (ora non lo sono) in tempo di pandemia.

Sono contento che il nostro digiuno di dialogo, nel senso pannelliano del termine, sia stato da te immediatamente colto. Si parla di carcere in questi giorni anche grazie a te, e questa cosa, nel nostro Paese, accade troppo poco spesso.

E allora questa opportunità di dialogo voglio coglierla fino in fondo, dunque accetto alcuni spunti critici e provo a tirarne fuori delle questioni sulle quali è per me importante avere la tua opinione.

Tu scrivi di essere contro la nostra ricostruzione che vedrebbe il carcere come luogo di contagio, e a sostegno della tua tesi elenchi cifre e statistiche, ma quello che mi ha colpito del tuo editoriale è questo passaggio: “È vero: (le carceri) sono ‘una tragedia nella tragedia’, ‘incivile e criminogena’ per la fatiscenza delle strutture, il sovraffollamento, la penuria di agenti ed educatori”.

La tua soluzione è nuova edilizia carceraria, se ne parla da anni ma senza che vi siano fondi per poter dare seguito alla proposta, suppongo questo perché alle dichiarazioni non seguono mai azioni concrete. Dunque ti chiedo – dato che tu non sei il Pd, ovvero il partito che all’art. 1 del proprio Statuto ha questa regola: “Non decidere mai oggi, quando puoi dire che deciderai domani, tanto lo sai che non lo farai mai” – cosa ne facciamo, nel frattempo, di queste vite? Perché sono vite, persone, non statistiche o numeri, quelli che abitano i luoghi che tu hai definito “tragedie nelle tragedie”. E le persone recluse sono legate, fuori, ad altre persone, alle loro famiglie che riterranno quindi lo Stato inadeguato, inutile, incivile, quando non nocivo e deleterio. E questo accade in contesti geografici, economici e sociali in cui la presenza dello Stato dovrebbe avere tutt’altre caratteristiche.

Hai da proporre una soluzione temporanea, prima che la costruzione delle nuove carceri (o l’incivilimento delle esistenti) abbia luogo?

E ti chiedo anche: quanta responsabilità ha invocare e perseverare nella cultura della carcerizzazione, nel senso di limitazione delle pene alternative, quando ci troviamo palesemente al cospetto di un sistema “incivile e criminogeno”?

Henry Woodcock, il 6 novembre, ha scritto sul tuo giornale un articolo importante, importante perché al centro del suo articolo c’era l’Uomo. L’Uomo condannato, l’Uomo recluso.

Ti chiedo: possiamo permetterci di attendere i tempi dell’edilizia carceraria prossima futura, forse, chissà, mentre Uomini sono reclusi in veri e propri incubatori criminali? Conosci la realtà delle carceri e conosci le regole che le dominano, conosci il welfare criminale che le condiziona; così come succede all’esterno, anche in carcere la disperazione genera affiliazione. E questo è un problema enorme, ineludibile e che ormai ha smesso di riguardare solo il Sud.

Come vedi, la situazione è molto complessa e i numeri dicono poco. Soprattutto se a via Arenula siede un ministro la cui cifra politica è il silenzio. Sei tu che hai sentito la necessità di rispondere ai nostri editoriali, ma il ministro tace. Credi davvero che in un altro Paese un ministro sarebbe rimasto al suo posto dopo i 13 morti delle rivolte di marzo? Il fatto che sia rimasto al suo posto mi fa pensare che quelle Persone, delle quali a stento conosciamo i nomi, siano per il ministro solo degli animali o poco più. Possiamo accontentarci di tutto questo solo perché, magari, chi c’era a via Arenula prima o non era meglio o ci piaceva meno?

Un’ultima questione riguarda il tuo proibizionismo. Vedi Marco, io credo sia evidente che le droghe siano proibite perché i proventi del narcotraffico sono l’enorme liquidità della quale la nostra economia (e non solo la nostra) ha necessità per sopravvivere allo stato di crisi permanente nella quale siamo calati da anni. Le cronache giudiziarie ci hanno spesso raccontato di aziende private che accantonavano fondi neri utilizzati poi per corrompere e alterare il mercato. Ecco Marco, credo che tu non abbia ben compreso che i proventi del narcotraffico sono i fondi neri della democrazia, e io che tutto questo lo studio e lo racconto da anni, non posso, in nome della lotta alle organizzazioni criminali, non pretendere a voce alta che le carceri smettano di essere, una volta per tutte, università del crimine (oggi un piccolo spacciatore in carcere può fare “carriera”, questo lo sappiamo, e non agendo, anzi temporeggiando e tacendo, lo permettiamo), per diventare luoghi in cui chi ha commesso un reato possa scontare la pena il cui scopo non è punire, ma recuperare l’individuo alla società.

Grazie per aver accolto questo mio commento.

L’uccisione del fisico iraniano favorisce i falchi del regime

Il 27 novembre, Mohsen Fakhrizadeh, fisico a capo del programma nucleare, è stato assassinato a Teheran. Il regime, che accusa Israele, ha chiesto una condanna unanime alla comunità internazionale. Due giorni dopo, l’ambasciata iraniana a Roma ha sollecitato l’Italia a condannare il delitto.

Ci piacerebbe sapere a quale altro Stato al mondo, che non sia Israele, sarebbe consentito, senza suscitare reazioni clamorose e indignate, un atto di terrorismo internazionale come quello perpetrato dal Mossad che ha assassinato Fakhrizadeh, il principale responsabile del programma nucleare iraniano. Per la verità, l’assassinio di Fakhrizadeh, che è un sequel di altri quattro dello stesso tipo, è di quattro giorni fa ma era stato nascosto nelle pagine interne dei giornali italiani (il Corriere la dava a pagina 20), ma la notizia non ha più potuto essere ignorata, almeno in Italia, da quando l’ambasciata iraniana a Roma si è rivolta al nostro Paese perché condannasse quest’atto che viola ogni norma di diritto internazionale. L’Iran ha scelto l’Italia come interlocutore perché noi col Paese degli Ayatollah abbiamo sempre avuto buoni rapporti, anche economici finché gli Stati Uniti, non si capisce in base a quale diritto, ci hanno inserito in una lista di Paesi a cui è proibito avere traffici con l’Iran.

Che l’attentato dell’altro giorno sia di mano israeliana è fuori discussione. Lo stesso New York Times, che crediamo sia in questo caso al di sopra di ogni sospetto, attraverso tre fonti diverse dell’intelligence ha confermato la matrice israeliana dell’atto terroristico.

Tutta la vicenda del nucleare iraniano sarebbe incomprensibile se non fosse fin troppo comprensibile. L’Iran ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, Israele no e infatti l’Atomica ce l’ha (basta fare un giretto nel deserto nel Negev per vedere le installazioni nucleari di Israele). In base al trattato l’Iran ha sempre accettato le ispezioni dell’Aiea, e queste ispezioni hanno sempre accertato che l’arricchimento dell’uranio iraniano non andava oltre il 3%, cioè era ad usi civili e medici (per l’atomica l’arricchimento deve arrivare al 90%). Qualche ragione di farsi la Bomba l’Iran ce l’avrebbe perché è accerchiato da Paesi nucleari, Pakistan, India e appunto Israele, però, almeno finora, non ha intrapreso questa strada. Cosa vuol fare l’Occidente con queste violenze inaudite? Che l’Iran si convinca realmente a fabbricarsi anch’esso un’Atomica? Mettere in difficoltà i moderati del regime iraniano, il premier Rouhani, a favore dei cosiddetti “falchi” cioè la suprema autorità religiosa Ali Khamenei e i pasdaran? A vederla così l’assassinio di Fakhrazadeh e degli altri scienziati più che una manovra per mettere in difficoltà l’Iran, sembrerebbe un atto autolesionista. A noi però una cosa sembra certa, l’Occidente non può continuare per l’eternità con “i due pesi e le due misure”, Maduro no, al-Sisi sì, Iran comunque colpevole, Israele sempre sugli altari grazie a un ricatto morale che si basa su uno sterminio avvenuto 75 anni fa di cui non furono certo responsabili i Paesi mediorientali, l’Afghanistan talebano invaso perché vi vigeva la legge coranica e l’Arabia Saudita, il Paese più sessista del mondo, invece nostro corteggiato alleato. Un giorno ci scoppierà in mano una bomba, ma non sarà quella atomica.

Viareggio, il buio di chi è rimasto

Il sottopassaggio della stazione di Viareggio è rivestito di marmo rosa, Domenico Iannacone lo attraversa a passo lento, lo vediamo di spalle raggiungere le scale che portano in superficie, a ogni scala di marmo corrisponde un binario, ma lui va avanti come se il sottopassaggio fosse infinito, come se il binario giusto non ci fosse. Nelle sue “inchieste morali”, nelle sue transumanze di umanità, Iannacone parte sempre dal singolare per arrivare al plurale, non c’è dramma collettivo che non venga riassunto da un unico, esemplare destino.

La notte del 29 giugno 2009, un treno merci carico di gas infiammabile deragliò alla stazione di Viareggio a causa della velocità troppo alta, facendo esplodere una cisterna: 32 morti, e un numero incalcolabile di sopravvissuti, la cui vita è devastata per sempre. In “Io sono vivo”, la prima puntata della nuova serie di Che ci faccio qui (Rai3, 23.15), Iannacone incontra Marco Piagentini, che ha perso la moglie e due figli, e Daniela Rombi, che ha perso una figlia dopo 42 giorni di agonia; con loro attraversa il confine di chi si chiede quale sia la condanna peggiore, se l’assenza dei propri cari o la persistenza di sé. Sopravvivere significa tenere duro, aspettare ancora, dopo 11 anni, una condanna definitiva per quella strage. Entro sabato è attesa la sentenza della Cassazione, ma l’Associazione delle vittime è già arrivata a una certezza: come nella quasi totalità delle morti sul lavoro, anche in questo caso la fame di profitto è prevalsa sulle misure di sicurezza, e fa un certo effetto sentirlo in tempi di Covid, tempi in cui in nome della sicurezza è richiesto qualsiasi sacrificio. L’ingorgo di parole si alterna a lampi in esterna deserti e silenziosi. La stazione, i binari, le vie, le lapidi. La città del lungomare e del carnevale vista dall’ombra dei sottopassaggi. Iannacone gira così, con il montaggio, il ritmo e la punteggiatura interiori di chi conosce il linguaggio morse della poesia.

Tutti (e Toti) pazzi per il Natale, lo sci e la “zona bianca”

Tutti pazzi per il Natale, o forse tutti impazziti. Tutti e, in primis, Toti. Il presidente della Liguria ha proposto di “Introdurre una ‘zona bianca’ per le Regioni in base al rischio Covid”. Cioè: “Oltre alle regioni in area gialla forse è opportuno inserire quelle in area bianca, per consentire ulteriori libertà come i ristoranti aperti alla sera o la possibilità di seguire la messa di mezzanotte, dove il Covid ce lo consente”. Mentre il governo sta dicendo che ci sarà il coprifuoco anche per la Vigilia e Capodanno, e perfino la Cei non fa obiezioni sull’anticipo della messa di mezzanotte, Toti invoca una fantomatica zona bianca, evidentemente improponibile. Le ragioni delle regioni sono fin troppo ovvie: “Il Natale vale 3 mesi di fatturato, ci giochiamo la finale di Champions dell’economia”, ha detto Toti (i nostri politici hanno un immaginario inquietante). E comunque: non c’è dubbio che il problema della sostenibilità economica sia fondamentale, e che il sistema dei ristori debba essere reso più efficiente e celere. Tuttavia i numeri sono quello che sono. Ora la questione di vita o di morte non è più la risalita della curva, ma l’apertura degli impianti di risalita. Un tema che inspiegabilmente assilla Toti da settimane. L’altro giorno, dopo il primo confronto con i ministri, ha detto: “Le regioni si sono interrogate sulla possibilità di riaprire gli impianti di risalita per gli ospiti degli hotel o per chi possiede un seconda casa per dare una parziale compensazione a località sciistiche o, in caso questo non sia possibile, la chiusura dei confini del Paese per evitare che il nostro pubblico vada a sciare in Paesi in cui gli impianti saranno verosimilmente aperti: la Svizzera lo sta facendo, l’Austria, la Slovenia. Non vorremmo subire oltre al danno anche la beffa di tenere chiuso e vedere persone che vanno altrove in vacanza e poi rientrano magari importando il contagio”. Cosa volete, la Liguria è rinomata in tutto il mondo per le sue piste. Cortina? Madonna di Campiglio? Selva di Val Gardena? Le piste di Monesi di Triora sono notoriamente più frequentate. Battute a parte: con 800 morti al giorno, vi pare possibile che stiamo parlando seriamente del fatto che lo sci è uno sport individuale con un implicito distanziamento in pista? All’inizio di agosto si discuteva dell’apertura delle discoteche, scelta che non si sarebbe rivelata felice (e i numeri durante l’estate non erano nemmeno paragonabili a quelli di oggi). Il ragionamento sui contagi “esteri” è oltre la soglia della comprensione: non ci si può esporre al contagio in Svizzera, ma a Bardonecchia sì?

Spostiamoci in Veneto. Ieri il presidente Zaia ha dovuto comunicare una giornata nera (107 morti). I ricoverati sono più di tremila, quasi 700 in più che nel picco della prima ondata, a marzo. Questo nonostante il virus appaia meno diffuso fra la popolazione (in percentuale rispetto ai tamponi eseguiti). “L’aumento dei ricoveri si spiega con il fatto che rispetto a marzo non abbiamo più il lockdown”. Quindi “ho detto ai ministri: se l’assembramento è il problema, deliberate su assembramento”. Sulla scivolosa questione dello sci, però, Zaia ha ribadito che una delle ipotesi potrebbe essere consentire di “sciare solo a chi soggiorna in albergo o in appartamento in una delle località di montagna”. Richiesta condivisa da tutte le Regioni interessate, a cominciare dalla Lombardia, cioè una Regione che nemmeno è riuscita a predisporre un piano di vaccinazioni contro l’influenza stagionale, che la settimana scorsa “guidava la rivolta” (Il Giorno). Ai signori della neve e delle zone bianche vogliamo ricordare che secondo uno studio tedesco a marzo Ischgl, località sciistica dell’Austria, è stata responsabile della diffusione del Covid dalla Germania alla Scandinavia. E raccomandare il ricorso alla materia grigia, quando straparlano di zone bianche.

 

Patrimoniale Tassare i più ricchi? A trovarli, oggi come dieci anni fa

È già sparito dai giornali – puff – il dibattito sulla patrimoniale, considerato una specie di attentato al ceto medio, pur colpendo le ricchezze superiori a mezzo milione (lo 0,2 per cento, cioè mille euro fino al milione di ricchezza netta). Bon, basta, finito, pussa via. La proposta ha tenuto banco appena un paio di giorni, accolta dal solito scandalo su: a) il comunismo che arriva; b) lo Stato espropriatore; c) dove andremo a finire, signora mia.

In sostanza, in un Paese dove la povertà galoppa e dove qualcuno propone di trattenere dei soldi agli statali a milleduecento euro al mese perché “sono privilegiati col posto fisso”, ci sono crisi di asfissia e svenimenti perché si oserebbe chiedere mille euro a chi sta (molto) meglio.

Va detta subito una cosa: la patrimoniale italiana contiene una sua contraddizione interna, cioè a contribuire sarebbero quelli che già pagano regolarmente le tasse, quelli che il fisco conosce bene, mentre ne resterebbero esclusi, come sempre, i nullatenenti con la Porsche, gli evasori professionisti, gli occultatori di capitali. E qui ci aggredisce un ricordo antico, una vera madeleine di cui ricorre in questi giorni l’anniversario. Correva il 4 dicembre 2011 (preistoria, eh?) e Mario Monti teneva una tesa conferenza stampa di insediamento, durante la quale illustrava il suo programma lacrime e sangue. A un certo punto la questione che non ti aspetti: “Come farete per tassare i grandi capitali?”. Opporca miseria, che domande. Monti rispose con le sue circonvoluzioni che tenteremo di tradurre: “Non è possibile, oggi, prendere in considerazione, nel concetto di patrimonio da un punto di vista conoscitivo delle posizioni individuali…”. Traduzione: a oggi non sappiamo come individuarli, ’sti grandi capitali, mannaggia. Poi continuava: “Avremmo potuto dire: dichiariamo che mettiamo da subito all’opera dei meccanismi conoscitivi nuovi che ci consentiranno tra due anni di avere un’imposta come quella francese sulle grandi fortune”. Traduzione: abbiamo pensato di avviare un’indagine per sapere chi sono – nome e cognome – questi detentori di grandi patrimoni e forse tra due anni lo sapremmo. Bello. Ma poi: “Cosa avremmo ottenuto in questa situazione di grave emergenza? Forse tra due anni ci sarebbe stato un po’ di gettito, ma oggi ci sarebbe stata un po’ di fuga”. Traduco di nuovo: potremmo cercarli, ’sti ricchi che non pagano, ma quelli scapperebbero.

Punto. Fine della madeleine.

Sono passati nove anni e ancora siamo qui con il problema di non conoscere, o conoscere pochino, i detentori delle grandi fortune nazionali, che sì, bisognerebbe tassare, ma quelli scappano, che disdetta, eh! Uno si immagina una task force determinata e decisa tipo l’Fbi in Mississippi Burning (magari con Gene Hackman, perché no?), pancia a terra a cercare i grandi patrimoni italiani, e invece niente. Non si fece nel 2011 – sennò scappavano – e non si fece dopo, e anzi negli anni che seguirono fu tutta una gara a farsi le residenze fiscali all’estero. Dunque, a posto così, se ci sarà una piccola patrimoniale (dubito) sui ricchi veri la pagheranno – mugugnando – i ricchi già noti, e gli altri… salvi come al solito, allineati e coperti: non sappiamo chi sono, come da tradizione nazionale. Stop, fine del dibattito, si parli d’altro, please. I posti a tavola a Natale, i vecchi in autoreclusione nella cameretta dei nipoti con panettone allo Xanax passato sotto la porta, le piste da sci, il cenone. Ricchi? Ma che ricchi, su, non fatevi idee balzane.

 

Basta inutili retroscena su Conte. Ora il “futuro”

In questo Paese di poeti e naviganti, retroscenisti e visionari non è soltanto giusto, ma è anche assolutamente doveroso criticare il capo del governo per non avere una visione. Poi, correttamente, i critici diranno alti e forti i nomi dei numerosi visionari di questo paese, ingiustamente tenuti ai margini. Qualcuno dovrà anche spiegare in che modo chi individua la differenza fra debito buono e debito cattivo stia già delineando la società giusta, o no? Nel frattempo, fioccano le richieste, più o meno motivate, di rimpasto nel governo Conte.

I più ambiziosi e più visionari vorrebbero anche giungere a colpire il bersaglio grosso: il presidente del Consiglio in persona. Al conseguimento di questo obiettivo giova avvalersi di quanto rivelano i sondaggi, cito il titolo del Corriere della Sera (28 novembre, p. 19): Cala ancora il gradimento per Conte. Mi sono subito dedicato a una attenta lettura dei dati riportati (e interpretati) da Nando Pagnoncelli, sondaggista esperto e degno di stima. Il 55 per cento degli italiani conferma il suo gradimento per Conte, tre punti in meno rispetto a un mese fa, ma tre punti in più rispetto al 26 settembre del 2019 (dati tutti opportunamente riportati da Pagnoncelli). Quanto al governo, 52 per cento di approvazione, tre punti meno di un mese fa e 7 punti in più di un anno.

Peraltro, poiché oramai siamo tutti (sic) diventati professionisti nella lettura dei sondaggi, non ci facciamo influenzare dalle variazioni a meno che siano superiori al margine di errore che, unanimi, sondaggisti e studiosi situano fra il +2 e il -2. Allora guardiamo al trend e siamo costretti (sic) a rilevare che c’è un declino per Conte e il suo governo tra luglio e oggi, ma rimangono dati molto favorevoli rispetto a un anno fa e nel confronto con i predecessori di Conte. Ad esempio, nel settembre 2015 Renzi era sceso dal 47 al 38 per cento di gradimento rispetto a un anno prima e il suo governo era al 36. Meglio aveva fatto il suo successore Paolo Gentiloni il cui gradimento personale era al 43 per cento (stesso livello del suo governo) nell’agosto 2017. Quindi, 12 punti meno di quanto ottenuto da Conte in piena pandemia. Forse, qualsiasi discussione del futuro di Giuseppe Conte e del suo governo dovrebbe tenere in qualche considerazione queste cifre.

Invece gli si imputa come colpa grave quella di arroccarsi, mentre, ho letto sul Domani, i capi dei partiti di governo sono in “stallo messicano”, cioè, fermi in una desolata piazza Montecitorio a guardarsi negli occhi con la mano sulla pistola. Continuando a leggere ho scoperto, nel pregevole articolo del quirinalista Marzio Breda, che il presidente Mattarella ha fatto trapelare che, se stallo messicano c’è, allora anche lui dispone di sue armi personali e istituzionali ed è pronto a usarle. Sono armi che tiene costantemente oliate, tutte appropriatamente collocate nella Costituzione formale, quella scritta, e nella Costituzione materiale, quello che si è fatto nel passato e quello che è possibile fare senza violare la Costituzione scritta, avendo come stella polare la stabilità e la funzionalità del governo. Cambiare un ministro, forse due, si può. È una prerogativa del capo del governo che dovrebbe addirittura essere sostenuto e applaudito da tutti coloro che ossessivamente dichiarano che il non farlo è segno di debolezza dei presidenti del Consiglio/non Primi ministri italiani. Rimpasto è un’operazione più complessa che, naturalmente, merita di essere opportunamente motivata e giustificata e soprattutto non dovrebbe presentarsi come un gioco dei quattro cantoni (musical chairs direbbero gli anglosassoni). Qualsiasi operazione che vada oltre questi limiti implica una vera e propria messa in discussione del governo. Sarebbe il momento peggiore proprio mentre, da un lato, tutti sanno che è il tempo del completamento e della presentazione dei programmi del governo per ottenere gli ingenti fondi Next Generation Ue, dall’altro, che le autorità europee hanno dato mostra di avere fiducia in Conte e, quindi, sarebbero molto deluse sia da un’eventuale crisi di governo sia, ancor più, da una sua, peraltro complicatissima sostituzione (ma anche da un suo ridimensionamento). Potremmo concluderne che, insomma, è davvero ora di parlare di programmi, stesura e attuazione e, con Shakespeare, che se ne intendeva, il resto è silenzio.

 

Mail Box

La cintura si è rivelata fatale per mia figlia

Carissimo dott. Travaglio, senza scomodare la Costituzione, sono pienamente d’accordo di non utilizzare le cinture di sicurezza mentre guido. Mia figlia di 22 anni è morta perché la cintura non le ha permesso di spostarsi di 8 cm alla sua destra! Il piccolo spostamento le avrebbe evitato di essere investita dallo spigolo anteriore sinistro del rimorchio di un autotreno.

Giorgio Sartor

 

Lo Stato non può interferire nel privato

Caro direttore, negli ultimi giorni l’ho vista prendere una posizione abbastanza controversa, ovvero l’essere libero di non mettere le cinture di sicurezza quando usa la sua auto, una discussione solo apparentemente superficiale e personale, dato che riguarda i limiti alla nostra sfera di libertà personale. Dopo averci pensato bene, mi permetta di stare dalla sua parte: mi piacerebbe molto conservarla per i secoli a venire esattamente com’è, ma in realtà lo Stato non ha alcun diritto di dirci cosa fare finché ciò riguarda soltanto le nostre vite.

Giovanni Contreras

 

Direttore, faccia ciò che vuole, ma segua la legge

Caro dott. Travaglio, sono indotto ad associarmi a quei lettori che, dopo la sua sparata sulla cintura di sicurezza, hanno giustamente espresso la loro difforme opinione. Mi permetto di aggiungere che allorché lei sale in auto può effettivamente essere libero di fare quello che vuole, ma non può esonerarsi dall’uso della cintura di sicurezza, dal momento che se per qualsiasi motivo finisce con gravi lesioni contro un ostacolo, deve essere ricoverato con tutti gli oneri a carico della collettività.

Romano Leonardi

 

Caro Leonardi, non ho mica detto che non metto le cinture! Ho solo detto che contesto una legge a mio parere assurda e liberticida. Ma, finché c’è, la rispetto.

M. Trav.

 

Le Regioni non vanno abolite, bensì cambiate

Caro direttore, credo che il nostro giornale abbia deciso di fare una campagna contro le Regioni tout court. Posso anche capirlo, specie alla luce di come si stanno comportando nella gestione dell’emergenza coronavirus. Ma di fronte alle performance di Fontana&c. non dobbiamo dimenticarci di certa gestione “statocentrica” del fu (fu?) Stato centralista. Sono quindi non per abolire le Regioni, ma per modificare il quadro normativo e soprattutto per far crescere (o nascere?) una nuova classe di amministratori e una nuova consapevolezza da parte degli elettori. Perché anche le norme più ferree possono venire aggirate o disapplicate da amministratori ignoranti e/o spregiudicati? Mi scuso per questa “premessa” ma mi porta all’osservazione principale: perché spesso i titoli degli articoli del Fatto relativi alla questione regionale “forzano” in chiave abolizionista le spessissimo giuste e condivisibili osservazioni degli intervistati o collaboratori?

Dino Castrovilli

 

Caro Dino, io sono per abolire le Regioni perché, a parte qualche raro esempio virtuoso, è proprio il sistema che secondo me non funziona. Ma è la mia opinione, non un dogma di fede. I titoli, per necessità di sintesi, a volte semplificano concetti più complessi che si trovano negli articoli.

M. Trav.

 

Tasse esagerate a carico dei proprietari di casa

Nel mentre versate lacrime per i poveri inquilini che non pagano l’affitto, ricordatevi dei proprietari che, pur non ricevendo la pigione, pagano fior di quattrini di tasse. Chi sono quei geni che, bloccando gli sfratti, non sospendono contestualmente le tasse ai proprietari?

Adriana Rossi

 

La miopia di chi sostiene le misure svuota-carceri

Gentile Direttore, ho letto il suo articolo di fondo “Tana liberi tutti” e ne condivido il contenuto parola per parola. Purtroppo soprattutto in certi ambienti chi scrive si astrae completamente dalla realtà fino a quando non è colpito dalla stessa. Scrive anche per fare meraviglia, per stupire. Ricordiamo il famoso adagio dello scrittore barocco G. B. Marino: “È dell’uom il fin di meraviglia, chi non sa maravigliar vada alla striglia”.

Marco Olla

 

L’opposizione non sa come demolire il premier 

Noto con mio dispiacere che non sanno più come far dimettere Conte. Penso e sono convinto che più cercano di azzoppare Conte e più gli italiani si avvicinano al presidente del Consiglio.

Luciano Bisa

 

Bravi per il premio a “La strage silenziosa”

Gentile direttore Travaglio, mi complimento con Lei e Maddalena Oliva per il meritatissimo premio per “La strage silenziosa“, toccante reportage che ho letto più volte è fatto girare tra amici e conoscenti. Sempre un passo avanti voi del Fatto, indispensabili compagni di vita di tante persone oneste e rispettose delle regole e del prossimo, soprattutto di coloro che la pensano diversamente da noi! Un grande sollievo leggervi e condividere molto spesso le opinioni espresse. Buon lavoro e Fatti, forza!

Olga Longa

Taranto “I nostri bimbi continuano a morire per l’ex Ilva. Poi c’è il Covid”

Gentile redazione, il nuovo accordo tra governo e ArcelorMittal non tutela la salute dei cittadini e i primi a pagare il prezzo più alto sono i bambini, gli adolescenti. Così come Giorgio Di Ponzio, tanti bambini di Taranto continuano a morire a causa del devastante impatto degli inquinanti cancerogeni sul loro sistema immunitario vulnerabile.

Questo nuovo accordo concederà nuove deroghe al piano ambientale che doveva essere attuato molti anni fa e che solo grazie ai decreti legge, quelli condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, concede alla fabbrica di continuare a produrre senza rispettare la legge. Le emissioni della fabbrica sono incompatibili con la salute e il rischio sanitario è inaccettabile, lo dice la Valutazione del danno sanitario; pertanto gli obiettivi di produzione a 8 milioni di tonnellate annue sono un palese azzardo alla salute dei nostri figli. Al governo chiediamo di difendere i bambini di Taranto e di far rispettare la legge a chi gestisce gli impianti ex Ilva ArcelorMittal.

Sto combattendo con tenacia, guardando dritto negli occhi il Covid, senza paura, perché ho una battaglia più grande da portare avanti. Sono ricoverato da circa quattro settimane, ho una polmonite bilaterale interstiziale acuta che mi costringe a letto, attaccato prima al ventilatore polmonare e ora alla mascherina dell’ossigeno. Questo virus è reale, aggressivo e può colpire chiunque. Così come è reale e può colpire chiunque la contaminazione prodotta dall’ex Ilva. Sono rammaricato di vedere confermate le scelte di uno Stato che continua a tutelare l’economia di pochi, a danno di minori e famiglie lasciati soli a combattere le terribili conseguenze dell’inquinamento. Il Covid ci impone di riflettere sull’importanza della tutela della salute. Il governo ha il dovere di tutelarla sempre, adempiendo ai diritti costituzionali che a Taranto ci vengono da tempo negati. Le scelte compiute sinora confermano la totale assenza di rispetto verso la popolazione tarantina. Prometto di riavermi al più presto per contestare in ogni sede opportuna le decisioni criminali che si continuano a perpetrare tutelando un’azienda anziché la vita dei cittadini e dei bambini, che sono il futuro di questo Paese. Mi rivolgo alle massime istituzioni: a Taranto siamo quasi 200 mila persone, trovo inaccettabile che continuiate a far finta di non esservene accorti.

Angelo Di Ponzio, Ass. GiorgioForever