Feltri figlio e la boldrini, quando non esistono ragioni per la censura

Laura Boldrini spiega: “Un direttore di una testata giornalistica sceglie di non pubblicare un intervento per via dei suoi rapporti familiari. Ma è accettabile una cosa del genere? Per me no, non lo è. In tanti anni non mi sono mai trovata in una simile situazione. Sia chiaro che continuerò a impegnarmi perché sia rispettata la dignità delle donne, anche nell’informazione e sul piano del linguaggio, e continuerò a difendere sempre la mia libertà di parola”. Il suo post censurato è stato poi pubblicato dal manifesto. Vediamo adesso, in ordine, gli argomenti usati da Mattia Feltri per giustificare la sua censura. 1) “Confermo quanto scritto oggi dall’onorevole Boldrini su Facebook: ieri ha mandato uno scritto per HuffPost che conteneva un apprezzamento spiacevole su mio padre Vittorio” (Non era affatto un “apprezzamento”. Era la denuncia dell’articolo in cui Vittorio Feltri attribuiva la responsabilità di uno stupro alla vittima. Un apprezzamento è opinabile, attribuire la responsabilità di uno stupro alla vittima no). 2) “Ritengo sia libera di pensare e di scrivere su mio padre quello che vuole, ovunque, persino in Parlamento, luogo pubblico per eccellenza, tranne che sul giornale che dirigo” (Grave errore deontologico: così hai censurato la denuncia di uno che attribuisce la responsabilità di uno stupro alla vittima; e hai reso opinabile la colpevolizzazione della vittima). 3) “L’ho chiamata e le ho chiesto la cortesia di omettere il riferimento” (Non è una “cortesia” omettere la denuncia di chi attribuisce la responsabilità di uno stupro alla vittima). 4) “Al suo rifiuto e alla sua minaccia, qualora il pezzo fosse stato ritirato, di renderne pubbliche le ragioni, a maggior ragione ho deciso di non pubblicarlo” (Il rifiuto di Laura Boldrini è nobile. Ed è sempre opportuno rendere note le ragioni di una censura subita. Parlare di “minaccia” trasforma il censore in vittima: vi ricorda qualcosa?). 5) “Al pari di ogni direttore, ho facoltà di decidere che cosa va sul mio giornale e che cosa no. Se questa facoltà viene chiamata censura, non ha più nessun senso avere giornali e direttori” (La tua libertà di decidere non ti rende immune dal giudizio di merito. Non tutte le decisioni editoriali sono censure, ma la facoltà di decidere viene chiamata censura quando censura). 6) “Oltretutto l’onorevole Boldrini, come altri, su HuffPost cura il suo blog. Quindi è un’ospite. E gli ospiti, in casa d’altri, devono sapere come comportarsi” (Con questo rincalzo, Feltri si dà la zappa sui piedi. Vedremo poi perché. Intanto notiamo che continua a colpevolizzare Laura Boldrini, che denunciava chi aveva attribuito la responsabilità di uno stupro alla vittima). 7) “Ringrazio il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, per avermi condannato senza nemmeno una telefonata per sentire la mia versione, quella di un iscritto” (Verna non lo ha “condannato”, altro vittimismo; ha manifestato solidarietà a Laura Boldrini: “Lascia basiti la notizia della censura (peraltro estranea alla tradizione editoriale del giornale online in questione) denunciata dalla presidente emerita della Camera, Laura Boldrini, da parte del direttore dell’Huffington post, Mattia Feltri, per un riferimento nel pezzo da lei redatto a un’opinione pubblicata da Libero a firma del padre, Vittorio Feltri, già iscritto all’Ordine dei giornalisti, poi dimessosi, i cui contenuti sono già al vaglio dei competenti organismi in quanto permane in ogni caso la responsabilità deontologica del direttore che firma il giornale… Nell’esprimere la totale solidarietà alla presidente Boldrini, ci aspettiamo che la questione trovi accettabili spiegazioni che al momento totalmente ci sfuggono”).

(2. Continua)

 

Fatevi ognuno un decreto ad personam

Sei stufo dei Dpcm del governo Conte? Vuoi ribellarti alla Dittatura Sanitaria della sinistra marxista-leninista? Contro gli odiosi diktat del comitato ateo scientifico non intendi consentire che ti sia impedita la celebrazione dei sacri riti della Natività (soprattutto se hai smesso di frequentare la parrocchia dal giorno del battesimo)? Manifesta e difendi il tuo sacrosanto diritto di ammalarti e di contagiare chicchessia (cz loro). Personalizza il tuo Dpcm, fattelo su misura. Che d’ora in poi sarà l’acronimo di Decreto Personale del Covid (o, a scelta, del Coglione) Masochista. Articolo Uno: nel caso il regime liberticida ti costringa a vivere in una regione lordata dal colore rosso nessuno potrà comunque impedirti di organizzare un festoso cenone di massa. Accoglierai il parentado al completo che si potrà accalcare alitando sul panettone con l’uvetta, o tracannando lo sciampagnino dai medesimi contenitori. Anzi, se hai dei cugini con i quali sei in contenzioso per l’eredità del povero nonno, finalmente liberi tutti dall’oppressivo giogo della mascherina, potrai ripristinare l’antico e appiccicoso vasa vasa sulle guance, in segno di riconciliazione virale (e a chi capita capita). Naturalmente, potrai estendere l’invito all’intero condominio (compreso all’amministratore che fa la cresta sulla manutenzione), sempre in aperta sfida libertaria con le raccomandazioni governative (che si fottano). Articolo due: se residente nelle zone parzialmente redente dalla tirannia del distanziamento affrettati ad assembrarti con la fiumana degli altri eroici resistenti nelle vie del centro storico. Non importa se farai parte delle mandrie brulicanti che erranti e senza meta non mettono piede nei negozi. L’importante è riaffermare il sacrosanto diritto allo struscio insensato e alla calca demenziale. Articolo tre: nel caso nelle situazioni di cui sopra un qualche zelante tutore dell’ordine e del sopruso avesse da obiettare, invocare i diritti costituzionali e intonare l’Inno di Mameli al grido di “libertà, libertà”. Provvedere quindi a trasmettere immediata denuncia dell’accaduto a Libero, Giornale , La Verità, Rete4, e a ogni altro organo votato alla Liberazione dal tampone. Articolo quattro: nell’ipotesi che per effetto di simili comportamenti si avverta un crescente indolenzimento delle ossa, perdita di olfatto e di gusto, aumento della temperatura corporea, richiedere immediatamente l’intervento dell’ambulanza. O assembrarsi davanti al più vicino pronto soccorso. Nel contempo: a) segnalare alle succitate testate combattenti le intollerabili inefficienze della sanità pubblica. b) chiedere il rimpasto di governo o le elezioni anticipate.

Strada a Crotone “Qui c’è bisogno di una rivoluzione”

“È una Regione che soffre di una cattiva gestione della sanità. C’è bisogno di una forte sanità pubblica per rispondere ai bisogni della popolazione”. Per farlo “serve una rivoluzione”.

La prima uscita in Calabria di Gino Strada è a Crotone per un sopralluogo ieri all’ospedale da campo che ospiterà i pazienti Covid nella struttura allestita davanti al nosocomio. In una conferenza stampa, il fondatore di Emergency ha chiarito che non è un vero e proprio ospedale da campo. Piuttosto, “abbiamo preso in consegna una parte dell’ospedale, montando due tende fuori in caso di estrema necessità. Saranno impiegati una decina di medici di Emergency e porteremo anche infermieri e oss”. “Vedrò certamente – aggiunge Strada – il commissario Longo. Non so se potrò incontrare il presidente facente funzioni della Regione, ma questo non mi crea problemi. Io non faccio il politico, né il missionario. Tantomeno in Africa”. La frecciata è per il governatore della Lega Nino Spirlì, a cui Strada spiega che “l’Afghanistan non è in Africa o in Calabria, ma in Calabria si trova il nostro ambulatorio di Polistena di cui il presidente non si è mai accorto”.

“I soldi? Se ci sono, li sequestrino”

Pubblichiamo la lettera inviataci da Roberto Recordare dopo l’articolo del 28 novembre in cui il Fatto Quotidiano dà conto dell’informativa della Squadra mobile di Reggio Calabria secondo cui l’imprenditore, indagato per riciclaggio e associazione mafiosa, sarebbe al centro di un complesso sistema per ripulire all’estero il denaro delle mafie.

Vorrei che fosse pubblicato online l’audio originale della mia intercettazione dove rido per la morte di Caruana Galizia, perché mi viene il vomito che possano dire questo. E siccome sono sicuro di non aver potuto fare una cosa del genere, mentre invece sono sicuro di aver potuto dire peste e corna di giudici e di giustizia, cose che confermo, vorrei solo smarcare questo fatto a cui ci tengo. Per il resto, non credo al sistema di giustizia italiana, non sono uno di quelli che dirà “ho fiducia sulla giustizia” perché non ce l’ho per niente e credo che ci vogliano giornalisti con le palle in grado di fare un’inchiesta seria su questo modo di gestire la giustizia in Calabria, che possiamo equipararla alla gestione della Sanità. Sono uno che ha scritto, senza paura e senza nascondersi, mettendo la sua firma in articoli contro qualche magistrato e questo è il risultato.

La domanda nasce spontanea, ma che ci vuole ad andare nelle banche dove ci sono questi 500 miliardi e sequestrare tutto? Hanno individuato una Banca in Danimarca? Bene, siamo in Europa, che vadano domani mattina a sequestrare i conti che dicono di aver trovato. Ho interessi a Malta tanto da avere un interesse verso la morte di una giornalista? Malta è a uno sputo dall’Italia. Che ci vuole a fare un’indagine bancaria? Ho conti cifrati nelle banche? Allora che indaghino anche quelle banche, solo per il fatto di gestire conti cifrati. Diciamo che avendo buttati 100 miliardi nella spazzatura, di provenienza delle 3 mafie, italiane, vuol dire che mi rispettano davvero tanto. Ma forse sono io il boss che comanda tutte le tre mafie? Intanto, mi chiedo perché non mi arriva almeno un avviso di garanzia e devo sapere dai giornali che ho 500 miliardi. Magari faccio una trattativa con il governo, faccio il pentito, ne lascio 499 in beneficienza e uno me lo tengo. Lo Stato fa a meno del MES e del Recovery fund. Solo che mi devono aiutare a trovarli sti 500 miliardi. Poi in caso se ci sono problemi con le 3 mafie, me la vedo io. Non voglio neanche la scorta.

Quindi, per concludere, Voi che sicuramente avete accesso alle intercettazioni, fatevi dare l’audio originale per quanto riguarda la morte di Caruana Galizia, perché per me è un problema nei confronti dei miei figli, per il resto sono a Vs. disposizione. Ma in cambio della pubblicazione dell’audio originale, dove avrei riso o fatto commenti contro la giornalista.

Anzi, le dirò di più, vada a leggere un articolo scritto da me, per capire come la penso e cosa scrivo.
Forse è questo il problema.

Sanità, inchieste sui crediti Il business di 2 politici locali

C’è più di una Procura calabrese che in questo momento sta indagando sul business della cartolarizzazione dei crediti sanitari. Al centro delle inchieste, secondo quanto ricostruito dal Fatto, c’è il mercato nato per speculare sul bilancio sanitario della regione più disastrata d’Italia: 1,1 miliardi di euro di debiti, secondo l’ultima relazione della Corte dei Conti. Debiti contratti dalla sanità pubblica calabrese non per pagare medici o infermieri, che oggi servirebbero come non mai, ma per remunerare qualche decina di aziende private. L’inchiesta è seguita da diverse procure, perché il meccanismo sarebbe stato lo stesso in varie province. Cosenza è il mercato più fiorente. La Asp locale è la più malmessa delle aziende sanitarie della Regione, con 361 milioni di debiti nei confronti di un pugno di cliniche e residenze per anziani; due delle quali in mano a noti esponenti politici locali.

Il cuore dell’affare sta nei bond sanitari. È il meccanismo che avevamo raccontato domenica scorsa su queste pagine. Le indagini giudiziarie faranno il loro corso, ma per ora quello che è certo è il sistema che negli ultimi anni ha portato in Calabria decine di società finanziare milanesi per accaparrarsi pezzi di debito sanitario. Milioni di euro di fatture emesse da cliniche private nei confronti delle varie Asp regionali sono state rivendute a queste società finanziarie, che le hanno poi impacchettate in bond da vendere sul mercato. Il problema è che adesso alcune di queste fatture non si trovano più. E siccome sono queste le pezze d’appoggio su cui basano il loro valore i bond, il problema potrebbe creare parecchi danni. È il caso degli 8,3 milioni di ricevute che una di queste società finanziarie, la Tocai Spv Srl di Milano, ha acquistato dalla Casa di Cura Tricarico, di proprietà dell’omonima famiglia calabrese e di cui Il Fatto ha scritto domenica scorsa. Lo scorso agosto Tocai ha chiesto alla Asp di Cosenza di pagare quelle fatture insolute, ma alla Asp dicono che le carte non sono registrate in contabilità.

Qualcosa non torna alla Casa di Cura Tricarico, clinica privata cosentina nel frattempo fallita e con i vertici condannati ieri dalla Procura di Paola per bancarotta fraudolenta. Negli anni scorsi la struttura ha finanziato alcuni esponenti politici: 5mila euro nel 2013 regolarmente versati alla deputata calabrese del Pd, Enza Bruno Bossio. Inopportuno ricevere denaro da un’azienda che dipendeva da contributi pubblici? No, ci ha risposto la parlamentare dem in una lunga email. Non abbiamo invece ricevuto alcun commento da due politici che con i bond sanitari hanno fatto affari in prima persona. Luca Morrone, consigliere regionale di Fratelli d’Italia, è azionista insieme ad alcuni suoi familiari della San Bartolo Srl, gruppo che comprende una casa di cura, un centro di riabilitazione e una residenza per anziani. Un documento interno della Asp Cosenza racconta che la clinica della famiglia Morrone lo scorso 15 settembre ha ceduto crediti alla milanese Astrea Quattro Spv Srl per 373mila euro. Il rappresentante di Fratelli d’Italia non ci ha fatto sapere se il suo gruppo vanti ancora crediti nei confronti della Asp Cosenza o li abbia già venduti tutti. Di certo anche la San Bartolo non se la passa bene: nell’ultimo bilancio scrive di aver rimandato a dopo l’emergenza Covid il concordato preventivo.

Ma nel business dei bond sanitari c’è anche Vincenzo Cascini, sindaco di Belvedere Marittimo (Cosenza) eletto con una lista civica di centrodestra, ha appena incassato parecchi soldi da una società specializzata in cartolarizzazioni. La Casa di Cura Cascini, di cui il sindaco è consigliere d’amministrazione e azionista di maggioranza (benché le quote siano in usufrutto a una parente), il 12 agosto ha venduto 546mila euro di crediti vantati nei confronti della Asp Cosenza alla Argo Spv Srl. Una delle tante società che hanno fatto affari in Calabria negli ultimi anni con i crediti incagliati. Anche questa con sede a Milano, in via Prospero 4. Gli stessi uffici della Astrea Quattro Spv, quella che ha acquistato i crediti dalla clinica di Morrone, e anche della Tocai Spv, quella delle fatture per 8,3 milioni di euro che non si trovano più. Segno che sulla linea Milano-Cosenza il business dei bond sanitari, seppur con qualche intoppo, tira ancora tantissimo.

“I treni oggi da noi viaggiano a 50km orari, come ‘cortesia’. E la giustizia?”

Noi siamo sempre dalla parte dei perdenti, perché siamo gente che sa cosa vuol dire aver perso qualcuno. Ecco perché abbiamo offerto il nostro aiuto ai familiari delle vittime di Rigopiano, di Pioltello, adesso anche di Genova e del crollo del Ponte Morandi. Nessuno deve essere più costretto a decidere se accettare un risarcimento o restare in un processo”. Nella strage di Viareggio Daniela Rombi ha perso la figlia Emanuela, 21 anni. Prima di passare il testimone a Marco Piagentini è stata la prima presidente del comitato delle vittime, di cui è ancora oggi uno dei volti più rappresentativi. Dall’esperienza di quel processo è nato un coordinamento nazionale, per aiutare tutti i familiari di vittime, e per chiedere il sostegno da parte dello Stato alle spese processuali. “È troppo importante che le vittime facciano sentire la loro voce”.

Come avete affrontato questo processo?

È stata un’impresa impervia. I costi per affrontare un processo di queste dimensioni sono molto alti. E anche nello sforzo che abbiamo fatto eravamo sempre in condizioni di minoranza, una decina di avvocati contro sessanta.

Quanti siete rimasti?

Circa quindici famiglie sono ancora parte civile nel processo. C’è però chi non ha avuto questa scelta. Figli che hanno perso i genitori, che portavano a casa lo stipendio. Tutto questo deve finire.

L’altra vostra grande battaglia è quella per la prescrizione.

È una battaglia di civiltà. Non ne beneficeremo noi, ma siamo contenti di aver portato il nostro piccolo contributo. Già adesso in questo processo sono andati prescritti reati come l’incendio, in soli sette anni. Lo traduco dal gergo giuridico: mia figlia è morta bruciata, dopo 42 giorni di sofferenza. Ci sono persone riconosciute come responsabili e questa norma annulla anni e anni di processi, migliaia di carte processuali, l’attività d’inchiesta dei magistrati e della polizia giudiziaria.

Si arriva a vedere la fine dopo undici anni e mezzo. Ci sono stati ritardi nei processi?

Non credo, sinceramente. Non posso che ringraziare i magistrati. Stiamo parlando di una vicenda enorme che ha travolto una piccola Procura. All’inizio c’era un solo magistrato che si occupava delle indagini, che è stato affiancato dopo i primi passi dal procuratore. Insieme hanno ricostruito un sistema complesso come quello delle ferrovie, suddiviso in decine di società italiane ed estere. Anche i giudici hanno lavorato in modo serio, con ritmi di tre udienze a settimana.

Cosa vi aspettate domani?

Dico la verità, sono molto preoccupata. Dopo tanti anni attendiamo giustizia. Il timore che evapori tutto c’è. Sarebbe devastante.

Cosa è cambiato dopo la vostra battaglia?

I treni vanno a 50 chilometri orari solo davanti a Viareggio, per “cortesia istituzionale”. Non ce ne facciamo niente della loro cortesia, vogliamo sicurezza e giustizia ovunque. Se il treno quella notte fosse andato a quella velocità non ci sarebbe stata una strage simile. Quando mi capita di sentire di un incidente ferroviario ho i brividi. Penso che possa succedere ancora.

Strage Viareggio: il processo a rischio farsa per prescrizione

L’ultimo miglio comincerà oggi, a 11 anni e mezzo dalla strage: il processo per il disastro ferroviario di Viareggio e i suoi 32 morti arriva in Cassazione. Sulla vicenda, che ha portato alle condanne degli ex vertici delle Ferrovie dello Stato, incombono il rischio concreto della prescrizione e un nemico del tutto nuovo: il Covid.

L’emergenza sanitaria, per la prima volta, costringe le parti civili a restare fuori dal tribunale: “Abbiamo seguito centinaia di udienze, non ne abbiamo mancata mai una – spiega Marco Piagentini, presidente del comitato delle vittime – questa imposizione aggiunge ovviamente altro dolore. Per noi seguire le tappe del processo è un modo per colmare la sensazione di vuoto lasciata dai nostri cari. Ci sentiamo privati di qualcosa di molto importante”.

Il disastro risale alla notte del 29 giugno del 2009. Sono le 23.48 quando un treno merci che trasporta Gpl deraglia dai binari, per colpa della rottura di un assile ferroviario. L’incidente avviene in prossimità della stazione. Il convoglio – 14 carri pieni di gas – esplode e travolge tutto ciò che trova intorno. A ridosso dei binari, nel complesso abitato di via Ponchielli, vivono centinaia di famiglie. Molte di loro vengono travolte nel sonno.

Piagentini, sopravvissuto nonostante ustioni sul 98% del corpo, perde in una sola notte la moglie Stefania e due figli. Ne sopravvive un terzo, ripescato miracolosamente sotto le macerie dell’appartamento. Il bilancio finale è tragico: 32 vittime, molte delle quali morte al termine di un’agonia atroce.

Per quei fatti la Procura di Lucca arriva a fare condannare in primo e secondo grado i vertici delle ferrovie italiane: 7 anni all’ex amministratore delegato del gruppo Fs Mauro Moretti, 6 anni a testa agli ex ad di Trenitalia Vincenzo Soprano e Michele Mario Elia. Insieme a loro vengono giudicati colpevoli manager e tecnici di società coinvolte a vario titolo nell’incidente, come i rappresentanti di Gatx Rail, azienda che affittava il carro cisterna alle Fs, e dell’officina tedesca Jungenthal, cui competeva la manutenzione dell’assile.

Più in generale a finire sotto inchiesta è un intero sistema che ha portato negli anni alla sottovalutazione dei rischi e a risparmi sulla manutenzione, parcellizzata in una galassia di società italiane ed estere, senza che in definitiva il gruppo avesse un vero e proprio piano di rischio complessivo (questa carenza è uno dei cavalli di battaglia dei consulenti delle parti civili, che consente di risalire la filiera delle responsabilità). La deflagrazione, per i giudici, è il risultato finale di negligenze sistemiche, e della mancata prevenzione di una catastrofe del tutto prevedibile. I convogli viaggiavano abitualmente in violazione di direttive sulla sicurezza risalenti agli anni Trenta, senza cioè i cosiddetti carri scudo, cisterne cariche di materiali inerti che in caso di deragliamento dovrebbero proteggere gli altri vagoni. I macchinisti non erano dotati di sistemi di rilevazione in caso di simili eventi. E ancora: treni carichi di materiali pericolosi viaggiavano ad alta velocità anche in prossimità di centri abitati.

Nel 2017 parte dei reati sono già caduti in prescrizione: l’incendio, le lesioni colpose gravi e gravissime. Adesso tutto ciò che rimane dell’impianto accusatorio è imperniato sull’aggravante dell’incidente sul lavoro, che rende ancora punibili il disastro e l’omicidio colposo plurimo: se cadesse quell’ultimo baluardo, la prescrizione potrebbe cancellare 11 anni e mezzo di ricerca della verità.

I parenti delle vittime, come detto, per la prima volta non saranno presenti. Nelle scorse settimane il comitato aveva lanciato un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al governatore Eugenio Giani: niente da fare. A tenerli fuori dalle udienze che porteranno alla sentenza definitiva (tra venerdì e sabato) è la concomitanza di due fattori: la classificazione della Toscana in zona rossa e le regole sanitarie imposte dalla Suprema Corte. “Sono ammessi solo gli avvocati, la motivazione è che loro rappresentano anche noi – dice ancora Piagentini – La pandemia ci ha posto di fronte a un dilemma: da un lato ci battiamo da anni per la sicurezza e non possiamo certo ignorare le norme di prevenzione dei contagi; dall’altro stiamo cercando un modo per restare uniti e creare un luogo almeno virtuale per essere presenti. Non ci siamo fatti troppe illusioni sulla possibilità di accesso fisico alle aule, ma almeno speravamo nella creazione di un collegamento da remoto”.

Dopo il rifiuto definitivo i familiari si sono dati appuntamento questa mattina alle 10 davanti al Comune di Viareggio, per un sit-in in cui ricorderanno le tappe fondamentali che hanno portato all’individuazione delle responsabilità.

L’eurodeputato ultrà dell’omofobo Orbán beccato al festino gay in barba al lockdown

Nella notte tra venerdì 27 e sabato 28 novembre, chiamati dai vicini arrabbiati per il chiasso, la polizia irrompe in rue des Pierres, nel cuore di Bruxelles. Al primo piano è in pieno svolgimento un movimentato partouze party. La polizia individua 24 persone, tutti uomini e quasi tutti nudi, se la stanno spassando, molti già ubriachi, altri a far sesso, alla faccia dei divieti di assembramento. Un paio sono diplomatici, alcuni funzionari dell’Unione europea. Ma c’è un venticinquesimo partecipante, un uomo dall’aspetto austero con la sua lunga barba e gli occhialini da professore. Approfitta della confusione, cerca di scappare calandosi dalla grondaia, si fa male. Gli agenti lo beccano: tradito dalle mani insanguinate, non ha documenti, nello zainetto ci sono alcune pillole di ecstasy. Il tizio invoca con arroganza l’immunità. È un eurodeputato ungherese. Molto famoso in patria. Si chiama Jozsef Szajer, uno dei cofondatori di Fidesz, il partito sovranista di Viktor Orbán. Ha appena detto no al Recovery Fund perché metterebbe a rischio la “sana gestione finanziaria” dell’Ue. Ha 59 anni, è membro della commissione Juri, fervente sostenitore della famiglia “naturale”, quella cioè composta da uomo e donna. Quando la polizia lo accompagna al domicilio per verificarne l’identità, pretende di chiamare in piena notte il ministero belga degli Affari esteri. Peccato che l’immunità non valga se si viene colti in flagranza di reato. Formalmente, una sanzione per aver violato il lockdown. Quanto all’orgetta, in Belgio non è reato se tutti sono consenzienti. Il vero reato, esistesse un tribunale etico, è quello dell’ipocrisia. Di chi predica intransigenza e intolleranza, di chi condanna la libertà sessuale, non quella sua, e recita la parte dell’integralista bigotto.

Il giorno dopo, Szajer comunica a David Sassoli le dimissioni. Il 31 dicembre lascerà il Parlamento europeo. A Budapest rilascia un comunicato in cui nega di aver consumato alcolici o droghe, “con le pillole d’ecstasy non c’entro”. Chissà cosa ne pensa la moglie Tuende Handu, 37 anni, giudice della Corte costituzionale, istituzione mai tenera con la comunità Lgbt. Stavolta è difficile affibbiare la colpa a Soros, o inventarsi l’ennesimo complotto globalista: “Mi scuso con la famiglia, i miei colleghi, i miei elettori. Chiedo loro di valutare questo infortunio tenendo conto di trent’anni di duro lavoro. Il mio errore è strettamente personale. Non estendetelo alla mia patria, o alla mia comunità politica”.

Aspi, il silenzio di Berti “premiato” con 400 mila euro

Quanto valeva in Autostrade per l’Italia il silenzio e la menzogna per coprire l’amministratore delegato Giovanni Castellucci nel processo sulla strage del bus di Avellino? Circa 400mila euro, secondo l’inchiesta della procura di Genova sulle barriere fonoassorbenti difettose. I 40 morti precipitati dal viadotto di Acqualonga sulla A16 risalgono al 28 luglio 2013 e Paolo Berti, all’epoca del crollo del ponte Morandi direttore Operazioni centrali di Aspi, in seguito ha goduto dei seguenti scatti di stipendio: dai 230mila euro del 2015 è salito a 380mila euro nel 2016 e a 760mila euro nel 2017.

Gli inquirenti ritengono che sia stato uno dei premi del comportamento processuale tenuto per coprire il suo superiore, Castellucci, che fu assolto ad Avellino. Berti, che invece fu condannato in primo grado a cinque anni e 10 mesi (pende il processo di Appello, per lui e anche per Castellucci), l’11 novembre è finito agli arresti domiciliari insieme a Castellucci e al suo numero ex due Michele Donferri Mitelli.

Dalle intercettazioni riportate in un’informativa della Guardia di Finanza depositata al Tribunale del Riesame emerge che Berti si aspettava una condanna di gran lunga inferiore in modo poi da chiedere la messa alla prova ed evitare il carcere. E quando invece i giudici leggono la sentenza si arrabbia tanto che al telefono dice: “Meritava che mi alzassi una mattina e andassi ad Avellino a dire la verità”. Dalle chiamate che Berti fa alla moglie e anche a Donferri e altri colleghi si evince che il primo aumento di stipendio non è più sufficiente, ci vuole altro. Il manager vuole chiedere anche che Castellucci non prenda provvedimenti disciplinari. La Procura di Avellino aveva impugnato la sentenza lo scorso anno mentre i colleghi genovesi avevano trasmesso le intercettazioni chiave.

Abusi dal padre, la prof capì perché strappava i vestiti

Una disabile violentata dal padre a 13 anni, per attirare l’attenzione si strappava i vestiti mentre era in strada, in classe, negli uffici del piccolo Comune di Summonte in provincia di Avellino. Una protesta plateale, rumorosa e disperata. C’è una signora che la raccoglie. È una sua ex insegnante, Nella Iuliano. La signora è preoccupata, e capisce che qualcosa non va. Si reca nella redazione locale de Il Mattino e denuncia: “Quella bambina non è più lei, le stanno facendo qualcosa di molto grave”. L’ex insegnante non si ferma qui: promuove una raccolta di firme, si reca dai pm. Intanto esce un articolo e parte un’inchiesta. La macchina della giustizia e della solidarietà verso le vessazioni di una bambina particolarmente fragile si mette in moto. Ieri, l’epilogo: il padre della bambina è stato arrestato dai carabinieri con l’accusa di violenza sessuale aggravata al termine di una indagine coordinata dalla Procura di Avellino. “Una vicenda sconvolgente che colpisce la comunità, ma grazie al lavoro comune tra varie istituzioni è stato possibile impedire che continuasse e ha consentito di mettere in sicurezza una bambina”, dice il sindaco Pasquale Giuditta, ex parlamentare. All’epoca il primo cittadino fece, e bene, il suo dovere: fece intervenire i servizi sociali. Gli operatori svolsero gli accertamenti di rito al termine dei quali si decise di sottratte la bambina ai genitori. Per questo fu oggetto di minacce: il padre e il nonno della bambina lo affrontarono in strada armati di zappa e giurarono che gliel’avrebbero fatta pagare.

Psicologi ed esperti dell’Arma dei carabinieri, insieme al magistrato della Procura, attraverso le dichiarazioni della bambina hanno ricostruito la vicenda che si consumava tra le mura domestiche di una casa popolare nella quale la bambina viveva insieme ai fratelli, genitori e nonni.