Riforma del Mes, il M5S inizia a perdere i pezzi. E FI esplode

Era fatale e infatti sta succedendo. La riforma del Meccanismo europeo di stabilità sta mettendo in difficoltà i partiti che in questa fase hanno più problemi di posizionamento: M5S e Forza Italia. Tatticamente però – anche data la natura non proprio ideologica dell’eletto medio berlusconiano – il cerino è rimasto in mano ai grillini, che rischiano di perdere per strada altri pezzi in vista della risoluzione di maggioranza che dovrà avallare la scelta del governo di approvare il nuovo Trattato. Eventualità esplosiva, specie a Palazzo Madama, dove i giallorosa hanno una maggioranza “politica” risicata: ieri, per dire, un senatore grillino ha già detto chiaro e tondo che voterà no e altri due hanno espresso critiche talmente pesanti da essere poco compatibili con un voto a favore.

Breve riassunto. Lunedì all’Eurogruppo il ministro Roberto Gualtieri ha dato il via libera alla riforma dell’ex fondo salva-Stati, il Mes già tristemente noto in Grecia (non si parla qui di accedere o meno alla cosiddetta “linea pandemica”). Sono molti i partiti politici e gli osservatori che hanno sottolineato, con maggiore o minore passionalità, i difetti e i rischi del dare maggiori compiti e poteri a uno screditato ente intergovernativo: i Paesi del Nord, però, lo pretendono e il governo alla fine ha detto sì.

Al di là del merito tecnico, comunque non secondario, in Italia la riforma del Mes è anche una bomba politica su cui potrebbe esplodere l’esecutivo. Il Parlamento dovrà esprimersi una prima volta il 9 dicembre, quando Giuseppe Conte andrà a parlare del Consiglio europeo di dicembre, e probabilmente una seconda volta il mese successivo: la firma dei capi di Stato e di governo dell’Ue sul nuovo Trattato è infatti prevista il 27 gennaio. Se tutto andrà come sembra, Camera e Senato dovranno poi ratificare l’accordo. Quali sono le posizioni dei partiti? Pd, renziani, centristi vari e Forza Italia sono sempre stati a favore; M5S, Lega e Fdi contrari. Com’è spesso capitato sui temi europei, però, le contingenze di politica interna stanno facendo slittare i partiti come macchine impazzite.

In questo senso, ieri Matteo Salvini ha ottenuto una discreta vittoria. Gli è bastato minacciare Forza Italia: “Chiunque in Parlamento approverà questo oltraggio all’Italia si prende una grande responsabilità (…) Se lo fa qualche membro dell’opposizione, finisce di essere compagno di strada della Lega”. Silvio Berlusconi ha scelto di tenersi stretti gli alleati: “Il 9 dicembre – ha scritto – non sosterremo in Parlamento la riforma del Mes perché non riteniamo che quella modifica sia soddisfacente per l’Italia”. La cosa, ovviamente, non è piaciuta agli eletti del suo partito, quasi tutti pasdaran del Mes a ogni costo. Nonostante l’incazzatura, defezioni in Parlamento non sono attese grazie alla bizzarra formula azzurra “no alla riforma del Mes, sì ai 37 miliardi del Mes pandemico” che a sera veniva magnificata a dichiarazioni unificate, alcune con toni lirici (“Berlusconi è il faro del centrodestra”).

Curiosamente è, rovesciata, la formula scelta dai 5 Stelle: “La riforma del Mes è peggiorativa e finché ci sarà il M5S al governo non si userà”, però il Movimento voterà sì e “non si dividerà in aula”, anche se “probabilmente ci sarà qualcuno che farà le sue scelte (…) e voterà in dissenso, questo è già accaduto” (Vito Crimi). Il problema è che la rivolta grillina è più estesa di quella di Forza Italia e, come detto, in Senato assai pericolosa per il governo.

Dice il senatore Mattia Crucioli: “Crimi si è forse consultato con i gruppi? Ha sentito la base? Si è forse votato su Rousseau? Non mi risulta (…) Certamente, se alla fine la risoluzione della maggioranza dovesse essere a favore non la voterò”. Probabilmente non sarà il solo. Se la riforma peggiora il Mes come dice Di Maio, ha scritto su Facebook l’ex ministra Barbara Lezzi, allora “non possiamo permettere il peggioramento di uno strumento che potrebbe finire, in futuro, nelle mani di un governo in cui potrebbe anche non esserci il M5S”. Un altro senatore, Elio Lannutti, da sempre contrario alla riforma del Mes, ieri su Twitter l’ha definita “un ulteriore crimine dopo tragedia greca”.

Se tre senatori – come le otto ore delle mondine – vi sembran pochi, basti dire che la maggioranza politica a Palazzo Madama (al netto dei senatori a vita e di aiutini sempre possibili) è di 165 voti, cioè di soli 5 senatori. Approvare una riforma così importante senza numeri non sarà senza effetti politici.

Gallera salvo in aula, ma rimpasto vicino

Il Consiglio regionale della Lombardia salva l’assessore Giulio Gallera. Ma solo per ora: il rimpasto, giurano tutti in maggioranza, è nell’aria e presto il responsabile del Welfare verrà rimosso dall’incarico. Si tratta solo di sistemare tutte le caselle della nuova giunta, di non turbare gli equilibri tra alleati e aspettare tempi più consoni, ovvero dopo l’approvazione del bilancio della Regione guidata da Attilio Fontana.

E così ieri in aula il centrodestra ha bocciato la mozione promossa dal Movimento 5 Stelle che chiedeva “un riassetto completo del Welfare”, esibendo la consueta difesa d’ufficio dell’assessore forzista, a sua volta presente in Consiglio per rispondere alle accuse. Gallera si trincera dietro a “dieci anni di disinvestimento nella Sanità”, definisce l’Ospedale in Fiera “una grandissima operazione” e, riguardo ai vaccini antinfluenzali, scarica le colpe sulle ditte: “I ritardi sono in tutta Italia, dovuti a ritardi nelle consegne da parte delle aziende produttrici”. Poi giura di avere individuato “260 mila unità” a rischio cui verranno somministrate le prime dose di vaccino anti-Covid; ringrazia la maggioranza per “la prova di compattezza” in suo sostegno e saluta tutti, consapevole in cuor suo di essere più in bilico che mai, nonostante il pericolo scampato in aula.

In realtà, spiegano fonti di centrodestra, è questione di prassi e di tempo: non è certo il caso di silurare Gallera con una sfiducia pubblica, col rischio di iniziare un risiko di poltrone a ridosso della chiusura del bilancio e scontentare qualche alleato nel momento peggiore. Ma al di là della forma, l’assessorato di Gallera trema, così come tremano Silvia Piani (Politiche per la famiglia), Martina Cambiaghi (Sport), Claudia Maria Terzi (Trasporti) e Lara Magoni (Turismo), in un giro di nomine che potrebbe anche ridistribuire le deleghe riducendo i posti in giunta.

Peraltro Gallera ormai è mal sopportato anche da un’ampia parte di Forza Italia, tanto che l’assessore potrebbe emigrare, dopo la cacciata dal Welfare, verso Fratelli d’Italia, dove invece gode ancora di buoni sponsor nonostante le difficoltà di questi mesi. Si vedrà. Ma a dimostrazione che qualcosa sta per avvenire, ci sono anche le parole richiamate ieri in aula dal Pd, ovvero quelle pronunciate una decina di giorni fa dal leghista Emanuele Monti, presidente della Commissione Sanità, ospite a Radio Popolare: “Sui vaccini antinfluenzali c’è una responsabilità politica-organizzativa dell’assessore Gallera. Non esistono giustificazioni”. E non a caso ora il capogruppo leghista Roberto Anelli dichiara di “aver votato per salvare Fontana”. Improbabile allora che sia Gallera ad affrontare “la terza ondata di gennaio” evocata dallo stesso assessore nel question time, durante il quale il forzista ha anche risposto a un’interrogazione a prima firma Michele Usuelli (Radicali) sulla “riduzione dei contrasti tra personale sanitario e aziende ospedaliere”, buttandola sul buon cuore dei medici: “Abbiamo bisogno che le persone in prima linea ritrovino la forza, la motivazione per continuare ad andare avanti a curare le persone”. Poco convincente persino per la sua maggioranza.

In Umbria hanno già mollato il superconsulente Bertolaso

“Atitolo personale”. Con questa premessa, e tra lo sbigottimento generale, lunedì Guido Bertolaso si è palesato in un’occasione pubblica in Umbria, regione che il 4 novembre lo aveva incaricato di fare da “consulente per l’emergenza Covid” alla governatrice leghista Donatella Tesei. L’ex capo della Protezione civile ha partecipato al consiglio comunale di Spoleto su invito del suo “vecchio amico”, il sindaco di centrodestra, Umberto De Augustinis. Lo ha fatto senza una delega da parte di Tesei, con la quale non appare in pubblico dal 12 novembre. Né, pare, con il nullaosta dell’assessore regionale alla Sanità, Luca Coletto, l’ex braccio destro di Luca Zaia arrivato in Umbria per importare il “modello Veneto” e da un mese a questa parte messo in secondo piano dall’incarico a Bertolaso. Spoleto è un nervo politico scoperto della gestione Covid in Umbria. Quando Coletto e Tesei hanno trasformato l’ospedale locale in Covid hospital, a ottobre, De Augustinis ha scatenato la protesta popolare e fatto ricorso al Tar. Il San Matteo è l’unico ospedale unicamente Covid della Regione, ma ha un problema: mancano gli specialisti. Solo che, nonostante il suo incarico sia iniziato da più di un mese, Bertolaso non ne sapeva niente. Nessuno, né il sindaco leghista né la presidente Tesei, lo aveva informato. “Ne parlerò con il direttore Claudio Dario e l’assessore Luca Coletto, e se in 48-72 ore non ci sarà qualche cambiamento sotto il profilo organizzativo, informatemi attraverso il sindaco”, ha detto ai consiglieri. “L’ho invitato io in virtù del nostro rapporto, sa quello che fa”, ha confermato il sindaco De Augustinis.

Su chi abbia mandato in missione Bertolaso a Spoleto resta il mistero. Ma è la spia dei malumori che aleggiano sia nella giunta leghista sia in consiglio regionale. E così, dopo la sua trovata rivelata dal Fatto Quotidiano di prevedere il trasferimento dei malati che necessitassero di terapia intensiva nel “suo” ospedale di Civitanova Marche, pian piano Bertolaso è stato messo sempre di più ai margini. L’unica volta che la “task force sanitaria” – Tesei, Coletto, Dario e Bertolaso – si è vista tutta insieme risale al 3 novembre. Spesso, nelle occasioni pubbliche, la “delegata” del delegato è stata Patrizia Astolfi, direttrice generale e social di Promedia srl, società che ha realizzato l’ospedale di Civitanova Marche, costruito proprio da Bertolaso sul modello Fiera di Milano.

Molti hanno notato che anche ai summit e alle task force della giunta non c’è quasi mai: è tornato in scena ieri mattina nella videocall per l’organizzazione della “fase 3” ma prima si era visto pochissimo. “Almeno risparmiamo sui rimborsi”, afferma chi critica la decisione della Giunta di riconoscere in delibera a Bertolaso – a Perugia a titolo gratuito – le spese per i viaggi e i soggiorni.

La miccia che ha fatto scoppiare la protesta, tutta interna al centrodestra locale, è stata proprio la pubblicazione del piano straordinario scritto da Bertolaso, che prevede (anche) il trasferimento dei malati Covid sul litorale marchigiano.

All’indomani della notizia pubblicata dal Fatto il 19 novembre, il direttore della sanità umbra, Dario, si è affrettato a ridimensionare la questione, spiegando che il padiglione di Civitanova sarà utilizzato “solo in caso di emergenza”. Ma non è bastato. “Non ci sta facendo una bella figura, è venuto chissà da dove e adesso l’unica cosa che tutti sanno è che vuole spostare i pazienti nelle Marche. Peggio di così non poteva andare”, sussurra una fonte nel centrodestra in Regione. Fratelli d’Italia, ad esempio, già non lo vede di buon occhio come candidato sindaco a Roma. Ed è inviso anche alla corrente zaiana della Lega – quella che non fa riferimento al segretario Virginio Caparvi, molto vicino a Matteo Salvini – che ha di fatto portato Coletto in giunta. L’uomo del “modello veneto”, affiancato a Tesei per rilanciare la sanità umbra dopo le vicissitudini della giunta Marini, è stato declassato a comprimario proprio nel momento clou dell’emergenza. “Se si candida a Roma lo lasciamo andare volentieri, di certo non lo tratteniamo qui”, scherzano (ma non troppo) nel centrodestra umbro.

Genitori contro Cirio: “In Piemonte strade piene e scuole chiuse”

“Ho deciso di fare ricorso contro la Regione quando domenica ho visto la folla dare l’assalto ai negozi del centro di Torino. Io, insegnante, e mia figlia, seconda media, eravamo chiusi in casa a sperare che le scuole riaprissero. Non è andata così”. Stefano Rogliatti, professore dell’istituto superiore Bodoni, è uno dei 98 genitori firmatari di un ricorso, notificato ieri al Tar del Piemonte, che chiede la riapertura immediata delle scuole medie. “L’ho fatto – spiega il docente – per mia figlia Lisa, che da giorni protesta con alcune compagne stando seduta per la strada davanti al suo istituto. Ci hanno illusi. Quando il Piemonte è diventato zona arancione hanno riaperto i negozi, ma Cirio ha tenuto chiuse le scuole. Sono deluso e indignato. Con la didattica a distanza ho perso il 15% dei ragazzi, non riesco più ad agganciarli”.

L’idea di scrivere il ricorso contro l’ordinanza che in Piemonte prolunga la didattica a distanza nelle scuole medie è dell’avvocata Emanuela Antonella Barison: “Sono madre di tre figli – racconta – con la mia socia abbiamo pensato che non fosse giusto quanto stesse accadendo. In pochi giorni c’è stato un passaparola che non mi aspettavo, si sono uniti e sarebbero stati molti di più se ci fosse stato più tempo.

Il tam tam è partito da Torino e ha coinvolto scuole pubbliche e private, in centro e nelle periferie, sia nel capoluogo che nella cintura. “Negozi affollati e scuola chiusa: benvenuti in Piemonte” è uno degli slogan delle famiglie che promettono battaglia. “Nel ricorso – precisa l’avvocata – chiediamo di far tornare a scuola subito le seconde e terze medie. La scuola è un diritto, ferma restando la necessità di gestire l’evento pandemico. Lo studio e la formazione sono momenti fondamentali per i nostri figli e con la scuola si esce dall’ignoranza”. Se il ricorso venisse accolto, le medie in Piemonte potrebbero riaprire già prima di Natale. I tempi lo consentono. “I soggetti più penalizzati in assoluto sono i ragazzini – afferma Barison –, la scuola è un momento fondamentale per la crescita e la socialità, ovviamente nel rispetto delle regole e del distanziamento. La scuola è un luogo sicuro e i professori contribuiscono ad insegnare ai nostri figli l’utilizzo corretto delle mascherine e delle misure di sicurezza, nozioni a lor utili anche fuori dalle classi”.

E proprio ieri, dalla Regione, sono stati divulgati i dati sui contagi di allievi e docenti. Tra gli studenti la percentuale dei positivi si attesterebbe al cinque percento alla materna, salirebbe al 28 alla primaria, al 24 alle medie e al 38 alle superiori. Tra i genitori c’è perplessità. “Ci chiediamo se siano dati effettivi e perché vengano divulgati solo ora, tardivamente”, afferma Stefano Rogliatti. “Alle medie i ragazzi vanno a scuola per lo più a piedi, non sui mezzi pubblici – ricorda una madre – e in classe hanno la mascherina. Non ci risultano grandi rischi di contagio”.

“Laboratori privati non comunicano i contagiati all’Asl”

Con l’aumento di strutture e laboratori privati adibiti a eseguire i tamponi, si è allargata anche la maglia dell’illegalità. Non ci sono, dunque, solo laboratori improvvisati e con carenti condizioni igienico-sanitarie. Dalle ispezioni dei Nas (gli specialisti dei carabinieri ai quali è demandato il controllo, su tutto il territorio nazionale in ambito sanitario) è emerso un comportamento preoccupante: le mancate comunicazioni di alcuni laboratori (spesso non autorizzati) alle Asl territoriali dei casi di positività al Covid-19 che vengono rilevati. Un problema non di poco conto soprattutto nel momento in cui il Paese si ritrova a dover cercare di limitare la diffusione dei contagi.

Non comunicare alle Asl competenti i risultati di tamponi positivi, nei fatti, crea un intralcio alla già complicata tracciabilità. E non solo. Perché il sospetto degli investigatori è che in alcuni casi i risultati dei test non siano stati riferiti neanche ai diretti interessati, che così restano liberi, inconsapevolmente, di girare e infettare.

Il preoccupante fenomeno sarebbe in crescita. Su scala nazionale, nel corso della sola ultima settimana, sono state ispezionate 285 tra aziende e laboratori di analisi privati e convenzionati. In 67 centri sono state rilevate irregolarità e sono state contestate “94 violazioni penali e amministrative, per un ammontare di 145 mila euro di sanzioni pecuniarie”. Di queste 94 violazioni, in 13 strutture (ossia per il 14 per cento dei casi) è stata riscontrata “l’omessa o ritardata comunicazione dei casi di positività emersi a seguito delle analisi cliniche sugli utenti”. Inosservanze, spiegano i Nas, “ritenute di particolare gravità per la perdita di informazioni utili alla corretta e tempestiva tracciatura dei casi e conseguente diffusione incontrollata di situazioni di contagio”.

Se il numero può sembrare esiguo, assicurano gli investigatori, non lo sono affatto le conseguenze che comportano.

Non comunicare i casi di Covid-19 significa non dare alle Asl la possibilità di definire quel mondo che ruota intorno al positivo: chi ha incontrato, gli ambienti che ha frequentato. E se il positivo lavora in contesti più ampi, come possono essere le scuole (quelle che sono aperte) o anche le aziende, significa non avvisare queste strutture e non mettere alcun limite alla diffusione del SarsCov2.

È successo in Abruzzo dove nel mirino dei Nas di Pescara sono finiti tre laboratori in provincia di Chieti, i quali hanno omesso le comunicazioni alle autorità sanitarie. In questo caso, come spiegano gli investigatori, è stato violato l’articolo 254 del Testo unico delle leggi sanitarie, che risale a quasi cento anni fa e che impone al sanitario che venga a conoscenza, o che abbia anche solo il sospetto di un caso di malattia infettiva e diffusiva di farne immediata comunicazione. Valeva dunque per tutte le malattie infettive e vale oggi ancor di più con una pandemia in corso. Dei casi rilevati, i Nas di Pescara hanno informato l’autorità giudiziaria, ma i loro accertamenti non sono finiti. Non ci saranno dunque solo verifiche sulle comunicazioni alle Asl, ma i carabinieri in un secondo momento cercheranno anche di capire se i cittadini positivi siano stati informati dell’esito del proprio tampone. Se così non fosse, i responsabili dei laboratori potrebbero incorrere anche in contestazioni più gravi, come epidemia colposa.

Una circostanza simile è stata scoperta anche dai Nas di Cremona che hanno segnalato il gestore di un ambulatorio medico il quale aveva eseguito tamponi rapidi per attuare un piano di “screening collettivo concordato con alcune amministrazioni comunale del Basso pavese”. Peccato che di questo screening non fosse stata data una preventiva comunicazione all’Autorità sanitaria locale.

Il tutto mentre il tracciamento dell’epidemia in Italia – vuoi per il livello di diffusione, vuoi perché sono ancora troppo pochi coloro che hanno scaricato l’app Immuni – è parecchio in affanno.

 

Spostamenti e ristoranti. Il governo litiga sul Dpcm

Resta aperto il nodo degli spostamenti per Natale, delle deroghe al divieto di viaggi interregionali che dal 20 dicembre al 6 gennaio riguarderà anche le Regioni gialle, cioè probabilmente quasi tutte dalla metà del mese. Alfonso Bonafede e Dario Franceschini non vogliono una deroga generale per motivi familiari. C’è tensione anche sui ristoranti: gran parte del governo vuole tenerli chiusi anche nei giorni di Natale e Santo Stefano, ma Italia Viva non è sola nel chiedere di aprirli almeno a pranzo. È scontato che a cena fuori non si potrà andare, anche se i presidenti di Regione chiedono il contrario. Il nuovo Dpcm che domani sostituirà quello del 3 novembre confermerà la divisione in zone gialle, arancioni e rosse con lo stop a bar e ristoranti alle 18 e il divieto di circolazione dalle 22 anche per il 24 e il 31 dicembre, introdurrà la quarantena obbligatoria per chi va all’estero, manterrà il blocco degli impianti sciistici e impedirà l’apertura degli alberghi in montagna. “Il problema non è lo sci, sono gli assembramenti che si creano attorno”, ha detto il ministro della Salute Roberto Speranza, ieri, nell’incontro con le Regioni. Potrebbe invece segnare un punto chi chiede la riapertura delle scuole superiori, dalla ministra Lucia Azzolina al Comitato tecnico scientifico e allo stesso premier: l’ipotesi è riportare i ragazzi in classe dal 14 dicembre. Oggi Speranza illustrerà il nuovo dispositivo alla Camera, insieme al piano vaccini su cui tutti ripongono grandi speranze per gennaio anche se i dati delle sperimentazioni saranno noti solo nelle prossime settimane quando saranno validati dalla Fda Usa e dall’Ema europea: saranno somministrati anche nelle palestre e nei complessi fieristici. Escluso l’obbligo vaccinale.

La preoccupazione è forte, quasi tutti prevedono che a gennaio i contagi risaliranno. Perché è vero che la curva dei nuovi positivi scende e si riduce, più lentamente, la pressione sugli ospedali, ma “il tracciamento – ha detto ieri il ministro della Salute ai presidenti delle Regioni – potrà riprendere solo quando saremo sotto i 50 contagi a settimana ogni 100 mila abitanti. E ora siamo a 320”. Solo allora, per dirla con il presidente dell’Istituto superiore di Sanità, professor Silvio Brusaferro, “potremo passare dall’attuale fase di mitigazione a quella di contenimento dell’epidemia”. Danno tutti per scontato che il tracciamento sia saltato, nessuno sembra credere davvero ai numeri delle Regioni che ancora nell’ultimo report settimanale dichiaravano di aver svolto “indagini epidemiologiche con ricerca dei contatti” dei positivi in percentuali che vanno dal 65 al 100 per cento. “Da due settimane siamo in una situazione migliore, ma non è una situazione tranquilla”, ha detto il direttore della Prevenzione del ministero della Salute, professor Gianni Rezza.

Ieri 19.359 nuovi casi registrati dalle Regioni con 182.100 tamponi, la percentuale di positività nelle ultime 24 ore è scesa dall’11,67 al 10,64 per cento ma “è sempre una soglia critica”, ha detto Rezza. Ai primi di novembre aveva superato il 17 per cento, un mese prima era al 3. Da due settimane i nuovi casi rilevati diminuiscono: nelle regioni rosse sono scesi del 34 per cento (nella settimana 23-29 novembre rispetto alla precedente), in quelle arancioni dell’11,8 per cento e in quelle gialle del 10,2 per cento. Ieri, rispetto a lunedì, negli ospedali c’erano 384 persone in meno nei reparti ordinari dell’area medica e 81 in meno nelle terapie intensive (30 solo in Lombardia): il calo è iniziato una settimana fa, da allora i pazienti ospedalizzati sono diminuiti di circa il 5% ma ce ne sono ancora 32.811 nelle aree mediche (più del picco di 29.010 della prima ondata che risale al 4 aprile) e 3.663 nelle terapie intensive (il picco del 3 aprile era a 4.068). C’è stato invece un numero impressionante di morti: 785 contro i 672 di lunedì, la media degli ultimi sette giorni è 731,8 contro 674,3. Come ha ribadito ieri il professor Rezza, “avremo ancora una lunga scia di decessi” che “dipendono dai contagi, molto alti, delle scorse settimane”.

I dati vi smentiscono

Caro Roberto, noto con piacere che la parola Covid è scomparsa dal tuo ragionamento. Però è proprio dal Covid che muoveva l’appello congiunto tuo, di Veronesi e di Manconi. Tu parlavi di una “strage” di detenuti “condannati a morte” dall’inerzia del governo e della necessità di liberarne diverse migliaia per salvarli dal rischio – a vostro dire molto superiore a quello corso da chi sta fuori – di contagio e di morte. I dati dimostrano che il vostro assunto di partenza è falso: in questi nove mesi, fuori dal carcere sono morte in Italia 56.356 persone su 60 milioni (quasi 1 su mille) e in carcere 5 su poco meno di 100 mila detenuti passati dai penitenziari (quasi 1 su 20mila). Quindi chi sta dentro ha 20 probabilità in meno di morire per Covid di chi sta fuori. Quanto ai contagi, il calcolo è più difficile: nelle carceri vengono sottoposti a tampone tutti quelli che entrano e tutti gli ospiti appena si scopre un positivo, con una copertura statistica quasi totale; fuori, la stragrande maggioranza degli italiani non ha mai fatto un tampone, dunque non si sa quanti siano i positivi (i dati riguardano solo chi fa il test). Ma, anche con questo squilibrio, i numeri dimostrano che in carcere si è molto più controllati e sicuri, quanto al Covid, che fuori. Ieri, su 53.720 detenuti, c’erano 949 positivi (1,76%) e 22 ricoverati (0,04%); fuori, 1,6 milioni di positivi ufficiali (2,66%), senza contare l’enorme sommerso, e 36.500 ricoverati (0,6%). Il dato dei positivi è imparagonabile, perché non tiene conto dei “clandestini”, ma resta comunque più basso in carcere che fuori. Quello dei ricoveri invece è paragonabile ed è 12 volte più basso per la popolazione carceraria che per quella esterna. Mi pare che basti per spazzare via digiuni contro la “strage” da Covid nelle carceri, campagne per amnistie, indulti e altre misure svuota-celle, accuse al governo di “condannare a morte” i detenuti. Infatti, caro Roberto, tu sposti il problema sull’edilizia carceraria, che tarda ad arrivare mentre le celle scoppiano e il ministro non fa nulla. Ora, che le strutture siano affollate e in parte fatiscenti, non c’è dubbio.

Ma gli attuali 53mila detenuti su quasi 51mila posti cella regolamentari costituiscono il minor affollamento da molti anni: non proprio un’emergenza da affrontare con urgenza. I 61mila reclusi di marzo sono calati di 8mila un po’ per i giudici che han limitato (fin troppo) gli arresti, un po’ per la riduzione dell’attività giudiziaria, un po’ per le misure di Bonafede nei dl Cura Italia e Ristori: domiciliari per gli ultimi 18 mesi di pena, con braccialetto elettronico per i residui sopra i 6 mesi; licenze e permessi straordinari; mancati rientri serali dalla semilibertà (reati di mafia esclusi, anche se tu inspiegabilmente contesti quest’esclusione). Ovviamente, finita l’emergenza Covid, i detenuti risaliranno. E il perché lo sai bene, da grande esperto della realtà camorristica: la popolazione carceraria dipende anzitutto dall’alto numero di delinquenti, non da leggi liberticide o dal destino cinico e baro. Tu vorresti più “pene alternative” al carcere: ma ne beneficiano già 40mila detenuti. Oggi, per restare al fresco almeno qualche giorno, bisogna avere condanne o residui pena superiori ai 5 anni: hai idea di cosa devi fare in Italia per beccarti più di 5 anni definitivi? Parliamo di persone che stanno in carcere perché ci devono stare.

Tu vuoi liberalizzare le droghe e mi accusi di “proibizionismo”. Ma io in linea di principio non lo sono affatto: penso però che occorrerebbe una politica comune di almeno tutta l’Europa, sennò l’Italia diventerebbe il paradiso dei tossici. Nell’attesa, molto meglio aprire nuovi padiglioni, come quelli aperti quest’anno dal governo a Parma, Lecce, Taranto e Trani (800 posti) e gli altri 25 avviati (3mila posti). E ho letto che il Recovery Plan prevedrà anche nuove carceri. Alle tue accuse a Bonafede risponderà, se vorrà, Bonafede. Ma chiederne le dimissioni per le rivolte carcerarie di marzo (molto ben sincronizzate) è ridicolo: se bastassero a cacciare un Guardasigilli sgradito, sarebbero i detenuti più violenti e pericolosi a decidere chi deve fare il ministro. Che poi Bonafede “taccia” sulle carceri, non mi pare proprio: tra question time, repliche sulla mozione di sfiducia, audizioni in Antimafia, in commissione Giustizia alla Camera e al Senato, interviste ai media (anche al tuo giornale) e dati aggiornati sul sito del ministero, mi sembra piuttosto loquace. Magari tu non condividi quello che dice, ma quello è un altro paio di maniche. Infine, caro Roberto: uno degli scopi della pena è proprio punire, perché chi ha commesso un reato paghi il conto, liberi la società della sua presenza per un po’ e a lui e ai suoi simili passi la voglia di riprovarci. Poi, certo, la pena deve anche rieducare: ma dev’essere, appunto, una pena. Non una finzione o una barzelletta.

Riva e De André, “Amici fragili” tra silenzi, whisky e sigarette

Quando l’arbitro fischiò e la partita tra Sampdoria e Cagliari, il 24 settembre 1969, si concluse 0-0, Gigi Riva – raccontano – uscì adirato dal campo. Era già campione d’Europa e quel pareggio non gli piacque. Ma ad attenderlo c’era un amico, il centrocampista Beppe Ferrero. Aveva in serbo per lui una sorpresa: lo aspettava, quella sera, a Genova nella casa di famiglia, Fabrizio De André.

L’incontro tra Faber e Rombo di tuono, rispettivamente all’epoca 29 e 25 anni, pur essendo così denso di aneddoti e umanità, sfuggì ai riflettori e ora torna a colmare quel vuoto nell’immaginario collettivo attraverso un progetto teatrale Amici fragili, prodotto dall’agenzia International Music and Arts, con la regia di Marco Caronna e le musiche di Alessandro Nidi.

Calcherà il palcoscenico la prossima estate, nelle più prestigiose rassegne, Federico Buffa nelle vesti di narratore e protagonista. L’idea è nata durante la tournée dello spettacolo Il rigore che non c’era. “Gigi Riva e Fabrizio De André apparentemente sembrano due giganti lontanissimi – spiega Caronna, il regista – eppure c’è un mondo che li lega”. La Sardegna, il mare, i colori rosso e blu, una fragilità celata che li ha resi diversamente grandi. E una canzone: quella che Faber scrisse per l’improvvisa scomparsa di Luigi Tenco, morto suicida nel ’67, Preghiera in gennaio. Gli amici più intimi raccontano che Riva la ascoltava ripetutamente, nella speranza un giorno di poterne parlare direttamente con l’autore.

Di lutti importanti il bomber dalla maglia numero 11 ne aveva già affrontati: aveva perso il padre a nove anni e la madre a sedici. Quella sera, dopo un’ora di silenzio tra whisky e sigarette, finalmente si parlarono. Condivisero quel modo di essere che li accomunava, un po’ randagio, e la propensione a stare dalla parte degli ultimi. Nel ’69 avevano già conquistato entrambi una certa fama.

I 45 giri di De André La canzone dell’amore perduto e Amore che vieni, amore che vai gli avevano già restituito un grande successo, preceduto dall’interpretazione che Mina diede a La canzone di Marinella. Gigi Riva, dal canto suo, l’anno prima aveva messo a segno un goal contro la Jugoslavia, in tempi in cui non c’erano i rigori, decretando la vittoria degli azzurri agli Europei. Quello che li attese dopo fu ancora più straordinario per entrambi, tuttavia ciò che accadde quella sera – l’unica trascorsa assieme – resta un mistero che Amici fragili farà rivivere attraverso la magia del teatro.

Foucault ride, Tondelli muore: la letteratura racconta l’Aids

Durante una cena tra amici, nel gennaio ’81, lo scrittore Edmund White racconta ai suoi convitati, tra cui Michel Foucault, che un dispaccio del 5 gennaio di un’agenzia epidemiologica ha descritto lo stato di cinque pazienti gravi ricoverati in California con sintomi comuni: febbre, perdita di peso, disturbi respiratori. I medici non sanno ancora dare un nome alla malattia di quegli uomini che in comune hanno pure l’essere gay. La prima reazione di Foucault è ridere. Lo stesso White lo ricorda in Un giovane americano (1982): “Hanno trovato la cosa talmente divertente che sono scoppiati a ridere. Non mi hanno creduto”.

Ci vorranno ancora mesi perché il termine Aids venga adottato in medicina, ma da subito si paventa l’idea di un castigo divino per la colpa del sesso così definito “contro natura”. Per questo, al contrario di quanto avvenuto con la mors syphilitica nell’Ottocento – che ha innescato in letteratura una specie di fascinazione maledetta –, l’Aids non si pronuncia. Non a caso, lo stesso Sciascia nel 1987 si chiede: “Quale rappresentazione daranno dell’Aids gli scrittori del nostro tempo?”.

La letteratura omosessuale, dalla gioiosa stagione degli anni 70 grazie ai best-seller dello scrittore francese Roger Peyrefitte, si tinge di nero. Così, nei romanzi americani degli anni 80 nessuno osa proferirne il nome. I protagonisti de Il linguaggio perduto delle gru (1986) di David Leavitt sono giovani gay newyorchesi che evitano di avere frequentazioni o rapporti sessuali: hanno paura che “la peste dei gay” che ha colpito molti amici e conoscenti becchi anche loro. La prima infrazione al silenzio – sempre più roboante – è la testimonianza. Per questo, si mette in prima linea Susan Sontag che in Come viviamo adesso (1986), oltre a rivelare che l’Aids è anche una questione femminile, pittura l’impatto della malattia nella comunità intellettuale di New York. Lo stesso fa nel commovente La sinfonia dell’addio White, che ha pure il merito di deflagrare l’idea di castigo quando scrive: “Non chiedo perdono per i miei desideri carnali”.

Negli anni 90 è Pier Vittorio Tondelli il primo a parlarne – o meglio a non parlarne – in Italia. Nel 1989 esce Camere separate che fa percepire la malattia in obliquo: Thomas, l’ex fidanzato del protagonista Leo, muore in ospedale a soli 24 anni di un male che indica nei sintomi l’Aids. La visione laica della carne e del sesso di Tondelli sarà rilanciata da Simona Ferraresi, che in Come il cielo (1993) scrive: “In questo libro, l’Hiv è stato uno strumento per approfondire la mia vita, per allargarla”. Ecco, cosa mancava sempre alla narrazione della malattia: mancava sempre la vita. Come se scrivere di Aids fosse una visita turistica a un cimitero a cielo aperto. Si comprende, allora, che dire equivale a lottare.

A ridestarci dal torpore borghese ci penseranno anche Harold Brodkey, che nell’incipit di Questo buio feroce. Storia della mia morte (1996) scrive “Ho l’Aids. E la cosa mi coglie di sorpresa”, e Hervé Guibert: entrambi usano l’autobiografia per accedere alla sfera collettiva dei lettori. Tentativi, in un certo senso, ben riusciti se pensiamo che negli anni 2000, da Le ore (1998) di Micheal Cunningham in poi – di pari passo con l’abbassamento della mortalità grazie ai perfezionamenti delle terapie – la malattia smette di essere il focus tematico su cui insistere e si “appiattisce” alla quotidianità.

La sieropositività appare nei romanzi senza esserne per forza l’intrigo trascinante (per esempio, ne Gli anni al contrario di Nadia Terranova il protagonista Giovanni scopre soltanto verso la fine di essersi infettato a causa della droga), si potrebbe quasi dire che scompare dalla letteratura (mentre dai giornali, sparisce davvero). Finché non si giunge, nel 2019, a Febbre di Jonathan Bazzi che, lavorando per sottrazione, scarnifica ogni topos dell’Aids (la paura della morte, il maledettismo, la promiscuità), rifiuta di essere ricondotto a “una casistica” e segna (forse) una nouvelle vague della letteratura quale testimonianza.

Le trame di donna Barbara. Sesso e congiure nel 500

La signora dei salotti padani di fine Cinquecento – oggi forse sarebbe l’ape regina dei bunga bunga – è una Barbara: Barbara Sanseverino, classe 1550 e discendente di un’illustre famiglia napoletana. Animatrice delle feste più licenziose e mondane tra Parma, Mantova e Ferrara, la marchesa di Colorno torna primattrice nel saggio di Gigliola Fragnito per Il Mulino – La Sanseverino –, dall’eloquente sottotitolo: “Giochi erotici e congiure nell’Italia della Controriforma”.

Donna controcorrente e sicuramente contro-Controriforma, Barbara si rivela un modello forte di femminilità, intelligenza e potere in un’epoca maschilista, conservatrice e bacchettona: il suo demi-monde frivolo e stuzzicante vive però in un tempo effimero e fugace, sospeso tra i sollazzi del passato rinascimentale e la licenziosità dei futuri libertini. L’autrice, non a caso, l’accosta ai nobili lubrichi delle Relazioni pericolose di Laclos (1782), anche se il riferimento letterario smaccato è allo Stendhal della Certosa di Parma (1839), laddove la Sanseverino diventa Sanseverina, l’intrigante zia di Fabrizio del Dongo (mentre Balzac riconosceva in lei la principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso, mah).

Barbara sposa a 14 anni il 40enne Giberto Sanvitale, conte di Sala, ma lo frequenta poco, giusto il tempo di farci due figli; i bagordi la chiamano di qua e di là e il marito le fa causa per abbandono del tetto coniugale, dopo aver tentato – coi suoi amici preti – di annullare il matrimonio per i legami di parentela tra di loro. In attesa del santo verdetto, il Papa – per precauzione – fa rinchiudere madama la marchesa in convento, consigliandole di darsi alla meditazione (seee), ma per sua fortuna Giberto muore prima: fine delle nozze e della clausura. La vedova troverà poi modo di consolarsi con Orazio Simonetta, signore di Torricella, sposato nel 1596 previ calcoli patrimoniali.

“Bona grassotta, tanto bella che non si può dire di più”, più cortigiana che santa, Barbara è gioiosa e seduttiva, lasciva e spietata: tanto amabile coi nobili sul divano, quanto feroce coi contadini e servi che lavorano nelle sue terre; uno lo uccide pure, per non parlare delle cause legali per soldi ed eredità coi parenti e una spiccata vocazione antisemita. Più degli uomini, le interessano gli averi; il suo feudo a Colorno, nel parmense, è per lei “paradiso e cuore”: casa d’appuntamenti, bordello, bisca, teatrino di spettacoli, feste e carnevali, ma anche regno di amazzoni, giochi saffici e travestitismi “con habito in parte succinto”. Non mancano, però, i trastulli intellettuali e le tenzoni poetiche, cui prende parte persino Torquato Tasso, che le dedica un sonetto “in lode de’ capelli”.

La dama si circonda di gente dedita “a crapula et dameggiare, venere e chiavamenti, armi et amori, licentie et abusi”: il loro è un “vivere assai licentioso; si va, si sta, si leva, si mangia, si giuoca… cose e spese straordinarissime… cianciando, bevendo e ballando continuamente”. Barbara ne esce sempre da signora, “dolcemente frizzante, prelibatissima”: ha un gran fisico, va detto; è l’unica della compagnia che riesce a svegliarsi in forma dopo una notte di “crapula e banchetti dissolutissimi”. Per ridarsi una qualche verginità, di tanto in tanto si reca in pellegrinaggio a Loreto, mentre i pettegoli favoleggiano sulle sue doti da strega, “carateri et incantesimi che tanto sicura la rendono nelle sue pericolose imprese”.

La Sanseverino, come padrona di casa, non si concede volentieri agli ospiti, non a tutti, almeno: preferisce fare da intermediaria tra dame e cavalieri, interpretando il ruolo della maîtresse, non della concubina. Vociferatissima è, però, la sua relazione con Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova, mentre agli altri spasimanti dà in pasto le sue amiche dai facili costumi. La sua astuzia e il suo carisma la salvano da un mondo machista, non dalla forca: “Inquieta, cervello terribile”, spregiudicata e intrigante, tesse una rete di relazioni importanti che la tutelano come donna e come moglie, in anni in cui le consorti finiscono spesso accoltellate (vedi la sorella Giulia) o avvelenate (vedi la figlia omonima) dai mariti.

Ciononostante, la Sanseverino è destinata al patibolo per “lesa maestà” e aver tramato di assassinare Ranuccio I Farnese, duca di Parma e Piacenza, e la sua famiglia. Ranuccio è invero un tipaccio, violento e superstizioso, crede nella magia e frequenta ciarlatani: il suo obiettivo è far fuori dal territorio parmense i feudatari come Barbara, strappandole soprattutto il buen retiro di Colorno. Pur di incastrarla, sguinzaglia spie e scagnozzi, che fabbricano accurate prove di intrighi e congiure ai suoi danni. Accusata, non si sa quanto ingiustamente, la marchesa affronta il processo come una teatrante svenevole, tra sospiri, pianti e invocazioni a Dio, lei che anni prima si era fatta ritrarre come protagonista nella pala del Martirio di Santa Margherita. Quale beffarda profezia, considerato anche che il suo amante, il famigerato Vincenzo, è l’unico dei “congiurati” a passarla liscia perché, essendo straniero di Mantova, non è obbligato a comparire a giudizio.

Barbara è la prima a finire sul patibolo, in piazza Grande a Parma, il 19 maggio 1612: “È nata Signora, et vole morire Signora”, ma la mannaia si inceppa e il boia – Cesare Dodi, poi processato per le indecenze sul cadavere – sfodera un mannarino per animali di piccolo taglio. Incitato dalla folla, prima di decapitarla, alza alla poveretta “suso la camisa”, dandole “delle sculazzate”. Disse lei, una volta: “Non giova esser donne, né dame hoggidì”.