“Io, i miei cani e gatti e il virus: ora a casa una cena con Jova”

ACastiglion Fiorentino – e forse un po’ in tutta la provincia di Arezzo – il veterinario Alberto Brandi lo conoscono tutti. Perché lui gli animali li ama, li cura nel suo ambulatorio dal 1990 e li sa raccontare come nessuno. E Alberto, 57 anni, ha continuato a raccontare i suoi 12 gatti, il cane Keila (“è un akita, perciò nordico, scorbutico”) e il gattino Minnie della sua adolescenza anche dal suo letto d’ospedale nel reparto Covid, ad Arezzo, durante le due settimane in cui è stato ricoverato con la polmonite bilaterale. Alberto è anche il veterinario di una vita degli animali di Jovanotti, di Andrea Scanzi e di tante persone comuni che nei giorni più bui, quando era a un passo dall’essere intubato, continuavano a postare sulla sua bacheca frasi d’affetto per lui. Gli telefono che è ancora in ospedale, a poche ore dal ritorno a casa.

Quando hai scoperto di avere il Covid?

Avevo una tosse molto forte dai primi di novembre, ma soffrendo di asma ho sottovalutato. Poi ho iniziato a stare male.

Pensavi al Covid?

Sì. Avevo comprato il saturimetro, l’ossigenazione era arrivata a 85. Ho chiamato l’ambulanza e la mattina dopo in ospedale mi hanno dato la notizia. Avevo la sensazione di non respirare ed è terribile, è peggio del dolore, di rompersi una gamba. Devi chiedere aiuto. Io poi tossivo fino a strozzarmi, rimanevo in apnea.

Come sono andate le prime notti?

Piangevo. Mi hanno messo il casco, a me che soffro di claustrofobia, ma non avevo scelta. Tossivo, sputavo dentro al casco, mi sentivo solo, la notte mi facevano la morfina. Imploravo gli infermieri di togliermi il casco, di farmi bere. Loro mi davano la mano, cercavano di calmarmi l’ansia. Allora mi concentravo su quest’aria che mi arrivava in faccia e mi dicevo che è un po’ come l’aria fresca della campagna, la sera.

Il rumore del casco è così terribile?

Immagina 5 phon di un parrucchiere nell’orecchio: io l’ho tenuto per 4 giorni fisso. Ma pensavo alla mia figliola di 14 anni che stava a casa e aveva visto il suo babbo andare via con l’ambulanza.

Hai detto che non vuoi chiamare eroi quelli che ti hanno curato.

Non lo vogliono neanche loro. Sono persone che fanno benissimo il loro lavoro, con amore. E sono state incredibili con tutti, non solo con me. Per esempio col mio compagno di stanza, Orlando, 91 anni. Sai, a quell’età magari chiamano 100 volte gli infermieri. Loro hanno sempre avuto una parola gentile.

Cosa pensavi nel vedere uno dei famosi “anziani con patologie” accanto a te?

Io ho visto un signore che mi raccontava di quando faceva il custode in una piscina, di sua moglie morta anni prima e posso dire che voleva vivere.

Il racconto del tuo ricovero su Fb era pure divertente.

Dopo un po’ l’ho presa con ironia. Per dire, dopo giorni di casco non riuscivo a liberare il mio intestino. Allora mi hanno fatto il clistere, mi hanno messo su una poltrona con un buco, a 10 cm dal mio compagno di stanza col Covid. A quel punto ho detto: “Tanto tu non senti gli odori, no?”. Poi mi hanno pulito come io pulisco i gattini.

Sei stato sommerso dall’affetto dei tuoi clienti.

Sì, ho risposto con un post mentre ero sotto al casco, mi bruciavano gli occhi ma volevo ringraziare tutti (Si interrompe un attimo, parla con un compagno di stanza: “Sì, c’hai una piaga, fattela vedere!”). Scusa, ma lui poverino ha il casco da 20 giorni, ha una piaga sotto al collo.

Cosa farai a casa?

Me ne starò in isolamento al piano di sotto con un paio di gatti e il cane verrà a trovarmi. Mia moglie e mia figlia sono negative.

Jovanotti ti ha videochiamato durante il ricovero, gli infermieri si sono fatti trovare con le tute su cui c’erano scritte alcune sue canzoni.

Erano tutti fan di Lorenzo, gli ho fatto questo regalo. Lorenzo è un caro amico. Mi scriveva tutti i giorni per sapere come stavo. Io ho curato un suo gatto, poi il suo cane Pinocchio, parliamo di 20 anni fa. Pinocchio era un cane eccezionale, prese la lesmaniosi, Lorenzo dormiva in studio quando facevamo le trasfusioni al cane. Venne pure con la gamba rotta per accompagnarlo.

Sei amico anche di Scanzi, ma i due storicamente non si sopportano…

Hanno promesso che appena starò meglio si farà una cena tutti insieme.

La tua guarigione sancirà una tregua storica.

Chi ama gli animali ha tanti punti in comune, basta non parlare di politica.

O di musica.

Ah già! (ride)

Cosa vuoi dire ai negazionisti o a chi vuole riaprire tutto?

Che dovrebbero farsi un giro in corsia. Chi ha delle attività capisco davvero che soffra, ma io so che c’è una sola cosa a cui non ho pensato mentre ero sotto al casco: ai soldi.

Ti mancano gli animali?

Fosse per me io domani sarei in ambulatorio.

Qualche ora dopo Alberto è tornato a casa. Ha postato un video: c’è lui che entra dal cancello con due sacchi neri, con dentro i vestiti. Il cane scorbutico, l’akita Keila che l’ha aspettato per giorni sotto la sua auto, gli va incontro. Si mette su due zampe, lo abbraccia. L’unico che può, in famiglia.

Congresso AfD: i negazionisti del Covid-19 messi all’angolo

È guerra aperta nel partito di ultradestra Alternative für Deutschland. All’11°congresso lo scorso fine settimana nel Nordreno-Westfalia, nessuno cercava più di mascherare le tensioni. A partire dal presidente del partito, Joerg Meuthen, che ha sferrato un attacco frontale all’area estremista sempre più nutrita su due punti nevralgici: negazionismo e “massimalismo” del linguaggio. Meuthen ha criticato il movimento negazionista di Querdenken (Pensiero trasversale) avvertendo i compagni di non avvicinarsi “senza spirito critico al movimento di Querdenken, le cui posizioni bizzarre e antisistema talvolta mancano tragicamente del pensiero lineare, figuriamoci di quello laterale”. La platea dei 600 delegati ha rumoreggiato infastidita. E non è difficile immaginare perché: l’AfD è l’unico partito in Germania che ha deciso di tenere il congresso in presenza nonostante il Covid e ha fatto ricorso al Tribunale superiore di Münster pur di riunirsi senza mascherina. Il tribunale gli ha dato torto, ma la componente negazionista nell’AfD è venuta alla luce. L’altro punto polemico era la grossolanità del linguaggio dei compagni. In particolare la definizione di Corona-Diktatur (dittatura del coronavirus) usata dal padre spirituale Alexander Gauland e in ogni manifestazione negazionista. “Non viviamo in una dittatura, altrimenti non saremmo qui al congresso” ha detto Meuthen dal palco. La reazione di Gauland non si è fatta attendere: ha bollato il discorso del leader come “divisivo”, lo ha accusato di essere troppo “prono ai servizi di sicurezza”, che hanno messo sotto osservazione i giovani dell’Afd e minacciano di fare altrettanto con tutto il partito, e ha tentato una mozione di sfiducia contro il capo, poi fallita. Meuthen ha conquistato una stringata maggioranza e consolidato la sua presenza nella direzione ma il redde rationem è solo rimandato. L’illusione di un partito che raccolga estremisti e filo-nazisti, “conservatori borghesi di destra” e moderati sembra tramontata davvero.

Un Parlamento per il popolo Sàmi

Elsa Laula è il simbolo del popolo Sámi. Fu lei a curare la promozione dei diritti civili e l’organizzazione politica dei lapponi, Il risultato di questi sforzi fu la prima conferenza transfrontaliera in Norvegia, il 6 febbraio 1917, data ricordata con una giornata nazionale Sámi in comune fra Svezia, Norvegia e Finlandia; dal 2017, il compleanno di Elsa Laula Renberg è diventato il giorno più importante dei Sámi. Studiando ostetricia a Stoccolma, fra il 1904 e il 1905, Elsa entrò in contatto con le femministe e attiviste per il diritto al voto e divenne una militante agguerrita per i diritti dei Sámi. Nel 1904, a 27 anni, fondò la prima associazione di Sámi conosciuta al mondo, il Lapska Centralförbundet (Associazione Centrale Lappone), di cui fu la prima presidente. Nello stesso anno pubblicò il suo scritto di denuncia Inför lif eller död? Sanningsord i de lapska förhållandena (Di fronte alla vita o alla morte? La verità sulla condizione Sámi). Nella battaglia per i diritti civili dei Sámi, Elsa denunciò che non avessero diritto ad abitare la Lapponia, laddove quel diritto era invece garantito a non-Sámi provenienti dal sud. Il suo spirito combattivo di donna non era ben visto dagli uomini della classe dirigente del tempo; così, dopo aver completato la sua formazione da ostetrica, Elsa Laula si trasferì in Norvegia. A 53 anni, morì di tubercolosi. Con la sua scomparsa, nel 1931, lo sforzo associativo dei Sámi fu interrotto, ma la sua attività fu significativa per lo sviluppo di associazioni locali e la creazione di organizzazioni governative e organi di elezione popolare, fino ad arrivare al Sametinget (Parlamento Sámi) con le sue diramazioni in Svezia, Norvegia e Finlandia. Il seme diffuso da Elsa e da tanti suoi seguaci nei decenni seguenti ha dato frutti e ora in tutti i paesi ove vivono concentrazioni del popolo Sámi, la consapevolezza dei loro diritti e delle ingiustizie subìte in passato ha portato a una riviviscenza accettata e favorita dai governi, che un tempo ostacolavano la diffusione e l’uso della loro lingua e cultura.

Il 29 novembre, i lapponi ricordano la nascita di Elsa innalzando la loro bandiera; la larghezza delle strisce è proporzionale alla popolazione Sámi sparsa nei quattro Stati dove è divisa: rosso per la Svezia, verde per la Finlandia, giallo per la Russia e blu per la Norvegia che ne ospita la maggior parte. La legislazione in Finlandia si evolve per riconoscere diritti repressi in passato; il ministero della Giustizia finlandese ha istituito un comitato con il compito di preparare gli emendamenti necessari a una legge sul Parlamento Sámi. Il governo del primo ministro Sanna Marin intende rispettare e promuovere la realizzazione dei diritti linguistici e culturali dei Sámi, tenendo conto degli accordi internazionali. Il popolo Sámi è il solo popolo indigeno riconosciuto come tale in Europa con circa 10 mila unità in Finlandia, e altre 100 mila distribuite tra Norvegia, Svezia e Russia.

Giulio, altre accuse alle spie. Ma il Cairo: “Prove scarse”

Le strade della Procura generale d’Egitto e quelle della Procura di Roma ieri sembrano essersi definitivamente divise. Con la prima che ritiene insufficienti le prove raccolte dall’Italia contro gli agenti della National Security Agency – il servizio segreto interno egiziano – accusati del sequestro di Giulio Regeni: preferiscono un percorso diverso, rimestando nella vecchia beffa della banda di criminali, ora accusata di furto aggravato dei documenti del ricercatore. Non dunque dell’omicidio, vicenda per la quale gli egiziani ritengono che l’esecutore materiale sia “ancora ignoto”. È il risultato del confronto, l’ennesimo, tra i pool investigativi dei due Paesi. E anche se una nota sottolinea che “le due parti si impegnano a proseguire nella cooperazione giudiziaria”, nei fatti la Procura di Roma continua dritta per la propria strada.

Nei prossimi giorni l’indagine a carico dei cinque 007 egiziani verrà chiusa, con accuse che potrebbero allargarsi. Finora ai cinque veniva contestato il sequestro, ma alcuni di loro potrebbero essere accusati anche di tortura e omicidio. La Procura di Roma infatti ha in mano nuove prove. Ci sono le parole di testimoni che raccontano di aver visto Giulio Regeni, dopo il 25 gennaio 2016 (giorno della scomparsa), nelle zone di interesse della National Security. Non solo. Agli atti ci sono testimonianze che hanno ricostruito il ruolo di alcuni agenti della National Security anche nelle fasi successive al sequestro di Regeni. Da qui le nuove accuse di omicidio e tortura (ma solo per alcuni dei cinque gli indagati). Che l’inchiesta italiana, condotta dal pm Sergio Colaiocco, sia prossima alla conclusione lo ha detto chiaramente il procuratore capo di Roma, Michele Prestipino, ai colleghi egiziani, precisando che non vi è “alcuna implicazione processuale per gli enti e le istituzioni statali egiziane”. Circostanza della quale la Procura del Cairo “prende atto”, ma che non sembra condividere, anzi “avanza riserve sulla solidità del quadro probatorio” costruito tra mille difficoltà (molte dovute alle rogatorie italiane rimaste ancora senza risposta) dai magistrati di Roma. Anzi, di più: per il Cairo – si legge nella nota congiunta – le prove finora acquisite sono “insufficienti per sostenere l’accusa in giudizio”. E dunque su chi, secondo gli investigatori egiziani, ricadono le responsabilità del sequestro, della tortura e della morte di Giulio Regeni? Nella nota congiunta di ieri il procuratore egiziano Hamada al Sawi spiega di “avere raccolto prove sufficienti nei confronti di una banda criminale accusata di furto aggravato degli effetti di Regeni che sono stati rinvenuti nell’abitazione di uno dei membri della banda”. Gruppo criminale che, per gli egiziani, utilizzava “documenti contraffatti di appartenenti alle forze dell’ordine” e che “aveva già compiuto atti simili ai danni di cittadini stranieri, tra i quali anche un altro italiano”. “Alcune testimonianze acquisite – riporta la nota – hanno consolidato il quadro probatorio”. Gli appartenenti alla banda criminale non verranno processati mai: sono morti in un conflitto a fuoco con la polizia del Cairo. Eppure questa è la risposta che a ormai quasi cinque anni dalla morte di Regeni, le autorità egiziane consegnano all’Italia.

Intanto, ieri, dopo la nota delle due Procure, sono intervenuti Paola e Claudio, i genitori di Giulio Regeni: “Crediamo che il nostro governo debba prendere atto di questo ennesimo schiaffo in faccia e richiamare immediatamente l’ambasciatore. Serve un segnale di dignità perché nessun Paese possa infliggere tutto il male del mondo a un cittadino e restare non solo impunito, ma pure amico”.

Francia, fare il flic non è più chic

La Francia ha un problema con la sua polizia e il volto tumefatto di Michel Zecler ne è diventato in qualche giorno l’immagine più forte. Sabato 21 novembre, l’occhio immobile di una telecamera di sorveglianza ha ripreso le botte, i pugni, le manganellate che per 15 minuti sono piovuti sul produttore discografico di colore. I suoi quattro aggressori portavano la divisa. La folla scesa nelle strade a Parigi e di altre città sabato in segno di solidarietà con Zecler e contro tutte le violenze e il razzismo della polizia ha ottenuto una prima vittoria ieri: Emmanuel Macron ha fatto un passo indietro sulla controversa legge sulla sicurezza discussa in questi giorni in Parlamento. Il suo punto più critico, l’articolo 24, che prevede carcere e multa per chi diffonde immagini “in grado di danneggiare l’integrità fisica e morale” dei poliziotti, sarà riscritto.

E il caso di Michel Zecler non sarebbe esploso se il sito d’informazione Loopsider non avesse diffuso i video del suo pestaggio girati dalla telecamera di sorveglianza del suo studio di registrazione e da alcuni vicini. Dal rapporto della polizia, il produttore doveva rispondere di violenza su pubblico ufficiale. Invece gli agenti che lo hanno picchiato, incastrati dalle immagini, sono stati incriminati per violenze e falso in atto d’ufficio. Il ruolo chiave dei video girati da passanti o da giornalisti e fatti circolare su social e web è stato determinante anche lunedì 23, quando le forze dell’ordine hanno usato le maniere forti per sgomberare centinaia di migranti dalla place de la République, a Parigi. Le immagini mostrano gli agenti che strappano via le tende con le persone ancora dentro, migranti trascinati per terra, gas lacrimogeni, militanti di associazioni strattonati. Un’inchiesta è stata aperta. Appena ieri, Mediapart ha pubblicato un altro video, girato da una telecamera di sorveglianza del Bois de Boulogne, a Parigi, nella notte del 30 aprile 2019: si vedono otto uomini armati che accerchiano un’auto ferma ad un semaforo con dentro sei giovani che stanno rientrando a casa. Niente permette di riconoscerli, ma gli uomini armati sono dei poliziotti: uno di loro comincia a sparare contro l’auto e i colpi mancano per poco il conducente. I giovani vengono arrestati per furto e il caso si chiude con la legittima difesa per l’agente che ha sparato. Sarà riaperto. Ieri il ministro dell’Interno, Gérard Darmanin, ha dovuto rendere conto di tutte queste violenze davanti ad una commissione parlamentare. Si chiedono da giorni le dimissioni del prefetto di polizia Didier Lallement, già contestato per i suoi metodi di mantenimento dell’ordine pubblico durante la crisi dei Gilet Gialli. Più di cento inchieste erano state aperte all’epoca dall’Ispezione generale della polizia per l’uso del fucile Lbd a pallottole di gomma. La polizia ha più che un problema di immagine. Da un recente sondaggio Ifop, meno della metà dei francesi (45%) si fida della polizia e il 23% non si sente tranquillo in presenza di un poliziotto. “Non si può parlare più parlare di casi isolati quando situazioni analoghe di ripetono all’interno di una stessa istituzione. Non sono più il frutto del caso o di individui isolati. In certi servizi della polizia esiste una cultura che instilla comportamenti discriminatori”, ha osservato sulla stampa francese il sociologo Mathieu Zagrodzki del Cesdip, il Centro di ricerche sul diritto e le istituzioni penali. “La polizia francese è incancrenita dalla piaga della violenza e del razzismo. E i poteri pubblici rifiutano di occuparsene”, ha scritto Libération in un editoriale.

Da parte loro i sindacati di polizia insistono che gli agenti violenti e razzisti sono solo una minoranza. Per loro la nuova legge sulla sicurezza è necessaria: è da quando sono diventati bersaglio dei terroristi che chiedono di proteggere meglio la loro identità per non diventare facili prede. In loro difesa hanno postato a loro volta dei video girati nel corteo parigino in cui si vedono degli agenti aggrediti dai manifestanti. Uno di loro si mostra con i tre denti rotti dopo essere stato picchiato in place de la Bastille, a Parigi. “Fino a pochi mesi fa, dopo gli attentati del terrorismo islamico, la gente ci applaudiva. Ora sputa odio contro di noi. Suicidatevi, suicidatevi, ci gridavano”, racconta un agente anonimo del Crs, il reparto antisommossa a Bfm Tv. Un altro dice: “Sabato scorso c’erano delle persone venute soltanto per prendersela con noi poliziotti. Avevano delle molotov, dei pavé e altri oggetti che potevano essere letali. Così siamo stati mandati nella gabbia dei leoni, per farci divorare”.

Eppure a fine giornata, il ministro dell’Interno Darmanin ha dichiarato: “Non esiste una frattura fra la popolazione e le forze di polizia”.

Elogio della nostra finita esistenza

Albert Camus vince il premio Nobel per la Letteratura nel 1957. Jacques Monod vince il premio Nobel per la Medicina nel 1965. Uno scrittore e uno scienziato, dunque. In realtà entrambi anche filosofi, nel senso più vero e profondo: contribuiscono alla filosofia del dopoguerra con testi di straordinaria originalità e di raro rigore, Il mito di Sisifo e L’uomo in rivolta Albert Camus, Il caso e la necessità e i due saggi conclusivi di Per un’etica della conoscenza Jacques Monod.

Filosofi che la filosofia accademica ovviamente non vorrà riconoscere come tali, tanto più che sviluppano entrambi, in perfetta autonomia, tutte le componenti essenziali di una filosofia del finito, rigorosamente antimetafisica, partendo da materiali di riflessione lontanissimi e complementari: l’assurdità dell’esistenza per Albert Camus, che solo la rivolta potrà riscattare mettendo in solidarietà (“mi rivolto, dunque siamo”) gli uomini che si battono per “diminuire aritmeticamente il dolore del mondo”; il radicale disincanto cui la scienza costringe secondo Jacques Monod, l’Homo sapiens, mandando in frantumi plurimillenarie concezioni religiose e filosofiche, “i concetti tradizionali che da tempo immemorabile hanno fornito il fondamento etico alle società umane”, frutto tutte, nella loro differenza e concorrenza, di “ontogenesi immaginarie, nessuna delle quali può resistere al confronto con l’indagine scientifica”.

Se la filosofia ufficiale avesse fatto tesoro dei loro lavori, avrebbe potuto imboccare la strada fecondissima di una filosofia del finito, anziché avvitarsi da mezzo secolo nei piaceri insensati di tutte le varianti metafisiche, e neo e post, e nelle fantasmagorie teologiche o para, e nelle presunzioni autoreferenziali delle ermeneutiche col loro nietzschiano “non esistono fatti, solo interpretazioni”, che ha infine celebrato i suoi trionfi con le “verità alternative” canonizzate da Donald Trump.

Filosofie accademiche in asperrima concorrenza, che hanno tutte in comune, però, la fuga consolatoria dalla finitezza dell’esistenza e il disprezzo per la scienza, banco di prova di ogni pretesa conoscenza e tribunale di ogni filosofia.

Ora, finalmente, una filosofia del finito, che mette in dialogo, e in reciproca ibridazione, e in fruttuosa sinergia il pensiero di Camus con quello di Monod, ha preso corpo. Grazie a Telmo Pievani e al suo Finitudine (Raffaello Cortina editore, 280 pagine, 16 euro). Pievani ha scritto il lavoro filosofico che Monod e Camus avrebbero potuto scrivere insieme, e lo ha fatto unendo alla maturità filosofica e alla competenza scientifica una rara capacità di espressione letteraria, talvolta di poesia, se il termine non fosse abusato. L’argomentazione razionale come unico strumento di indagine, proposto ai lettori con una “leggerezza” che sarebbe piaciuta a Italo Calvino.

Il sottotitolo del libro recita “Un romanzo filosofico su fragilità e libertà”. In effetti la cornice è pura finzione, Pievani immagina che Albert Camus non muoia sul colpo nell’incidente di macchina del 4 gennaio 1960. Resta gravemente ferito, e Jacques Monod lo va a trovare ripetutamente, leggendogli ogni volta le bozze di un capitolo del libro che, nella finzione di Pievani, stanno scrivendo insieme.

La cornice è in realtà la struttura del libro, consente a Pievani di esporre la propria filosofia come sintesi e sinergia di quelle di Monod e Camus, ma anche di far dialogare i due che si raccontano gli episodi salienti delle reciproche vite, e in questo modo rivisitare momenti cruciali del dopoguerra europeo, innanzitutto la Resistenza contro il nazifascismo, l’impegno a sinistra degli intellettuali, la rottura con il mondo comunista, la coerenza di un socialismo libertario minoritario ed eretico.

Camus (nomi di clandestinità Albert Mathé e Bauchard) nella Resistenza sarà l’animatore del giornale clandestino Combat, che giocherà un ruolo fondamentale nella vita civile e politica anche nei primi anni dopo la liberazione di Parigi. Monod fa parte dei gruppi armati Franc-tireurs Partisans fino a diventare, col nome di Commandant Malivert, il numero due delle Forces Françaises de l’Intérieur.

L’alternarsi della lettura delle bozze con il reciproco “raccontarsi” permette inoltre a Pievani di mettere in bocca ai suoi personaggi/autori pagine di affascinante divulgazione scientifica, e di criticare le derive filosofiche del loro tempo, che presentano in evidente filigrana un de te fabula narratur rispetto alle derive successive, diventate il mainstream della filosofia continentale fino ad oggi, ahimé.

Pievani riesce a mostrarci in modo persuasivo, anzi stringente, come tutte queste filosofie di evasione spiritualista o dialettica o ermeneutica dal finito, costituiscano in realtà forme di animismo, forme elaboratissime, sia chiaro, esattamente come le religioni, del resto. Ma di animismo. E qui si saldano in modo inaggirabile la riflessione filosofica e l’accertamento scientifico: è il processo di selezione darwiniano – che per via evolutiva ha dato vita alla peculiarissima scimmia che tutti noi siamo – che ha impregnato di animismo la nostra neocorteccia, perché vantaggioso nella iniziale competizione di Homo sapiens.

La storia della scienza è anche il percorso di emancipazione da tale animismo, che continua a permanere come tentazione e stigmate e imprinting in ciascuno di noi. Non siamo animali razionali. Lo siamo solo potenzialmente, e sempre in lotta con l’animismo prepotente ma resistibile di un viluppo di connessioni sinaptiche inestirpabile nel nostro cervello. Quando riusciamo a venirne a capo e a dominarlo, quando riusciamo a essere razionali, riconosciamo il carattere illusorio delle religioni e di ogni aldilà, il carattere irrimediabilmente finito, materiale, della nostra esistenza. Non è un caso, allora, che Pievani metta in esergo ad ogni capitolo della sua (e di Camus/Monod) filosofia alcuni versi dal De rerum natura di Lucrezio.

Scientismo, materialismo, ateismo, sono le accuse che a questa filosofia saranno ovviamente rivolte, e che Pievani è pronto ad assumere con orgoglio come coerenza del disincanto. Cui consegue l’inaggirabile libertà della nostra scelta etica, perché la natura è muta, non esiste nessuna “morale naturale”, siamo noi i padroni della norma.

Pievani è scrupolosamente fedele ai testi di Camus e Monod. Fino quasi al collage di brani originali o comunque ad ampie parafrasi. Esponendo la loro/sua filosofia del finito critica con sferzante lucidità i continui tentativi di aggirare il finito insensato che la scienza ci squaderna davanti, i trucchi di nuovo finalismo, gli escamotage di Intelligent design con cui il neo animismo teo-filosofico cerca di metabolizzare il carattere sovversivo del darwinismo.

Chiunque ami la filosofia e la scienza, questo libro dovrebbe correre a leggerlo.

 

Patrimoniale: il Cazzeggio di Orfini & C.

Funziona così: due esponenti di sinistra della maggioranza, Matteo Orfini (Pd) e Nicola Fratoianni (LeU) firmano, con una pattuglia di sodali, un emendamento alla manovra per l’introduzione della patrimoniale. L’idea, leggiamo, è di “eliminare l’Imu e introdurre un prelievo progressivo che intervenga sui patrimoni dei super-ricchi per finanziare la spesa sociale”. Trattasi di proposta destinata all’oblio, perché dargli spago significherebbe per il governo suicidarsi. Aspetto che sicuramente non sfugge a politici navigati come Orfini e Fratoianni, talché esiste il fondato motivo che la loro sia più che altro una provocazione per riconquistare i titoli dei giornali dopo lunga astinenza. Naturalmente, si tratta di autentica leccornia servita su un piatto d’argento a quella destra con il sangue agli occhi e la bava alla bocca, che difatti reagisce da par suo. Matteo Salvini: “Il solo pensare di tassare ora chi ha casa e risparmi è da arresto immediato”. Apertura di Libero: “La patrimoniale è una rapina. Il governo fa debiti e noi li paghiamo”. Apertura de il Giornale: “Patrimoniale. Mettono le tasse e nascondono la mano”. La Verità: “La tosatura del ceto medio è in arrivo”.

Reazioni legittime, esattamente come la provocazione iniziale, due visioni opposte che si sfidano intorno a un tema sensibile di forte impatto sociale. Infatti, anche l’economista Alessandro De Nicola si scatena sulla Stampa accusando la sinistra socialista di proporre balzelli, poiché “prigioniera della sua demonologia e voglia solo di far piangere – per dirla alla Vecchioni – ‘i ricchi signori che mangian le stelle distesi sui prati delle loro ville’”. Toni da vigilia di una nuova Rivoluzione d’Ottobre (anzi di dicembre) che creano qualche comprensibile preoccupazione tra i risparmiatori. Chi non ha molta pratica di sinistra Pd e LeU (capita), chi non si abbevera al cazzeggio retroscenista dei giornali (capita) chiede lumi presso la banche di riferimento, non senza qualche apprensione per il conto corrente. Nessuno ne sa niente e tutti cadono dal pero. Insomma, molto rumore per nulla (ma quello almeno era Shakespeare, e non Orfini e Fratoianni).

Una richiesta ai governanti

Con questa poesia rivolta ai nostri governanti, chiedo che sia data la possibilità a un familiare o a un amico di andare negli ospedali a fare almeno una visita alle persone che stanno per morire. Non chiedo le visite usuali, ma la possibilità di un ultimo saluto. Una società di esseri umani non si misura dal denaro e dalle merci in circolazione, ma dalla pietà e dalla capacità di consolazione.

Ognuno di noi ha visto

cosa fanno le malattie,

gli ultimi giorni dei nostri cari,

la rabbia spezzata nel respiro,

gli occhi di chi si sente tradito.

La vita molto spesso

finisce malissimo ed è un dolore

che dobbiamo ricordare,

dobbiamo riscattare in qualche modo.

Ogni gesto bello, ogni poesia

non è altro che la risposta a quel dolore,

è un dialogo postumo con
l’agonia.

Ognuno di noi ha visto

eppure dimentichiamo, sembra

che non sia mai successo nulla

e invece il dolore cade ogni giorno

nel cuore di qualcuno, ogni giorno

ci sono corpi straziati dalla malattia,

c’è lo scandalo che diventiamo magrissimi

e gialli e bianchi e anneriti

e mandiamo anche cattivi odori.

Le malattie hanno mille modi per offenderci

e ne trovano altri per ognuno,

atrocità mai viste, devastazioni

che crescono lentamente o arrivano

improvvise.

Ognuno di noi ha visto e ognuno di noi

deve rispondere

e se non lo facciamo vuol dire

che siamo già morti,

solo la risposta al dolore è la prova

che siamo esseri umani, esseri che sono

qui per vivere la propria vita e amare

quella degli altri,

siamo fatti così, e ogni volta

che non siamo così

siamo un’offesa a chi soffre.

Noi non siamo qui per costruire

chissà quale avvenire,

ma onorare in qualche modo

ogni uomo e ogni donna

che patiscono o hanno patito

la pena del morire.

Mail box

 

L’assetto regionale deve cambiare, senza indugi

Credo sia giunto il momento per il Fatto Quotidiano di farsi promotore di un movimento popolare teso a realizzare la modifica costituzionale non solo dell’abolizione della sciagurata modifica del titolo V, ma dell’intero assetto regionale.

Gino Gasparini

 

Una riforma elettorale per sbarazzarci di Renzi

Il senatore Renzi continua a imperversare sulle pagine dei giornali. Scusate, ma la riforma elettorale, con eventuale sbarramento al 5%, a quando? Nel caso, sarebbe una insperata fortuna per noi. E anche per lui, che tornerebbe ad argomentare in giro per il mondo o tra le mura domestiche.

Diego Tummarello

 

Direttore, Salvini ha preso bene l’editoriale

Gentile signor Travaglio, Salvini se l’è avuta a male per il suo editoriale “Il cazzaro in fuga”. Ovvero “il cazzaro incazzato”. Complimenti.

Giampiero Bonazzi

 

Non basta segnare gol per accedere in Paradiso

“Il calcio va in Paradiso”, così il titolone di apertura di Repubblica. Non basta fare gol su punizione o palleggiare in modo sublime per guadagnarsi il paradiso. Sbaglio?

Cesare Sartori

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo “Quelle parole in chat: ricordati che Eni può distruggere chiunque”, a recensione del libro pubblicato da Antonio Massari, notiamo come per l’ennesima volta il vostro giornale non perda occasione per attaccare Eni e i suoi manager senza l’esistenza di alcuna notizia, costruendo ipotesi di reato e pubblicando presunti “scambi” privi di qualsiasi rilevanza rispetto alle circostanze oggetto dell’indagine, manipolati, ideologicamente e materialmente falsi e complessivamente e logicamente privi di ogni veridicità. Claudio Descalzi e Claudio Granata non hanno mai avuto quelle conversazioni con Vincenzo Armanna, men che meno in una chat che chiunque potrebbe essere tecnicamente in grado di riprodurre artificialmente, dopo averne inventato i contenuti “ex post” a supporto delle proprie calunniose narrative tese ad alleggerire la posizione personale e a fornire presunti riscontri. Tali contenuti, peraltro inventati maldestramente, si riferirebbero a una vicenda (il licenziamento) posizionata nel tempo molti mesi prima dell’avvio stesso delle indagini su Opl245, che nulla avrebbe a che vedere nemmeno con le stesse presunte chat e che, come noto ed ormai provato inequivocabilmente e giudizialmente da oltre un anno, Vincenzo Armanna ha deliberatamente alimentato per propri interessi economici personali! Teniamo peraltro a informare i vostri lettori che già in data 31 ottobre 2020 ci eravamo offerti, sia con Massari che con il Direttore del Fq, di fornire (attraverso il nostro direttore della funzione legale) tutte le spiegazioni tecniche a fondamento della nostra categorica smentita sui contenuti della falsa chat, ma che la nostra proposta è stata rifiutata senza spiegazione alcuna. Prendiamo quindi atto che l’autore, e di conseguenza il giornale, preferiscono (invece che svolgere le verifiche sulle fonti) dare credito a una fonte, Vincenzo Armanna, destinatario di svariate denunce per calunnia e querele per diffamazione e che già nell’ambito del procedimento Opl245 ha dimostrato la propria totale inattendibilità e del quale i fatti hanno provato le menzogne dichiarate per interessi personali. Dal canto nostro, attendiamo l’esito degli accertamenti e delle indagini in corso con la massima fiducia, certi che il lavoro della magistratura farà definitiva chiarezza mentre continueremo a tutelare la reputazione di Eni e delle sue persone tramite le opportune vie legali.

Erika Mandraffino,
Direttore Comunicazione Eni

 

Né il “Fatto Quotidiano” né il sottoscritto, ha mai scritto o scriverà un articolo per “attaccare” chicchessia. Non è il nostro ruolo né la nostra vocazione. Ed è un’accusa inaccettabile. Che l’argomento in questione sia una notizia di notevole rilevanza lo dimostra il fatto che la Procura di Milano mi ha convocato, dopo aver pubblicato a novembre il primo articolo, per acquisire in un fascicolo d’inchiesta il contenuto delle chat pubblicate dal nostro giornale e nel libro “Magistropoli”, in libreria dal 26 novembre. Sia nell’articolo, sia nel libro “Magistropoli”, con la massima chiarezza abbiamo precisato – e lo ribadiamo in questa sede – di non aver preso alcuna posizione sulle chat in questione: non sappiamo se siano autentiche o false e soltanto la Procura di Milano – che in seguito al nostro articolo ha disposto una perizia tecnica sul telefono di Armanna per verificare se si tratti di messaggi autentici oppure manipolati – potrà fornire una risposta e fare chiarezza. Non abbiamo sposato alcuna tesi e continuiamo a mantenere questa linea: l’Eni non si dispiaccia se, prima di considerare autentiche o false queste chat, preferiamo attendere l’esito delle indagini milanesi. In entrambi i casi, come sempre abbiamo fatto, informeremo i nostri lettori su quale sia la verità. Infine, abbiamo pubblicato in ogni occasione e in modo integrale le repliche che Eni ci ha inviato ogni qualvolta l’abbiamo invitata a fornire la propria versione, cioè sempre. E immaginiamo che le repliche in questione siano state vagliate dall’ufficio legale Eni. In “Magistropoli” – soltanto per quanto riguarda queste chat – di repliche ne ho pubblicate ben due, perché ho interpellato Eni in due occasioni.

A. Mass.

Calabria. Per riaprire gli ospedali chiusi servono tempo e personale

Caro Direttore, le ho sentito dire giorni fa a Otto e mezzo che si preferiscono gli ospedali da campo perché ospedali veri e propri, pronti a entrare in funzione subito, non ce ne sono. Sarà vero per la Lombardia, ma in Calabria non è così. Un esempio è l’ospedale di Acri (Cs) ridimensionato negli anni al ribasso, nonostante fosse uno dei pochi con i conti in ordine, perché fuori dalle logiche clientelari e ’ndranghetiste della solita sanità locale. A pochi passi da Cosenza, che ha i reparti in grande difficoltà, vi è non solo la disponibilità di un intero piano pronto a diventare operativo nel corso di poche ore, ma anche la volontà politica locale e dirigenziale di farlo. Tuttavia per ora gli appelli sono rimasti inascoltati.

Emilio Via

 

Caro Emilio, comprendo il suo stupore e quello dei calabresi a sentire parlare nel 2020 di ospedali da campo. È vero quello che scrive nella lettera e cioè che in Calabria ci sono ospedali veri e propri che potrebbero entrare in funzione al posto di quelli da campo. Nei 10 anni di commissariamento della sanità calabrese, infatti, sono stati chiusi ben 18 ospedali di provincia. Di questi, 7 o 8 sono stati ridimensionati in strutture sanitarie più piccole. Ma un ospedale non è solo un edificio che, nella migliore delle ipotesi, è già dotato di posti letto subito riattivabili. Un ospedale è fatto anche di personale medico, infermieristico e amministrativo. A causa del blocco del turnover, negli ultimi 10 anni non ci sono state assunzioni neanche in sostituzione di chi è andato in pensione. Sarebbe utile e razionalmente conveniente aprire questi ospedali e trasformarli in reparti Covid. Ma non si può prescindere dal fatto che serve il personale. Purtroppo, come dimostrano anche le inchieste delle Procure calabresi, le assunzioni disposte a giugno dalla Regione e dal commissario, a distanza di 5 mesi, non ci sono. Il motivo lo stabiliranno le indagini dei pm, ma già potremmo dire, senza essere smentiti, che la sanità in Calabria è al collasso perché da sempre è stata la mangiatoia della peggiore politica. I tempi per riaprire un ospedale chiuso potrebbero essere più lunghi di un ospedale da campo “all-inclusive”: posti letto, medici e infermieri. E il tempo è quello che non hanno i pazienti Covid che, anche in Calabria, hanno diritto a essere curati.

Lucio Musolino