C’è da avere paura dell’opportunismo del Rinato Brunetta

Luigi Di Maio? Un “vero leader”, uno “studente preparato”. A dirlo non è Vito Crimi, ma Renato Brunetta. Il falco berlusconiano ha esalato parole di amore puro nei confronti del ministro degli Esteri: “Di Maio è giovane, intelligente, rispettoso, veloce, sa ascoltare e con un vecchio signore come me si è sempre comportato bene”. Non solo: “Di Maio sta trasformando un movimento caotico in un partito strutturato e responsabile. E queste imprese non le raggiungi se non sei un leader”.

Ovviamente è lo stesso Brunetta che, prima delle elezioni del 2018, tuonava parole sature di stima nei confronti del “vero leader” 5 Stelle: “Caro Luigi Di Maio, spudorato e ignorante. Stai truffando i cittadini con la barzelletta del candidato premier e della lista di ministri al Quirinale. Vergognati e studia un po’ di diritto costituzionale. Trovati un lavoro e solo dopo cita il professor Brunetta”.

Cosa è successo? Due cose. La prima è il terrore della scomparsa, che attanaglia (anche se mai lo ammetterà) un navigato marpione della politica come Brunetta. La seconda è il mero opportunismo politico, che è poi in realtà (per Di Maio) null’altro che un bel cetriolone in arrivo. Da quanto tempo non si sente parlare di Brunetta? Mesi, anzi anni. Che in politica son quasi secoli. Troppo intelligente (e orgoglioso) per ridursi a elemosinare scranni televisivi di contrabbando come un Gasparri qualsiasi, Brunetta non dà segno di sé da un bel po’. Sono lontani gli scontri con Bignardi e Gruber, sono lontane le caricature (geniali) di Crozza. Dell’economista che sognava il Nobel, amava Craxi e vinceva il premio Rodolfo Valentino (non è una battuta), non parla più nessuno. L’ultima volta è stato avvistato in un recente servizio di Enrico Lucci a Cartabianca. Lucci provava a chiedergli qualcosa, e Brunetta – camminando senza mai fermarsi – ripeteva ossessivamente e astiosamente: “Grazie, buon lavoro!”.

La smisurata antipatia, che Brunetta ostenta e brandisce come un bizzarro merito padronale, non è certo scemata. L’uomo resta quello di prima, aduso a tuonare contro satira, Pubblica amministrazione “fannullona” e “culturame” de sinistra. A mutare è stato lo scenario politico, che ha reso marginale Forza Italia e dunque anche lui, certo poco entusiasta della crescita (un tempo) di Salvini e (tuttora) di Meloni. “Alleati” che deve detestare così tanto politicamente da arrivare a (fingere di) apprezzare il non plus ultra del grillismo. Ovvero, per berlusconiani e non solo, il male assoluto. E qui viene il secondo punto: l’opportunismo politico. Il “sì” allo scostamento di bilancio. I toni più istituzionali. Addirittura il riconoscimento pubblico al nemico. Tutto questo, in un Paese politicamente normale, sarebbe meraviglioso: l’opposizione che fa squadra col governo, di fronte al vile nemico comune (il Covid). Sarebbe bello. Fidarsi dei berlusconiani è però una perversione ormai sconcia e decaduta, dentro la quale sono naufragati non pochi leader di centrosinistra. Di Maio, sin qui, ha sempre risposto alle avance forziste con una sorta di “Se vogliono appoggiarci esternamente gratis, per me va bene”. Ma Brunetta, uomo tanto scaltro quanto spregiudicato, non fa nulla politicamente gratis. Come Berlusconi. Se Brunetta stima personalmente Di Maio, okay. Se questa corrispondenza (per ora univoca) di amorosi sensi si traduce però in un allargamento ufficiale della maggioranza, allora è la fine. Per i 5 Stelle, e tutto sommato chi se ne frega: chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Ma più che altro per il Paese. E questa sì che sarebbe una sciagura.

 

Caro direttore, sulle carceri restiamo umani: è una tragedia

Sarò ingenuo, ma credo che chi per amore di giustizia e di pubblica sicurezza persegue l’obiettivo della certezza della pena, e perciò mal sopporta l’indulgenza mascherata col garantismo di cui godono i potenti, proprio lui dovrebbe avere più degli altri a cuore la sorte dei detenuti.
Per questo mi è dispiaciuto che il direttore Marco Travaglio abbia indirizzato domenica scorsa il suo ben noto sarcasmo non solo nei confronti di Luigi Manconi, Roberto Saviano e Sandro Veronesi – che hanno la scorza dura – ma anche delle persone recluse in carcere al tempo del Covid.
L’articolo spiritosamente intitolato “Tana liberi tutti” sosteneva che dal punto di vista sanitario “le carceri restano il luogo più sicuro, protetto e controllato del Paese”. E, richiamandosi al “buonsenso” (parola viziata dall’abuso che ne fa Salvini), aggiungeva che “contro un virus che si combatte con l’isolamento, chi è già isolato è avvantaggiato rispetto a chi non lo è”.
Non è materia su cui scherzerei.
Immagino cosa significhi condividere una cella sovraffollata con dei positivi, per quanto asintomatici. Tanto più quando la pandemia determina lo stop ai colloqui con i familiari e alle attività di formazione e lavoro; lasciando fuori operatori sociali e volontari.

Non voglio attribuire a Marco un sentimento di rivalsa – il tipico “ben gli sta, a quei criminali” – che nel suo scritto non compariva. Sappiamo entrambi quanto è diffuso nell’opinione pubblica, e chi lo cavalca: anche per questo la situazione delle carceri italiane è una tragedia nella tragedia. Basti pensare ai 13 detenuti morti nelle rivolte del marzo scorso per cause diverse legate alla loro disperazione. Se nel frattempo si è provveduto al rilascio anticipato o alla carcerazione domiciliare per circa settemila reclusi, vuol dire che le autorità l’hanno ben presente: le prigioni erano troppo piene, anche di persone non pericolose.

Proviamo, allora, a uscire dal logoro schema per cui tu ti compiaci a figurare “carogna” di fronte a noi “anime belle” del garantismo di sinistra? Lo ripeto: proprio chi ha a cuore la certezza della pena dovrebbe essere il primo a tener presenti le finalità di reinserimento sociale della pena stessa, apprezzare le buone pratiche che riducono la probabilità di recidiva dei reati, studiare misure alternative alla detenzione, e infine denunciare il sovraffollamento delle carceri per quello che è: una realtà incivile e criminogena.

Se non chiedo troppo, l’emergenza Covid potrebbe offrirci la possibilità di allargare lo sguardo e, forse, di capirci. È vero, infatti, come tu scrivi, che il virus ha causato un numero relativamente basso di morti dentro le carceri. A differenza di quanto avvenuto in altre “istituzioni totali” come le Rsa. Ciò dipende solo dall’età media assai più bassa dei detenuti rispetto agli anziani ricoverati. Ma allora andiamo a vedere quantità e qualità di cui è composta l’umanità delle carceri.

Leggo le cifre pubblicate sul sito del ministero della Giustizia: il numero dei detenuti è raddoppiato negli ultimi vent’anni. Erano 31 mila nel 1991, più di 60 mila alla fine del 2019. Nel 2010 avevano raggiunto la cifra record di oltre 68 mila. Si basi bene: tale poderoso incremento del tasso d’incarcerazione non è in alcun modo correlato a un incremento della criminalità e della delinquenza. Nel corso dello stesso ventennio il numero degli omicidi volontari è crollato dell’80%. Le carceri italiane si sono riempite in seguito a ben precise scelte legislative di politica criminale che hanno selezionato chi e come deve essere punito. Per capirci: terroristi e mafiosi (non parliamo dei corrotti) sono una piccola minoranza della popolazione detenuta. Lo stesso sito del ministero ci informa che dal 1991 a oggi è più che raddoppiato il numero degli stranieri incarcerati, in genere “pesci piccoli” dello spaccio di droga. Siamo passati dal 15% fino a oltre il 37%, per stabilizzarci sul 33%.

Certo, qui il discorso dovrebbe allargarsi all’efficacia delle normative vigenti in materia di “guerra alla droga”. Certo, il boom delle incarcerazioni è un fenomeno mondiale, non solo italiano, se è vero che oggi nel mondo ci sono più di dieci milioni di detenuti, un quarto dei quali nei soli Usa. Fermiamoci qui. Ma per favore evitiamo di titillare l’impulso di chi prova soddisfazione nel sapere che il colpevole soffre.

Ti ricordi, Marco, il giorno in cui due ministri, uno dei quali in divisa da poliziotto, accorsero a Ciampino festanti per accogliere un latitante catturato? Almeno noi, restiamo umani.

 

Natale, non conta l’ora ma la nascita di Cristo

Quando è nato Gesù? Con un certo fastidio san Clemente Alessandrino, scrittore greco-cristiano del II secolo, uno dei “padri della Chiesa”, annotava in un suo scritto: “Non si contentano di sapere in che anno è nato il Signore, ma con curiosità troppo spinta vanno a cercarne anche il giorno” (Stromata, I,21,146). Già queste parole ci fanno capire che in realtà non lo conosciamo; ma la stessa espressione ci fa anche comprendere bene che ciò che importa del Natale non è la data: è il fatto che il Figlio di Dio abbia preso carne umana in una notte e sia venuto come luce del mondo.

I Vangeli di Matteo e Luca non forniscono indicazioni cronologiche precise. L’affermarsi della festa nel giorno del 25 dicembre la si deve molto all’opera del papa san Leone Magno (440-461). In nessun modo la Chiesa ha mai definito questo punto, lasciando che il giorno del Natale di Gesù si consolidasse come semplice tradizione. Nel 1993 san Giovanni Paolo II, durante l’udienza di preparazione del Natale disse, ad esempio: “La data del 25 dicembre, com’è noto, è convenzionale”.

La tradizione però è molto antica: un documento dell’anno 354 attesta l’esistenza a Roma della festa cristiana del Natale celebrata il 25 dicembre. Essa, come noto, corrisponde alla celebrazione pagana – molto sentita dal popolo – del solstizio d’inverno, Natalis Solis Invicti, cioè la nascita del nuovo sole dopo la notte più lunga dell’anno. Questa è la data nella quale viene celebrata la nascita di colui che è il Sole vero che sorge dalla notte del paganesimo. La data coincideva con le ferie di Saturno, durante le quali gli schiavi ricevevano doni dai loro padroni ed erano invitati a sedere alla stessa mensa, come liberi cittadini.

Comprendiamo, dunque, che celebrare il Natale significa celebrare un evento della fede avvenuto in un momento storico preciso, ma non determinabile cronologicamente. Nella notte di Natale la liturgia ci invita a fare l’esperienza spirituale dell’entrare nell’oscurità per ammirare e adorare il manifestarsi della vera Luce, quella del Verbo di Dio che incarnandosi ha illuminato la storia: “La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,5).

La liturgia cattolica prevede, oltre a quella vespertina della vigilia, tre messe: quella ad noctem (cioè la messa della notte), la messa in aurora e la messa in die (nel giorno). Anche i protestanti e gli ortodossi che seguono il calendario gregoriano celebrano il Natale lo stesso giorno. Invece, le chiese ortodosse orientali lo celebrano il 6 gennaio; gli ortodossi che seguono il calendario giuliano il 7 gennaio e la Chiesa Armena Apostolica di Gerusalemme che segue il calendario giuliano lo celebra il 19 gennaio.

Il dato simbolicamente importante per la celebrazione della notte non è dunque l’orario esatto – che sia la mezzanotte o qualunque altra ora – ma il fatto che si celebri quando non c’è luce, quando è buio. E questo proprio per rendere evidente il senso simbolico della festa. Tuttavia la messa non è la “messa di mezzanotte”, ma “della notte”. Se si comprende il ragionamento, si comprende pure che la celebrazione della notte che dovesse svolgersi quando è buio, ma in un orario precedente alla mezzanotte, non fa di certo “nascere” Gesù in anticipo. Se la profondità della notte è ben resa dalla mezzanotte, d’altra parte, la messa alle 21 o alle 22 è prassi abbastanza comune in molte comunità cristiane per motivi di ordine pratico e per agevolare la partecipazione. La stessa celebrazione della notte di Natale in San Pietro, ad esempio, inizia sempre ben prima delle ore 24. E – ricordiamolo – è anche vero che esiste la messa dell’alba, che certamente si celebra dopo le 5 del mattino.

Veniamo a noi: certamente la politica non deve parlare di come si celebra la liturgia di Natale. E certamente la Chiesa deve evitare che le celebrazioni diventino luoghi di contagio. Le indicazioni circa il modo in cui le celebrazioni debbano svolgersi nei luoghi di culto sono solo un esempio delle restrizioni di vasta portata all’esercizio di molti diritti umani e libertà civili in tutto il mondo, causate dallo sforzo per far sì che la distanza fisica prevenga efficacemente le infezioni.

La salute pubblica è menzionata specificamente dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo come motivo per limitare la libertà di religione o di credo (articolo 9). Tuttavia, tutte le restrizioni dei diritti fondamentali devono avere una base giuridica, essere necessarie, adeguate, ragionevoli e generalmente proporzionate in relazione allo scopo che servono e al diritto che limitano.

La politica deve abbassare le mani sullo svolgimento delle celebrazioni liturgiche e non deve sottovalutare le esigenze spirituali delle comunità religiose che, con i loro valori, contribuiscono a garantire la tenuta e la coesione sociale. D’altra parte, sulle celebrazioni la Chiesa sa di dover tutelare il bene e la salute di tutti, modulando i tempi e i modi del culto, scegliendo, in sintonia con chi è preposto alla tutela della salute, come evitare che le chiese del Natale siano luoghi di contagio. Non c’è da sollevare da parte alcuna polemiche pretestuose su temi così delicati che toccano sia il bene comune e la salute dei cittadini sia alcuni valori spirituali che fondano la coesione sociale.

 

Il mio blog, il Cia-gate, le sviste di Rocca e quel censore di Feltri

Mattia Feltri, direttore dell’Huffington Post, ha censurato un testo dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini contro la violenza sulle donne poiché ricordava en passant l’ennesima uscita orrenda di Feltri papà su un recente caso di cronaca (Boldrini: “Cosa dire dell’intervento di Feltri su Libero, in cui si attribuiva la responsabilità dello stupro non all’imprenditore Genovese, ma alla ragazza diciottenne vittima?”). Il caso e le polemiche che ne sono seguite impongono senz’altro una riflessione sulla mancanza di Apilube nel comprendonio di certi giornalisti. Prima di affrontarla, però, permettetemi un flashback, che mostrerà, di questa vicenda tragica, un risvolto farsesco particolarmente gustoso.

Nel 2005 aprii un blog con chat e podcast, assolute novità per l’epoca, grazie al supporto tecnico di una piccola azienda che voleva esplorare i nuovi linguaggi della Rete. Il mio blog, fra i più seguiti in Italia, calamitò subito ripetuti attacchi informatici che costrinsero quella piccola azienda a dotarsi di server più potenti, localizzati all’estero (quando l’azienda chiuse, nel 2011, chiusi il blog). Il mio sito era preso di mira da blogger di estrema destra (linkavano a siti ariani) che abusavano dell’accesso libero ai commenti per trollare e per spammare propaganda, una cosa vietata da un apposito avvertimento in home page, pena la cancellazione del commento. Come loro, i blogger dell’arcipelago Tocqueville (un aggregatore di 1700 blog conservatori e neo-con, fra cui “Camillo”, il blog di Christian Rocca, un mestatore reazionario della nidiata ofidica del Foglio, che dopo IL, mensile del Sole 24 Ore, ora dirige Linkiesta) si scatenarono contro un post in cui riassumevo con cura il caso Rove-Plame-Miller. Rocca si scapicollò a contestare il mio post: replicai punto su punto per evidenziare i suoi errori e la confusione creata ad arte, che ingannava i poco informati. Altri ne approfittarono per fare pubblicità a siti e pubblicazioni della destra americana: in base alle regole del blog, furono cassati; e così, in automatico, sparirono tutti i commenti collegati, compresa una mia replica! Quelli se ne lamentarono con un giornalista della Stampa, che mi telefonò per chiedere la mia versione dei fatti. Gli dissi: “Il mio blog è uno spazio personale che ha delle regole anti-spam; e il mio post sul Cia-gate è esatto”. Il giorno dopo, sulla Stampa uscì il suo articolo col titolo: “Luttazzi, se il censurato diventa censore”. (Come se una censura maccartista fatta dalla tv pubblica, con danno professionale incalcolabile, fosse paragonabile al togliere spam da un blog privato.) Occhiello: “Sul suo blog il comico ha cassato i messaggi che criticano la sua ricostruzione del caso Miller-Plane”. Falso. Così telefono al direttore della Stampa, Anselmi, che pubblica la mia rettifica: “Contesto in toto le due accuse gravi che mi vengono rivolte. Uno, di essere un censore: non ho mai censurato nessuno; due, che il mio articolo sul caso Plame sia pieno di errori fattuali: non c’è un solo errore nella mia ricostruzione”. Il giornalista replica: “L’accusa di aver infarcito di errori la ricostruzione del caso Plame viene dai blogger e non da noi della Stampa. Così l’accusa di essere un censore, che è stata ribadita ieri nei blog”. Un vecchio trucco: il giornalista, dopo aver gettato il sasso (altrui), ritira la mano (sua). (Ovviamente terminava l’articolo appoggiando la tesi farlocca del suo amico Rocca, che era in sintonia con quelle dell’Iraq Group di Cheney & Rove, si vide poi). Bene: quel giornalista, che mi accusava a torto di essere un censore, era Mattia Feltri.

(1. Continua)

 

Vietato disturbare il Re Vincenzo

Un silenzio assordante ha accolto la notizia svelata domenica dal Fatto su Vincenzo De Luca. I dirigenti della sanità campana nominati dal governatore “stanno spacciando posti letto che però non esistono e sono talmente incapaci che non li recupereranno mai, perché vogliono usare soluzioni che non sono percorribili”. Le parole sono state pronunciate da un infettivologo di un ospedale della provincia di Salerno (il nastro della telefonata si può ascoltare su www.ilfattoquotidiano.it). “Se alle persone danno i dati veri – aggiunge il medico – la gente viene presa
dal panico”.

La notizia è stata ignorata completamente dalla piccola, media e grande stampa. De Luca evidentemente è interessante per i media quando mette in piedi uno dei suoi spettacoli comici oppure quando dà dei “farabutti” ai medici, o quando promuove una delle sue pirotecniche polemiche contro il governo, contro i suoi avversari politici o contro qualche giornalista. Se invece viene accusato di spacciare dati falsi sull’emergenza Covid-19 non interessa più.

Ora occupiamoci anche dell’Africa

Le epidemie vanno e vengono, attraversano la storia dell’uomo e la modificano, a volte, più delle guerre. Sono comparse da quando l’uomo ha sentito il bisogno di socializzare, permettendo così il tanto temuto contagio. Hanno provocato e provocano vittime, tante, milioni e milioni. Più è cresciuta la popolazione umana, più numerose sono state le vittime. Nel confine tra Antichità e Medioevo, si è inserita la peste che ha causato la decadenza di un impero che era all’apice dello splendore, quello di Giustiniano. Il 40% della popolazione: 4 milioni di persone ne restarono vittime. La peste nera, tra il 1346 e il 1353 ridusse la popolazione europea da 80 a 30 milioni. Più vicina a noi la “spagnola”, che ha provocato da 20 a 50 milioni di vittime. Le conseguenze economiche di queste pandemie sono state sempre disastrose, ancor più quando l’infezione ha colpito le fasce più produttive della società. Nel 1957 l’influenza asiatica provocò un milione di morti, tanti quanti la “Hong Kong” dieci anni dopo. Accanto o dentro questi fenomeni globali, ne esistono altri, non meno gravi. Sono le epidemie circoscritte territorialmente o le endemie. Sono 10 milioni le vite perse ogni anno nel mondo a causa delle malattie infettive, soprattutto nei Paesi a medio e basso reddito. Di queste, il 47% è provocato da malattie per le quali non ci sono vaccini. Ancora oggi l’Aids provoca 1 milione e mezzo di morti all’anno e la malaria 400 mila. Il vero problema è che il 90% di queste infezioni si manifestano nei Paesi più poveri, dove ancora, per assurdo, migliaia di bambini muoiono di gastroenterite. Alla base di tutto, la mancanza di risorse economiche e un’organizzazione sanitaria insufficiente. La povertà e la condizione sanitaria, in un mondo globalizzato ci riguardano. Se, giustamente, ci preoccupano i “mercati umidi” della Cina, cosa dire di quelli africani? Siete stati, per esempio, al mercato del pesce di Kampala, di Accra? La condizione africana dovrebbe essere sul tavolo internazionale prima che si debba ancora dire “siamo impreparati”.

 

Scontro in Unicredit per il “regalo” Mps. Lascia l’ad Mustier. Ora battaglia 5S-Pd

Era nell’aria da domenica, quando un cda “informale” è stato convocato in tutta fretta per fare il punto sulla “governance”. E ieri si è concretizzato in un nuovo vertice: l’ad di Unicredit, Jean Pierre Mustier, lascerà l’incarico al termine del mandato la prossima primavera. Ieri ha dato la sua disponibilità ai consiglieri, che lo incalzavano per un passo indietro. Al centro dello scontro ci sarebbero le strategie future della banca, soprattutto il progetto di fusione con il Monte dei Paschi di Siena.

Mustier, ex Société générale, arrivato nel 2016, ha spiegato a più riprese di non volere fare acquisizioni, specie sul mercato italiano. Nel frattempo però il negoziato è partito e il cda ha cooptato l’ex ministro Pier Carlo Padoan, destinato alla presidenza, proprio per concludere il progetto. Il Tesoro guidato da Roberto Gualtieri, infatti, vuole regalare Mps, previa pulizia di bilancio e ricapitalizzazione a carico dello Stato, più una cospicua dote pubblica garantita da una norma fiscale infilata in manovra. Nel totale, il regalo a carico dello Stato potrebbe superare i 5 miliardi, più di quelli garantiti nel giugno 2017 a Intesa Sanpaolo per accollarsi la parte sana delle due popolari venete (Pop Vicenza e Veneto Banca) mandate in liquidazione coatta dal governo.

Lo scenario è a tratti grottesco. Nel giugno 2017 fu il ministero guidato da Padoan a partorire il regalo a Intesa facendo infuriare Mustier. Poco dopo, Padoan ha nazionalizzato Mps impegnando lo Stato in una spesa che supera i 5 miliardi (quasi polverizzati). Oggi, Padoan andrà a presiedere la banca che incassa il regalo pubblico negato all’epoca a Mustier e riceve in dote l’istituto che ha nazionalizzato tre anni fa. Uno scenario che polverizza il concetto di “porte girevoli” tra pubblico e privato, per quanto perfettamente legittimo (la legge Frattini impone solo un anno di stop e peraltro non ha sanzioni). Ora l’unico ostacolo è il no dei 5stelle, contrari a svendere Mps. Un gruppo di deputati ha depositato un emendamento alla manovra per ridurre il regalo fiscale, facendo saltare l’operazione. Potrebbero votarlo anche gli onorevoli dem toscani, visto che Mps in Unicredit dovrà liberarsi di 6mila dipendenti.

Le resistenze di Mustier a un ulteriore impegno sul mercato italiano potrebbero essergli costate il posto. “Il mio piano non è più in linea con l’attuale visione del cda”, ha spiegato ieri. Finora ha badato a ripulire la banca con una ricapitalizzazione da 13 miliardi che ha schiantato i soci storici. Poi ha ceduto i gioielli di casa: la polacca Pekao, il gestore del risparmio Pioneer e Fineco. Puntava a trasferire le attività estere in una sub-holding quotata a Francoforte. Piano bloccato dal cda e ora archiviato.

Conte litiga coi partiti sul Recovery

Alle 20.30 di un lunedì Palazzo Chigi ammette con una nota che c’è una distanza politica tra Giuseppe Conte e i partiti sulla gestione del Recovery Fund. Perché Conte vuole affidarlo a un esercito di manager e funzionari e a pochissimi ministri fidati, con lui stesso, come premier, a dirigere. Ma i partiti temono di essere commissariati. E allora ci sono diversi nodi aperti.

Il primo è la creazione di un supercommissario che dovrebbe coordinare i sei manager responsabili dei sei programmi del Recovery Plan italiano. Conte ha affidato a se stesso la regia, il Pd pensa alla gestione di una società controllata dal Tesoro. Secondo nodo: i poteri da attribuire ai manager e ai 300 componenti della futura task force, che sono da definire e potrebbero sovrapporsi a quelli non solo dei ministeri, ma anche degli enti locali. La nota di Chigi, diffusa per stemperare il clima, assicura che la “struttura avrà compiti di coordinamento, di monitoraggio e solo in casi estremi poteri sostitutivi”. Terzo problema aperto: la scelta dei ministri coinvolti nella cabina di regia politica. Sarebbero previsti solo Gualtieri e il grillino Stefano Patuanelli (Mise) oltre a Enzo Amendola (Affari europei), delegato ai rapporti con Bruxelles. Una rosa che non soddisfa a pieno i 5Stelle e non è accettabile dal Pd. Per i dem dovrebbero esserci dentro anche i titolari delle Infrastrutture e del Mezzogiorno. Mentre Palazzo Chigi assicura che il “comitato esecutivo non ha poteri decisori, ma di vigilanza politica”.

Punti da chiarire anche nella capidelegazione di governo, ieri saltata. Ufficialmente perché Roberto Gualtieri, ministro del Tesoro, era impegnato con l’Eurogruppo, ma di fatto anche per far abbassare i toni della polemica politica e permettere agli sherpa di Pd e M5S di fare un punto. L’accusa sibilata nei confronti di Conte è sempre quella: eccessivo accentramento. Inoltre, non c’è solo la politica a voler decidere. Nella struttura di missione, che dovrebbe essere a Palazzo Chigi, dovrebbero sedere i principali amministratori delegati delle società controllate dallo Stato (la trattativa è già in corso): promette di diventare una sorta di governo ombra, come denuncia Ettore Rosato (Iv). Resta tra le ipotesi quella di creare un ministero proprio per la gestione del Recovery Fund.

Nell’attesa, arrivano le stilettare fuori microfono. Per esempio da fonti a 5Stelle: “È bene che non si finisca con qualcosa che ricordi il piano Colao”. Ossia il supertecnico che ha vergato un “piano per il rilancio” assieme a una folla di esperti, stritolato dall’insofferenza dei partiti che lo vivevano come un invasore. Incertezze che si aggiungono alle tensioni politiche: Luigi Di Maio non ha per nulla gradito le indiscrezioni rilanciate dal Corsera secondo cui Conte lo vedrebbe tra i fautori di un rimpasto. E Palazzo Chigi ha dovuto smentire.

Riforma Mes, l’Italia dice sì e pure il M5S (che si divide)

C’è un dato di merito: il governo italiano, nella persona di Roberto Gualtieri, nell’Eurogruppo di ieri ha dato un sostanziale via libera alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità, il famigerato ex fondo salva-Stati, di cui sul Fatto abbiamo parlato più volte (non si parla, giova ripeterlo, di attivare o meno i prestiti del cosiddetto Mes pandemico). C’è poi un dato politico: potrebbe non esserci una maggioranza, specie in Senato, per questa scelta o potrebbe non essere la stessa maggioranza che al momento governa il Paese.

Una situazione plasticamente evidente nell’audizione del ministro dell’Economia di ieri mattina nelle commissioni competenti: plauso di Pd, Forza Italia e centristi sparsi, contrari (a diverse gradazioni) tutti gli interventi del M5S, Stefano Fassina per LeU, Fratelli d’Italia e, con particolare veemenza, la Lega (“lei è diffidato a dare il suo assenso alla riforma: non ha il mandato del Parlamento”). I vertici dei 5Stelle, Vito Crimi su tutti, hanno però già spiegato che, pur contrari, non porranno veti: il vero rischio per loro è che perdano altri pezzi per strada, cosa che a Palazzo Madama può porre fine alla risicata maggioranza giallorosa.

Breve riassunto. La riforma del Mes è stata delineata nei suoi contenuti fondamentali durante il governo Conte-1, anche se Lega e 5 Stelle hanno sempre pubblicamente sostenuto di non aver dato alcun mandato in questo senso né all’allora ministro Giovanni Tria né al premier. Una prima risoluzione parlamentare dell’estate 2019 (sempre gialloverde) bloccava, in sostanza, il processo di approvazione da parte del governo, sottoponendo quel sì a una serie di impegni prima di poter dare il via libera. A dicembre scorso, però, la nuova maggioranza ha edulcorato quella posizione: di fatto la riforma del Mes dovrebbe andare insieme, ma non necessariamente in contemporanea, con un abbozzo di bilancio comune (Bicc), con l’emissione di un safe asset europeo (eurobond), con l’introduzione di uno schema di assicurazione comune sui depositi bancari (Edis) e con “una maggiore ponderazione di rischio delle attività di livello 2 e livello 3” (cioè un occhio ai cosiddetti “derivati”, cari agli istituti tedeschi e francesi e oggi ignorati dalla Bce).

Questo gioco di equilibrismi era stato bloccato dalla pandemia, durante la quale – è il caso di ricordarlo – nessun Paese Ue ha chiesto neanche la cosiddetta “linea pandemica” del Mes. Ora però questo screditato istituto inter-governativo torna al centro della scena. Prima domanda: Gualtieri ha il mandato politico per dare il via libera? Lui ritiene di sì: perché l’Edis è stato avviato e la maggiore attenzione ai derivati nei bilanci delle banche “proposta” come chiede la risoluzione (ma ieri sulla questione banche ha avuto più di un problema col suo omologo tedesco); quanto al safe asset europeo e al Bilancio comune secondo il ministro sono già realizzati di fatto col Recovery Fund e Sure (che però sono temporanei). “Sarebbe un contraddire le indicazioni del Parlamento se il ministro dell’Economia andasse a porre un veto”, ha sintetizzato parlando di sé in terza persona.

Seconda domanda: che farà il M5S? Dirà di sì, nonostante nel programma elettorale proponesse addirittura di abolirlo. Questo è il capo politico Vito Crimi: “Il nostro Paese non ha necessità di fare ricorso al Mes. Al contempo non intendiamo adottare un approccio ostruzionistico e non impediremo l’approvazione delle modifiche al Trattato, rispetto alle quali pure non mancano i rilievi”. Insomma, la riforma non ci piace, ma voteremo a favore, anche per non trovarci in difficoltà nella trattativa su Next Generation Eu: “Suggerirei di convergere sulle vere riforme: l’eliminazione dei paradisi fiscali, il congelamento del debito pandemico e la revisione del Patto di Stabilità. Se faremo queste tre cose, il Mes sarà solo una fotografia ingiallita di un’epoca che non esiste più”, è la speranzosa tesi del capogruppo grillino in Senato, Ettore Licheri.

Problema. Non tutti gli eletti grillini hanno “accolto con molto favore il radicale cambio di atteggiamento del M5S” come il renziano Luigi Marattin. Questo è il deputato Raphael Raduzzi: “Nell’audizione di Gualtieri ho ribadito il perché del nostro fermo no a una riforma addirittura peggiorativa. L’unico intervento da effettuare sul Mes è quello di smantellarlo”. Alcuni se la prendono direttamente con Crimi come l’europarlamentare Ignazio Corrao: “Continua a parlare a titolo personale di cose che probabilmente non conosce…”.

Che succede ora? Vanno ancora ultimati alcuni dettagli per poi, come ha detto ieri lo stesso Gualtieri, arrivare alla firma dei capi di Stato e di governo il 27 gennaio (dopo tocca ai Parlamenti nazionali, l’entrata in vigore sarà nel 2022).

Camera e Senato, però, dovranno esprimersi anche prima: il 9 dicembre Conte sarà lì per parlare del Consiglio Ue di dicembre. I gruppi di maggioranza stanno scrivendo una risoluzione che cammini sulla corda del dire e non dire per non perdere (quasi) nessuno per strada: adesso bisognerà capire solo quant’è numerosa e decisa la fronda grillina.

Gazzarra leghista in aula: “Siete scafisti, fate schifo”

“Suuuu!”. Il deputato bergamasco della Lega, Daniele Belotti, storico capo ultras dell’Atalanta, dopo sei ore di seduta sulla modifica dei decreti Sicurezza, non si tiene più. Pensa di essere ancora allo stadio. Si alza in piedi e arringa i suoi colleghi: “Andiamooooooo”. Applausi. “Ancoraaa! Di piùù”. Pugni chiusi, le vene si gonfiano sul collo, manca solo che si levi la camicia per esultare sotto la curva. I leghisti lo seguono, battono sui banchi come tamburi, parte il coro immancabile: “Buffoni, buffoni, buffoni!” diretto ai banchi del governo. A quel punto il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, Fratelli d’Italia, non può far altro che riprendere i leghisti: “Colleghi in quest’aula non si offende”, dice imbarazzato. Belotti afferra al volo: “Ma vaffaa…”. Ed è solo il primo dei 254 interventi – mascherati da ordini del giorno – con cui Lega, FI e e FdI da ieri pomeriggio tengono impegnata la Camera fino a venerdì. Come se fuori dal Palazzo non ci fosse una pandemia mondiale. No, per la destra italiana il nemico da combattere non è il Covid-19 ma sono gli immigrati – pardon “i clandestini” – che valgono bene l’ostruzionismo a oltranza.

La linea, oltre a Matteo Salvini che ieri ha chiesto e ottenuto di essere ricevuto dal presidente Sergio Mattarella, la dà il leghista Nicola Molteni, ex sottosegretario all’Interno: “O si sta con Laura Boldrini o con Matteo Salvini, o con i decreti Sicurezza o con i decreti invasione”. L’aula vota la fiducia al decreto che cancella (o meglio, riforma) quelli di Salvini (298 sì, 224 no) e a quel punto i deputati del centrodestra si iscrivono a parlare per iniziare l’ostruzionismo. Ognuno ha 5 minuti. Inizia il leghista Paolo Paternoster che, rivolto a M5S e Pd, ripete a macchinetta: “Siete quelli degli scafisti, delle ong, dei campi di concentramento in Libia. Fate schifo, fate schifo”. Rampelli lo riprende. Paternoster si corregge: “Fate pena. Se fossi in voi mi alzerei ogni mattina e mi sputerei allo specchio”. Esplode la bolgia. Prende la parola Giusi Bartolozzi (FI): “Avete introdotto l’immigrazione ambientale per cui se in Africa hanno la siccità si può venire da noi. Con questo decreto si istiga alla discriminazione”. La destra moderata. Gli interventi vanno avanti a tambur battente. Per Maria Cristina Caretta (FdI) il decreto introduce un “meccanismo di auto distruzione del nostro Paese”. Ovvero? “Dopo l’attentato a Nizza, i nostri valori cristiani sono sotto attacco. E i prossimi a essere colpiti dalla jihad potremmo essere noi”. Qualcuno tocca ferro, per non dire altro. Per il meloniano Tommaso Foti non si può “portare l’Africa nel nostro Paese”, Belotti invece maramaldeggia parlando di “sofismi da radical chic” e accusa la maggioranza, qui il dialetto padano sparisce, di fare “minchiate”. I francesismi si sprecano. Il salviniano Alessandro Morelli inizia sobrio: “Questo decreto è una vergogna!”. Ok. “Il mio ordine del giorno è sulla lotta agli spacciatori davanti alle scuole”. Un po’ confuso. “Invece di controllare le frontiere, i nostri agenti vengono utilizzati per salvare la compagna del premier Conte. Vergogna!”. Ma il premio all’intervento più originale va alla leghista Laura Cavaldoli: “Salvini è l’unico ministro della storia italiana che si è occupato dei diritti degli immigrati”. Un misto tra De Gaulle e Madre Teresa di Calcutta. E oggi si ricomincia. Così, fino a venerdì.