“Noi 5S siamo cambiati, bello fare l’assessore con Emiliano”

Ieri ha incontrato il presidente Michele Emiliano, insieme ad altri tre consiglieri regionali pugliesi del Movimento 5 Stelle. A mancare era solo Antonella Laricchia, che di questo dialogo proprio non vuol sentir parlare, mentre lei, Rosa Barone, potrebbe presto entrare in giunta con il centrosinistra. Emiliano si è tenuto per sé la delega al Welfare, in attesa che i 5Stelle – tra liti interne e voti online – facciano il loro corso. Sul tavolo di ieri però, giura la Barone, niente poltrone: “Solo temi e cronoprogramma”. Per il resto si vedrà, nonostante lei si senta “pronta” per quella che definisce “una bellissima sfida”.

Rosa Barone, che cosa vi siete detti con Emiliano?

È stato un confronto sulle cose da fare, sugli impegni. Non è un discorso finalizzato a un assessorato o alla vicepresidenza del Consiglio (già assegnata al grillino Cristian Casili, ndr) , stiamo cercando di fare qualcosa di buono sui temi. Emiliano si è dimostrato disponibile ad ascoltarci.

Si tratta di impegnare la giunta su alcune vostre battaglie?

Oggi (ieri, ndr) siamo riusciti a far allargare il contributo straordinario Covid alle famiglie con persone disabili. Ma poi c’è la sanità, c’è Taranto, ci sono progetti più ampi su cui ci possiamo trovare. Sull’Ilva, per esempio, ci è sembrato che Emiliano condivida la necessità di una riconversione, più che di una riapertura dei vecchi forni.

Lei è pronta a entrare in giunta?

Senza il via libera su Rousseau nessuno di noi sarà coinvolto in giunta. Per me sarebbe una bellissima sfida, anche perché nessun 5Stelle è mai stato assessore in Puglia e dunque sarebbe un’occasione per portare le nostre istanze. Ma lo farò soltanto con il coinvolgimento di tutto il Movimento e quindi con l’approvazione dei nostri iscritti: se riterranno che questo percorso non vada fatto, non mi sognerò di proseguire da sola.

E quando si voterà?

Questo lo decideranno i vertici nazionale, potrebbe essere tra 10 giorni come tra qualche settimana. Ma nel frattempo vedremo ancora Emiliano per discutere di programmi.

Lei si esporrà, dando indicazioni di voto?

Non credo ci sia bisogno di forzare il voto degli iscritti.

In molti, nel M5S, da Di Battista a Laricchia, sostengono che allearsi con Emiliano sarebbe un tradimento. Di Battista ha paragonato Crimi a Forlani per questo.

Non rinneghiamo il passato né il nostro atteggiamento nei confronti di Emiliano negli anni. Tutti i pareri sono legittimi e ogni grande cambiamento inevitabilmente provoca scossoni. Ma non parlerei di tradimento, perché stiamo mettendo al centro i temi e perché bisogna considerare il contesto: negli ultimi 4 o 5 anni è cambiato il Movimento ed è cambiato il mondo. Se fossimo ancora al governo con la Lega sarebbe impossibile dialogare con Emiliano, ma adesso c’è il governo Conte2, c’è l’intesa col Pd, c’è l’emergenza sanitaria e c’è un Movimento che, a livello nazionale, ci ha subito appoggiato in questa direzione. In questo momento storico è un’opportunità e la rimettiamo agli iscritti pugliesi.

Vi state coordinando con i vertici nazionali del M5S?

Sì, fin da subito. Vito Crimi ci ha sostenuto e ha coinvolto anche i parlamentari. Non ci saremmo mai mossi senza un confronto coi portavoce nazionali.

Se Rousseau desse il via libera, Laricchia dovrebbe lasciare il M5S?

Sarebbe una sua scelta personale, in ogni caso legittima.

Le ha dato fastidio assistere a una campagna elettorale così ostile a ogni intesa col Pd?

Come ho detto, non rinnego nulla. Diciamo però che ci si è concentrati un po’ troppo sugli attacchi a Emiliano, più che a contrastare Raffaele Fitto. E i cittadini non ci hanno premiato.

“Siamo in affanno su regole Ue ormai già stabilite. Così l’Italia non ha peso”

Il Parlamento italiano può controllare e influenzare la costruzione delle leggi europee. Lo dice il Trattato di Lisbona e la legge italiana 234 del 2012. Ma non lo fa. La prassi vuole che a Bruxelles sia il governo a gestire i rapporti con le istituzioni. E così, un po’ per mancanza di cultura europea, un po’ per la difficoltà a seguire resoconti del governo che arrivano solo in forma cartacea, di fatto i deputati scoprono una legge europea solo quando bisogna recepirla nel nostro ordinamento. Sergio Battelli (M5S) è il presidente della Commissione Affari europei alla Camera dei deputati

Battelli, come funzionano i rapporti con Bruxelles?

Il sistema per fornire la linea d’indirizzo politico del Parlamento italiano funziona bene. Il presidente del Consiglio viene davanti alle Camere prima e dopo un summit europeo e i gruppi politici presentano delle risoluzioni con le loro posizioni. Nella fase di costruzione di una nuova legge, invece, il Parlamento italiano è quasi totalmente assente. La Commissione Affari europei, nelle due Camere, non ha mai lavorato come dovrebbe per pesare sull’iter legislativo a Bruxelles. Il risultato è che ci ritroviamo leggi da recepire che non funzionano o non possiamo applicare e così vengono aperte procedure d’infrazione.

Infatti ci sono 85 procedure d’infrazione a carico dell’Italia. Dal 2012 il nostro Paese ha pagato 751 milioni di euro in multe europee. Cosa propone per risolvere il problema a monte?

Ho presentato un anno fa una proposta di modifica del nostro Regolamento: chiedo che il Parlamento abbia maggiore peso nella fase ascendente, di preparazione delle leggi europee. Spero che ora ci sarà un’accelerata, dopo il referendum sul taglio dei parlamentari e la necessaria revisione del Regolamento. Quando viene proposta una nuova legge dalla Commissione Ue, il Parlamento italiano deve approvare una posizione chiara, pubblicata in una relazione, altrimenti gli altri paesi meglio organizzati, peseranno sempre più dell’Italia.

Il Consiglio, potrebbe lavorare meglio?

A differenza di un normale organo legislativo il Consiglio Ue non ha uno streaming, non ci sono resoconti. Quando arriva un accordo veniamo a saperlo dai comunicati stampa. Dopo il Covid, bisognerà riformare il Trattato non solo modificare il Patto di Stabilità; occorrerà cambiare il modo di decidere al Consiglio. Non ha senso che un solo Paese, magari anche piccolo come Malta, possa fermare tutto un processo legislativo perché c’è ancora l’unanimità. Ci vuole la maggioranza, tempi certi per andare al voto e più trasparenza nei dibattiti.

“Le decisioni non possono essere prese da funzionari e diplomatici”

Per 26 anni ha servito il Parlamento europeo, lavorando alla costruzione di politiche comuni per l’asilo e l’immigrazione. Poi, una volta in pensione, ha avviato una causa proprio contro l’Europarlamento, reo di nascondere i documenti importanti dei negoziati con i governi. Da allora, Emilio De Capitani è diventato Monsieur Trasparenza a Bruxelles.

Cosa ha detto la Corte di Giustizia europea con la sentenza De Capitani?

Che gli incontri informali devono essere considerati parte del processo legislativo e quindi pubblici, perché è lì, nei triloghi con l’Europarlamento e la Commissione, che si decide l’80% delle leggi europee. Invece la prassi è nasconderli sotto la copertura di incontri “informali”.

I diplomatici dicono che la riservatezza in un negoziato è cruciale e se le riunioni diventassero pubbliche, i negoziati si sposterebbero al bar. È così?

La storia dell’accordo al bar è ridicola. Ci sono testi di centinaia di pagine, bisogna sedersi a un tavolo e analizzare articolo per articolo. Il ragionamento del diplomatico è la ricerca del consenso ma l’’Europarlamento si confronta e vota. Il processo legislativo è legato al voto, non al consenso diplomatico. È tempo che i governi capiscano.

Cos’è che non va nel modo di lavorare del Consiglio?

Il 90% delle decisioni sono prese nei 150 gruppi di lavoro con diplomatici e funzionari dei ministeri. Spesso i ministri neanche sono informati dei dettagli di una legge. I funzionari fanno dei resoconti, che poi arrivano al Parlamento italiano, ma mancano le posizioni dei Paesi, un’informazione cruciale per preparare la risposta anche dell’Europarlamento. La Corte di Giustizia ha detto che bisogna indicare chi prende la parola in un dibattito.

L’informazione che arriva nei nostri Parlamenti nazionali è quindi mozza.

C’è anche un problema di lingua: quasi tutti i documenti sono in inglese, qualche settimana dopo in francese. I Parlamenti nazionali non vogliono tradurre documenti che, tra l’altro, saranno superati dopo poche settimane.

A cosa serve la trasparenza?

All’Europarlamento per preparare una risposta ai governi, al Parlamento italiano per influenzare la fase ascendente delle leggi, ai cittadini per controllare gli eletti.

La trasparenza è anche potere?

Sì, prenda l’esempio di Michel Barnier e il negoziato sulla Brexit. È stata la trasparenza su ogni riunione, su ogni passaggio intermedio, a creare un fronte compatto dei Paesi europei rispetto a Londra.

Chi decide il destino dei paesi Europei. La scatola nera chiamata Consiglio Ue

L’ultima bomba l’hanno sganciata due ambasciatori il 16 novembre. In una riunione informale del Consiglio Ue hanno detto che i loro paesi, Polonia e Ungheria bloccavano il Recovery fund e il bilancio europeo 2021-2027 ponendo il veto alla clausola sul “rispetto dello Stato di diritto”, cioè la proposta di condizionare i fondi europei al rispetto dei valori della Carta europea dei diritti fondamentali. Un modo per mettere un freno alle leggi dei governi Orbán e Kaczynski contro giudici, libertà d’informazione e rispetto delle minoranze. Serve l’unanimità e quindi è tutto bloccato. Ma è tutto il processo di approvazione del Recovery che avviene nella totale oscurità. Da settembre si sono tenute riunioni di funzionari ministeriali, diplomatici, negoziatori dell’europarlamento (il “trilogo”). I Paesi si scambiano favori sull’accordo o in previsione di voti futuri. Benvenuti al Consiglio europeo, un organo legislativo, ma dove le leggi si costruiscono con il metodo diplomatico, a scapito della trasparenza.

La Polonia e l’Ungheria non sono da sole nell’ostacolare la rule of law, come la Commissione ha chiamato nel 2018 la proposta di regolamento per legare i fondi al rispetto dei valori europei. In alcuni documenti del governo tedesco, che Investigate Europe ha potuto consultare, si legge che oltre al gruppo di Visegrad (Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria) e a Lettonia e Slovenia, anche l’Italia e il Portogallo erano contro l’intromissione europea nelle leggi di uno Stato. Nella riunione del 12 novembre 2018, i diplomatici tedeschi riportano: “Italia e Portogallo sono stati molto critici e hanno messo in discussione la proposta, compresa la mancanza di collegamento tra lo stato di diritto e il bilancio e la duplicazione delle procedure esistenti”. Nel 2018 al governo dell’Italia c’era anche la Lega, alleata di Orbán. L’opposizione però è rimasta all’oscuro e avrebbe potuto mobilizzare l’opinione pubblica evitando lo stallo di oggi. Il caso portoghese è più complicato. Il Partito socialista del premier Antonio Costa ha votato a favore all’Europarlamento, mentre il governo appoggiava Polonia e Ungheria a rovesciare il tavolo.

“Le decisioni (nell’Ue) sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini”, dice il Trattato di Lisbona. Ma nelle stanze dei palazzi Justus Lipsius o Lex si riuniscono 150 gruppi di lavoro, con diplomatici dei governi a Bruxelles o funzionari inviati dai ministeri. Vengono analizzate le proposte della Commissione e negoziato un compromesso. Niente trapela. Non vengono pubblicati i resoconti né registrate le posizioni dei Paesi. Poi il Co.Re.Per, il comitato dei 27 ambasciatori, approva quasi sempre una proposta che passerà come procedura scritta, senza dibattito, nel Consiglio dei ministri competente (agricoltura, ambiente, economia e finanza). “Le posizioni dei governi devono essere registrate e poi si decide se pubblicarle”, dice Emily O’Reilly, la mediatrice europea che da due anni fa la guerra al Consiglio Ue con rapporti e raccomandazioni. “Il Consiglio pensa di essere ancora un club di diplomatici, tenuti alla confidenzialità, anche se è un organo legislativo a tutti gli effetti”. Gli ambasciatori non la pensano così. L’ex rappresentante per la Francia, Pierre Sellat, spiega perché: “A un certo punto il presidente della riunione dirà: ‘Ora conosco le vostre posizioni nazionali, possiamo cercare di trovare un compromesso diverso dalle istruzioni che avete ricevuto?’ Ma non può essere discusso pubblicamente, altrimenti il negoziato si sposta al bar”. O’Reilly non accetta il ricatto. “C’è sempre un momento per le discussioni riservate, ma poi bisogna renderne conto, dare accesso ai documenti. In uno dei nostri Stati sarebbe impensabile che un governo prepari una legge senza renderne conto. E invece gli stessi ministri si comportano così quando devono legiferare a livello europeo”. La Corte di giustizia europea ha già condannato varie volte il Consiglio a rendere pubblici i documenti del processo legislativo. Ma tranne i soliti Paesi scandinavi e l’Olanda – il cui Parlamento vuole controllare di più le concessioni del governo ai partner europei – nessuno ha interesse a cambiare le cose. Il risultato è che ci sono 68 proposte legislative ferme al Consiglio, scomparse dai radar. E anche l’Europarlamento si è adeguato allo stile del Consiglio e non rende pubblici i documenti sui negoziati con i governi. Quando era relatrice per il rapporto annuale sulla Trasparenza, l’eurodeputata 5S Laura Ferrara, aveva proposto di pubblicare i resoconti dei triloghi, ma “i miei colleghi mi ridevano in faccia, bisogna preservare la riservatezza dei negoziati, dicevano”.

La trasparenza fiscale delle multinazionali è una delle vittime della nebbia che aleggia al Consiglio. L’evasione dei colossi – Facebook, Google, Amazon etc. – vale 70 miliardi all’anno, metà del bilancio annuale dell’Ue. La Commissione Juncker propose quattro anni fa di obbligare le società a dichiarare quanti profitti facevano in uno Stato e quante tasse pagavano. I paradisi fiscali Ue non venivano toccati, ma era un primo passo. Il Commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, esultava: “Compiamo un passo importante verso la creazione di condizioni di parità per tutte le nostre imprese”. Il Parlamento europeo ha approvato la direttiva nel 2017, ma da allora si è arenata al Consiglio. Non se ne sa più niente. I diplomatici dicono che non c’è la maggioranza per l’ok. Ma non è più così almeno dalla fine del 2019, quando il deputato verde tedesco Sven Guigold ha pubblicato i nomi dei Paesi che bloccavano la direttiva e si è scoperto che oltre ai soliti noti – Irlanda, Lussemburgo, Malta e Cipro – c’erano la Germania e due insospettabili: Portogallo e Svezia. La notizia ha creato scompiglio al Parlamento portoghese, il governo Costa prometteva di “dar battaglia alle multinazionali per una più equa giustizia fiscale in Ue”. I “suoi” eurodeputati avevano votato a favore della direttiva. E invece, sottobanco, il governo si era accordato per non irritare i giganti del web. Scoperto l’accordo, pubblicato da Investigate Europe, il Portogallo ha fatto marcia indietro e così pure l’Austria. Oggi c’è una maggioranza qualificata al Consiglio – 15 Paesi che rappresentano il 65% della popolazione –, ma resta l’opposizione della Germania. Il più feroce nemico della trasparenza fiscale è il ministro dell’Economia Peter Altmaier (Cdu, come Merkel): svelare i conti di una multinazionale in Europa “metterebbe le aziende tedesche in una posizione di svantaggio nella concorrenza internazionale”. Una bugia, perché la direttiva si applicherebbe a tutti. La Germania ha la presidenza di turno dell’Ue e quindi il dossier è sparito.

Per la Corte di Giustizia europea “è proprio l’apertura del processo legislativo a conferire maggiore legittimità alle istituzioni agli occhi dei cittadini dell’Ue e ad accrescere la loro fiducia in esse, permettendo di dibattere apertamente le divergenze tra i vari punti di vista”.

*Investigate Europe è un consorzio di giornalisti in 8 Paesi Ue, sostenuto dalle fondazioni Hans Böckler, Fritt Ord, Gls Treuhand, Hübner & Kennedy, Rudolf Augstein Foundation, Open Society

“Il 3% dei consumatori ha meno di 15 anni”

Coca, metadone, sostanze sintetiche. Assunte anche da ragazzini di 12 anni. Le cronache sono piene di episodi dove la droga è la miccia per fatti di sangue o di ordinario degrado. La vicenda di Monza è l’ennesima spia di un fenomeno che è ben conosciuto dagli esperti. Carlo Locatelli, direttore del centro antiveleni Maugeri di Pavia non ha dubbi: “Eventi simili si stanno verificando sempre più frequentemente”. A colpire non è tanto l’omicidio in sé, pur efferato, ma chi lo ha commesso. Ragazzi appena 15enni con già un lungo passato di dipendenza.

“Al momento – spiega Locatelli – la media nazionale su una casistica di 2000 assuntori ci dice che ben il 3% è sotto i 15 anni. Il range lo includiamo tra i 12 e i 15 anni, mentre il salto dalle droghe leggere a quelle sintetiche avviene già a 14 anni. Sono cifre allarmanti, come allarmante è l’aumento di casi di bambini in coma da hashish perché scambiano le dosi per palline di gomma da mangiare lasciate in casa dai genitori”. Prosegue Locatelli: “Non c’è limite alle miscele chimiche vendute oggi sul mercato, allucinogeni possono essere presenti anche dentro la coca, non mi sorprenderei se i due ragazzi di Monza avessero preso anche sostanze sintetiche. Pensi che ci sono pazienti che finiscono in ospedale e le cui analisi ci rivelano sempre nuove sostanze non censite nel tabellario ministeriale”.

Tra i casi di cronaca più inquietanti c’è quello di altri giovanissimi di Terni, 15 e 16 anni, che a luglio sono morti nel sonno dopo aver assunto metadone. Non era la prima volta che lo facevano, confesserà più avanti il loro spacciatore. Sempre a Terni una 18enne per festeggiare la maggiore età riceve in dono dal fidanzato una dose di eroina. Dose che si rivelerà letale. Desirèè, invece, di anni ne aveva 16. Nell’ottobre 2018 il suo corpo, ucciso dalla droga e violato dal branco, fu trovato in uno stabile abbandonato nel quartiere romano di San Lorenzo. Il caso dei due ragazzini del quartiere di San Rocco a Monza, indagati per omicidio, indica non solo che l’età per iniziare a usare le sostanze si è drammaticamente abbassata, ma segnala anche un cambiamento sociale accelerato dalla crisi sanitaria.

Lo spiega Riccardo Gatti dell’Asst Santi Paolo e Carlo che da anni si occupa di dipendenze: “Siamo passati da un periodo in cui l’adolescenza si protraeva fino a quasi i 40 anni a quello attuale in cui gli adolescenti non sono più tali, o meglio lo sono, ma hanno comportamenti già da adulti. In questo modo si omologano a situazioni che non sono della loro età”. E ancora: “In molti fatti di cronaca la droga è un cofattore, le sostanze disinibiscono gli impulsi, creando una miscela pericolosa”. Insomma per il dottor Gatti la storia di Monza porta a una riflessione più complessiva su “un disequilibrio della società, dove non è più nemmeno questione di valori ma di realtà”. In questo quadro “fuori controllo dare la colpa alla droga è come dare la colpa al sintomo e non alla malattia”. Aggiunge: “Rispetto alla droga dobbiamo smettere di considerarla un’emergenza, la droga ci accompagna in qualunque età e quindi dobbiamo comportarci di conseguenza”. Anche perché il problema non è dato “dalla movida o dal boschetto di Rogeredo”. Il vero problema si annida in quella “parte di popolazione non emarginata che a causa della droga vive in un continuo disequilibrio”.

“Dacci tutta la cocaina”. Poi 20 coltellate al pusher

La droga ormai era diventata una dipendenza. Cocaina perlopiù, sniffata all’ombra dei casoni popolari di una delle tante periferie lombarde: Monza, quartiere di San Rocco. Degrado e deriva sociale che hanno imprigionato il destino di due ragazzini italiani, 14 e 15 anni, la cui età vorrebbe troppo piccoli per essere accusati di omicidio. Ma così non è. Fermati ieri dai carabinieri su indicazione della Procura dei minori di Milano, sono accusati di aver ucciso Cristian Sebastiano, 42 anni, un passato da tossicodipendente e qualche precedente. Sebastiano è stato colpito a pochi metri da casa dove viveva con la madre. Venti coltellate, una alla carotide e sangue ovunque sotto i portici di via Fiume. Sono le 12.30 di domenica. Ieri mattina il fermo dei due che in prima battuta hanno spiegato il gesto con la volontà di vendetta nei confronti di chi li ha portati nel mondo della tossicodipendenza. Questo sarà messo a verbale dopo dieci ore di interrogatorio. Chi ha trascinato il corpo spiega che l’altro voleva vendicarsi.

La versione però non pare convincere gli investigatori. Tanto che alla fine, spiegano i magistrati, chi ha sferrato parte dei colpi, e cioè stando alle indagini il 15enne originario dell’isola di Mauritius, smentendo la ricostruzione dell’amico avrebbe detto che il movente è da collegare a una rapina finita male. Ora entrambi rischiano una incriminazione per omicidio premeditato. L’idea dei due, hanno ricostruito gli investigatori, era quella di portarsi via i pochi grammi di droga (circa 5) che Sebastiano aveva in tasca. Il piano è però finito male e i due si sono accaniti sull’uomo con una violenza del tutto fuori controllo e probabilmente alimentata dall’assunzione di sostanze stupefacenti. Un omicidio legato solo al bisogno di droga e per questo tanto efferato. I due, secondo la ricostruzione fatta dai magistrati, avevano, nonostante l’età, già una lunga dipendenza. Uno di loro, il 14enne, solo due mesi fa aveva iniziato a frequentare il Sert di zona, accompagnato dai genitori. Frequenza non continua, ma che svela un risalente problema di dipendenza. Il contesto familiare di entrambi, per come ricostruito non appare per nulla facile, segnato da altri episodi di dipendenza e da un’economia familiare caratterizzata dalla precarietà. I genitori del 15enne, in Italia da 30 anni, lavorano entrambi come badanti. Mentre a casa di un parente è stato trovato quasi mezzo chilo di hashish. E nonostante questo i due ragazzini non arrivano da un contesto né malavitoso né esplicitamente legato allo spaccio. Eppure ci sono volute dieci ore perché crollassero. Figli di un tempo difficile, con la scuola frequentata poco e male, un futuro incerto e le difficoltà delle famiglie a seguirli nei loro percorsi di crescita. L’indagine lampo dei carabinieri di Monza è partita dalle immagini delle telecamere di video-sorveglianza posizionate in via Fiume che non riprendono il delitto ma collocano i due sul luogo dell’agguato e li immortalano mentre scappano verso le loro case. A dare benzina all’inchiesta anche le testimonianze dei residenti. Molti hanno visto e molti hanno parlato, descrivendo uno dei due mentre trascinava il corpo e l’altro che sferrava i colpi con un coltello da cucina. Nessuna omertà dunque in questo quartiere di case popolari, dove spaccio e controllo del territorio sono all’ordine del giorno.

Ciò che colpisce e preoccupa è l’età dei due presunti assassini. A casa loro i carabinieri hanno trovato gli indumenti insanguinati e l’arma del delitto. Dieci ore dopo la confessione che lascia senza parole, svelando uno scenario giovanile in parte fuori controllo. “Hanno lo stesso vizio di mio figlio, le stesse debolezze, con la differenza che lui era un signore e questi sono assassini. Cristian non ha mai instradato nessuno alla dipendenza della cocaina”. Fuori dalla casa di via Fiume ieri ha parlato Michele Sebastiano, padre di Cristian. Ha poi proseguito: “Quello che era mio figlio lo sappiamo, ma adesso non diventi lui il tossico, lo spacciatore e loro le povere vittime. Meriterebbero di essere processati come adulti, perché se solo penso che da minorenni in pochi anni me li ritroverò fuori divento matto, sarebbe vergognoso. Lo spacciatore vende, chi assume droga la cerca, funziona così e uno dei due a sua volta già vendeva droga in stazione”. Un’accusa quest’ultima sulla quale sta indagando la Procura. Allo stato però non risultano precedenti a carico dei due giovanissimi indagati.

“Il Fatto” vince i Diversity Media Awards. Premiata l’inchiesta su suicidi e survivors

Assegnati i Diversity Media Awards, gli “Oscar dell’inclusione” che premiano i contenuti mediali e i personaggi che si sono distinti per una rappresentazione valorizzante e inclusiva della diversità. I vincitori e le vincitrici della 5ª edizione sono stati proclamati domenica, nel corso di una serata evento in diretta streaming TRULive e su Raiplay, e ricca di ospiti: da J-AX a Emma Marrone (eletta personaggio dell’anno), da Tiziano Ferro a Heather Parisi. Nella categoria “Miglior articolo-Quotidiani” ha vinto Il Fatto, per l’inchiesta di Maddalena Oliva sulla strage silenziosa dei suicidi “Io, survivor dell’esercito dei morti invisibili”, pubblicata sull’inserto investigativo Sherlock. L’iniziativa – patrocinata dal Comune di Milano e dalla Commissione europea – prende vita dal Diversity Media Report realizzato dalla non profit Diversity. Per la presidente Francesca Vecchioni, “oggi più che mai è essenziale saper rappresentare e dar voce a tutte le persone per ridurre distanze e pregiudizi. Finché l’informazione sarà al carro solo dell’agenda politica e della cronaca, non sarà in grado di restituirci l’immagine reale della società”.

Ilva, torna lo Stato: 3mila in Cig subito. Rabbia sindacati

L’accordo formale sull’Ilva slitta di 10 giorni, ma il memorandum tra il governo italiano e Arcelor Mittal, il colosso affittuario degli impianti è sostanzialmente chiuso. A 25 anni di distanza dalla sciagurata privatizzazione a favore dei Riva, lo Stato tornerà nel siderurgico tarantino. Invitalia, la società del ministero dello Sviluppo presieduta da Domenico Arcuri entrerà con il 50% del gruppo per una spesa complessiva di 400 milioni, per poi salire al 60% nel giugno del 2022 (e il conto salirà verso i 600 milioni). I punti principali del piano industriale sono stati illustrati ai sindacati in un incontro al Mise. Il ritorno alla produzione di 8 milioni di tonnellate di acciaio annue arriverà solo nel 2025, intanto si andrà avanti con la cassa integrazione che riguarderà un massimo di 3mila unità nel 2021, 2.500 nel 2022, 1.200 nel 2023 e zero nel 2024. La cosa non è piaciuta ai sindacati, che chiedevano di riassorbire tutti gli operai ora messi in Cig da Mittal (3mila) insieme ai 1.700 rimasti in capo all’amministrazione straordinaria che il colosso franco-indiano si era impegnato a far rientrare alle fine del quinquennio. “Non firmeremo mai un accordo che prevede 4.700 esuberi”, ha spiegato il segretario della Uilm, Rocco Palombella. Dalla prossima settimana inizierà la trattativa per arrivare a un intesa (l’11 dicembre si firma il governo firmerà l’accordo con Mittal).

Il piano vale 2,1 miliardi di investimenti, ha spiegato Arcuri, buona parte dei quali a carico dello Stato. L’obiettivo è produrre un terzo della produzione senza bruciare carbone ma gas con il cosiddetto “preridotto” che verrà prodotto da un impianto nuovo e colato in forni ibridi. A farlo sarà una società nuova, controllata dallo Stato e senza Mittal. Verranno chiusi gli altiforni 1 e 2, e costruito un nuovo altoforno, il cinque. La completa decarbonizzazione dell’Ilva avverrà nel 2037.

Scendono ancora contagiati e pazienti in terapia intensiva

Sono 16.377 i nuovi casi registrati ieri, in calo rispetto ai 20.648 di domenica, anche se a fronte di 130.524 tamponi, oltre 46mila in meno, con la solita netta diminuzione del fine settimana. Mentre i decessi nelle ultime 24 ore sono stati 672, contro i 542 del giorno prima. Continuano a scendere i ricoveri in terapia intensiva, -9, esattamente come domenica, per un totale di 3.744 pazienti, ma salgono i ricoveri con sintomi, 33.187 (+308), in controtendenza rispetto ai giorni passati. E torna a crescere il tasso di positività, che si assesta al 12,5% (+0,9%).

“Il plateau di infezioni sembra aver raggiunto il suo picco e sembra lentamente scendere grazie alle scelte difficili fatte dalla politica, ma dobbiamo essere molto attenti perché è comunque un plateau con più di 20mila casi al giorno e fino a 700 morti”, ha avvertito il coordinatore del Comitato tecnico scientifico, Agostino Miozzo. Anche se in discesa, gli attualmente positivi al coronavirus in Italia sono ancora 788.471 (-7.300). Negli ultimi 30 giorni secondo l’Istituto superiore di sanità sono stati registrati 800.953 contagi, 22.712 solo fra gli operatori sanitari, e 12.904 morti. L’età media dei casi è 48 anni: l’11,1% ha meno di 18 anni, il 44,3% tra 19 e 50 anni, il 29,1% tra 51 e 70 anni, il 15,5% è over 70. Il 48,3% dei nuovi casi è stato registrato fra i maschi e il 51,7% fra le femmine. Si aggrava anche il bilancio dei medici morti positivi al coronavirus: 221 da inizio epidemia.

“Tutti quanti vogliono tornare alla normalità. Questo non sarà possibile per molti mesi, se non per molti anni”: il duro bagno di realtà del consulente del ministro della Salute, Walter Ricciardi, che mette in guardia sulle tensioni fra governo e Regioni “che vedono i colori come degli stigma”. Mentre nelle ultime 24 ore è l’Emilia-Romagna a registrare il maggior numero di contagi (2.041), seguita da Veneto (2.003), Lombardia (1.929) e Campania (1.626).

L’email di Mr. Oms: “Non suicidiamoci, adesso blocco tutto”

Si fa un po’ scomoda la posizione di Ranieri Guerra, direttore generale aggiunto dell’Organizzazione mondiale della sanità. Il tema è sempre il piano italiano contro l’influenza pandemica che non sarebbe mai stato aggiornato dal 2006 e il rapporto dell’Oms sulla reazione “improvvisata, caotica e creativa” del nostro sistema sanitario al nuovo coronavirus, pubblicato e fatto sparire in 24 ore nel maggio scorso. Dove si legge appunto che il piano del 2006 era stato solo “reconfirmed in 2017”. “Devi correggere subito”, scriveva Guerra a Francesco Zambon, coordinatore dei ricercatori dell’Oms autori del dossier. Era l’11 maggio, poco prima della pubblicazione. Non andava bene la data, il 2006 appunto: bisognava aggiungere “ultimo aggiornamento dicembre 2016”. “Non fatemi casino su questo – scriveva ancora Guerra –. Stasera andiamo sui denti di Report e non possiamo essere suicidi (…) Adesso blocco tutto (…). Così non può uscire. Evitate cazzate. Grazie e scusa il tono. Ranieri”. Il testo non cambierà e sarà ritirato subito.

È stata ancora Report, ieri sera, a tornare sul tema con un nuovo servizio di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella sulle email di Guerra a Zambon e non solo. Dal 9 marzo Guerra è stato inviato dall’Oms a Roma a supporto del ministero della Salute. Ma al ministero è stato direttore generale per la Prevenzione dal 2014 al 2017. Gli aggiornamenti del piano, in quegli anni, spettavano anche a lui. Secondo il perito interpellato da Report il file .pdf è sempre quello del 2006, a cambiare è solo la pagina che lo linka sul sito del ministero della Salute. Ancora nel 2020 sarebbe stato linkato un testo in cui si legge che un “primo stock farmaci” al ministero “sarà completato entro il 2006”. Quanto fossimo pronti, purtroppo, l’abbiamo visto a febbraio, anche a causa delle circolari che, su indicazione dell’Oms, indicavano come “caso sospetto” solo chi avesse avuto rapporti con la Cina.

È un “lavoro sicuramente pregevole”, concedeva Guerra a Zambon a proposito del rapporto. Ma lo invitava a riflettere sulle “questioni politiche”. Scriveva: “Uno degli atout di Speranza è stato sempre il poter riferirsi a Oms come consapevole figlia (sic, si suppone per foglia, ndr) di fico per certe decisioni impopolari e criticate (…). Se anche Oms si mette si mette in veste critica non concordata con la sensibilità politica del ministro (…) non credo che facciamo un buon servizio al Paese. Ricordati che hanno appena dato 10 milioni di contributo volontario sulla fiducia e come segno di riconoscenza”.

In un’altra email in possesso di Report Guerra scriveva a Zambon: “Come sai, sto per iniziare con il ministro il percorso di riconferma parlamentare (e finanziaria) del centro di Venezia e non vorrei dover subire ritardi o contrattacchi”. Il centro di Venezia è il posto di lavoro di Zambon.

All’Oms, secondo Report, c’è stato uno scontro sul dossier. Una ricercatrice europea, sentita in forma anonima, aggiunge: “Ranieri Guerra ha minacciato pesantemente l’autore del rapporto: ‘O ritiri la pubblicazione o ti faccio cacciare fuori dall’Oms’”. “Non ho mai minacciato nessuno”, dice Guerra al Fatto Quotidiano, ma preferisce non entrare nel merito della vicenda e dei rapporti tra Oms e governo. Report coinvolge anche Cristiana Salvi, responsabile della comunicazione dell’Oms Europa: “Ranieri e io – scriveva in un’altra email – abbiamo cercato di arginare le critiche che questo rapporto denuda completamente”. “Crolla così la terzietà dell’Oms”, conclude Sigfrido Ranucci.

Qualche domanda se la fanno anche i magistrati di Bergamo che indagano su presunti errori e omissioni nella prima gestione della pandemia. Guerra è stato già sentito come testimone. Per Zambon e per i ricercatori suoi colleghi, l’Oms invoca invece l’immunità diplomatica per proteggere, scrive l’agenzia, “l’imparzialità e l’oggettività dell’Oms”. Il sospetto è che protegga, piuttosto, equilibri politici.