I piani anti-calca da Nord a Sud. E l’Ue chiede: “Messe solo in tv”

La benedizione ai fedeli che ogni anno si tiene in piazza di Spagna, a Roma, dopo 67 anni avverrà in forma privata in Vaticano. Pure le messe del 24 e 25 dicembre (con ingressi contingentati) verranno anticipate se il nuovo Dpcm manterrà – come sembra – il “coprifuoco” alle 22. Coprifuoco che dovrebbe essere confermato anche per San Silvestro. Ma è già polemica sulle linee guida della commissione Ue: il governo d’Europa chiede agli Stati membri di “non permettere la celebrazione delle messe” e “considerare di evitare cerimonie religiose con grossi assembramenti, sostituendole con iniziative online, in tv, o alla radio”.

In Italia però l’attenzione è sulla conferenza Stato-Regioni di oggi e poi su giovedì, quando ci sarà il nuovo Dpcm. Da quel momento si deciderà anche come gestire – per quanto riguarda lo spiegamento di forze dell’ordine e i controlli – gli assembramenti nelle vie dello shopping. Sarà complicato regolare l’ingresso in quelle strade, come la centralissima via del Corso a Roma, piene di attività che non abbasseranno le saracinesche. I controlli verranno intensificati, con la consapevolezza che non si potrà imputare alcuna violazione a chi uscirà per fare spese. Intanto per evitare gli affollamenti, molti eventi sono già stati annullati. Saranno respinte le richieste delle Regioni governate dalla destra: impianti sciistici aperti, ristoranti anche la sera e messe senza limiti.

Milano Niente mercatini e prima della scala

A Milano, la seconda ondata Covid ha travolto anche il comparto sicurezza: se negli anni scorsi a inizio dicembre la Prefettura aveva già pronto il piano sicurezza, questo Natale 2020 sarà differente. Saltati gli Obej Obej, la Prima della Scala, i mercatini di Natale ai piedi del Duomo, il concertone. Il prefetto Renato Saccone ha convocato il Comitato sicurezza per la prossima settimana. Punto focale: l’intensificazione dei controlli su persone e attività commerciali per evitare affollamenti. Il pericolo terrorismo è in fondo alla lista delle priorità. Ma il vicesindaco Anna Scavuzzo spiega: “L’allerta continua a essere alta: il fatto che ci siano meno persone in giro, non distoglierà l’attenzione dagli obiettivi sensibili”.

Napoli Mense dei poveri e presepi sotto controllo

A Napoli ci sono 150 tra piazze e vie a rischio assembramenti. Le individuò il sindaco Luigi de Magistris durante l’istruttoria di un’ordinanza poi fermata in extremis perché superata dall’entrata della Campania in “zona rossa”. Sono i luoghi dove si concentrerà l’attenzione. A cominciare da piazza del Plebiscito, il lungomare di via Partenope, piazza San Domenico Maggiore e largo San Giovanni Maggiore Pignatelli: le piazze e le vie individuate dalla Prefettura di Napoli come le aree dove sarà necessario contingentare le presenze e regolamentare gli accessi. Ai quali si potrebbe aggiungere San Gregorio Armeno, la via dei presepi, per la verità deserta e spettrale fino a pochi giorni fa: botteghe chiuse perché “non essenziali”. Chiuso anche il Teatro San Carlo: opere solo in streaming fino al 17 dicembre. I carabinieri sono pronti a mettere in campo fino a mille uomini. Controlli anche in luoghi dove si verificano assembramenti di diverso tipo: quelli nei pressi delle mense per i poveri. Come la mensa della Chiesa del Carmine, in piazza Mercato.

Roma Il Centro preoccupa

A Roma nel mirino ci sono finite le vie dello shopping, come via del Corso o anche via Cola di Rienzo, ma anche le principali piazze, dove con i bar aperti fino alle 18, c’è il rischio di assembramenti. Nella Capitale è stato istituto un tavolo tecnico con Prefettura e Comune che deciderà come intervenire tempestivamente ogni qualvolta si creeranno situazioni di assembramento. Anche nella Capitale molti eventi salteranno, come il concerto di Capodanno o la tradizionale festa di Roma.

Torino Pattuglie interforze per gestire le folle

A Torino il primo assalto ai negozi del centro è scattato domenica, giorno in cui il Piemonte, da regione rossa è diventata arancione. Per contenere le persone che si sono riversate nelle vie dello struscio, la questura ha dovuto impiegare, soltanto nel turno pomeridiano, 44 pattuglie. “In vista del Natale – annuncia il questore Giuseppe De Matteis – manderemo in strada pattuglie interforze composte da polizia, carabinieri e finanza, oltre alla municipale, per controllare uso delle mascherine e assembramenti. Su questi però bisogna essere oggettivi: se si aprono i negozi, sono inevitabili e difficilmente controllabili, perché sempre in movimento. I negozianti rispettano le regole. Ma è impossibile contenere l’accesso dei cittadini per le strade. Basta un semaforo rosso per creare una folla di 30 persone. Per evitare i contagi bisognerebbe chiudere i negozi, ma così facendo uccidiamo l’economia”.

Ma con pene certe

Caro Gad, non starò qui a smentire chi mi dipinge come un sadico aguzzino che gode per le sofferenze dei detenuti. Smentire i pregiudizi, in questo Paese di ultrà, è inutile. Tu scrivi che io ho “scherzato” sulle “persone recluse in carcere al tempo del Covid”. Ma io non scherzavo affatto. Ho citato i dati dei morti per Covid dentro e fuori dal carcere in nove mesi di pandemia: 5 su circa 100mila persone passate o rimaste nelle carceri (i 52-53mila detenuti medi non sono sempre gli stessi: ogni anno entrano circa 50mila “nuovi giunti” ed escono quasi altrettanti reclusi per fine pena o misure alternative); e 55.500 su 60 milioni di italiani (i paragoni con i positivi sono impossibili, perché si sa quanti sono nelle carceri, ma non quanti sono fuori). Quindi chi sta fuori rischia il Covid almeno il doppio di chi sta dentro. Ed è del tutto insensato pensare di proteggere i detenuti mandandoli fuori: cioè a spasso se non hanno una casa e in ambienti perlopiù angusti e affollati se ne hanno una. Sovraffollamento per sovraffollamento, chi sta in cella ha il doppio vantaggio di incontrare meno potenziali infetti e di ricevere più controlli di chi abita in un bilocale. Non esiste chi “condivide una cella sovraffollata con dei positivi, per quanto asintomatici”. In carcere i nuovi giunti vengono isolati fino al doppio tampone negativo e solo dopo trasferiti in cella con gli altri.

E, appena si scopre un positivo, scatta l’isolamento col “tamponamento” di tutti gli altri ospiti dell’istituto. Altro che Rsa. Sgombrato il campo dal tema Covid – ultimo pretesto per invocare altre amnistie, indulti e “liberi tutti” nel Paese che ne detiene il record mondiale – parliamo delle carceri. É vero: sono “una tragedia nella tragedia”, “incivile e criminogena” per la fatiscenza delle strutture, il sovraffollamento, la penuria di agenti ed educatori. Ma la soluzione, per me, è costruirne di nuove per garantire ai detenuti condizioni di minima decenza. Per te e altri è mandare e tener fuori decine di migliaia di condannati. Come se il numero dei detenuti fosse una variabile indipendente da quello dei reati e dei delinquenti. Sfido io che nel 1991 era molto inferiore: l’amnistia del ‘90 ne aveva liberati 6mila e lasciati fuori il doppio o il triplo. E gli immigrati erano 625mila, contro gli attuali 5,3 milioni (più gli irregolari). Ma da allora non c’è stato alcun “poderoso incremento del tasso di incarcerazione”, anzi, tutto il contrario: nel 1992 entrarono in carcere 93mila nuovi detenuti, nel 1993 e nel 1994 98 mila l’anno, mentre negli ultimi anni sono scesi a 48-50mila (metà). L’aumento dei reclusi medi non dipende dai maggiori ingressi, ma dalle permanenze più lunghe, dovute alle leggi “securitarie” di destra e sinistra. Criticabilissime, ma non fino a trovare strano se chi spaccia droga, italiano o straniero, sta al fresco per un po’. Il guaio delle carceri non è un eccesso di detenuti, ma un difetto di posti cella. Infatti gli altri Paesi Ue hanno quasi tutti un rapporto detenuti/abitanti uguale o superiore al nostro.

Tu vorresti liberare le “persone non pericolose”. Ma il Codice penale commina la “reclusione” ai colpevoli di una lunga serie di reati, non solo a chi minaccia l’incolumità altrui. Sia che rubi col grimaldello, sia che rubi in guanti gialli. I B., i Formigoni, i Verdini sono pericolosi e dovrebbero stare in carcere anche se non torcono un capello a nessuno. Anch’io ho a cuore la sorte dei detenuti, purché restino tali. E ho a cuore la pena “rieducativa”, purché sia una pena: non finta, ma certa ed espiata fino all’ultimo giorno. Poi c’è chi, come Manconi&C., vuole abolire il carcere (spero non Saviano, altrimenti stenterei a capire il senso delle sue sacrosante denunce contro i camorristi, se poi vanno lasciati liberi). Posizione per me assurda, in mancanza di alternative praticabili, ma rispettabile. A tre condizioni, però: 1) chi vuole abolire il carcere non usi come scusa il Covid, taroccando i dati; 2) se gli svaligiano la casa, non chiami la polizia; 3) non si meravigli se le destre più becere spopolano, perché chi semina impunità è da sempre il migliore alleato delle forche.

La vendetta di Oreglio contro i poeti tromboni

Io Flavio Oreglio l’ho incontrato tre volte e mai più. Non perché gli incontri abbiano prodotto sordi rancori impossibili da sopire. L’Oreglio non ne ha approfittato per sfilarmi il portafogli né ha dichiarato di essere un fan di Venditti (avrei visto rosso). Anzi. Pure se più di una trentina di parole non le abbiamo scambiate, affermo qui che l’Oreglio è persona di garbato approccio e sicura doccia quotidiana. Né trovo l’Oreglio fisicamente attraente. Sono un veterosessuale ostinato, ma so riconoscere un uomo affascinante. Oreglio, no, dai. Sì, semicalvizie e pizzetto potrebbero anche fare magnifica canaglia (i gusti delle donne non li ho mai capiti, specie sulla faccenda delle magnifiche canaglie, a me sembrano solo magnifici stronzi) ma secondo me l’Oreglio è collocabile nel segmento medi, né troppo belli né troppo brutti. Ok, ma perché tutta questa pippa, direte voi, anche con una certa ragione?

Perché nonostante io potrei aver frequentato più gli abitanti di un maso dolomitico che Flavio Oreglio, Flavio Oreglio è mio amico. Amico e fratello. Amico, fratello e commilitone. E siccome con me è meglio non provarci perché è universalmente noto che io non raccomando nessuno tranne gli amici, raccomando questo libro di Flavio Oreglio. Ma se tutte le cazzate che hai scritto prima sono vere, direte ancora voi mai domi, perché annoveri l’Oreglio tra i tuoi amici, fratelli e commilitoni, Oreglio che manco tifa per la Lazio? Perchè perpetra ciò che amo perpetrare e perpetro, ho perpetrato e perpetrerò (sei minuti per scrivere ’sta frase): la Vendetta. Lui forse manco lo sa, ma verseggia combattendo la mia stessa battaglia, quella di tutti i vessati dai Grandi Classici e le loro poesie tritapalle, quelle che ci facevano imparare a memoria fin dalle elementari, costretti a otto anni a blaterare di aspro odor dei vini che va per le vie del borgo (noi piccoli residenti in palazzoni dell’Appio Nuovo), di alberi cui tendevano la mano bambini morti e di cavalle che tornavano a casa riportando colui che non ritorna che rimava con qualcosa che nessuno ha mai capito. “L’albero cui tendevi la pargoletta mano, ha fruttato duecento risme alla Fabriano”: questa robusta accettata con cui l’Oreglio violenta il trombonissimo Giosuè cos’è se non giusta vendetta per le migliaia di bambini scoglionati da cipressi alti e schietti? Anch’io grido vendetta e oso accostarmi alla poetica oregliana con un mio epigramma che piacerà al mio amico di penna d’oca: “La nebbia agli irti colli piovigginando sale, attento che t’incolli su qualche cascinale”. E quando l’Oreglio poeteggia elegiaco “Ho pianto la morte dei miei nonni. Ho pianto la morte dei miei genitori. Ho pianto la morte dei miei fratelli. Ho pianto la morte dei miei zii. I miei cugini pregano perché non pianga ancora” è questo che sta pepetrando, perpetando, perpetrando: la Vendetta degli oppressi mediante sarcasmo! E io sono al suo fianco, come due fanti in trincea! Ecco dipanato l’assunto iniziale, il senso del pippone. Esiste una poesia classica, alta, roboante, dolciastra e cacacazzi che penetra nell’inconscio fino a ingenerare invalidità e gusti pessimi. My friend Oreglio si batte per evidenziarne il ridicolo, il presuntuoso, la muffa. E se Oreglio chiama con “Sono solo, di notte, per la strada. Un anziano mi consiglia di andare a casa. Una donna passa e mi dice ‘Su con la vita!’. Un bambino mi prende per mano e mi accompagna in un bar. Certo che in questo posto i cazzi suoi non se li fa nessuno”, io scatto sull’attenti e rispondo con “D’in su la vetta della torre antica passero solitario cantando vai, sperando che alla passera più fica tu faccia un po’ di pena, hai visto mai” con lo stesso slancio combattente dell’amico e commilitone che non a caso ha intitolato il suo libro Brev Art, splendido calembour tra Lino Banfi e Mel Gibson. E anche altro ci accomuna: “Amore, ti amo come il primo giorno. Poco” verseggia massimamente rarefatto Flavio, sornione. Cosa ci accomuna? La voglia di faticare il meno possibile. Lavorare stanca, diceva, appunto, un poeta.

Le regole del calcio. Il fuorigioco di Maradona: solo la mano di Dio può mettere la palla in rete

Non ho una particolare passione per il gioco del calcio, ma in questo Paese dove tutte le discussioni e le chiacchiere finiscono inevitabilmente per toccare l’argomento calcio mi sono dovuta adattare. Ho fatto degli studi severi e ora so tutto.

L’unica cosa che non mi entra in mente è il concetto di fuorigioco: a un certo punto il guardalinee punta la bandierina, l’arbitro fischia, l’attaccante protesta, la palla rotola stanca nella porta avversaria. Gol! Mi viene spontaneo gridare, ma il commentatore televisivo interrompe il mio entusiasmo con una parola: fuorigioco.

Chiedo agli amici di spiegarmelo, mi sembrava tutto regolare, nessun “fallaccio”, vabbè il terzino avrà avuto pure il problema di girarsi, ma l’ha risolto smarcandosi con maestria, ora perché hanno annullato questo gol ultralegittimo? È semplice, mi dicono gli amici tentando di spiegarmi il concetto con la stessa semplicità con cui mi spiegherebbero il teorema di Talete. Mi viene leggermente da vomitare. Mi capita spesso quando mi sforzo di capire una cosa che non mi entra in testa.

“Quando l’attaccante della squadra avversaria è più avanti dell’ultimo difensore, scatta il fuori gioco e anche il gol più bello del mondo viene inesorabilmente annullato” – “Ma di quanto deve essere più avanti questo bravo attaccante rispetto all’ultimo difensore?” – “Anche pochi centrimetri sono sufficienti” – “E tu vorresti annullare una meraviglia di gol, un’opera d’arte come quella che è stata appena creata, per pochi maledetti centimetri? È un delitto” – “Sono le regole, e le regole non si possono discutere!” – “C’è un solo giocatore che può trasgredire alle regole, che può segnare in totale fuorigioco anche con la mano. È Diego Armando Maradona, la sua è la mano di Dio”.

 

Fabrizio Corona racconta. Non siamo solo corpo e addominali scolpiti (c’è anche il conto in banca)

Sulla copertina del libro che “La nave di Teseo” ha appena pubblicato (Come ho inventato l’Italia, di Fabrizio Corona ) c’è un uomo nudo e tatuato con una banconota da cento euro che copre il sesso. Qual’è l’offerta: la storia, il corpo o la banconota? La storia è oggi, così come accadono le cose, senza visioni e senza interpretazioni. Il corpo è nudo e tatuato, proprio come l’immagine che domina la comunicazione visiva del nostrotempo: ci dice (dalle spiagge ai rotocalchi alle infinite apparizioni in rete) che l’identità si rappresenta con i pettorali e gli addominali.

La banconota ci ricorda l’idea comune che tutto sia in vendita e, anzi, che il destino, alla fine, sia la vendita. Forse, da qui possiamo iniziare l’esplorazione della giungla avventurosa che l’uomo di copertina ci indica: belle case su palafitte di estrema euforia ed estrema fragilità, belle donne che ti appartengono mentre fuggono, e tu non sai mai chi sono davvero e neppure loro lo sanno perché sono sempre prede che lottano per disputarsi prede.

La storia è semplice, pericolosa come un fiume in piena, senza un prima e senza un dopo. Perché né i protagonisti del libro, né i lettori e i fan di Corona, sanno molto di questi attori belli e senza destino. I Fabrizio Corona (nel vasto presepio dei corpi in scena) sono prigionieri di una semplificazione che li spinge sempre in avanti, verso un incognito di amplessi multipli, ostentati e (si suppone) meravigliosi; e cortei di figli belli, sfasati da una finta allegria. E solo una cosa sanno e conoscono bene: “Io.”

La storia di Fabrizio Corona non porta allegria ma un interesse teso da romanzo impossibile, dove il lieto fine non è contemplato. Domina un “io” esclusivo (il corpo tatuato), un’ostinata presenza, senza auto-celebrazione. È un “io” a cui tocca di essere (non c’entrano presunzione od orgoglio) l’unico personaggio conosciuto e raccontato. Gli altri (amori feroci o abbandoni strazianti) sono il resto del mondo e non vuoi davvero saperne e soffrirne. Infatti la narrazione di Corona ha la misura della conversazione in confidenza, della rivelazione all’agenzia fotografica, del raccontare durante un viaggio; con quel tanto di tenerezza e quello scatto d’ira, così impetuosi e fugaci. E infatti non ci sono vendette. Se mai bronci e ritorni, impastati (come certe erbe nella buona cucina) di humour. Ma niente deroghe: ciò che è stato è stato, abbandoni e tradimenti, fatti e subiti.

Perché Fabrizio Corona dovrebbe interessare chi prende in mano il libro? Perché è l’unico, nella grande collezione di “io”, a non fare l’ufficio stampa di se stesso. Manda avanti il corpo e le cifre altissime (guadagnate, perdute, regalate) nella stessa avventura. E neppure quando lo mandano in carcere, come un Pinocchio coi pettorali, si sente umiliato. Il famoso corpo è dietro le sbarre. Ma “io” è libero e intatto e racconta tutto.

 

Bombardieri di nome e di fatto: il keynesiano che attacca Conte per far dispetto a Landini

Il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri fa sindacato dall’inizio degli anni Novanta, ma il momento di maggior visibilità lo ha forse toccato quando ha polemizzato in diretta Facebook con Giuseppe Conte: “Siete in diretta?” ha chiesto seccato il presidente del Consiglio in collegamento con i tre leader sindacali per discutere della manovra di bilancio. “Sì, glielo avevamo detto” ha risposto un altrettanto irritato Bombardieri. Poi il battibecco sulla mancata concertazione e tutto il repertorio dell’indefinidbile dialogo sociale all’italiana.

Ma la notizia è che un segretario della Uil si è preso un po’ di scena. Non capitava almeno dai tempi della triade Lama, Carniti e Benvenuto: altri tempi, altri conflitti.

Bombardieri non si è certo messo a litigare con Conte per farsi vedere, ma nella nuova segreteria Uil c’è la volontà di un maggior protagonismo. Intervenendo al congresso del 2014, proprio in polemica con Il Fatto quotidiano, Bombardieri ebbe a dire: “Non siamo un sindacato ‘compassato’, scendiamo in piazza e non siamo secondi a nessuno”. Quella frase sembra accompagnarlo ancora.

Il leader Uil è un sindacalista sui generis. Laureato in Scienze politiche ha iniziato come ricercatore per poi occuparsi di sindacato universitario. Sul comodino tiene caro John Maynard Keynes, gradisce molto i lavori di Joseph Stiglitz e di Esther Duflo, premio Nobel nel2019 per gli studi sulla povertà. Sindacalmente è cresciuto nell’apparato, molta pratica a Roma e nel Lazio e poi dal 2014 capo dell’organizzazione chiamato dal suo predecessore Carmelo Barbagallo che gli ha fatto da apripista. Relativamente giovane, 56 anni, ha il compito di trovare una collocazione più chiara alla Uil. Nata negli anni 50 per raccogliere il sindacalismo laico, riformista e socialista e distinguersi dall’allora fronte delle sinistre della Cgil e dal cattolicesimo della Cisl, la terza sigla sindacale, insieme a tutto il sindacato fa più fatica a giustificare la propria esistenza separata. Alla fine degli anni ottanta Giorgio Benvenuto, che per un breve periodo finì anche per fare il segretario di un disciolto Partito socialista, inventò “il sindacato dei cittadini” per affrancarsi da un movimento sindacale egemonizzato dai comunisti e indicare, in anticipo sui tempi, una strada “post-fordista” e post-classista. In piena sintonia con le radici riformiste e laiche la Uil si poneva dove poi gran parte della politica e del sindacato si è collocata. Ma oggi il problema dell’identità del sindacato si pone in forme nuove, i legami politici di un tempo sono spezzati e si discute di sindacato unitario. Solo che le sigle attuali hanno un ingombro non da poco nella figura mediaticamente esorbitante di Maurizio Landini. Non a caso la Cisl sempre di più sta coltivando le proprie relazioni cattoliche trovando nella Chiesa di Francesco un ottimo interlocutore. Marciando obbligatoriamente verso un sindacato unitario alla Uil spetta il compito di competere con maggior brio e presenza. “Nomen omen” si scherza nel sindacato, riferendosi al cognome da centravanti del segretario. Per ora ne ha fatte le spese Conte, poi si vedrà.

 

Rete unica: il triste balletto dei boiardi

Più passa il tempo più il progetto “Rete unica” assomiglia a una tela di Penelope che boiardi protervi fanno e disfano mentre lo Stato brucia miliardi. Nella prima Repubblica le guerre dei manager pubblici trovavano sempre soluzione nella politica. Oggi non resta che la sfida perenne a chi è più furbo a scardinare la cassaforte dei risparmio postale: la Cassa depositi e prestiti

A inizio 2015 Matteo Renzi ha obbligato l’ad di Enel Francesco Starace a sfidare Tim sulla rete in fibra. Starace ha obbedito e insieme a Cdp ha messo in piedi Open Fiber (50% a testa) che con ribassi stellari ha vinto i bandi pubblici di Infratel per cablare le aree a fallimento di mercato. In tre anni di lavori, Open Fiber è riuscita ad accumulare tre anni di ritardi, e la situazione peggiora. Infratel nei giorni scorsi gli ha spedito una lettera di fuoco spiegando che se va avanti così non si chiuderà nemmeno nel 2023. I vertici di Open Fiber hanno reagito perdendo il controllo: “La fuga di notizie – ha detto la società – potrebbe essere strumentale alla luce delle più ampie e complesse dinamiche relative alla vicenda della cosiddetta rete unica”. Ma i dati Infratel sono pubblici. A oggi, la vendita della fibra è stata autorizzata in 1200 comuni sui quasi 7mila da cablare e i lavori si sono chiusi solo in 1500 cantieri. OF ha perfino accusato di conflitto di interessi il suo stesso progettista Italtel, perché ha Tim come cliente e l’ex monopolista lo ha scelto come advisor per valutare quanto vale Open Fiber. Se n’è accorta adesso?

Il progetto della rete unica prevede di fondere quella di Tim con quella di Open Fiber. Cioè una società sfibrata dalle scalate a debito dei privati con un’altra messa in piedi con soldi di partecipate pubbliche e miliardi di debito bancario per farle concorrenza. Cdp è azionista di entrambe, avendo rilevato il 10% di Tim per fermare i francesi di Vivendi (a oggi la perdita potenziale è di 500 milioni).

Serve un accordo. Ma nella guerra a chi è più furbo Starace vuole farsi strapagare il suo 50% di OF anche da Cdp. Se va bene, Open Fiber ripagherà fra una dozzina d’anni l’investimento ai suoi azionisti e gli italiani avranno la fibra ottica in tempi biblici. Ma al balletto dei boiardi poco interessa.

Porno vendetta contro la maestra d’asilo: c’è bisogno di Marchisio

 

PROMOSSI

Magari fosse ovvio. Quando l’ovvio sarà ovvio per tutti, si potrà ovviare all’obbligo di ribadirlo, ma fino a quel momento chiunque avrà la generosità di ripetere ovvietà che ovvie ancora non sono farà cosa buona e giusta. A proposito di “revenge porn”, termine molto utilizzato ma evidentemente ancora poco compreso, ci ha pensato Claudio Marchisio. L’ex calciatore della Juventus è intervenuto a proposito della vicenda della maestra d’asilo di Torino, licenziata dopo che il suo ex fidanzato ha diffuso un video hard che la vede protagonista: “Giusto per chiarire la questione. ‘Il video hard della maestra’ in realtà si chiama revenge porn. Il revenge porn è un reato, oltre che una terribile violenza. Fare sesso non è un reato (neanche per le maestre). Lei è innocente. Lui un criminale, oltre che uno stronzo. Discorso chiuso”. A leggerla sembra una sequenza di pensieri elementari: eppure certe madri sono andate a lamentarsi con la direttrice perché la maestra dei loro bimbi è apparsa in un video hard, e la direttrice ha ritenuto necessario rimuoverla dall’incarico, spiegandone pubblicamente la ragione. Evidentemente, le idee di Marchisio tanto elementari non sono. La Procura di Torino ha aperto un’indagine che vede la direttrice a processo per diffamazione e l’ex fidanzato condannato ad un anno di servizi socialmente utili e al pagamento di un risarcimento. Agli altri, quelli che si turbano, giudicano, accusano e sono incapaci di distinguere i colpevoli dagli innocenti, ci pensano Marchisio e tutti quelli che non amano lasciar correre.

Voto 9

 

Maradona contro le donne? Le insulse polemiche relative al pathos e al clamore collettivo con cui è stata accolta la notizia della morte di Diego Armando Maradona hanno trovato anche dei testimonial illustri. Ad aggiungersi all’inopportuna cordata di coloro che hanno ritenuto giusto ergersi a moralizzatori, facendosi notai dei vizi dell’uomo come contraltare alle virtù del campione, si è aggiunta Laura Pausini. La cantante però ha aggiunto un ulteriore elemento: ha messo in contrapposizione la morte di Maradona con la Giornata contro la violenza sulle donne, sostenendo che l’eco eccessiva data al primo evento abbia oscurato il secondo. La tendenza a mettere qualcuno contro qualcun altro, come argomento a favore della propria tesi, è una tendenza molto comune di questi tempi, basta vedere come nel corso di questa pandemia le ragioni sanitarie siano state contrapposte a quelle economiche, o i pazienti con Covid a quelli con altre malattie. Ma siamo sicuri che se piangessimo meno la scomparsa di un’icona diventeremmo improvvisamente più sensibili agli abusi sul genere femminile? La risposta arriva per bocca di un’altra cantautrice, Fiorella Mannoia: “Se Michael Jackson fosse morto ieri sarebbe successa la stessa cosa. Quando se ne vanno uomini così amati nel mondo intero è logico che succeda questo. Non ha scelto lui di morire nella giornata mondiale contro il femminicidio. Anche basta con questa polemica becera”. Eppure sembra che di questi tempi, l’unico elemento che conti davvero sia la contrapposizione a prescindere.

Voto 8

 

L’indefinibile anno 2020 che ci ha lasciati senza parole (e Dieguito)

 

PROMOSSI

New York Toni. C’è anche il nostro Toni Servillo nella lista dei 25 migliori attori degli ultimi due decenni, stilata dal New York Times in vista della fine dell’anno e del ventennio. La lista si apre con Denzel Washington, si chiude con Gael García Bernal e include anche il nostro grandissimo talento, che si piazza al numero 7: “È un mix che comprende grandi star, un’infarinatura di premi Oscar ma anche caratteristi e camaleonti, eroi d’azione e beniamini d’essai”. Il Nyt dice che l’interprete de la Grande Bellezza ha sviluppato una sorta di simbiosi con Paolo Sorrentino: “È stato l’avatar” con cui Sorrentino ha “scavato nella corruzione e nell’ipocrisia”, scrive il Nyt, citando diversi film (da L’uomo in più a Il Divo). Pellicole in cui Servillo, “rende vivida la stravagante umanità e il profondo mistero degli uomini che vivono per piegare il mondo alla loro volontà” e “cattura anche la loro solitudine”. Noi non possiamo che sottoscrivere e inchinarci a uno dei talenti più straordinari e meno conformisti del nostro cinema.

Piccolo è bello. La necessità aguzza l’ingegno. E dunque per provare a superare la crisi e a contrastare la concorrenza di Amazon, fioriscono iniziative di sopravvivenza. È nata così la prima piattaforma di e-commerce che organizza i librai indipendenti: Bookleader. I fondatori sono Leonardo Taiuti, editore di Black Coffee, Mattia Garavaglia, libraio della Libreria Golem di Torino, Daniele Regi e Massimiliano Innocenti. Come funziona? Il lettore sceglie tra due modalità di recapito del volume (consegna a domicilio effettuata dal libraio, costo di 1,90 euro o spedizione tramite corriere) e la somma spesa arriverà direttamente alla libreria. “Abbiamo inventato un sistema in cui è il libraio stesso che consegna casa per casa, curando i rapporti con i propri clienti. Non ce ne vogliano Amazon e gli altri: per questo tipo di fiducia che si viene a creare tra chi vende libri e chi li acquista, non c’è algoritmo che tenga”, ha detto ad HuffPost Leonardo Taiuti. Il progetto è partito a fine agosto con l’adesione di 120 librerie. Ora sono più di 600: ne troverete sicuramente una comoda per voi.

 

NON CLASSIFICATI

Laura c’è, purtroppo. Sono stati spesi fiumi d’inchiostro (più che giustificati, una volta tanto) per l’addio al più grande calciatore del secolo e del mondo. Tra tutto quello che abbiamo sentito ci ricordiamo le parole dello scrittore Roberto Fontanarrosa: “Non importa quello che Maradona ha fatto con la sua vita. Importa quello che ha fatto con la mia”. Eraldo Pecci: “Quando muoiono i grandi giocatori di solito si ritira la maglia. Questa volta dovrebbero ritirare il pallone”. Poi è arrivata Laura Pausini, che non ha gradito la coincidenza tra la morte del Pibe e la giornata contro la violenza sulle donne: “Fa più notizia l’addio a un uomo sicuramente bravissimo a giocare al pallone ma davvero poco apprezzabile per mille cose personali diventate pubbliche, piuttosto che l’addio a tante donne maltrattate, violentate, abusate”. Commento fuori luogo, decisamente “poco apprezzabile” (e comunque: nel tempo asettico dei Cr7 il vuoto lasciato dal talento selvaggio di Maradona è incolmabile).

Senza parole. Un anno, il 2020, così terribile, assurdo e imponderabile da essere indefinibile. Lo hanno stabilito i linguisti dell’Oxford English Dictionary decidendo che il 2020 non avrà, come accade di solito, la sua parola simbolo. Per essere un anno che ci ha lasciato senza parole, il 2020 è stato pieno di nuove parole come nessun altro”, ha ironizzato Casper Grathwohl, presidente di Oxford Dictionaries. E dunque se non è stato possibile delimitare l’anno in una sola una parola-simbolo, gli esperti hanno stilato un piccolo elenco di “Parole di un anno senza precedenti” in cui compaiono lemmi nuovi ma anche altri già esistenti il cui utilizzo si è moltiplicato in maniera esponenziale. Ai professori inglesi non si può dire, ma una parola c’era. Era una parolaccia.

 

Milano non ce la fa. Quel disperato bisogno di normalità, mentre il virus ha stravolto tutto

 

“Io, col fidanzato fuori regione, condannata alla solitudine”

Cara Selvaggia, mi chiamo Francesca, ho 32 anni e sono di Genova: una delle tante “congiunte fuori regione” che non potrà vedere i propri affetti per l’assenza di una “comprovata necessità”, come si evince dall’attuale dpcm. E siamo in tantissimi, con questo problema. Ma purtroppo non siamo stati presi in considerazione, fin dallo scorso lockdown. Mentre il Governo pensa a come mandare avanti l’economia, in particolare durante il periodo natalizio, noi rimaniamo nell’ombra. I nostri affetti e sentimenti sono forse di minore importanza? Valgono meno di un pranzo o del fatturato? Non chiediamo una sorta di liberi tutti, non chiediamo di fare i turisti, chiediamo solamente di essere ascoltati.

C’è una miriade di famiglie, sorelle, fratelli e fidanzati divisi da questo dpcm che per l’ennesima volta non ha inserito un’autocertificazione con la voce “spostamento per visita ad affetto stabile”. Questo è quello che chiediamo. Una sensibilità maggiore per un argomento così delicato. Continuiamo a lavorare, a produrre, a trascorrere giornate lavorative come se nulla fosse, per poi tornare a casa con la consapevolezza e l’amarezza nel cuore di non sapere se e quando potremmo rivedere il nostro caro. Siamo soli, spesso, in città non nostre, lontani dalle famiglie di origine o da un fidanzato. Prima di questa pandemia, le storie d’amore e d’affetto proseguivano diversamente. Si lavorava tutta la settimana, aspettando il weekend per riabbracciare il nostro amato, o i genitori, o fratello o sorella. Ora invece tutto è cambiato.

Io lavoro in ospedale, con persone malate e sofferenti. Adoro il mio mestiere, ma sapere che nelle giornate di riposo avrei visto il mio amore, mi permetteva di staccare la spina: l’amore si sa, va oltre ogni confine. Ora sono a contatto con pazienti Covid 19 ogni giorno: è stancante, è frustrante e sapere che nei miei turni liberi non potrò rivedere il mio amore, è ancor più avvilente. Ti senti impotente. Mi rivolgo a lei che sa dar voce a battaglie ed ingiustizie. Grazie per l’attenzione.

Francesca Rizzi (una congiunta fuori regione)

 

Cara Francesca, capisco bene il suo punto di vista e le sono vicina, ma credo che dopo quello che è accaduto quest’estate (libera circolazione da nord a sud, vacanze e ricongiungimenti), non possiamo permetterci di far circolare di nuovo il virus ovunque. Se è vero che il Nord, purtroppo, è ormai in una situazione complessa, alcune regioni del centro e del Sud hanno ancora una situazione gestibile. Dobbiamo proteggere gli altri. I fidanzati aspetteranno (e qualcuno eviterà il cenone con la suocera, vediamo il lato positivo).

 

“Chi è responsabile rinunci alla libertà”

Cara Selvaggia, ieri sera ero sul divano con mio marito a guardare La casa di carta (forse eravamo tra i pochi a non averla ancora vista). Eravamo stravolti, per tanto tempo non abbiamo guardato la tv. Abbiamo due bimbi piccoli e mio marito è un anestesista rianimatore, pertanto la pandemia ci ha tolto quella pochissima libertà che avevamo. Torniamo però al film. Eravamo alla puntata “post colpo”, dove l’ispettore si muove in un mercatino affollato tra la gente. Io e mio marito ci siamo guardati un secondo e abbiamo messo in pausa la tv. Sai qual’è stato il primo pensiero nel vedere quella scena? Ma perché sono tutti senza mascherina? Potrebbe sembrare una sciocchezza se non fosse che davvero solo ieri ho preso consapevolezza di quanto questo virus ci abbia stravolto la vita. Forse non a tutti. Sicuramente a molti. Eppure io, essendo accanto ad una persona che a marzo era all’inferno e che ora ci è tornato, sapevo bene che la guerra sarebbe stata lunga e dura, durissima. Quello che non immaginavo è che avrebbe stravolto la mia mente che ad oggi non riesce più ad immaginare una quotidianità libera. Questo virus ci ha tolto quanto di più prezioso esista al mondo dopo la salute: la libertà. Sicuramente l’ha tolta a chi vive responsabilmente questo dramma. Vivo a Milano e quello che vedo è un disperato bisogno di fare finta che vada tutto bene, ma nulla va bene.

Continuano a snocciolare numeri e colori ogni giorno, ma nessuno parla dei medici allo stremo, costretti a turni massacranti per cercare di assistere quanti più pazienti possibili. Nessuno parla dello loro famiglie, dei loro bimbi, che continuano a chiedere perché il loro papà o mamma è sempre via e perché indossa la mascherina anche a casa. Nessuno dice che lo smart working è una giungla ingestibile, perché unisce vita privata e lavoro in un continuum sine die. E poi i bambini, cui è rimasta solo la scuola (per fortuna), ma al primo colpo di tosse devi tenerli a casa. E li devi gestire mentre lavori, senza aiuti per non mettere in pericolo nessuno e possibilmente isolarli dal resto della famiglia. Dal fratello o dalla sorella perchè possono contagiare altri bimbi. Dal papà (o dalla mamma) che non si può permettere di ammalarsi, perchè un medico in meno oggi fa la differenza. E questo è “solo” il piccolo dramma di una famiglia. Immaginiamo chi ha dovuto chiudere un’attività o ha perso il lavoro, e ora non sa come arrivare a fine mese. Insomma Milano non ce la fa. Vorrei urlarlo a chi ci governa che Milano non ce la fa. Credo però che serva a poco. Con affetto,

S.

 

A Milano urlano in parecchi da mesi, ma l’assessore alla sanità Gallera è probabilmente a fare jogging con le cuffiette alle orecchie.