20 anni dopo Lippi ecco Antonio Conte. I mister juventini affondano sempre l’Inter

L’Inter l’ha rovinata Trapattoni. Che nell’estate dell’86, ancora giovane (47 anni) e con la referenza di 6 scudetti vinti in 10 anni da allenatore della Juventus, stupì il colto e l’inclita firmando un contratto che lo legava alla rivale storica di Madama, l’Inter dell’allora presidente Ernesto Pellegrini. Ed è vero, per l’Inter del tempo l’ingaggio del Trap si rivelò una fortuna se è vero che in 5 stagioni arrivarono il sensazionale scudetto dei record (’88-’89), una Coppa Uefa (’90-’91) e una Supercoppa italiana (’89); ma per l’Inter degli anni a venire, quella di Moratti prima e di Zhang poi, l’illusione dell’allenatore juventino portato a San Siro per fare grande l’Inter, da Lippi a Conte passando per Tardelli, si rivelerà una vera e propria chimera: un sogno irrealizzabile. E ogni volta si risolverà in uno smacco e in una disillusione cento volte superiori ai flop di allenatori giunti a Milano senza il pedigree della Real Casa.

Lippi. Nell’estate del ’99 Massimo Moratti porta Marcello Lippi sulla panchina dell’Inter. L’emozione è grande perché Marcello è reduce da un quinquennio alla Juve di Moggi & Giraudo in cui ha vinto 3 scudetti e la Champions ’96. Moratti gli consegna una super squadra con Roby Baggio e Bobo Vieri, Peruzzi e Zanetti, Zamorano e Recoba; ma sarà un disastro. L’Inter si piazza 4ª a -14 dalla Lazio campione e per andare in Champions deve sfidare ai preliminari gli svedesi dell’Helsingborg: autentici carneadi che all’andata, però, sorprendendo tutti vincono 1-0. Il 23 agosto 2000, a San Siro, succede l’inenarrabile: una traversa di Seedorf, poi un palo di Robbie Keane e al 90’, sullo 0-0, ecco il rigore che può almeno mandare l’Inter ai supplementari. Un rigore che Recoba sbaglia. L’Inter esce così dalla Champions senza nemmeno esservi entrata; e di lì a poco, dopo un tragicomico debutto in campionato in Reggina-Inter 2-1, Lippi si presenta in sala-stampa e dichiara: “Io fossi il presidente manderei via subito l’allenatore, prenderei i giocatori e li appenderei al muro e gli darei dei calci nel culo a tutti”. Detto e fatta. Lippi silurato per la gioia dei giocatori (“Da me voleva che gli facessi da spia nello spogliatoio”, rivelerà Baggio) e incubo che tuttavia non finisce.

Tardelli. Non finisce perché Moratti s’incaponisce a volere, nonostante tutto, uno juventino in panchina. E assume Marco Tardelli, già c.t. dell’under 21 azzurra. Con l’Inter che cade dalla padella alla brace. Solo per dirne due, l’Inter esce dalla Coppa Italia perdendo 6-1 a Parma (autogol Serena, Micoud, Montano, Amoroso, Appiah, Sartor) e l’11 maggio, nel derby, prende 6 gol (a zero) davanti ai suoi tifosi (doppietta Comandini, Giunti, doppietta Shevchenko, Serginho). “Il peggior allenatore che abbia mai incontrato”, dirà di lui il capitano Javier Zanetti cui Tardelli chiese, appena arrivato, di “non portare troppo palla: non mi piace come giochi”. Come dire a Riva di non giocare col sinistro.

Conte. Vent’anni dopo la storia si ripete. Gli Zhang decidono di portare all’Inter non solo l’ex d.g. juventino Marotta, ma anche l’allenatore dei primi 3 scudetti consecutivi (2012/’13/’14) del ciclo bianconero tuttora in corso. E quel che sta succedendo all’Inter è cronaca di questi giorni. Si va a tutta velocità verso il baratro, e tutto per questo inferiority complex nei confronti della Vecchia Signora. E dire che ci sarebbe un Cambiasso in sala d’aspetto. Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere.

 

Mille volti di antimafia. “Che Italia sarebbe senza le (stra)ordinarie resistenze ai boss?”

Devo confessarlo. Mi sono commosso. Curando lo speciale di Rai Storia (andato in onda ieri, nessuna autopromozione) sulla storia del movimento antimafia in Italia, ho rivisto di colpo e tutta insieme una umanità che dovrebbe essere orgoglio del Paese. Sarà pure stata minoranza, però lo spirito di sacrificio di tanti e tanti magistrati, funzionari pubblici, esponenti delle forze dell’ordine, notissimi o sconosciuti, la loro sfida quotidiana a un potere sanguinario, ha qualcosa di grandioso. In nome di quale stipendio, per quale Stato, per quale popolo? Stessa sensazione rivedendo le immagini e i servizi di un giornalismo che ha continuato imperterrito a indagare, a denunciare, storie italiane minori ma non tanto, come quelle de l’Ora di Palermo o dei Siciliani, o le inchieste di Joe Marrazzo. Per non parlare di quella fiumana infinita di studenti che sbucano dappertutto, linfa di una nazione spesso impaurita, balbettante, complice.

Eccoli a Ottaviano, primi anni ottanta, in centomila contro Cutolo, il capo supremo della camorra con cui poteri dello Stato avevano appena trattato per ottenere dalle Brigate rosse la liberazione di Ciro Cirillo, l’assessore che manovrava i fondi della ricostruzione dopo il terremoto irpino. Eccoli in piazza a Palermo dopo l’assassinio del prefetto dalla Chiesa. E poi a Milano a riempire il Palalido (“come a un concerto” dice incredulo il telegiornale) ai tempi del maxiprocesso. E a Palermo in infinite catene umane dopo le stragi. E alle manifestazioni oceaniche di Libera del primo giorno di primavera. E poi in festa sulla Nave della legalità che dal 2007 sbarca ogni anno a Palermo da Civitavecchia il 23 maggio. E i loro insegnanti, le loro insegnanti soprattutto. Con quel chiodo che nessuno è mai riuscito a scacciare, il dovere di svolgere una missione civile in partibus infidelium, come diceva Giovanni Falcone.

E poi le centinaia e centinaia di familiari che orgogliosamente chiedono giustizia con le loro foto appese al collo. Ognuno con le proprie rughe antiche o fresche, figli o anche nipoti accanto. Costretti a ripetere dignitosamente la vicenda – per gli altri anonima – dei propri cari. E i film, le canzoni, le parole d’ordine, le frasi sulle magliette, una moderna antropologia in cammino. I nomi delle cooperative nate sui beni confiscati, la sfida suprema di Libero Grassi che va in tivù ad annunciare al suo estorsore che non lo pagherà. Gli occhi sgomenti e fieri di Paolo Borsellino nel suo ultimo discorso nel cortile della biblioteca comunale di Palermo.

Che grande storia italiana, amici lettori. Tragica e nutrita di una speranza che non si spegne mai. Mi scoppiava e mi sfuggiva da tutte le parti. E posso assicurarvi che nonostante le 10 ore di programma non ci stava, proprio non ci stava tutta dentro nel modo giusto. Un fatto indimenticabile, un aneddoto da antologia risorgimentale, un personaggio da romanzo. Tutto fluiva nei filmati, negli articoli di giornale, nella memoria. Ci si può chiedere a cosa questo sia servito se il Paese è conciato com’è. Ma bisogna chiedersi come esso sarebbe se tutto questo non avesse alzato barricate morali davanti ai kalashnikov e al tritolo che pensavano di piegare a sé il destino di una nazione, non avesse reso sconvenienti i patti con gli assassini, non avesse contrastato l’idea di una legge prona come tappeto al potente più corrotto. Perché in fondo abbiamo pur costruito il Paese che oggi insegna l’antimafia al mondo, dalle leggi alle indagini agli studi. Perciò qui vi dico che sento l’onore di avere fatto parte di questa storia e di scrivere su un giornale che se la porta dentro con rispetto e amore.

P.S. Volete sapere se ho perdonato a Maradona il suo rapporto con il clan dei Giuliano di Forcella? Risposta di getto: sì. Passi la vita a predicare la coerenza e poi basta un poeta andino a farne carta straccia…

 

Concistoro. Il papa continua la rivoluzione contro la Curia romana, ancora ammalata di “bertonismo”

Il settimo Concistoro di Francesco in sette anni di pontificato è certamente uno dei segni più evidenti della rivoluzione di papa Bergoglio nella Chiesa cattolica. I nuovi tredici cardinali creati sabato scorso continuano infatti a far scendere il peso della Curia romana nel prossimo Conclave, come ha notato il quotidiano della Cei, Avvenire.

A contare, ovviamente, è il numero dei cardinali elettori che adesso salgono a 128, tenendo presente l’esclusione di Angelo Becciu, l’ex numero due della Segreteria di Stato cacciato da Francesco per l’ennesima storiaccia di soldi e investimenti immobiliari. E tra i 128 gli italiani sono appena 22, il 17,2 del totale, mentre i “curiali” (nel senso più ampio del termine tra ex e uffici assimilabili) sono in tutto 29. Ma anche la geografia degli italiani sta mutando radicalmente, in senso periferico e non centralistico: tra i dieci “residenziali” su 22 ci sono gli “ordinari” di Agrigento, Bologna, L’Aquila, Perugia-Città della Pieve, Roma (il cardinale vicario) e Siena-Colle Val D’Elsa-Montalcino.

Dal 2013 a oggi, Bergoglio ha creato 73 cardinali elettori, il resto sono da dividere tra Benedetto XVI (39) e San Giovanni Paolo II (16). E le sue scelte non fanno che confermare le indicazioni venute fuori dalle congregazioni generali che si tennero prima del Conclave del 2013, in cui fu unanime l’esigenza di ridurre il potere della Curia romana. Dopo la clamorosa rinuncia di Benedetto XVI, la Chiesa si ritrovò sgomenta e lacerata per le ripercussioni del primo Vatileaks, provocato dalla sete di verità del maggiordomo dell’appartamento pontificio Paolo Gabriele, morto la settimana scorsa.

Era il tempo deleterio del cardinale Tarcisio Bertone, il “premier” vaticano innamorato della mondanità e che rappresentò plasticamente le sue ambizioni terrene in una famosa cena a casa di Bruno Vespa, il 10 luglio del 2010, in compagnia di Berlusconi, Draghi, Casini, Gianni Letta e il banchiere Geronzi. Sempre in questi giorni è uscito il libro Un altro Papa di Marco Ansaldo in cui monsignor Georg Gänswein, storico segretario di papa Ratzinger, rivela un dettaglio decisivo sul pesante e doloroso clima che fece maturare la rinuncia di Benedetto XVI. E riguarda proprio Bertone (peraltro “maestro” di Becciu), considerato l’obiettivo principale di Vatileaks. Certo, non fu questo a determinare la scelta ratzingeriana, ma don Georg spiega che il pontefice era stato tenuto all’oscuro della decisione bertoniana di avocare a sé i rapporti con la politica italiana quando nella Cei finì il regno di Ruini e fu nominato presidente Bagnasco.

Guarda caso, ieri sul Tempo, è stato il cattomassone Luigi Bisignani a “bruciare” il progetto di riforma francescano per la Curia romana, che darebbe più spazio alla carità e meno alla dottrina. Lo stesso Bisignani, già postino andreottiano del tangentone Enimont allo Ior, la banca vaticana, che fu trait d’union tra Bertone e la “ditta” Letta-Geronzi. E che come svelò Vittorio Feltri ai magistrati avrebbe dato ad Alessandro Sallusti per conto di Bertone la “velina” sulla condanna di Dino Boffo, l’allora direttore di Avvenire inviso al Segretario di Stato. C’è qualcosa di antico tra i nemici di Bergoglio.

 

I 10 punti di Di Maio e le capriole di Brunetta

Assistiamo esterrefatti, rapiti, a una corrispondenza bollente da romanzo ottocentesco. Di Maio invia “dieci punti per l’Italia” al Foglio, che li pubblica raggiante (sette colonne a tutta pagina) come un tempo i manifesti di Renzi e Calenda; il giorno dopo Brunetta, tessitore dell’apertura di tutti verso B., invia al giornale pagine profumate di violetta: “Di Maio è giovane, intelligente, rispettoso, veloce”, la sua lettera del decalogo “l’avrei potuta scrivere io”, che per Brunetta è il massimo dei complimenti, “mi ha lasciato un buon sapore ma anche un pizzico di desiderio inappagato”. Infatti ieri rilancia sul Corriere: “Di Maio è un leader vero, sembrava uno dei miei studenti più preparati”, e come non notare “la sua saggezza, il suo buon senso”? La destra salvinian-meloniana rosica: l’orrore antropologico per Di Maio trasforma Brunetta nel “portaborse del portaborse di De Michelis”.

Non è chiaro se è la talpa dell’antipolitica che ha scavato sotto al palazzo del potere, seducendolo, o se i populisti si sono imborghesiti al punto da essere introdotti e impalmati ad Arcore, dove andava a prendere il tè l’altro “argine contro i populisti”… Che cambio di toni, però, dall’ultima epistola di Brunetta (2018): “Caro Di Maio, spudorato e ignorante. Stai truffando i cittadini. Vergognati e studia un po’ di diritto costituzionale. Trovati un lavoro”. Era tutto così chiaro, allora: l’abusivo vicepremier e ministro era un “bibitaro” per decreto bipartisan, Scalfari diceva di preferire B. a lui, e solo un anno fa veniva riabilitato dall’ambiente buono per bocca di Franceschini: “Lo conoscevo solo per l’immagine pubblica (da bibitaro, ndr), invece sui dossier è uno che approfondisce e studia”. S’impegna, via. Però Brunetta è senza freni: caro Luigi, “perché non facciamo la rivoluzione insieme su questi temi?”. Ma qui ci fermiamo perché il porno è un genere che non trattiamo.

“La vita di una donna vale meno di una mucca sacra?”

Un ragazzo dal volto gentile fuggito dall’India alla Germania, la sua macchina fotografica e le incredibili conseguenze di una maschera di gomma. “Con le mie immagini volevo porre una domanda semplice: in India la vita di una donna vale meno di quella di una mucca?”. Il fotografo Sujatro Ghosh, nemmeno 30 anni, nel 2017 ha cominciato a fotografare ragazze con una maschera di mucca da un lato all’altro del suo Paese, dove è endemica e cronica la “cultura dello stupro” e dove una donna – dai 6 ai 60 anni – ogni 15 minuti viene violentata, ed in seguito, a volte, anche uccisa. L’artista ha cominciato a pubblicare quei ritratti su Instagram: “L’unico mezzo a disposizione di un ragazzo comune, come me”. Il web ne rimase scosso: prima in bene, poi in male, poi entrambi. Il suo progetto Holy Cows, vacche sacre, è diventato un fenomeno virale di cui si è accorto presto anche il Guardian, la BBC, fino ad Harper Bazar. Dopo la fama, però, arrivano le intimidazioni e le minacce di morte dei radicali induisti.

Sujatro si definisce un accademico, femminista e dissidente. Nelle sue foto le mucche sacre si guardano allo specchio, rispondono al telefono, fissano l’orizzonte, si fanno un selfie in barca: fanno tutto ciò che alle donne è concesso. Una mucca dai capelli lunghi e castani danza sulle punte su un muro tra nuvole e torrenti di Bombay. Una che ha le braccia incrociate sembra fissarti di sbieco. Ci sono mucche su due gambe ritratte a Goa, Bangalore e Hyderabad. La maschera di plastica nasconde volti di donne che hanno tutte una storia triste, ma “non volevo raccontare una storia sola, ma la vita comune a tutte le donne in India”: abusate, violentate, brutalizzate.

Nelle sue foto mucca e donna coincidono in una sola immagine, le incappucciate dalla testa bovina fondono due questioni in una sola: “Volevo dare voce alle persone che non ce l’hanno, affronto una problematica grave ritraendo i soggetti in situazioni realistiche, ma con l’elemento irreale della maschera”. L’idea di Sujatro ha partorito delle centaure al contrario, creature fantastiche dal volto di latex bianco e nero, metà umane e metà animali, qualcosa che è allo stesso tempo evidente ed invisibile: come lo è lo stupro in India, dove decine di migliaia lo subiscono ogni anno, ma pochissime denunciano, rimanendo in silenzio per timore delle conseguenze. Il semplice atto di nascondere il volto di donna con quello dell’animale gli è costato l’accusa di sacrilegio da parte dei radicali induisti: “La vacca è un animale politico in India”. Con un film sulla sua storia, che sarà trasmesso presto da Aljazeera, Sujatro ha cambiato continente: grazie a una borsa di studio del Goethe Institute vive a Berlino. “Ho lasciato l’India perché le minacce prima erano solo online. Poi hanno cominciato a chiamarmi a casa, infine a bussare alla porta: cominciavo ad avere problemi mentali e psicologici, la Germania mi ha protetto le spalle. Penso che sia successo perché il progetto ha attirato l’attenzione di tanti quando il messaggio è arrivato là fuori, le donne sono bersaglio quanto le minoranze del Paese. Ogni previsione che avevo sul futuro si è compiuta purtroppo: con il presidente nazionalista Modi il Paese è peggiorato, forse più velocemente di quello che credevo”.

Infine le vacche sacre di Sujatro sono scappate per il mondo e vengono ritratte dall’Europa all’America. Lo seguono, ovunque lui vada, perché il progetto delle ragazze nascoste dalla maschera dei mammiferi continua: “Voglio difendere i diritti delle donne che vivono una condizione drammatica in molte parti del mondo, non solo nel mio Paese”, dove gang di vigilantes indiani, i cosiddetti “protettori delle mucche”, sono colpevoli di decine di omicidi e linciaggi di persone, anche solo sospettate di aver mangiato la carne dell’animale.

“Per gli indù uccidere una mucca è peggio che uccidere una donna, che si può stuprare e ammazzare senza che nessuno muova un dito”. Lui invece l’ha fatto: schiacciando sul tasto della sua macchina fotografica.

 

Popstar amica di Israele: per i suoi fan una nota stonata

La star della musica egiziana Mohamed Ramadan è stato sospeso la scorsa settimana dall’Unione del sindacato degli artisti, dopo che una sua fotografia in cui posa con il cantante israeliano Omer Adam – divo del pop mediterraneo con milioni di visualizzazioni su Youtube – durante una visita a Dubai, ha fatto il giro del web. Un magistrato del Cairo interrogherà Mohamed Ramadan perché è stato denunciato da un avvocato che l’accusa di “insultare il popolo egiziano” con tali immagini, e in molti online hanno definito la fotografia un tradimento della causa palestinese. Il caso sarà ascoltato in tribunale il 19 dicembre.

L’immagine di Ramadan e Adam ha guadagnato ulteriore popolarità quando è stata ritwittata dall’account Twitter arabo dello Stato di Israele con la didascalia “L’arte ci unisce”. A quel punto insulti e minacce contro il cantante egiziano si sono moltiplicati. “Hai perso il tuo pubblico”, si legge in un commento sulla pagina Instagram di Ramadan.”No alla normalizzazione” scrive un altro, e “Tutti i palestinesi dovrebbero smettere di seguirti”. In quello che è sembrato un tentativo di contenere i danni, Ramadan ha pubblicato una sua foto con i fan, commentando: “Non c’è spazio per me per chiedere a ciascuno la sua identità, colore, nazionalità e religione”. Ma ormai il “danno” – come commentano le tv egiziane – era fatto. Sebbene l’Egitto abbia ufficialmente legami con Israele e un trattato di pace da 41 anni, il suo governo non ha mai incoraggiato una calda pace con lo Stato ebraico. Nonostante l’accordo di pace tra le due nazioni, non c’è stato alcun riavvicinamento tra i cittadini dei due paesi. Ci sono efficaci scambi in materia di sicurezza fra il Cairo e Gerusalemme, ma per esempio mentre i turisti israeliani affollano le spiagge egiziane sul Mar Rosso non ci sono turisti egiziani in Israele, non sono mai venuti perché timorosi delle ritorsioni al loro ritorno. Una posizione in netto contrasto con gli Emirati Arabi Uniti, che dopo la firma dell’accordo di normalizzazione con Israele stanno tentando di promuovere oltre al business anche scambi culturali e il turismo.

 

È propaganda: in India i morti di Coronavirus non si contano

Nel centro di controllo Covid-19 del Jharkhand, i numeri sono scritti a pennarello su una lavagna. In orizzontale sono indicati i 24 distretti di questo Stato del’est dell’India. In verticale il numero di casi e di morti recenti. Nell’ultima colonna figurano solo degli zero. “Il virus è sotto controllo – afferma Praveen Kumar Karn, epidemiologo del ministero della Salute del Jharkhand –. Solo 900 persone sono morte di Covid da marzo”. 900 morti per 30 milioni di abitanti: i dati sono credibili? Nel Jharkhand, molto povero, il sistema sanitario è in condizioni disastrose: si contano un medico ogni 18 mila abitanti e un letto d’ospedale ogni 6 mila abitanti. Secondo il ministero indiano dell’Interno, inoltre, lo Stato si colloca all’ultimo posto del Medical Certification of Cause of Death (Mccd): a solo il 4,6% dei decessi viene data una spiegazione medica.

“È uno stato rurale dove vivono delle popolazioni tribali – spiega Samir Daas, responsabile locale del network mondiale di attivisti People Health Movement –. Nei villaggi, le persone muoiono a casa, senza essere ricoverate e senza certificato. La loro morte viene segnalata solo più tardi, al momento del censimento”. Pare difficile allora immaginare che tutte le vittime di Covid siano state registrate da marzo. “900 morti? È impossibile! Ce ne saranno dieci volte di più”, secondo Samir Daas. Pubblicato a fine settembre, un vasto studio del Consiglio indiano per la ricerca medica, portato avanti in 70 distretti di 21 Stati, permette di immaginare l’entità del divario tra le statistiche e la realtà: nello Stato del Jharkhand, il 10% dei 900 mila abitanti del distretto povero e rurale di Pakur sarebbe stato esposto al virus, ovvero 90 mila persone. I dati ufficiali parlano invece di due soli morti di Covid in questo distretto. Il tasso di mortalità sarebbe cioè di 0,002%, 1.300 volte inferiore rispetto al resto del mondo.

Il governo insiste: “Non ci è sfuggito nessun morto di Covid – assicura Ravi Shankar Shukla, direttore della National Health Mission del Jharkhand –. I capi villaggio, gli operatori sanitari e gli abitanti sono stati tutti informati correttamente sul Covid. Ogni morte sospetta ci è stata comunicata a tutti i livelli della catena medica”. Malgrado la buona volontà avanzata dal governo, Samir Daas ritiene che sia “impossibile aver contato tutti i morti”. Per capire come sono andate le cose bisogna tornare al 24 marzo, giorno in cui il primo ministro Narendra Modi ha annunciato il più grande lockdown del mondo. Da un giorno all’altro, milioni di lavoratori giornalieri delle grandi città si sono ritrovati senza attività e si sono dunque riversati sulle strade con tutti i mezzi possibili per rientrare nella campagne natale. “Centinaia di migliaia di persone sono tornate nel Jharkhand – spiega Samir Daas –. Tutti questi lavoratori bloccati nelle grandi città erano stati ampiamente esposti al virus, ma chi li ha controllati al loro ritorno? È così che il Covid ha contaminato i villaggi”. Johnson Topno, il direttore della Phia Foundation, una Ong con sede nei pressi della capitale Ranchi, ha tentato di contenere la propagazione del virus: “Abbiamo identificato i lavoratori in arrivo dalle grandi città. In collaborazione con il governo, abbiamo distribuito loro del cibo e abbiamo fatto del nostro meglio per metterli in quarantena”.

Ma ammette che il compito è stato arduo: “Queste persone erano sotto choc, volevano solo ritrovare i loro cari. Isolarle significava farle soffrire due volte. Molte persone devono essere morte di Covid nei villaggi senza che nessuno se ne sia accorto”. Da aprile a giugno, solo una decina di morti per Covid sono state registrate nel Jharkhand secondo il sito covid19india.org, che riporta i bollettini ufficiali. “Ma ad aprile non avevamo nemmeno i termometri! Figuriamo i tamponi”, racconta Shyamal Santra della fondazione Transforming Rural India Foundation. Al di là della logistica, la barriera è anche culturale: “Per i più poveri, la morte è un tabù. Quando qualcuno muore in un villaggio, nessuno fa domande. È morto e basta”. L’epidemiologo Praveen Kumar Karn conferma: “È vero che all’epoca non avevamo nessuna capacità di testare la popolazione. Abbiamo dovuto inviare i campioni ai laboratori di Delhi o Calcutta. Ma oggi – aggiunge – abbiamo realizzato quasi 3 milioni tamponi, vuol dire che abbiamo testato il 10% della nostra popolazione!”. L’aumento del numero di tamponi processati, a partire da agosto, corrisponde, logicamente, a un aumento del numero di casi positivi e dei decessi registrati. Da ottobre si registra un notevole calo. Per il capo della National Health Mission, Ravi Shankar Shukla, dunque, “il peggio è passato”. Ma non sono solo i morti nei villaggi a sfuggire ai conteggi. Secondo Ravi Shankar Shukla, il Jharkhand segue rigorosamente le regole dell’Oms e del governo indiano: ogni persona che muore risultando positiva al virus viene considerata come morta di Covid. Nei fatti molte persone morte dopo l’aggravamento di patologie cardiocircolatorie o polmonari non sono state contabilizzate. Un medico, che desidera restare anonimo, confida: “Ci viene chiesto di escludere dai conteggi i decessi per Covid legati a malattie come il diabete o la tubercolosi”. Lo conferma Samir Daas: “Sono soprattutto i responsabili locali a chiederlo perché vogliono poter mostrare risultati positivi”. Più della metà dei test effettuati sono inoltre di tipo antigenico: rapidi, economici, ma inaffidabili. Si aggiunge che molti pazienti chiedono ai medici di non inserire il Covid nel certificato di morte per timore di essere stigmatizzati. La stampa locale riporta episodi in cui delle famiglie sono state respinte perché volevano far seppellire un caro morto di Covid. Anche per i vivi l’esperienza può trasformarsi in incubo: “Ho seguito una quarantena rigorosa – riferisce Sharat Pandey –. Ma da allora nessuno mi ha più rivolto la parola in famiglia”. Ecco perché i pazienti evitano a tutti i costi di sottoporsi al tampone: “Ho contratto il Covid da un paziente, ma un collega mi ha consigliato di non fare il test – racconta il direttore di un ospedale –. Mi sono curato da solo per evitare che la mia famiglia venisse messa in quarantena”.

Il maggior numero di tamponi viene realizzato nelle città. Ranchi e Jamshedpur, che rappresentano solo il 10% della popolazione dello Stato del Jharkhand, riuniscono da sole oltre il 50% dei decessi per Covid. A Ranchi è stato anche aperto un forno crematorio apposta per i morti di Covid. Il suo direttore dice che “più di 300 corpi sono stati cremati da giugno”, mentre solo 182 persone ufficialmente sono morte da marzo nella città a causa del virus. La maggior parte degli esperti che collabora con il governo preferisce restare prudente: per loro il fenomeno non è quantificabile. I problemi che conosce il Jharkhand non rappresentano un’eccezione in India. Lo Stato vicino del Bihar, con una popolazione quattro volte più numerosa (125 milioni), conta 1.200 morti. Per il matematico Murad Banaji è impossibile: “Degli studi aleatori effettuati nei vari distretti del Bihar suggeriscono che 3,4 milioni di persone sono state contagiate. Ma queste stesse regioni registrano 72 morti. È assurdo”. Hemant Deepak Shewade, ricercatore dell’Unione internazionale contro la tubercolosi e le malattie respiratorie, ritiene che il numero di vittime di Covid in India sia almeno sei volte superiore alle 130 mila registrate. “In media – spiega – solo il 18% dei decessi in India vengono certificati da un medico. E anche tra quelli certificati, i decessi per Covid vengono registrati sotto un’altra causa”. Benché i dati reali siano altri, il governo non esita a utilizzare le statistiche ufficiali per lodare la sua gestione dell’epidemia. Il ministero della Salute mette in evidenza il basso tasso di mortalità dell’India (1,4%).

L’ultimo studio del Consiglio indiano per la ricerca medica stima invece che un indiano su 15 è stato esposto al Covid dall’inizio della pandemia: ovvero 88 milioni di persone, dieci volte più del numero di casi ufficiali.

 

Nigeria. Jihadisti sgozzano cento contadini nei campi

Ancora un weekend di orrore e sangue in Nigeria: almeno 110 contadini sono stati sgozzati dai jihadisti di Boko Haram che li hanno attaccati nei campi di riso dove stavano lavorando nei pressi del villaggio di Koshobe, vicino a Maiduguri, capitale dello Stato di Borno.

“È l’attacco più violento e insensato contro civili innocenti quest’anno”, ha denunciato Edward Gallon, il coordinatore delle Nazioni Unite per le questioni umanitarie nel Paese. L’agguato è avvenuto sabato e in un primo momento si era parlato di 43 morti, poi il bilancio è salito a 70 e ancora a 110, ma è tutt’altro che definitivo.

Il numero dei feriti non è chiaro e ci sono dei dispersi oltre ad almeno dieci “donne rapite” dagli integralisti islamici, ha spiegato il funzionario dell’Onu che ha chiesto “il loro immediato rilascio” e “l’assicurazione alla giustizia degli autori di questo attacco atroce”. Attacco tanto più feroce perché ha preso di mira lavoratori che erano venuti dallo Stato di Sokoto, nella Nigeria Nord-occidentale, lontano mille chilometri, alla ricerca di lavoro.

Boko Haram dai primi anni 2000 ha massacrato almeno 36.000 persone e ha costretto altri due milioni di civili ad abbandonare le loro case. Questa volta sarebbe stata una sorta di vendetta dei jihadisti contro i contadini che avrebbero preso e disarmato un loro miliziano e passato informazioni ai militari. Agricoltori, pescatori, raccoglitori di legna sono regolarmente presi di mira dagli islamisti che li accusano di dare informazioni all’esercito o di non pagare “l’imposta” jihadista, una sorta di pizzo obbligatorio per poter lavorare nel Borno. L’attacco, avvenuto nel giorno delle elezioni locali, le prime organizzate dall’inizio dell’insurrezione da parte di Boko Haram, suona come l’ennesima sfida al governo federale.

Argentina. “Omicidio colposo”: indagato il medico di Maradona

A cinque giorni dalla morte di Diego Armando Maradona, la magistratura argentina si muove. E la notizia rimbalza in tutto il mondo: il medico del Pibe de Oro è indagato per omicidio colposo.

Gli investigatori argentini ha effettuato una perquisizione nella casa e nell’ufficio del medico personale del Pibe de Oro, il 39enne Leopoldo Luque. Secondo quanto riferisce il quotidiano la Nacion da fonti giudiziarie qualificate, il medico sarebbe indagato per omicidio colposo in seguito a presunte irregolarità nel ricovero domiciliare di Maradona. Le perquisizioni sono state ordinate dalla procuratrice di Benavídez, Laura Capra, e dai sostituti procuratori generali di San Isidro, Patricio Ferrari e Cosme Irribaren. Sempre secondo la Nacion, quando gli ufficiali giudiziari e la polizia si sono presentati dal medico, Luque è rimasto sorpreso e avrebbe esclamato: “Non me l’aspettavo”.

L’idea di formare una squadra speciale di investigatori per seguire il caso del campione scomparso è stata del procuratore generale di San Isidro, John Broyad, poco dopo aver appreso della morte di Maradona mercoledì scorso. Le indagini mirano a trovare elementi per determinare eventuali responsabilità del medico di Maradona, dopo che l’ex numero Dieci era stato dimesso dalla clinica dove era stato operato per un ’ematoma subdurale. Mercoledì scorso il dottore non era a casa quando Maradona è morto, ma ha chiamato il numero di emergenza 911 per richiedere un’ambulanza alle 12.16. Gli investigatori vogliono capire quante volte il dottor Luque è andato a casa per controllare il suo paziente. Finora, il neurochirurgo era l’unico membro dell’entourage di Maradona a non essere stato ascoltato come testimone. “Abbiamo proseguito con le indagini prendendo anche alcune dichiarazioni di parenti diretti di Maradona”, ha spiegato in un comunicato il pg di San Isidro.

Intanto in Italia, il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, ha scelto il nome per lo stadio della città. Si chiamerà “Stadio Diego Armando Maradona”. E ha annunciato che anche una fermata del metrò sarà intitolata al campione: la Mostra d’Oltremare della Linea 6 che sarà pronta a maggio prenderà il nome di “Mostra-Maradona”.

Per curare le ferite del Covid evitiamo il ritorno dell’austerità

La crisi del Covid-19 sta provocando in tutti i paesi dell’Ue un forte aumento del deficit e del rapporto tra debito pubblico e Pil. L’Italia è tra i Paesi più colpiti: nel 2020 il suo deficit supererà il 10% del Pil, e il debito sfiorerà il 160%. Come gestire questa situazione sarà la maggiore sfida della politica economica italiana nei prossimi anni.

Il debito pubblico italiano era già elevato prima della pandemia, soprattutto come eredità degli anni Ottanta. Da allora, l’Italia si è comportata in modo molto più “frugale” di qualsiasi altro paese dell’Unione, registrando dagli anni 90 eccedenze di bilancio, al netto degli interessi sul debito. L’Italia è stata tutt’altro che “dissoluta”, come spesso viene dipinta, anzi, ha avuto più introiti in tasse di quanto abbia speso, ma l’onere degli interessi dovuti al debito contratto negli anni Ottanta ha spinto il saldo di bilancio dello Stato quasi sempre in territorio negativo. Se il rapporto tra debito e Pil è così elevato la ragione è che negli ultimi vent’anni la crescita economica del Paese è stata molto debole. Ma invece di ridurre il rapporto debito/Pil, le politiche di austerità adottate hanno provocato una stagnazione economica, con il risultato che l’Italia non è mai riuscita ad “affrancarsi” dalla sua condizione di indebitamento perenne. Il grande rischio dell’era post-Covid è che venga riproposto un nuovo ciclo di austerità fiscale. Un indirizzo controproducente, considerando che per promuovere la ripresa servirebbero invece politiche espansive e un ampio sostegno fiscale.

Una cosa dovrebbe essere chiara: tornare ad applicare le regole fiscali vigenti nell’Ue prima del Covid sarebbe una scelta fatale. Ora sono sospese, ma se venissero riattivate produrrebbero un’enorme pressione verso il consolidamento fiscale, in Italia come in altri paesi, finendo per zavorrare tutto l’impulso positivo del Recovery Fund. Negli ultimi anni alcune fasce di popolazione hanno sofferto molto la contrazione dei redditi e la disoccupazione. Per questo, se nel post-Covid i governi europei non riusciranno a elaborare un assetto fiscale e macroeconomico migliore, il rischio è molto concreto. Già prima della crisi, la Commissione europea aveva avviato un processo di revisione dei vincoli di bilancio, che però è stato congelato in primavera. Le discussioni riprenderanno. Occorre perciò chiedersi a cosa dovrebbe puntare la riforma. Gli ultimi decenni hanno dimostrato che applicare i vincoli europei in risposta a una crisi economica non fa che aggravarla e prolungarla. Paesi come Italia e Spagna hanno sperimentato le conseguenze negative di questo approccio, specie in termini di disoccupazione giovanile, disillusione dell’elettorato verso i partiti tradizionali e aumento delle tensioni sociali. I vincoli europei impongono ai paesi in crisi di ridurre la spesa pubblica e aumentare le tasse nel momento sbagliato. Così l’economia si inceppa e sfuma la possibilità di ridurre il rapporto tra Pil e debito, che si gonfia a causa della crisi. Dobbiamo evitare che questo circolo vizioso scatti anche dopo la stagione del Covid.

Negli ultimi dieci anni le politiche di austerità hanno causato un calo drastico degli investimenti. In Italia quelli pubblici netti (cioè al netto degli ammortamenti) hanno il segno meno dal 2012. Se dovesse ritornare l’austerità, il governo taglierà proprio su questo fronte o rinvierà a data da destinarsi l’impegno pubblico. È già accaduto, non solo in Italia, ma in tutti i paesi con uno stock di capitale pubblico deteriorato. Perciò, qualsiasi riforma delle regole fiscali Ue dovrà permettere agli Stati di poter aumentare gli investimenti pubblici, perché così è possibile stimolare anche quelli privati e alzare il potenziale di crescita dell’economia, essenziale per affrontare le sfide della digitalizzazione e del cambiamento climatico.

Sull’aumento del debito la politica dovrebbe essere pragmatica. Serve finanziare l’indebitamento con strumenti a lungo termine, che diano la possibilità di rifinanziarlo a tempo indefinito con l’emissione di nuove obbligazioni. Il debito rimarrebbe stabile in termini assoluti, ma in calo in rapporto al Pil. È questa la via che l’Italia e gli altri paesi dell’euro dovrebbero intraprendere. Altra austerità sarebbe del tutto controproducente. Fondamentale sarà la variazione dei tassi d’interesse dei titoli di Stato. Il virus colpisce in una stagione di tassi già molto bassi. Questa tendenza rischia di esarcerbarsi con la crisi, per ragioni strutturali: un’alta propensione al risparmio con basse dinamiche di investimento. Perciò, se la Bce riuscirà a impedire che gli investitori speculino contro l’Italia o gli altri Paesi europei sui mercati, i debiti resteranno perfettamente gestibili. Nel futuro la politica fiscale avrà un ruolo essenziale per la ripresa. Per ridurre il rapporto debito/Pil dovremo far crescere il Pil.

(traduzione Riccardo Antoniucci)