Cent’anni di Barca: ritratto del dirigente Pci che ri-vive online

Se non è tutta una vita, un archivio è almeno un’autobiografia. E tutta una vita non potrebbe esserlo comunque perché quella di Luciano Barca è una di quelle del secolo che fu forse breve, ma bruciò e fuse acciaio, speranze, gioie, dolori e crimini al fuoco della controversia, se è lecito citare qui Mario Luzi. Era nato quasi cent’anni fa esatti, Luciano Barca, da otto non c’è più e da qualche giorno il suo archivio, che lui stesso donò alla Fondazione Feltrinelli vent’anni fa, è completamente consultabile online da chiunque abbia una connessione, un computer e un po’ di curiosità: è stato digitalizzato grazie a un bando del Mibact e già al primo sguardo ci si è accorge che è una piccola miniera. Una chicca per tutte: il biglietto del febbraio 1977 con cui l’allora governatore di Banca d’Italia Paolo Baffi – erano i mesi difficili del crac dell’Ambrosiano e delle manovre di Sindona e Gelli – scrive all’allora deputato del Pci che se continua così “ci ritroveremo i ladri non solo in casa, ma in cassa”.

Giovane ufficiale di marina durante l’ultima guerra con la flottiglia X Mas, poi ammutinato contro il comandante del suo sommergibile che voleva arrendersi ai tedeschi dopo l’8 settembre, partigiano, giornalista, economista, dirigente del Pci lungo i decenni e tre segretari: Barca – sia detto en passant padre di Fabrizio, dirigente del Mef e poi ministro con Monti – non fu mai un trinariciuto custode dell’ortodossia, ma comunista sì nel senso della lealtà al partito e pure dell’aspirazione a un cambiamento che non può essere annacquato in un generico riformismo. Agire accorto, pensare estremo secondo l’espressione di Mario Tronti.

Un archivio, dicevamo, è anche un’autobiografia e così ci descrivono il Fondo Barca (che Fondazione Feltrinelli mette online assieme a quello, altrettanto prezioso, della federazione milanese del Pci) Vittore Armanni e Mariamargherita Scotti che su quell’archivio hanno lavorato per renderlo disponibile a tutti: “un’autobiografia per documenti” costruita in un dialogo continuo con quella ufficiale (Cronache dall’interno del vertice del PCI, Rubbettino, 2005), basti la sezione “diario” a confermarlo. La citazione la prendiamo da un articolo su Il Menabò di Etica ed Economia, l’associazione che Luciano Barca fondò nel 1990 e che oggi gli dedica un intero numero, pieno d’affetto, proprio nel centenario della nascita.

La vita è l’arte dell’incontro, si sa, e anche un archivio può esserlo. Non troppo casualmente abbiamo però scelto di incontrare tre documenti che ci raccontano il ruolo del dirigente politico Barca lungo i decenni. Il primo è una copia manoscritta, con tanto di correzioni, dell’articolo di Palmiro Togliatti in occasione della morte di Alcide De Gasperi: in quanto documento fisico è un inedito. Siamo nell’agosto 1954 e Barca è direttore dell’edizione torinese dell’Unità: in quel testo il leader comunista, che nessuno potrà mai definire un estimatore del capo democristiano, smorza i giudizi negativi (“l’oggettività fredda potrebbe sembrare irriverente”) e batte piuttosto su “quel che noi sentiamo di buono esserci nel suo passato e cioè l’accettazione della più ampia ed efficace unità di forze popolari per la salvezza e il bene di tutti”.

Citiamo queste righe perché, in quell’ircocervo che fu il comunismo italiano, l’esigenza di allearsi in qualche modo con le masse democristiane è il grande irrisolto, ivi compreso – e per di più già in assenza di masse – l’inserto satirico della vicenda noto come Pd. Della stagione in cui il dialogo tra Dc e Pci fu più fecondo Luciano Barca, a quell’epoca già in Direzione da tempo, fu uno degli indubbi protagonisti: per conto di Enrico Berlinguer guidò le trattative con Aldo Moro o col suo inviato Tullio Ancora dopo la svolta del “compromesso storico”, lanciato dal segretario comunista all’indomani del golpe Pinochet/Usa in Cile del 1973.

Questa fase è la più ricca di documenti, anche vista la centralità del ruolo di Barca nel momento in cui il Pci entrava nell’area di governo. Ci piace citare una nota “per Berlinguer” del 12 giugno 1974 in vista di un incontro del segretario con Moro: a parte un classico italiano degli ultimi decenni (c’era da attenuare gli effetti di una manovra restrittiva volta a riequilibrare i rapporti con l’estero) e gli eterni incompiuti (“un piano pluriennale di edilizia per gli asili nido”), è curiosa la proposta di imporre a tutti i ministeri e gli enti statali di rendere pubblico “ogni anno l’elenco di tutto il personale politico e burocratico con gli emolumenti complessivi che ognuno riceve, così da garantire un controllo pubblico sul livello degli stipendi di fatto”. Quella legge verrà approvata nel 2012 da un governo (quello di Mario Monti) in cui suo figlio Fabrizio era ministro, nato anche quell’esecutivo per fare una manovra recessiva che riequilibrasse i rapporti con l’estero.

Il terzo documento di questa breve storia è la “Nota per Berlinguer e Chiaromonte” del 22 dicembre 1978 intitolata “Stati Uniti e Sme”, cioè il sistema europeo di cambi semi-fissi che fu il padre dell’euro e in cui saremmo entrati dal 1° gennaio 1979. La nota ci svela un’altra caratteristica di Barca: la capacità di tessere rapporti, ovviamente anche in nome e per conto del partito. L’economista racconta il suo incontro con Siro De Falco, funzionario del Tesoro Usa e collaboratore dell’allora ministro Michael Blumenthal (alla Casa Bianca c’era Jimmy Carter): “È risultato dalla discussione: 1) che il governo Usa è fortemente contrario allo Sme; 2) che il governo Usa è fortemente critico verso la Germania e il Giappone ‘il cui surplus costituisce un problema altrettanto drammatico di quello dei Paesi petroliferi’; 3) che il governo Usa punta a un rilancio del Fmi e resta per ora contrario a un sistema generalizzato di cambi fissi (…)”. Non pare cambiato molto.

È appena il caso di ricordare che il Pci aveva votato contro lo Sme in Parlamento dieci giorni prima. Come risulta dai verbali consultabili all’Istituto Gramsci, durante la direzione del partito sul tema, Luciano Barca – a cui non mancavano gli argomenti tecnici – fu piuttosto sbrigativo sulle cautele della corrente “migliorista”, che preferiva l’astensione e si preoccupava che il Pci passasse per anti-europeo: “Europa o non Europa questa resta la mascheratura di una politica di deflazione e di recessione anti operaia”. Barca fu europeista, persino con qualche fascinazione federalista, però – cosa che ahinoi occorre oggi ricordare con forza – essere europeisti non può certo voler dire essere cretini o autolesionisti.

Le “case popolari”: tutto fermo dagli anni Settanta, l’housing sociale non basta

Il patrimonio sfitto è ampio, ma i prezzi degli affitti sono molto spesso superiori alle forze di chi ne ha bisogno (specie nelle città). Com’è possibile? La risposta è in un numero: secondo il report The State of Housing in the EU 2017 nel nostro Paese solo il 3,7% del patrimonio residenziale è edilizia sociale (con dei picchi sopra l’11% ad esempio a Napoli e Trieste), mentre quella percentuale sale al 16,5% in Francia e al 17,6% nel Regno Unito (il dato tedesco, 3,9%, è influenzato dal fatto che i possessori di case in Germania sono assai meno che da noi e assai meno di chi è in affitto).

Detto in altro modo, le cosiddette “case popolari” in Italia sono poche, anche per la buona ragione che non se ne costruiscono più da decenni: dati oltre 900mila alloggi di proprietà pubblica, non si quante siano le famiglie che hanno fatto domanda e sono in attesa di un’abitazione. Secondo un’indagine Federcasa-Nomisma del 2018, ad esempio, sono 600-650mila, secondo l’aggiornamento delle Regioni al 2016 circa 320mila (d’altronde non si sa nemmeno quanti siano occupati abusivamente: alcuni parlano di 30mila alloggi, altri di una media nazionale del 5,9%, cioè 50mila e più).

In termini di teste si stima che siano circa 1,7 milioni i residenti in Italia che avrebbero bisogno di una casa. Questa domanda non soddisfatta dallo Stato, a cui va aggiunta quella di chi è troppo povero pure per le case popolari, si riversa sul mercato privato – che si è peraltro rinunciato a regolare anni fa – spingendo in alto i prezzi anche in zone e quartieri non di pregio: le famiglie a basso reddito pagano troppo per affittare una casa e alla prima difficoltà non sono più in grado di tener dietro alle mensilità.

E dire che l’Istituto nazionale case popolari (Iacp) era stato fondato addirittura nel 1903 e che nel secondo dopoguerra la questione abitativa fu subito al centro dell’agenda. L’allora ministro del Lavoro Amintore Fanfani lanciò il suo piano di edilizia pubblica – finanziato anche dal Piano Marshall nonostante la contrarietà degli Usa – nel 1949. Poi fu il turno della Gescal (GEStione CAse per i Lavoratori), un fondo alimentato da contributi prelevati in buste paga sulla cui gestione non sono di certo mancate le ombre. In sostanza dagli anni 70 non vengono lanciati grandi piani di edilizia pubblica e le ultime bave di quelli passati si sono esauriti ormai da ben oltre vent’anni, proprio nel momento in cui il patrimonio immobiliare e la competenza sulla materia veniva affidata a Regioni ed enti locali. A peggiorare la situazione l’alienazione di massa delle case popolari (-22%) e lo stato spesso disastroso di ciò che resta (le famiglie residenti, per dirne una, spendono il 10% del loro reddito in bollette energetiche).

Il disastro dei “Piani di zona” e quei pochi esperimenti riusciti di housing sociale (che oggi si porta molto) non sono bastati a rispondere al diritto costituzionale alla casa: l’housing sociale non è edilizia pubblica residenziale (Erp) e soddisfa fasce di mercato più alte dei “poveri”.

Gli aiuti all’affitto non bastano: ora riparte la guerra degli sfratti

Per aiutare le famiglie di Acerra (Napoli) in difficoltà con il pagamento dell’affitto serve un milione e 182mila euro. Quanti soldi ci sono in cassa? 147mila euro. A Torre del Greco servono 2milioni e 452mila euro. Stanziati? 327mila. Così praticamente in ogni Comune d’Italia. In Campania nel 2020 sono arrivate 65mila richieste di aiuto sugli affitti. Nel Lazio altre 85mila. A Rimini 150 delle 1300 famiglie che hanno chiesto di accedere al “sostegno affitto” sono state escluse. Fra i vari motivi anche il fatto che hanno un Isee inferiore a 3.000 euro. Sono i cosiddetti indigenti. Sembra un controsenso ma sono troppo poveri per partecipare ai bandi.

Così del resto funziona in Lombardia, dove la Regione nell’ultima riforma di settore ha messo un tetto di accesso alle case popolari del 20% per i più poveri. Solo a Milano sono arrivate a maggio 17mila richieste di sostegno affitto, ma le risorse bastano a coprire al massimo un terzo della platea, nonostante siano state incrementate nei mesi.

L’Unione Inquilini stima che a causa anche della pandemia arriveranno tra le 650mila e le 800mila richieste di aiuto. Numeri drammaticamente in linea con quelli di chi sta perdendo – già oggi – il lavoro. In un mercato, quello delle locazioni, dove statisticamente vivono le famiglie più fragili e numerose e che conta in tutta Italia 4,2 milioni di nuclei, di cui un milione nelle case popolari.

Tra i più ricchi quasi nessuno vive in affitto: secondo un’indagine di Bankitalia solo il 2,7% mentre quasi la metà del quintile di nuclei più poveri (47,3%). Per Nomisma la quota di famiglie affittuarie in disagio economico – il cui canone di affitto supera il 30% del reddito con picchi del 50-60 – è passata dall’11% del 1993 al 33% del 2016. Numeri che fanno paura di fronte alla crisi sanitaria ed economica del Covid.

C’è il blocco degli sfratti? Sì, ma non per tutti. La signora L.R.B. di Milano dovrà comunque andarsene di casa e passerà un Capodanno amaro. Il 1° gennaio deve lasciare l’appartamento di via Villoresi dove abita. Ha ricevuto la lettera di disdetta del contratto per finita locazione dalla proprietà: Antirion, la sgr che attraverso una serie di fondi gestisce parte del patrimonio immobiliare della Fondazione Enpam – la cassa previdenziale di medici e odontoiatri. “A 11 affittuari non saranno rinnovati i contratti” fa sapere Antrion al Fatto Quotidiano. Per due nuclei la scadenza è imminente. Per le altre famiglie dell’edificio (25 appartamenti, 9 sfitti), l’ora X arriverà più tardi: fra l’anno prossimo e il 2027. Perché? Quell’edificio deve essere “valorizzato”. Ma non in chiave turistica (airbnb, hotel, locazioni turistiche etc.) come pure suggerirebbe il nome del fondo immobiliare coinvolto, cioè “Antirion Global – Comparto Hotel”.

C’è invece chi ha minacciato il governo proprio di una “deriva” turistica del mercato degli affitti. Chi? Giorgio Spaziani Testa. Presidente di Confedilizia, storica organizzazione dei proprietari di casa. Lo ha fatto perché il M5S vuole estendere a causa della pandemia il blocco degli sfratti fino al 31 marzo 2021. Vicino al centrodestra, Spaziani Testa ha detto che ora “i proprietari hanno capito che non possono fidarsi dello Stato” e “quando torneranno in possesso dei loro appartamenti si orienteranno verso i b&b per turisti” guardandosi bene dagli affitti a lungo termine.

Non un grande suggerimento imprenditoriale, visto che la crisi sta affossando il settore delle locazioni turistiche: un colosso come Halldis – società nella galassia di Leonardo Ferragamo, 2mila appartamenti in tutta Europa per affitti brevi – a settembre ha dovuto portare le carte in tribunale chiedendo di essere ammessa al concordato preventivo. Addirittura la Caritas ha risposto a distanza a Confedilizia. Ricordando nel “Rapporto 2020 su povertà ed esclusione sociale” che forse non sono a conoscenza dell’articolo 42 della Costituzione: quello che determina per la proprietà privata anche i “limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.

C’è di più. Quello che Spaziani Testa non dice è che, in realtà, il “blocco degli sfratti” c’è da più di 20 anni. Lo dicono i numeri. Nel 2019 le sentenze emesse sono state 48.543; le esecuzioni richieste 100.595; gli sfratti eseguiti 25.990. All’appello degli sfratti eseguiti ne mancano circa 23mila rispetto alle sentenze e addirittura 75mila rispetto alle richieste di esecuzione. Nel 2019 non c’era alcuna sospensione. L’anno prima? Sentenze emesse 56.140; esecuzioni richieste 118.823; sfratti eseguiti 30.127. Perché accade? Risposta banale per un problema complesso: ce ne sono troppi. A volte non bastano nemmeno le forze di polizia per allontanare fisicamente le persone dalle case. Troppi – e al 90% per morosità, l’incapacità cioè di pagare l’affitto – esplosi dal 1998 in poi. Quando gli affitti sono stati liberalizzati abolendo l’equo canone senza pensare a quasi nessuno strumento di tutela e bloccando gli investimenti in edilizia pubblica.

In compenso per i proprietari di case sono arrivate diverse misure fiscali: per cominciare è più conveniente portare in detrazione gli interessi sul mutuo della casa che non il canone d’affitto; ma soprattutto la cedolare secca, che Confedilizia vorrebbe estendere anche agli immobili commerciali. È la tassa piatta al 21 per cento sui redditi da locazione (al 10% per chi applica un canone concordato, più basso) voluta nel 2011 dal governo Berlusconi. L’aliquota è la stessa, qualunque sia il numero di appartamenti che si affittano. “È ingiustificata perché lede il principio della progressività della tassazione e mette sullo stesso piano chi ha due case e chi ne ha venti, un regalo alla rendita” dice Ermanno Ronda, segretario del Sicet-Cisl di Milano.

Per fare un confronto basti pensare che un lavoratore che dichiara 30mila euro l’anno si vede applicata un’aliquota marginale Irpef del 38%. Chi invece li guadagna non lavorando ma affittando tre case, del 21%. L’ultima volta che il ministero dell’Economia nel 2017 ha stimato chi ha beneficiato di più dalla cedolare secca ha scritto che “la perdita di gettito è stimata in circa 2,2 miliardi; i maggiori risparmi di imposta (1,86 miliardi) sono fruiti dal decimo di popolazione relativamente più ricco”.

Il presidente di Confedilizia difende la tassa piatta, dicendo che serve a contrastare gli affitti in nero e mostrando come il gettito fiscale sia andato aumentando anno dopo anno. Ha ragione. Si dimentica di dire che nella relazione tecnica che accompagnava la genesi della nuova imposta si stimava il gettito atteso per il primo anno in 2,7 miliardi di euro e in 3,9 miliardi quello per i successivi tre anni. I dati delle entrate tributarie mostrano invece che la quota attesa per il primo anno è stata raggiunta solo nel 2018, perdendo quindi un paio di miliardi l’anno fino al 2018, a favore dei più benestanti.

Già, perché bisognerebbe distinguere anche fra proprietari e proprietari. Secondo uno studio pubblicato da Lavoce.info e condotto dal professor Sergio Beraldo (Economia politica all’Università “Federico II” di Napoli) e da Giovanni Esposito (commercialista e revisore contabile) solo tra il 2011 e il 2017 la tassa è costata alle finanze pubbliche 11,2 miliardi di euro in mancato gettito. Uno sconto fiscale che è finito nelle tasche del quarto percentile più ricco dei contribuenti.

Per la Corte dei Conti – così nella Relazione sul Rendiconto Generale dello Stato 2014 – in effetti sono meno dell’8 per cento i contribuenti che affittano appartamenti nella classe di reddito fino a 26.000 euro annui. Diventano il 25% sopra i 75.000 euro all’anno.

Certo durante la più grande crisi sociale dal dopoguerra si potrebbe discutere di come armonizzare questo frastagliato quadro (fiscale e non solo, sugli affitti e non solo). Di sicuro è più facile chiedere che 60mila famiglie l’anno – e almeno 150mila persone – vengano sfrattate di casa e messe per strada.

Cultura Capitale: sgomberi, sfratti e revisionismi a destra

Ogni secolo ha la “questione romana” che si merita. Per noi, oggi, quella questione riguarda il conflitto tra giustizia e legalità, tra cultura e rendita, tra città e mercato: un conflitto che, naturalmente, attraversa oggi l’intero Paese, ma che a Roma si fa più violento, dunque più leggibile. In queste ore si sono intrecciate tre notizie che illuminano questo viluppo. La prima, la più grave, riguarda lo sgombero del Cinema Palazzo, ordinato dal nuovo prefetto di Roma (già capo di gabinetto di Matteo Salvini). Prima di leggerla sui giornali, l’ho appresa da una mail di Nino Criscenti, uno dei grandi giornalisti storici della Rai: “Una brutta, triste notizia romana: è stato sgomberato il Cinema Palazzo. Occupato 10 anni fa, contro il progetto di una sala Bingo, era diventato il punto di riferimento del quartiere, quasi un’istituzione, aperta a tutti, dai bambini agli anziani, centro culturale, un’idea di vita, un’idea di città, una di quelle iniziative che possono fare di un quartiere una comunità. Sgombero reso ancora più triste dalla violenta carica della polizia contro un pacifico corteo di protesta. La cosa peggiore non è neppure questa, ma il fatto che lo sgombero è stato accoppiato a quello di un pub abusivo di Forza Nuova. Nella stessa notte. Come nell’età dorotea degli opposti estremismi”.

Parole di un pacatissimo ottantenne: che forse bastano a spiegare quanto fosse incomprensibile il tweet in cui la sindaca Raggi ringraziava le forze dell’ordine, mettendo quel duplice sgombero sullo stesso piano, e culminando nel monito: “A Roma le occupazioni abusive non sono tollerate. Torna la legalità”. Anche per lo sgombero del Teatro Valle (agosto 2014) si invocò la legalità: che si è tradotta nel più completo vuoto. Un deserto che ha preso il posto di una straordinaria stagione intellettuale e civile. Laddove il Valle, e oggi il Cinema Palazzo, attuavano invece la Costituzione: che prevede (art. 42) che la proprietà privata debba avere un limite nell’utilità sociale, e che pone la cultura a valore fondamentale del nostro stare insieme (art. 9). Almeno dai tempi in cui Calamandrei prese la parola al processo a Danilo Dolci (1956) sappiamo che la legalità del Codice penale può non coincidere con la legalità della Costituzione, cioè con la giustizia.

E a Roma alcune delle realtà più vive e più rivoluzionare per la cultura (si pensi allo straordinario Maam, il Museo dell’altro e dell’altrove di Metropoliz) sono nate, non per caso, in spazi occupati: sottratti al mercato, in una sorta di legittima difesa di un’idea di città, e di cultura. Già, ma quale idea di cultura abbiamo?

La seconda notizia riguarda un altro sfratto, appena meno violento: quello che il Comune di Roma aveva intimato al glorioso (ed efficientissimo) Istituto Storico per il Medio Evo (fondato nel 1883), che ha sede (dal 1924) nel complesso borrominiano della Vallicella. Di fronte all’insurrezione compatta degli storici italiani, la sindaca Raggi è stata costretta a un imbarazzante (quanto necessario) dietrofront: e per il momento l’Istituto sembra salvo. Ma resta la domanda: che idea ha della cultura, e dell’uso dello spazio pubblico della città, un’amministrazione che pensa di liberarsi di un secolare luogo di produzione della conoscenza come ci si libera di una fastidiosa zanzara? C’è ancora posto per la cultura nelle nostre città, o tutto – anche i beni comuni, come il patrimonio monumentale e pubblico e la conoscenza stessa – si misura sul metro della rendita?

Terza notizia. La Biblioteca Nazionale Centrale di Roma emana un incredibile comunicato in cui celebra l’acquisizione del fondo archivistico di Pino Rauti, senza una riga di contestualizzazione storica e democratica di quella torva figura di fascista, repubblichino, accostato ad alcune delle più efferate stragi della notte della Repubblica. Un fondo, poi, confezionato dalla famiglia (la cui commozione veniva narrata dallo stesso comunicato), e dunque un’avvelenata polpetta autoapologetica: forse da vagliare comunque, per sottoporlo in silenzio alla più affilata critica storica, ma certo non da legittimare come una conquista culturale. Dopo la denuncia dell’Anpi, della Cgil e di molti intellettuali, il ministro Dario Franceschini è intervenuto, e l’osceno comunicato è stato rimosso. Ma l’acquisizione acritica del fondo resta, e se la Biblioteca Nazionale di Roma ha completamente smarrito il senso costituzionale della cultura – che è esattamente quello di un antidoto contro ogni fascismo, e di uno strumento per il pieno sviluppo della persona umana – qualche domanda più generale dobbiamo porcela.

Nella prossima campagna elettorale romana si parlerà, immancabilmente, di cultura in termini di intrattenimento e fatturato: ma la vera discussione dovrebbe essere sul ruolo della cultura affinché Roma torni ad essere una città, una comunità. E una comunità giusta, e inclusiva. Perché se Roma non sa più cosa sia la cultura, è Roma a non esserci più.

La sai l’ultima?

 

Roma Anche i rom del campo nomadi sfottono i due vigili urbani a luci rosse

La storia dei vigili urbani a luci rosse di Roma è a metà tra romanzo hard e spy story, con qualche notevole risvolto comico. La riassumiamo per i distratti: una coppia di agenti della polizia di Roma Capitale si fa intercettare mentre fa sesso nell’auto di servizio durante l’orario di lavoro. È porno, ma è anche un giallo: “sembrerebbe infatti – scrive Leggo – che l’atto sessuale consumato durante il turno di servizio oltre ad essere stato ‘captato’ dalla radio ricetrasmittente digitale di cui sono dotate le ‘volanti’ dei vigili, sarebbe stato anche oggetto di una intercettazione ambientale abusiva, registrata con una penna all’interno della quale c’era una microspia”. Se ne sta occupando la magistratura. A noi piace ricordare che la pattuglia dei vigili sporcaccioni era in servizio di fronte al campo nomadi di Tor di Quinto e che gli stessi rom abbiano commentato l’episodio con gran divertimento: “Ma come, non dovevano controllare noi? A saperlo, che facevano zum zum…”.

 

Parma Il consigliere di Fratelli d’Italia mostra il sedere mentre i suoi colleghi discutono di violenza sulle donne

L’ennesimo fine intellettuale di Fratelli d’Italia che si guadagna l’attenzione della stampa si chiama Priamo Bocchi, è il coordinatore del partito della Meloni a Parma. È uscito dall’anonimato con un gesto di notevole eleganza: mentre in consiglio comunale si parlava (su Zoom) di violenza sulle donne, il nostro ha voluto testimoniare la sua sensibilità sull’argomento pubblicando un fotomontaggio di un culo maschile accostato alla faccia dei consiglieri comunali impegnati nel dibattito. Non pago, li ha presi ulteriormente per i fondelli, sostenendo poi che fosse colpa di un “hacker” che si era infilato nei computer dell’amministrazione. Così il Bocchi, mostrando tutta la sua capacità espressiva, è riuscito a finire sui giornali e attirare un po’ di attenzione su di sé. C’è però un’altra ipotesi suggestiva, potrebbe essersi trattato di un grande malinteso: e se quella fosse davvero la sua faccia?

 

Torino Il fair play del ladro: fa i complimenti ai poliziotti che lo stanno arrestando

Un grande gesto di fair play: a Torino un ladro si è complimentato vivamente con i poliziotti che lo stavano arrestando. Lo racconta Torino Today: “Tutto nasce dalla telefonata alla polizia fatta dal custode di una struttura ricettiva, che vede un uomo vestito di scuro all’interno del residence. Attraverso l’impianto di videosorveglianza, il custode segue ogni movimento del ladro. Gli agenti, una volta sul posto, notano subito la porta scardinata della reception. E così decidono di non perdere tempo e di intervenire, proprio mentre un 48enne italiano stava nascondendo nella propria giacca oltre 500 euro in contanti e un telefono aziendale. Quando li ha visti invece di fuggire si è ricomposto e si è consegnato, facendo loro i complimenti per essere riusciti a stanarlo”. Altro dettaglio notevolissimo, il criminale gentiluomo è stato arrestato per furto ma gli hanno fatto pure la multa “perché fuori dal proprio domicilio senza valido motivo”: ha violato il Dpcm di Conte.

 

Imola Compra un involtino primavera e ci trova dentro un pezzo di dito

In genere le sorprese sono nei biscotti della fortuna, con i loro piccoli messaggi di auspicio per il futuro, scritti spesso in un linguaggio imperscrutabile. Stavolta a un amante della cucina cinese è capitata un’esperienza un po’ meno innocente: ha trovato un dito – umano – dentro un involtino primavera. Un pezzetto di falange con unghia incorporata. Yum yum. Succede a San Lorenzo di Lugo, nel Ravennate. Il saporitissimo involtino era stato acquistato in un supermercato di Imola. “Il caso – scrive Agi – ora è in mano ai militari che hanno disposto analisi accurate; è stato interessato anche il Nas. Per la conferma della natura umana del ritrovamento è atteso l’esito di un test del dna. Secondo quanto appurato, il prodotto proviene da una azienda spagnola. Le indagini sono in corso, la procura di Ravenna ha aperto un fascicolo”. Quando si dice un bell’involtino condito.

 

Minnesota Uno scoiattolo si ubriaca mangiando pere fermentate e inizia a barcollare

Per la serie i video che commuovono il web, sta spopolando in questi giorni il filmato di uno scoiattolino che si ingozza di pere fermentate e poi comincia a manifestare i segni tipici di una sbronza colossale. Lo scoiattolo alcolista ha realizzato il suo piccolo show a Minnesota, negli Stati Uniti. Nel video, spiega Sky, “si vede il roditore, visibilmente intontito, piegarsi di lato mostrando di avere dei seri problemi di equilibrio, uno dei classici effetti collaterali della sbornia. Per addolcire gli effetti dell’ubriacatura allo scoiattolo è stata offerta una razione di mais e semi”. La ciotola con le pere fermentate, a quanto si apprende, non era stata piazzata lì per far ubriacare il roditore, ma era destinata a un maialino domestico (il quale si suppone sia in grado di reggere l’alcool con più dignità). Lo scoiattolo rosso però è arrivato prima del suino e si è riempito la pancia al posto suo. Ora l’hangover non glielo toglie nessuno.

 

Austria La città di Fucking cambia nome: dal primo gennaio si chiamerà Fugging

Nostro malgrado ospitiamo una notizia che riempie il cuore di tristezza: il paesino austriaco di Fucking (a 30 chilometri da Salisburgo) ha deciso di cambiare nome. Per chi non ha familiarità con la lingua inglese, occorre specificare che fucking è la più abusata parolaccia del mondo anglosassone. Non è il caso di tradurla, anche per evitare una complessa dissertazione filologica sul significato letterale, ma per capirci: è utilizzata praticamente come intercalare, al pari dell’italiano “cazzo”. Detto ciò, Fucking in Austria tra poco non esisterà più: dal primo gennaio 2021 si chiamerà Fugging, l’ha deciso il consiglio comunale. I fuckingesi – ci piace pensare che si chiamassero così – hanno deciso di rinnegare la propria storia secolare e di arrendersi all’imbarazzo. Da troppo tempo ormai, specie dalla molesta diffusione del selfie, la cittadina di 100 anime era frequentata da visitatori che si fermavano al confine del paese solo per fare una foto con il cartello d’ingresso. Nessuno voleva davvero visitare Fucking, ma solo prendersi gioco di lei.

 

Livorno Entra in Panda nei corridoi dell’ospedale e parcheggia l’auto davanti al reparto di Radiologia

Meraviglia a Livorno: un genio locale ha parcheggiato la sua Panda all’interno dell’ospedale. Cioè proprio dentro: in corsia. Nello specifico: nel corridoio all’ingresso del reparto di Radiologia. Con la stessa naturalezza con cui è arrivato, e n’è andato appena ha visto arrivare la vigilanza: ha riattraversato il corridoio, è tornato in strada ed è fuggito via. Lo racconta Il Tirreno: “Quando medici e infermieri hanno visto l’utilitaria parcheggiata a fianco alle vetrate non credevano ai propri occhi: una cosa del genere davvero non l’avevano mai vista. Non si sa se il conducente abbia accompagnato un parente oppure dovesse recarsi personalmente in qualche reparto. Quel che è certo è che era entrato dal varco di via Gramsci dichiarando di dover andare al pronto soccorso. Ma, oltrepassato il pronto soccorso, si è infilato dentro i corridoi, attraverso un accesso carrabile riservato alle ambulanze, ha percorso alcune decine di metri con l’auto, ha svoltato a destra ed è arrivato quasi davanti all’entrata dell’Utic, della Rianimazione e della Radiologia”.

“Ci restano dieci anni: il futuro ci riserverà una vita da niente”

L’anno che verrà? “Sarà peggiore di questo. E il successivo peggiore del prossimo”. Tra i giovani e brillanti pensatori, Leonardo Caffo rientra di diritto nella schiera degli apocalittici. Interseca filosofia e statistica, lo spazio, il tempo e la capacità di reazione dell’uomo al cambiamento. Dice: abbiamo raggiunto l’effetto soglia.

Caffo, la fine del mondo è vicina?

La fine di questo mondo sì. Che non è un modo di dire, ma un catasto di eventi che, messi uno sull’altro, faranno sprofondare la baracca nella quale ci siamo rifugiati”.

In effetti Michel Osterholm, del team di epidemiologi incaricati di governare il Covid da Joe Biden, annuncia che l’epidemia che seguirà a questa sarà ancora peggiore.

Basta sfogliare Nature o Science, leggere i rapporti della Nasa e dell’Onu per capire che sono attivi, non meglio definiti, una cinquantina di virus la cui capacità letale è del tutto o parzialmente sconosciuta. Perciò parlo del Covid come di un terremoto epistemiologico.

Terremoto epistemiologico.

La distruzione improvvisa di tutte le cose che conoscevamo e di come le conoscevamo. Questo evento così catastrofico accorcia le nostre difese di immunità da eventi che prima d’ora venivano relegati ai territori del terzo mondo, lontani, affamati e barbarici. E accorcia anche le difese della natura dall’aggressione umana. I cambiamenti climatici tra dieci anni non ci daranno tregua.

Le guerre per l’acqua sono una previsione unanime.

L’acqua, l’aria. I combustibili fossili che inquinano il mondo sono un enorme e generoso viatico per il Covid, come s’è appena visto, e sono distruttori di enormi ricchezze ambientali. Siamo in grado di capire che l’economia, per come noi la intendiamo, debba soccombere davanti ad altre urgenze?

Lei risponde di no.

Risponde lei di sì? Il nostro contatto/contagio col mondo animale è tale che il male che procuriamo a noi stessi è nella terribile contabilità di queste ore. Sappiamo anche che se vogliamo far mangiare carne ai quasi otto miliardi di abitanti della terra distruggeremo l’ecosistema. Esiste un governo che possa essere nelle condizioni di dichiarare guerra al consumo di carne?

Dovremmo divenire tutti vegetariani secondo lei.

A me piace la carne, non ne faccio questione di sensibilità o gusto personale. Ma so che il suo consumo così massivo, frutto di allevamenti che avvelenano l’aria, ci farà finire, in un altro modo, col culo a terra.

Lei dice che non più di dieci anni ci restano da vivere.

Ci restano da vivere nel modo in cui sappiamo. Mica sprofondiamo in un buco nero, mica verremo inghiottiti.

Cosa accadrà?

Regrediremo progressivamente e – con ogni probabilità – disordinatamente.

Pensavamo che il vaccino ci liberasse dall’angoscia.

Invece non è nemmeno chiaro il tempo di difesa dal virus, anzi sembra certo che sarà limitato e parziale.

Mascherine a tempo indeterminato.

Diciamocelo francamente: sarà una vita di merda.

Quindi chiudiamo bottega?

La chiuderemo di sicuro se ci incaponiremo nell’idea che il nostro stile sia immutabile. Dovremo abbandonare la vita verticale, le ricchezze o le sicurezze dei nostri genitori. Cambieremo metro di giudizio sul futuro e sul passato. Domani non sarà per forza meglio di oggi. A scuola dovremo imparare, dopo l’aritmetica e la geometria, a inchiodare una staffa, piantare un seme in terra.

Qua si parla di panettoni e sci.

Chi produce i panettoni cosa deve chiedere se non che gli sia assicurato un modo per venderli? Sa fare panettoni, ha fatto per tutta la vita panettoni e ha il panettone in testa. Come noialtri pensiamo, nonostante tutto, al pranzo di Natale. È l’illustrazione della nostra disabilità a immaginare quel che verrà.

Non ce la possiamo mai fare.

Non abbiamo molto tempo per imparare: dieci anni. Ricordiamocelo.

“Così spolparono Alitalia per regalarla agli arabi”

Prima di vendere le quote, nel 2014, Alitalia aveva svalutato in maniera “non corretta” le quote di una sua partecipata, Alitalia Loyalty, risultando così più appetibile all’acquirente Ethiad. Tutto ciò mentre l’azienda degli Emirati Arabi produceva verso la compagnia di bandiera italiana fatture probabilmente gonfiate. E mentre si accavallavano gli extra-costi, fra straordinari considerati in quota cassa integrazione – e dunque pagati dai contribuenti – costi di catering abnormi e lussuosi voli di Stato sull’Airbus 340-500, noto come “Air Force Renzi”. Sono alcune delle conclusioni di Ignazio Arcuri e Stefano Martinazzo, nelle loro 526 pagine di relazione tecnica consegnata alla Procura di Civitavecchia e, nelle scorse settimane, alla Corte dei Conti di Roma, che indagano sul crack di Alitalia, nonostante il salvataggio “tentato” dall’ex premier Matteo Renzi insieme a Luca Cordero di Montezemolo.

L’attuale leader di Italia Viva non è indagato, a differenza degli ex vertici di Alitalia, da Montezemolo agli ex amministratori delegati Silvano Cassano e Marc Cramer Ball, fino all’ex numero uno di Etihad, James Hogan e al commissario liquidatore Enrico Laghi. La relazione, con diversi approfondimenti, sarà oggetto di un’inchiesta di Report che andrà in onda questa sera su Rai 3. I periti della Procura si concentrano in particolare sul valore delle partecipazioni di Alitalia Sai in Alitalia Loyalty, che si occupa del programma di fidelizzazione clienti MilleMiglia. “A fronte di un fair value (valore di riferimento, ndr) iscritto nel bilancio separato di Alitalia Sai pari a 150 milioni di euro – si legge – nel bilancio consolidato la medesima partecipazione è stata iscritta a un fair value 11 volte inferiore, pari a 13,3 milioni di euro)”. Così Alitalia si è resa appetibile, sia economicamente sia per il “raggiungimento degli obiettivi del piano industriale”. Un’operazione contabile avallata da Enrico Laghi, che ne giustificava i termini a maggio 2014, nonostante la vendita fosse già stata decisa ad aprile 2014 e le cui argomentazioni “non appaiono affatto condivisibili”. Nella relazione si parla anche di Laghi e del suo presunto conflitto d’interessi. Era consigliere di Alitalia Cai e presidente di Midco (che deteneva il 51% di Alitalia Sai) e “collaborava con i management Alitalia Cai e Deloitte”, come emerge da alcune e-mail agli atti dei pm.

La Procura ha acquisito anche una relazione dell’Ispettorato del Lavoro – svelata da Report – che ha portato a un’indagine parallela per truffa. I sindacati nel luglio 2017 avrebbero firmato un accordo “segreto” con l’azienda ottenendo 3.432 giornate annue di permesso per ogni sigla sindacale. In pratica, i piloti sindacalisti avrebbero guadagnato fino a 3.000 euro in più dei colleghi che volavano. Tutto ciò mentre Alitalia Etihad veniva multata dagli stessi ispettori del Lavoro per non aver consentito la fruizione di riposi per il personale navigante per circa 160.000 giornate. “Come se in un’azienda metalmeccanica a un lavoratore invece di fargli fare il giorno di riposo il giorno festivo lo mettiamo in cassa integrazione, quindi il suo costo lo scarichiamo sui contribuenti”, ha dichiarato Antonio Amoroso, segretario nazionale Cub Trasporti.

In quel momento, Renzi era molto attivo sul fronte Alitalia, e aveva incontrato più lo sceicco Mohamed Byn Zayed, riferisce Report. Gli arabi entreranno anche in Piaggio Aerospace, “azienda strategica per la difesa italiana” fallita quattro anni dopo. Una vicenda “fotocopia di Alitalia”, secondo Report. Piaggio Aerospace era bramata dagli arabi perché poteva realizzare un drone da guerra. Operazione avallata dall’ex ministra della Difesa, Roberta Pinotti. Un prototipo del drone cadde poi nel mare della Sicilia, secondo una fonte della Difesa fu poi “sacrificato”. E ci sarebbe anche un viaggio pagato da Piaggio Aerospace a Luca Lottti, che però non ricorda. Tutto ciò, mentre Alitalia acquistava da Ethiad l’ “Air Force Renzi”, l’aereo di Stato valutato 167 milioni di euro in leasing per 8 anni ma, conferma Report “neanche nella disponibilità degli arabi, che lo avevano riscattato dalla società Uthl con sede nelle Isole Cayman”. Valeva molto meno.

Va al Tribunale dei ministri la denuncia di Fd’I a Conte

Nei prossimi giorni un fascicolo che riguarda il presunto uso della scorta da parte della compagna del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, Olivia Paladino, arriverà al Tribunale dei ministri. La Procura di Roma infatti ha aperto un’indagine per peculato. L’inchiesta è nata dalla denuncia dell’esponente di Fratelli d’Italia Roberta Angelilli. Nell’esposto si fa riferimento a un articolo de La Verità dello scorso 30 ottobre. Sul quotidiano si legge di un “parapiglia” scoppiato, il 26 ottobre, davanti a un supermercato a due passi dall’abitazione della Paladino, nel pieno centro di Roma.

Quel giorno c’era l’invitato de Le Iene Filippo Roma che voleva fare alcune domande alla donna. La Paladino così si rifugia nel negozio. Poco dopo, scrive il quotidiano, “sono intervenuti alcuni soggetti che avevano tutta l’aria di far parte della scorta del presidente del Consiglio”. Su questo aspetto si concentra la denuncia della Angelilli che chiede alle autorità di svolgere accertamenti.

Trattandosi di possibili reati ministeriali a carico del presidente del Consiglio si applica la procedura che affida le indagini al Tribunale dei ministri, che dovrà verificare eventuali violazioni nell’impiego della scorta. Nei prossimi giorni, dunque, prima che il fascicolo venga inviato dalla Procura di Roma al Tribunale dei ministri, Conte potrebbe essere iscritto nel registro degli indagati con l’ipotesi di peculato. Nel frattempo è stato svolto un accertamento preliminare: due giorni fa Carlo Villani, il pm titolare del fascicolo, ha sentito come persona informata sui fatti l’inviato de Le Iene, Filippo Roma, il quale ha ricostruito cosa è avvenuto quel giorno. Ha detto di aver atteso la donna vicino casa dalle 7 del mattino fino alle 11, quando è uscita. Le ha fatto una domanda, ha spiegato, e lei si sarebbe rifugiata nel supermercato. Il servizio del programma televisivo poi non è andato in onda.

Sulla vicenda ci sarebbe anche un’informativa di servizio inviata al Viminale. Nella relazione consegnata al ministero dell’Interno viene spiegato che la scorta di Conte quel giorno era in “osservazione e controllo al di sotto dell’abitazione della compagna del premier”, in quanto Conte si trovava nell’appartamento della Paladino, e i poliziotti attendevano l’uscita imminente del premier. Secondo quanto ricostruito nell’informativa, nel supermercato di fronte l’abitazione c’è stato un momento di concitazione che ha richiamato l’attenzione di un poliziotto della scorta che, avvicinatosi, è stato chiamato in causa da un addetto del supermercato perché una donna era in difficoltà. Si trattava, appunto, di Olivia Paladino.

Il poliziotto ha dunque favorito l’uscita della donna dal supermercato, ma Paladino avrebbe fatto rientro a casa a piedi senza utilizzare l’auto blu del presidente del Consiglio. Nella relazione sarebbe inoltre scritto che non c’è stato alcun intervento del premier quel 26 ottobre: Conte non venne informato in tempo reale, ma sarebbe venuto a conoscenza della vicenda solo successivamente, informato dalla stessa compagna e dagli uomini della scorta.

Shopping: cambia il colore e tornano gli assembramenti

La pattuglia procede compatta sotto i portici di via Po da piazza Vittorio verso piazza Castello: sette/otto agenti in tenuta “anti-assembramento” pronti a scatenar sanzioni alla prima trasgressione. Ma immaginare multe – in questa prima domenica “arancione” di Torino di negozi aperti – è davvero difficile. Il compito dei tutori dell’ordine, ieri, è stato come non mai fedele al proprio nome, perché l’unico assembramento vietato poteva solo essere quello disordinato. Quindi, tutti in fila, ordinati, di fronte all’ingresso dei negozi. E pazienza se davanti alla Rinascente di via Lagrange, alle 5 del pomeriggio, la fila arrivasse quasi in piazza Cln, a un centinaio di metri dall’ingresso.

Così a Torino, così a Milano. Piemonte e Lombardia tornano arancioni, i negozi rialzano le saracinesche, l’ultimo weekend di novembre è ancora buono per il Black Friday ed è già in vista del Natale; aggiungiamo quasi un mese di mini lockdown, sole e temperatura quasi mite e il gioco è fatto: la folla era scontata e così è stato.

A Torino ci ha messo la faccia direttamente la sindaca Chiara Appendino: “Oggi è una bella giornata – ha scritto sui social accompagnando il post con una foto in compagnia della figlia dalla centrale via Garibaldi – dopo settimane di limitazioni, riaprono i negozi e sono consentiti gli spostamenti all’interno del proprio comune. Due raccomandazioni – conclude – supportiamo i negozi di vicinato e, nel contempo, non abbassiamo la guardia. Si può passeggiare e fare shopping in modo responsabile”.

I commenti si dividono equamente tra applausi e pernacchie, con una particolare incidenza di abitanti di alcuni dei 312 Comuni della città metropolitana di Torino, impossibilitati a raggiungere il centro del capoluogo, e di genitori dei 79.995 ragazzi piemontesi in età scolare di seconda e terza media che non potranno ancora tornare in classe. Con una decisione che stride non poco con la folla domenicale vista ieri, la giunta regionale del Piemonte di Alberto Cirio ha infatti deciso di prolungare la didattica a distanza nonostante l’arancione consenta la riapertura delle medie. Come a dire, negozi sì, aule non ancora.

In Lombardia si è fatto sentire il presidente della regione Attilio Fontana, la cui giunta più di ogni altra si è fatta alfiere del ritorno allo shopping: “Visto che si fa una sorta di dimostrazione di fiducia nei confronti dei cittadini – dichiara mentre le immagini della folla di Corso Vittorio Emanuele a Milano fanno il giro d’Italia – l’invito è ripagare questa dimostrazione di fiducia. Perché – aggiunge – non si devono diffondere errate convinzioni che sia finito tutto. Stiamo superando un momento difficile grazie a comportamenti seri, ma finché non ci sarà un vaccino dobbiamo convivere con questo virus. I nostri commercianti – conclude non prima di aver invitato a “comprare italiano e lombardo” – hanno sofferto molto in queste settimane, la chiusura completa ha creato un po’ di preoccupazione. Ci avviciniamo al Natale e riaprire credo sia una cosa positiva”.

Nella speranza che il coronavirus non sia dello stesso avviso, si registra l’ovvia soddisfazione di Confesercenti: “Non c’è ristoro che tenga – commenta il presidente dei commercianti torinesi Giancarlo Banchieri – per un negoziante fondamentale poter tirare su la saracinesca ogni mattina. C’è soltanto da sperare che questi primi segnali positivi si consolidino. Bisogna rispettare le norme di sicurezza o si torna indietro”.

 

Ristori-4, via agli 8 miliardi. Natale e il 31 col coprifuoco

Il decreto che ha diviso l’Italia in zone gialle, arancioni e rosse scadrà giovedì. Entro quella data il governo dovrà dare risposte definitive a domande che per il momento vedono solo ipotesi: sull’apertura dei negozi durante le feste di Natale, sugli spostamenti tra Regioni, sui ricongiungimenti familiari.

Sul tavolo del Consiglio dei ministri di ieri, ancora in corso a tarda sera, è finito però solo il testo del decreto Ristori quater, pacchetto di misure da 8 miliardi per dare ossigeno alle categorie colpite dalle chiusure. Delle novità sulle restrizioni, invece, si parlerà nelle prossime ore anche insieme alle Regioni.

Le ipotesi per natale Il nuovo dpcm dovrebbe confermare la divisione dell’Italia in zone – se i dati sul contagio proseguiranno il calo, le attuali Regioni rosse potrebbero presto diventare arancioni e alcune di queste gialle – prevedendo però misure straordinarie per tutto il Paese a partire da circa una settimana prima di Natale. Da quella data è probabile che parta lo stop ai trasferimenti tra Regioni, salvo i rientri verso residenza o domicilio. In questo caso, sarebbero previste però alcune deroghe per chi, pur vivendo altrove, vorrà raggiungere i propri genitori o il proprio coniuge per Natale. L’idea è poi quella di imporre la quarantena a chi torna dall’estero, ma su questo punto ci dovrà essere un necessario coordinamento almeno con gli altri Paesi europei. Confermato lo stop allo sci.

Detto dei ricongiungimenti, che consentiranno cenoni con i soli familiari più stretti, il governo vorrebbe mantenere il coprifuoco dalle 22 alle 6 anche per il 24 e per il 31 dicembre. Sono questi – per ovvi motivi – i giorni considerati più a rischio, tanto che i ristoranti potrebbero restare chiusi in tutta Italia. Proprio sui locali però l’esecutivo dovrà fare i conti con le Regioni: un nuovo incontro è previsto per martedì e i governatori, per bocca del ligure Giovanni Toti, hanno già promesso battaglia per allentatre le restrizioni.

Quanto ai negozi, si va verso l’estensione degli orari di apertura fino alle 21, in modo da diluire gli ingressi. Ben più difficile prevedere il rientro a scuola per i licei a dicembre, nonostante il premier Giuseppe Conte e il Movimento 5 Stelle spingano per estendere la didattica in presenza.

Il Dl ristori quaterIeri sera il testo del decreto è arrivato in Consiglio dei ministri per il via libera definitivo. Si tratta del quarto provvedimento in favore delle categorie colpite dalla crisi: misure per 8 miliardi per precari e stagionali, oltreché il rinvio di alcune scadenze fiscali.

L’accelerata sul decreto si è resa obbligatoria perché oggi sarebbe scaduto il termine per saldare gli acconti di Irpef, Ires e Irap per imprese e professionisti. La nuova data, il 10 dicembre, serve a concedere tempo per mettersi in regola con le ultime novità: in questo modo, chi dimostra un calo almeno del 33% dei ricavi nel primo semestre 2020 rispetto al 2019 – con un fatturato inferiore a 50 milioni – si vedrà prorogata la scadenza al 30 aprile 2021. La proroga è prevista in maniera automatica – a prescindere quindi dal calo dei ricavi – per chi è in zona rossa o arancione o per chi vi si trovava fino al giorno prima del via libera al decreto. Slitta poi a marzo la scadenza per la rottamazione ter e per il saldo e stralcio.

Tra le altre misure, ecco anche un’indennità da mille euro per i lavoratori del turismo, dello spettacolo e delle terme che hanno chiuso il loro rapporto di lavoro dal primo gennaio 2019 a oggi e che non abbiano altro lavoro dipendente o siano in Naspi. Lo stesso contributo è previsto per stagionali, intermittenti, autonomi senza partita Iva e titolari di contratti occasionali iscritti almeno da marzo alla gestione separata Inps.

I dati dei contagiLa curva dei contagi, intanto, conferma i buoni segnali della settimana appena trascorsa. Ieri i nuovi positivi sono stati 20.648 (sabato 26.323), pur col consueto calo di tamponi domenicale (176.934 contro 225.940). Il rapporto tra tamponi positivi e tamponi effettuati è dunque stabile all’11,7%. A calare sensibilmente è il numero delle vittime, dalle 686 di sabato alle 541 di ieri. Buoni i dati sui ricoveri: per il sesto giorno consecutivo scendono i posti letti occupati (-420), con un -9 nelle rianimazioni. Proprio sulle terapie intensive la media mobile settimanale segna la variazione più confortante: dai +54 della scorsa settimana siamo passati a -7.