L’“amico” del boss Guttadauro è capogruppo del Pd: “Mi disse: ‘Controlla sul web chi sono’”

Adriano Burgio, l’ex assistente di volo per i pm di Roma “amico” e “a disposizione” del boss Giuseppe Guttadauro (imparentato con Matteo Messina Denaro), è il capogruppo del Pd al Municipio IX Eur di Roma. Una carica ottenuta con appena 200 voti alle elezioni di marzo. Burgio (non risulta indagato) si è “autosospeso” ieri dal gruppo consiliare sebbene mantenga il suo scranno nell’importante parlamentino romano, quello che gestisce il bilancio più “ricco” fra le 15 municipalità capitoline. La questione è arrivata a Montecitorio, da dove il deputato Andrea Casu, segretario Pd Roma, dice: “L’autosospensione pone al riparo la nostra comunità da una vicenda che con il Pd non deve avere niente a che fare”. Dagli atti della Dda di Palermo e dei Ros che ha portato ai domiciliari Guttadauro, medico “padrino” già condannato in passato per mafia, emerge “uno stretto legame di cointeressenze e di fiducia con l’assistente di volo Alitalia, Adriano Burgio”. Negli atti risulta che il medico-boss avrebbe coinvolto l’ex steward, non indagato, in “virtù del suo lavoro” e dei “suoi contatti con l’Albania”, per un “progetto di un ingente traffico di sostanze stupefacenti”. Burgio si sarebbe anche “occupato di creare un link con un appartenente alla Camera dei Deputati” per “fare pressioni sui vertici di Unicredit”, in merito al contenzioso da “16 milioni di euro” dei coniugi Giuseppe Mennini e Beatrice Sciarra, entrambi estranei all’inchiesta, che si erano rivolti al boss Guttadauro. Per il suo intervento il medico-padrino avrebbe ricevuto il “5% della mediazione”, somma che Guttadauro avrebbe pensato di far dirottare nei “conti correnti” di Burgio “aperti in Albania”. Infine, lo steward “avrebbe avanzato la richiesta” al medico-boss di “intimidire” un suo ex socio, “organizzando una vera e propria spedizione punitive di carattere violento”. Burgio appartiene alla corrente Base Riformista di Roma, che ora ne chiede le dimissioni. Il Fatto ha contattato telefonicamente Burgio: “Il presunto link con la Camera dei deputati non è un politico, ma un mio amico autista. Guttadauro mi aveva detto che se fossimo riusciti a risolvere il problema della signora Sciarra, lei ci avrebbe dato una ricompensa”. In generale, “sapevo chi era Guttadauro, su suo input mi sono informato su Internet, ma mi aveva detto che era un uomo libero. Siamo entrati in confidenza, e ne sono rimasto affascinato: parla latino e greco e conosce la Bibbia a memoria. Droga? Spedizione punitiva? Io non c’entro”.

Sassari, indagato il fratello di Becciu. I pm: “Riciclaggio”

La Procura di Sassari indaga per riciclaggio sulla cooperativa sociale Spes, riferibile legalmente a Antonino Becciu, fratello dell’ex sostituto della segreteria di Stato vaticana, Giovanni Angelo Becciu. Antonino Becciu è indagato a Sassari, il cardinale è estarneo all’inchiesta. Angelo Becciu invece è imputato Oltretevere per abuso d’ufficio e peculato. I magistrati sardi indagano sugli stessi fatti su cui lavora il promotore di giustizia, Alessandro Diddi, relativa alle indagini in Vaticano. Ieri il Nucleo di polizia economico-finanziaria della Gdf di Oristano ha eseguito perquisizioni in Sardegna nelle sedi della Spes. Perquisizioni state disposte anche presso la Diocesi e la Caritas diocesana di Ozieri (Ss). La vicenda è nota. Il presunto peculato di Becciu, per i pm vaticani, nasce dal fatto che il cardinale avrebbe, “dato disposizioni agli uffici della segreteria di Stato affinché eseguissero più versamenti di importo non inferiore a 125 mila euro alla cooperativa Spes sociale” di Antonino Becciu. Soldi utilizzati, secondo gli inquirenti, per finalità non umanitarie. Gli avvocati di Angelo Becciu fanno sapere di essere “massimamente sereni”, in quanto “il Cardinale, del tutto estrano alle iniziative ed alla gestione assunte dalla Diocesi”. Soldi, provenienti in origine da fondi Ior e Cei, che per l’accusa sarebbero transitati per la Diocesi di Ozieri, i cui vertici ieri hanno affermato, che “l’attività investigativa in corso appare infondata” e che “sarà dimostrata la legittimità dell’operato di Diocesi, Caritas e Spes”.

Colombo e Davigo. “La guerra l’han vinta i corrotti, non noi…”

Trent’anni fa iniziava alla Procura di Milano un’inchiesta giudiziaria che poi fu chiamata Mani pulite. La ricordiamo insieme a due protagonisti, allora pm del pool insieme ad Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo.

Prima di Mani pulite, negli anni 80, a Milano furono iniziate molte indagini sulla corruzione. Perché non arrivarono a risultati significativi?Colombo: Perché le indagini cominciavano a Milano e poi la Cassazione stabiliva che dovessero andare a Roma, perché la Procura di Roma sollevava conflitto di competenza. A Roma finivano nel niente. Così morivano inchieste che avrebbero portato ineludibilmente a scoprire il sistema della corruzione con una decina di anni di anticipo.

Ci sono degli esempi che ci potete fare? Colombo: Il 17 marzo del 1981, con il collega Giuliano Turone abbiamo scoperto le carte della P2. Oltre alle liste, c’erano anche oltre trenta buste sigillate da Licio Gelli, ognuna delle quali conteneva una notizia di reato. Una riguardava il Conto Protezione, un un passaggio di soldi dal Banco Ambrosiano al Psi di Bettino Craxi. Abbiamo fatto una rogatoria in Svizzera per avere i dati di quel conto. Poi l’inchiesta è passata come al solito a Roma. Ebbene, il giudice istruttore di Lugano che si chiamava Luisoni ci disse: “Noi le carte del conto Protezione le abbiamo pronte, ma a Roma non le vogliono”. Noi due giudici istruttori avevamo anche chiesto al procuratore della Repubblica di Milano di fare un comunicato per bloccare le fughe di notizie sulla P2. Il procuratore ci ha risposto che avremmo dovuto restituire a Gelli le carte sequestrate. Poi nel 1992, quando viene arrestata una persona molto vicina a Bettino Craxi, Silvano Larini, questi ci racconta finalmente che su quel suo conto svizzero erano arrivati 7 milioni di dollari dell’Ambrosiano destinati al Psi di Craxi. Altro esempio: 1984, indagini sui fondi neri dell’Iri. Erano 360 miliardi di lire, 4 miliardi di euro. Anche in quel caso, la Cassazione manda l’inchiesta a Roma e tutto si ferma.

Invece il 17 febbraio 1992 Antonio Di Pietro fa arrestare Mario Chiesa, mentre sta intascando una piccola tangente da 7 milioni e mezzo di lire. E inizia Mani pulite. Le inchieste, questa volta, non si fermano.Davigo: L’inchiesta decolla subito per un paio di motivi. Il primo. All’inizio, Chiesa non parla, ma poi Di Pietro viene a sapere, dalla causa di separazione di Chiesa dalla moglie, di alcuni suoi conti in Svizzera con nomi di acque minerali e chiede per rogatoria il loro sequestro. Poi dice al suo avvocato: “Dica al suo cliente che l’acqua minerale è finita”. L’avvocato non capiva, ma Di Pietro: “Vedrà che lui capirà”. Il secondo motivo. Craxi, il segretario del Psi a cui Chiesa apparteneva, dichiara che proprio in prossimità delle elezioni lui si trovava in difficoltà per colpa di un “isolato mariuolo”. Chiesa si è sentito scaricato. E ha cominciato a parlare. Ha raccontato di otto imprenditori che gli avevano pagato tangenti.

Questi a loro volta parlano e raccontano molti altri episodi. L’inchiesta si espande fino a coinvolgere migliaia di persone. Ma come si spiega il fatto che gli imprenditori questa volta parlano, mentre in precedenza negavano tutto?Davigo: Si spiega con il fatto che fino a quel momento gli imprenditori erano riusciti tranquillamente a trasferire il costo delle tangenti sulla Pubblica amministrazione, attraverso la revisione prezzi e le varianti in corso d’opera. Dal 1991 c’è una stretta di bilancio imposta dal governo, quindi improvvisamente i costi delle tangenti vanno a incidere non più sul costo delle opere ma sul profitto degli imprenditori, che cominciano a sentirsi concussi. Una bugia colossale su cui i difensori hanno marciato per anni.

Ci spieghi che cos’è la concussione e perché la considera una colossale bugia.Davigo: La concussione è quando un imprenditore è costretto o indotto a pagare da un politico o da un amministratore, in una situazione di inferiorità rispetto al pubblico ufficiale. Nella realtà non è quasi mai così. Basti pensare che le tangenti erano pagate con somme in nero accantonate prima che arrivasse la richiesta: sarebbe come se uno uscendo di casa si portasse un po’ di soldi, in caso gli capitasse di essere rapinato. Invece le tangenti erano pagate in accordo tra politico e imprenditore e a essere gonfiato era il costo delle opere pubbliche. Dopo Mani pulite, per esempio, i costi di Malpensa 2000 e della linea 3 della metropolitana al chilometro si sono quasi dimezzati.

Dopo qualche tempo, il procuratore Francesco Saverio Borrelli affianca, a Di Pietro, Colombo e poi Davigo.Davigo: Andò così: io avevo una settimana di ferie arretrate da fare e prima di partire andai a salutare Gerardo D’Ambrosio, il procuratore aggiunto, che mi disse: “Già che va in vacanza, portati questi verbali da studiare perché il procuratore Borrelli e io abbiamo pensato di affiancare anche te a Gherardo e Antonio Di Pietro”. Io non volevo, perché desideravo trasferirmi in Corte d’appello e quando lessi quei verbali avevo capito che sarebbe deflagrato l’effetto domino. “Se metto le mani in questa roba qui, devo stare minimo altri cinque anni in Procura”. E sono stato ottimista. Ma poi, l’ultimo giorno delle mie ferie, ci fu la strage di Capaci. Allora mi vergognai anche solo di aver pensato di dire di no e quindi quando rientrai dissi: faccio quello che devo fare.

Colombo: Maggio 1992: è il mese dell’attentato a Giovanni Falcone. Quel giorno, il 23 maggio, ero al carcere di San Vittore e stavo interrogando il presidente di un ente in cui i soldi delle tangenti, fiumi di denaro, andavano a tutti i membri del consiglio d’amministrazione che rappresentavano tutti i partiti, esclusi il Movimento sociale italiano da una parte e Democrazia proletaria dall’altra. All’uscita da San Vittore, un agente della polizia penitenziaria mi ha detto dell’attentato a Falcone. Quella sera avevo una cena con alcuni amici, tra cui Turone: non abbiamo scambiato una parola per tutta la sera.

A un certo punto vi rendete conto che le indagini diventavano vastissime e che la risposta non poteva essere solo giudiziaria. Colombo: A luglio 1992 avanziamo la proposta che poi è stata impropriamente chiamata di “condono”: non va in carcere chi si presenta, racconta come sono andate le cose, restituisce tutto ciò di cui si è appropriato illecitamente e si allontana per qualche anno dalla vita pubblica. Era una soluzione tendente a far emergere tutto perché era impossibile gestire tutti quei processi. La proposta non è passata. Il Parlamento ha cominciato invece a fare leggi che riducevano i reati, che toglievano valore ad alcuni mezzi di prova, che dimezzavano la prescrizione. È andata a finire che adesso la vulgata sostiene che Mani pulite è stata una specie di invenzione, che la corruzione non c’era, che abbiamo messo in prigione gli innocenti e fatto una specie di colpo di Stato.

Davigo: Quella proposta di “condono” io la interpreto in questo senso: neppure uno Stato solido poteva reggere per anni alla scoperta di malefatte della classe dirigente pubblica e privata, politici e imprenditori, figurarsi uno Stato malandato come il nostro in quel momento. Allora, dicevo, bisogna fare presto e chiuderla lì, usando un ragionamento che abbiamo sempre fatto: chi racconta tutto diventa inidoneo a commettere di nuovo questi reati perché si rende inaffidabile al sistema.

Colombo: Eravamo un po’ ingenui: proprio per questo non l’hanno fatto.

Davigo: Ne uscì infatti solo un progetto di riduzione di pena che per carità, piuttosto che niente è sempre meglio piuttosto… Il presidente del Consiglio dell’epoca (Giuliano Amato) ci mandò un suo incaricato – perlomeno ci disse di venire a nome del presidente del Consiglio – e ci chiese che cosa volevamo proporre. Quando glielo spiegammo, ci disse: “Ma siete matti? Così li prenderete tutti”. Mi caddero le braccia perché io ero ancora convinto che i vari poteri dello Stato fossero concordi nel voler far rispettare a tutti la legge e cercare una via d’uscita che conciliasse il rispetto della legge con il non sfasciare tutto. Invece ci fu il decreto Biondi che era una cosa indegna sotto il profilo etico perché ci imponeva di scarcerare i colletti bianchi, una plateale e brutale violazione dell’articolo 3 della Costituzione.

Andaste davanti alle telecamere a dire che vi sareste dimessi. Questo vi è ancora rimproverato come una forte intromissione nella politica.Davigo: Noi abbiamo applicato quel decreto e abbiamo chiesto al giudice di scarcerare gli indagati, però abbiamo detto che non lo volevamo più fare perché ci ripugnava moralmente. Poi il governo ha ritenuto di non chiedere la conferma in Parlamento di quel decreto legge, che è decaduto. Quindi ammonire qualche volta serve.

Una delle accuse che più spesso vi è stata rivolta è che avete salvato il Partito comunista.Davigo: A livello locale, a Milano, il Pci si finanziava come gli altri partiti. A livello nazionale, le imprese normali finanziavano i partiti della maggioranza, mentre le cooperative cosiddette “rosse” finanziavano il Pci. Intendiamoci, dare soldi ai partiti non è vietato, è vietato farlo di nascosto. Le cooperative mettevano a bilancio perlomeno una parte dei soldi che davano al partito, quindi non c’era una pista immediatamente illegale da seguire. Però ci è accaduto di raccogliere dichiarazioni come quella su una valigetta di soldi portata da Raul Gardini a Botteghe Oscure, sede del Pci, poi Pds e poi Ds. Ma nessuno ce l’ha confermato. Anche Primo Greganti, che lavorava per il Pci, ha preso certamente soldi, ma ha detto di averli tenuti lui. Che cosa potevamo fare? Torturare i testimoni? Questo vogliono quei bei garantisti che ci criticano?

Colombo: Nel sistema della metropolitana milanese, il Pci era coinvolto esattamente come gli altri partiti, anzi era un esponente del Partito comunista che prendeva i soldi e poi li distribuiva. E il sistema delle percentuali fa riflettere: al Partito socialista andava il 37,5% delle tangenti, alla Democrazia Cristiana e all’ex Partito comunista andava la metà di quella percentuale, poi l’11% ai socialdemocratici e il resto al Partito repubblicano. Pensate quanto ragionamento c’è dietro il fatto che a Pci e Dc andasse una somma con due decimali.

Davigo: A chi dice che noi con Mani pulite abbiamo fatto danni e ora qui rubano come prima, ricordo una barzelletta. Durante il fascismo venne inventata la guerra alle mosche e alle zanzare. Un prefetto andò in visita in un piccolo comune dove c’era il podestà ad accoglierlo, ma quando scese dall’auto venne assalito da un nugolo di mosche. Allora disse al podestà: “Ma in questo comune non avete fatto la guerra alle mosche?” E quello rispose: “Sì eccellenza, ma hanno vinto le mosche”.

Nel 1992 e ’93 c’era un clima di sostegno a voi magistrati. Avevate dei veri e propri fan. Colombo: Io credo che per il magistrato siano sempre da preferire i fischi agli applausi, perché i fischi tengono alta la soglia dell’attenzione per non sbagliare. A me poi non fanno né caldo né freddo né gli applausi né i fischi. A Davigo invece piacciono i fischi.

Davigo: Oggi, dopo Mani pulite, nessuno può più dire in buona fede che la corruzione non esista. Può al massimo dire: “C’è, però ci piace così”. La questione non è di poco momento perché adesso è in atto un tentativo di restaurazione. Siccome arrivano i soldi del Pnrr dell’Unione europea, sono tutti entusiasti. Immagino che allargandosi di nuovo la torta si possa ricominciare a rubare alla grande. Peccato che siano in larga misura prestiti che bisognerà restituire e quindi, quando la festa finirà, se verrà ripristinato un sistema di corruzione diffusa come quello scoperto da Mani pulite, il risultato finale sarà che ci sarà un’altra catastrofe come quella del 1992. Perché le restaurazioni non durano mai all’infinito.

Cosa resta: le frottole del Partito Tangentari e il grazie degli onesti

Cosa resta di Mani pulite, la più grande inchiesta sulla corruzione della storia d’Europa e dunque del mondo, 30 anni dopo? La vulgata dominante dice che non resta nulla, perché la corruzione da allora è continuata e forse addirittura aumentata, sia pure in forme diverse. Ma un’indagine non si giudica dal numero di reati simili commessi dopo: altrimenti tutte le indagini sarebbero un fallimento, visto che nessuna è mai riuscita ad abolire i reati successivi. Le indagini servono a perseguire quelli commessi prima e da questo punto di vista Mani pulite non ha eguali nella storia: per numero di persone indagate, processate e giudicate colpevoli in sentenze di condanna, di patteggiamento, di prescrizione e persino di assoluzione o proscioglimento o archiviazione o amnistia o indulto per i più svariati cavilli (leggi modificate in corso d’opera per cancellare le prove, negare ai giudici le autorizzazioni a utilizzare intercettazioni o addirittura tabulati telefonici, depenalizzare i rea- ti, cambiare le procedure, allungare i tempi delle inchieste o accorciare i termini di prescrizione, condonare condanne e pene). È vero, quasi nessuno dei colpevoli di Tangentopoli ha scontato la pena in galera, ma questo non dipende dalle indagini della Procura di Milano e delle altre che la seguirono nell’opera di disinfestazione della vita pubblica: dipende dalle leggi fatte prima e soprattutto durante e dopo per assicurare l’impunità ai tangentisti. Leggi che fanno dell’Italia il paradiso dei delinquenti e l’inferno delle vittime.

Ma oggi, trent’anni dopo, possiamo dire che Mani pulite rimane scolpita nella memoria collettiva come l’unico serio tentativo di applicare l’artico- lo 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E tanto basta per affermare che quel tentativo è perfettamente riuscito. Sono miseramente falliti, invece, quelli di farlo dimenticare o, peggio, di farlo ricordare come l’opposto di ciò che era: cioè come un’operazione politica di magistrati ideologizzati per colpire gli innocenti di una parte e favorire i colpevoli dell’altra.

Trent’anni di campagne politico-mediatiche negazioniste e revisioniste hanno fatto breccia e proseliti nel mondo politico, in quello mediatico sottostante e persino in una parte di quello giudiziario, ma non hanno scalfito la percezione di quei fatti nell’opinione pubblica. Che ha continuato a cercare confusamente con il suo voto di cambiare il Paese contro i tentativi di restaurazione di chi voleva riportare indietro l’Italia al suo peggiore passato. Certo, in questo rifiuto del “vecchio” molti elettori sono incappati in tragici errori, scambiando per rinnovatori i peggiori cascami dell’Ancien Régime: Berlusconi, Monti, Renzi, Salvini. Ma presto o tardi quelle ubriacature sono passate, e in tempi sempre più repentini: se per guarire dal berlusconismo abbiamo perso vent’anni, tra l’ascesa e la caduta di Monti, Renzi e Salvini ne sono trascorsi due, al massimo tre.

Invece un movimento sinceramente legalitario, per quanto tumultuosamente confuso, come i 5Stelle dura da ormai 13 anni e ha profondamente cambiato il senso comune del Paese, oltre ad averci lasciato leggi fondamentali per la giustizia: la Severino (imposta da Beppe Grillo e dai suoi al Parlamento addirittura prima di entrarvi), la Spazzacorrotti, la blocca-prescrizione, il reato di voto di scambio politico-mafioso, il decreto contro le scarcerazioni dei boss, l’imminente riforma dell’ergastolo ostativo per gli stragisti non pentiti.

Nemmeno il crollo verticale di professionalità e di credibilità della magistratura, a mano a mano che i suoi Grandi Vecchi andavano in pensione lasciando i giovani senza guide né maestri da seguire, o con guide e maestri tipo Luca Palamara e Cosimo Ferri, è riuscito a cancellare dalla memoria degli italiani la distinzione fra guardie e ladri.

Riabilitato da politici e media trasversali fin da ben prima che morisse ad Hammamet nel 2000, Bettino Craxi resta per la maggioranza del Paese un simbolo della corruzione. Giulio Andreotti un simbolo della collusione mafiosa. E la recente rivolta dell’opinione pubblica dinanzi alla sola idea che Silvio Berlusconi potesse diventare presidente della Repubblica (idea che poteva avere cittadinanza soltanto nel “mondo a parte” della politica, ma non nella società civile), la dice lunga sul “vaccino” naturale che ci immunizza dal rischio di contagio. Anche grazie alla comica cialtroneria delle campagne mediatiche del Partito dell’Impunità contro ogni evidenza, logica, senso del pudore e del ridicolo.

Trent’anni di campagne negazioniste e revisioniste hanno fatto breccia e proseliti nel mondo politico, in quello mediatico sottostante e persino in una parte di quello giudiziario, ma non hanno scalfito la percezione di quei fatti nell’opinione pubblica (…). Davigo è sotto processo a Brescia per rivelazione di segreti, “reo” di aver avvertito informalmente i vertici del Csm sulle mancate o ritardate iscrizioni di indagati da parte della “sua” Procura di Milano nel fascicolo sulla presunta Loggia Ungheria, svelata dall’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara (informalmente perché, fra i personaggi accusati da Amara, c’erano anche due membri del Csm). Eppure nessun italiano di buona fede ha cambiato idea sulla sua proverbiale correttezza (…). Davigo, Greco, Boccassini, Colombo e De Pasquale, malgrado le loro polemiche incrociate, continuano a godere di un credito enormemente superiore a quello dei loro nemici. Così come Di Pietro, che nell’immaginario collettivo rimane un benemerito servitore dello Stato fatto fuori prima come pm e poi come politico (anche per i suoi errori), malgrado le cascate di fango che gli sono state riversate addosso, o forse proprio per quelle (…).

C’era una volta il “così fan tutti”, poi il “non l’ha fatto nessuno”, poi il “l’ho fatto, ma resto un presunto innocente e bisogna aspettare la Cassazione”, poi “la Cassazione non vale e bisogna aspettare Strasburgo”, poi le “toghe rosse” al servizio della Cia, le tangenti “a fin di bene”, gli scandali “a mia insaputa”… Ora gli ultimi refugium delinquentorum sono tre, ancor più esilaranti.

Il primo è: “E allora Palamara?”. Questo pm romano, già capo della corrente Unicost, già presidente dell’Anm e membro del Csm, da quando è stato indagato per corruzione, beccato all’hotel Champagne di Roma a spartirsi le nomine delle Procure della Capitale e di Firenze con i deputati renziani Luca Lotti e Cosimo Ferri (magistrato prestato alla politica, che per fortuna non l’ha ancora restituito) e cinque togati del Csm, autore di due libri di smemoratissime memorie affidate all’autorevole Alessandro Sallusti, viene tirato in ballo per screditare qualunque indagine, processo, sentenza sull’intero orbe terracqueo. Naturalmente Palamara non c’entra mai assolutamente nulla, ma diventa un ottimo detersivo per tentare di squalificare qualunque iniziativa giudiziaria e di coprire i fatti gravissimi che ne emergono (…). La classe politica è riuscita a trasformare anche il più grave scandalo della magistratura degli ultimi 30 anni in un boomerang contro se stessa (…). Sapete che fine han fatto i commensali dell’hotel Champagne? Palamara è stato radiato dalla magistratura e i cinque consiglieri del Csm che parteciparono a quella cena si sono dovuti dimettere. Invece Lotti rimane deputato del Pd e Ferri deputato di Iv (…).

Il secondo ritornello è il “teorema dell’eterno complotto”: se vieni assolto, allora era un complotto; se vieni condannato, allora è un complotto. Un ri- tornello che ovviamente vale solo per gli amici di chi lo intona: la loro condanna è la prova che i giudici ce l’avevano con loro; la loro assoluzione è la prova che i pm ce l’avevano con loro, poi i giudici hanno messo le cose a posto, ma è sempre troppo tardi e c’è sempre qualcuno che deve “pagare i danni” al malcapitato per l’“errore giudiziario”. Perché si dà per scontato che, se uno viene assolto, non andasse neppure indagato né processato. Come se i processi non servissero proprio a stabilire se il sospettato di un reato è colpevole o innocente (…).

Il terzo refrain, corollario dei due precedenti, è quello degli “innocenti a prescindere”, anche se nella sentenza c’è scritto che sono colpevoli. Basta la loro parola, una sorta di autocertificazione. Oppure (…) qualche giornalista amico che trasforma la condanna in assoluzione. Tipo Pierluigi Battista, che il 14 dicembre 2020 scrive sul Corriere della Sera: “Flop di una stagione politico-giudiziaria. Assolti Filippo Penati… Roberto Cota… Pietro Vignali… E poi, per non dimenticare: assolto Nicola Cosentino… Assolti Raffaele Fitto… Beppe Sala… Renato Schifani”. Ne avesse azzeccata una. Penati è stato per metà assolto e per metà prescritto dopo aver giurato che avrebbe rinunciato alla prescrizione. Cota è in quel momento imputato in appello per la Rimborsopoli piemontese, in cui sarà condannato a 1 anno e 7 mesi per peculato per aver accollato ai contribuenti un paio di mutande verdi e altre spese private. Vignali, ex sindaco di Parma, ha patteggiato 2 anni per peculato e corruzione e ha risarcito 1 milione. Cosentino è stato condannato definitivamente a 4 anni per corruzione e lo sarà presto in primo grado a 10 anni per concorso esterno in camorra. Fitto è stato in parte assolto e in parte prescritto per finanziamento illecito. Sala è stato condannato e poi prescritto in appello per falso in atto pubblico dopo aver giurato di non volere la prescrizione. E Schifani non è stato mai assolto, per la semplice ragione che non è stato mai processato. Se poi il colpevole si suicida o muore per cause naturali, ecco la prova del nove della sua santità. L’ultimo caso è quello dell’ex consigliere regionale forzista del Piemonte, Angelo Burzi, che si è tolto la vita a Natale del 2021 dopo la condanna in appello a 3 anni per peculato nella Rimborsopoli piemontese. Tutti gridano che è un perseguitato per reati mai commessi (…). Nessuno ricorda che, per una parte delle accuse, aveva patteggiato un anno di reclusione in via definitiva. Quindi era innocente, ma non lo sapeva.

Ecco, sono scemenze come queste che hanno mandato in fumo trent’anni di campagne negazioniste e revisioniste condotte senza risparmio di mezzi ed energie. E, per l’eterogenesi dei fini, hanno sortito l’effetto opposto: enfatizzare la grandiosità storica di Mani pulite e fissarla per sempre nel dna di ogni cittadino, a imperitura memoria delle due Italie contrapposte. Quella che vive nel terrore che il 1992 si ripeta. E quella che lo spera con tutto il cuore.

1° e 2 marzo: “Una vergogna i mancati indennizzi”

Le organizzazioni sindacali Smi e Simet hanno indetto lo sciopero per tutti i medici dell’area convenzionata, con la chiusura degli ambulatori il 1° e il 2 marzo, giorno in cui saranno a Roma per protestare davanti al ministero della Salute: “Il malessere della categoria è palpabile, carichi di lavoro insostenibili, mancanza di tutele, burocrazia aberrante e non ultimo il mancato indennizzo alle famiglie dei colleghi deceduti per Covid. Uno schiaffo da parte dello Stato, soprattutto agli orfani di quei medici”. Il numero di medici morti per Covid è salito ieri a 370 dall’inizio della pandemia. “Scioperiamo perché rivendichiamo, come tutti gli altri lavoratori, tutele concrete quali ferie, maternità, malattia; reclamiamo tutele certe in materie di sostegno a handicap e sostituzioni per poter fruire del meritato riposo, nonché politiche serie sulle pari opportunità. In questa pandemia, che ha travolto il mondo, sono le donne medico che hanno pagato il prezzo più alto. Il diritto al lavoro si deve coniugare al diritto alla vita familiare e personale”, prosegue la nota di Smi e Simet, il sindacato medici italiani e il sindacato italiano medici del territorio.

Mille accademici contro il green pass. Anche per i virologi “ora non serve più”

Sono più di mille, per lo più docenti, ricercatori e tecnici di atenei ed enti di ricerca, ad aver sottoscritto la lettera aperta al presidente del Consiglio contro il green pass. Criticano le misure del decreto legge del 7 gennaio che ha esteso l’obbligo vaccinale contro il Covid al personale universitario e a tutti gli over 50. “Non vi sono basi scientifiche per questo ennesimo inasprimento”, scrivono, denunciando “l’escalation di violenza verbale e attacchi pretestuosi verso la minoranza di coloro che per vari motivi, tra cui considerazioni di tipo sanitario, hanno scelto di non vaccinarsi”. Ritengono il vaccino “sprovvisto delle adeguate garanzie di sicurezza ed efficacia” e pertanto, affermano, la sua imposizione “è una misura non solo sproporzionata, ma anche lesiva di diritti e libertà fondamentali costituzionalmente garantiti”. Considerano in particolare l’obbligo per gli universitari uno “strumento di repressione del dissenso” indirizzata a “quanti propongono analisi scientifiche e politiche di intervento non in linea”.

L’appello è lungo, con articolate citazioni. Esprime forte allarme per le sanzioni “senza precedenti” come la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione dei non vaccinati, ricorda le prese di posizione del Consiglio d’Europa contro l’obbligo, sottolinea le perplessità espresse anche da Marco Cavaleri e Guido Rasi – rispettivamente responsabile della divisione vaccini ed ex direttore dell’agenzia farmacologica europea Ema – sulle somministrazioni ripetute a breve scadenza. Si può discutere su alcune considerazioni circa l’impatto asseritamente contenuto della quarta ondata sul sistema sanitario o la validità di terapie discusse (idrossiclorochina compresa), ma è difficile non condividere la preoccupazione per i limiti all’accesso ai dati grezzi e la compressione dei diritti costituzionali. E soprattutto non si capisce perché certi argomenti dovrebbero essere demonizzati ed esclusi dal dibattito in un Paese che ha puntato solo sui vaccini dimenticando la sorveglianza, la prevenzione e le cure.

Oltre al presidente del Consiglio la lettera (reperibile su https://universitaricontroilgreenpass.wordpress.com/) è rivolta al ministro dell’Università, ai ministri tutti, ai presidenti delle Camere e al presidente della Corte costituzionale. Nessuna risposta finora. Dal mondo scientifico si levano altre voci, pur diverse, dalla direttrice della Microbiologia del Sacco di Milano, Maria Rita Gismondo, che ritiene “una forzatura” l’obbligo vaccinale al presidente della Società di virologia, Arnaldo Caruso, contrario a prorogare il pass dopo la scadenza dello stato d’emergenza fissata al 31 marzo: “Non serve più”, ha detto.

“L’emergenza pandemica in Occidente è ormai finita”

“Credo che la pandemia come emergenza sanitaria sia ormai finita nei Paesi occidentali”. Risponde proprio così dalla Emory University di Atlanta il professor Guido Silvestri: “Credo sia ormai finita”.

Professore, a Hong Kong è in corso un’altra ondata. In Italia è l’ultimo atto?

Che sia l’ultimo atto, o meglio, l’ultima ondata direi proprio di no. Lo scenario più probabile è che Covid diventi una malattia respiratoria endemica dal tipico andamento stagionale, con recrudescenza nel tardo autunno e soprattutto inverno, fino poi a inizio primavera, come vediamo con l’influenza e con i coronavirus che già da tempo sono adattati alla popolazione umana. E nel contesto di una progressiva endemizzazione di Covid non sorprende né l’attuale ondata a Hong Kong, né il fatto che l’approccio mirato a eradicare il virus, il cosiddetto “Covid-zero” sia fallito ovunque, ormai perfino in Nuova Zelanda. La previsione generale è che si avranno momenti di relativa quiete durante la bella stagione seguiti da aumenti dei casi (e quindi anche delle relative conseguenze come ospedalizzazioni, ricoveri in terapia intensiva e decessi) in tardo autunno ed inverno, ma con tutta probabilità senza più raggiungere i livelli di inizio 2020 e dell’inverno 2020-21.

Quindi per questo motivo si dovrà ricorrere al richiamo annuale?

Sì, magari in modo congiunto all’antinfluenzale. La protezione dei vaccini è molto buona nei confronti della malattia severa, questa protezione si riduce nel corso del tempo ma poi viene ricostituita se si fa una terza dose, il cosiddetto booster. Si stanno valutando in particolare alcuni aspetti più precisi di questo fenomeno generale, tra cui il livello di protezione nei confronti di specifiche varianti di SarsCov2, come Omicron, e la protezione di gruppi di soggetti ad alto rischio o comunque stratificati in base a caratteristiche demografiche e/o sanitarie. Uno scenario probabile è, appunto, quello di una vaccinazione annuale ad inizio autunno (ottobre). Per chi manifesta preoccupazione per il rischio di vaccinazioni troppo frequenti aggiungo che un richiamo annuale sarebbe una procedura del tutto sicura.

Ma la variante Omicron può davvero essere la fine? È ancora lontano il giorno in cui l’Oms dichiarerà finita la pandemia?

Credo che la pandemia come emergenza sanitaria in grado di travolgere i servizi sanitari sia ormai finita nei Paesi occidentali e ovunque ci siano percentuali di vaccinati sufficientemente alte, diciamo oltre il 90% della popolazione adulta. Poi nelle fasi di recrudescenza stagionale ci potranno essere fasi di stress ospedaliero anche importante, ma questi saranno limitati nel tempo e nello spazio, e a questo stress comunque si dovrà rispondere attraverso il potenziamento dei servizi sanitari stessi, e non più attraverso restrizioni generalizzate alla socialità delle persone. Bisogna spingere con vaccinazioni a tutto spiano ed eliminare quelle restrizioni generalizzate spesso di dubbia efficacia ma capaci di causare danni collaterali importanti. Sarà fondamentale evitare ogni chiusura prolungata delle scuole, visto l’aumento davvero preoccupante delle diagnosi di disturbi psichiatrici nei minori che è seguito all’uso persistente della didattica a distanza. Ritengo immorale, prima ancora che non-scientifico, invocare lockdown con nonchalance e senza nemmeno menzionare i problemi che queste misure causano ai più poveri e sui nostri bambini e ragazzi.

Se come annunciato arriveranno i vaccini under 5 in primavera i più piccoli andranno vaccinati subito o nel caso in autunno?

Bisognerà vedere come evolve la curva epidemica: la soluzione di vaccinare l’intera popolazione a ritmo annuale in autunno potrebbe rivelarsi quella vincente. Ma relativamente ai bambini la mia opinione è che vadano anch’essi vaccinati, visto che il virus non è del tutto innocuo neanche per loro e che il profilo di sicurezza rimane estremamente buono. Inoltre avere i bambini vaccinati potrebbe fornire un ottimo scudo immunologico nel caso si verificasse lo scenario, improbabile ma non impossibile, di una nuova variante che combini la contagiosità di Omicron con la cattiveria di Delta.

Da Lombardo alla Lega: il tour dell’ex Iena

È stato tra i più votati nella storia delle elezioni in Sicilia, con 117mila preferenze raccolte alle Europee del 2019. L’ex Iena catanese Dino Giarrusso è tra i pentastellati più controversi del Movimento, per quanti attivisti lo seguano, sono molti quelli con cui è arrivato allo scontro. Si è reso già disponibile per le primarie a presidente in vista delle elezioni regionali siciliane, e nel frattempo gira l’isola tessendo rapporti con avversari politici e alleati.

“Da quando mi sono candidato sono stato contattato da tutti – dice Giarrusso –, mi sono confrontato con esponenti del mio partito, di alleati o avversari”. Sul tavolo ci sono stati gli incontri con il segretario regionale della Lega, Nino Minardo, e con l’ex governatore Raffaele Lombardo, da poco assolto in secondo grado dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. “Consideri che conosco sua zia Clelia Papale da molti anni, e conoscevo il nonno Salvatore Papale, già sindaco di Catania con la Dc – spiega Lombardo –. Abbiamo parlato di tante cose, mi ha detto che si vuole candidare alla presidenza della Regione e del suo percorso politico”. Mentre Minardo spegne i rumors sul possibile flirt con Giarrusso: “A me potrebbe fare piacere se passasse alla Lega, ma non ne abbiamo parlato”.

In mezzo ci sono alcuni scontri avuti tra Giarrusso e altri attivisti durante le Comunali di Favara (Agrigento) e Misterbianco (Catania). Nel primo caso l’europarlamentare ha sostenuto la ricandidatura della sindaca uscente, ma il Movimento ha scelto di presentare una lista civica e un altro candidato. Quando l’ex premier Giuseppe Conte si è presentato in città per il comizio elettorale, è stato contestato da alcuni attivisti imbavagliati e con le mani legate. Nelle ore successive, sui social, è apparsa la foto di Giarrusso con i contestatori, e subito si è pensato che fosse lui l’artefice del blitz. “A Favara avevamo sindaco e maggioranza in consiglio e oggi non abbiamo nemmeno un consigliere. Degli attivisti arrabbiati volevano protestare rumorosamente e io li ho convinti a non farlo, per non danneggiare Conte – dice Giarrusso – e per fortuna mi hanno dato retta scegliendo una protesta silenziosa e civile, e non contro il presidente”.

A Misterbianco invece avrebbe osteggiato l’alleanza M5S-Pd in favore di Nino Di Guardo, il sindaco Pd uscente ritenuto non “incandidabile” dal tribunale di Catania nonostante lo scioglimento per mafia del comune. Mentre avrebbe caldeggiato l’alleanza con la lista civica del neoleghista Luca Sammartino, deputato regionale passato al Carroccio dopo aver vestito le maglie di Pd e Iv, e imputato a Catania in due processi per voto di scambio. “È una minchiata, mai sostenuto Sammartino – spiega Giarrusso – e meno male che non abbiamo appoggiato Di Guardo, almeno il movimento non ha perso la faccia”. Anche Sammartino al Fatto smentisce l’alleanza.

Nei mesi scorsi, all’interno delle chat del Movimento sono circolate alcune schede di attivisti cui era stato chiesto, su base volontaria, di lasciare i propri dati in vista di un possibile tesseramento. Idea non apprezzata dai 5S. “Vergognoso anche pensarlo, è da querela – dice Giarrusso – non ho mai tesserato una persona, e a differenza di altri non ho candidato miei parenti, né portato nelle istituzioni miei congiunti, fratelli, sorelle, cognati”.

La guerra dei clan azzurri contro il “renziano” Miccichè

C’è una guerra in Sicilia. E si gioca a colpi di pizzini, riunioni segrete e tradimenti personali. Chi la vince si prenderà Forza Italia nell’isola. Un obiettivo che scatena gli appetiti di molti, perché a maggio ci sono le Amministrative di Palermo e in autunno le Regionali. E perché, si sa, la Sicilia è l’unico posto in Italia dove il partito di Berlusconi continua a riscuotere un ampio consenso e può contare su un pacchetto di voti in grado di influenzare il prossimo governo regionale. E dunque, che guerra sia. La stanno combattendo tre storici esponenti di Forza Italia: Gianfranco Miccichè, Renato Schifani e, più nelle retrovie, quel Marcello Dell’Utri che da qui è partito per sbarcare il lunario nella Milano da bere degli anni Ottanta. Tutti e tre vogliono il controllo del partito nell’isola. E per farlo stanno spaccando Forza Italia e la coalizione di centrodestra, già uscita dilaniata dalla partita del Quirinale.

Se negli ultimi mesi il rapporto tra Miccichè, presidente dell’Assemblea regionale siciliana, e Schifani, ex presidente del Senato e storico proconsole di Berlusconi in Sicilia, non era stato dei migliori, la vera faida è iniziata mercoledì scorso quando Miccichè prima ha ricevuto in casa sua Anthony Barbagallo, segretario regionale del Pd. Obiettivo? Una maggioranza “Ursula” con i renziani e il Pd in vista delle Regionali in Sicilia. Disegno a cui il viceré siciliano sta lavorando da mesi visto che a ottobre si era seduto a tavola all’enoteca Pinchiorri di Firenze con Matteo Renzi per trovare convergenze sul Quirinale, ma anche sul centrodestra allargato a Italia Viva: “Renzi verrà con noi” aveva detto dopo la cena Miccichè. Che ha continuato a lavorare per staccarsi dai sovranisti Salvini e Meloni e trovare un candidato con il centrosinistra a Palermo e in Regione, perorando la causa del fratello banchiere “draghiano” Gaetano. Schifani, però, che vuole mantenere unita la coalizione di centrodestra, è contrario a un’alleanza con i renziani.

E così Miccichè prova il colpo di mano. Giovedì organizza una riunione coi deputati regionali, assessori e parlamentari siciliani senza invitare Schifani, e lì arriva il coup de théatre: i vertici di Forza Italia lo candidano alla presidenza della Regione. Una mossa che nasconde la volontà di Miccichè di egemonizzare il partito e far fuori i propri nemici interni. O con me o siete fuori. Schifani però non viene invitato alla riunione e mentre è ancora in corso, fa uscire una nota minacciosa: “Qualcuno vuole evitare il confronto interno di FI dimenticandosi che le norme di un partito sono essenziali per la sua sopravvivenza”. Non è solo, l’ex presidente del Senato. Arma le sue truppe che, subito dopo il vertice, dicono no alla candidatura di Miccichè: “Aspettiamo la valutazione di Berlusconi e Tajani” scrivono i deputati Ars Riccardo Gallo, Riccardo Savona, Stefano Pellegrino, Alfio Papale, Margherita La Rocca Ruvolo e gli assessori Gaetano Armao, Marco Falcone e Marco Zambuto. Una sconfessione totale. Tant’è che in Forza Italia si racconta che adesso l’obiettivo di Schifani sia proprio quello di appoggiare la ricandidatura del governatore Musumeci per far morire sul nascere quella di Miccichè. Che intanto ha già ottenuto l’endorsement dei renziani: “Sta dimostrando di avere coraggio, è arrivato il momento di mettere in campo il modello Draghi”, dice Davide Faraone, candidato sindaco di Palermo di Italia Viva.

Più defilato Dell’Utri, storico braccio destro di Berlusconi in Sicilia, che da settembre è tornato a frequentare villa San Martino. Ma non ha mollato il controllo sull’isola: il suo fedelissimo – qualcuno lo definisce una “talpa” – è il vice coordinatore regionale Gallo che ha partecipato alle ultime riunioni e adesso è tra i capi della dissidenza contro la gestione “autoritaria” di Miccichè. E, raccontano fonti azzurre, alla fine sarà proprio Dell’Utri ad avere l’ultima parola sulla strategia del partito in Sicilia. E nessuno, a quel punto, potrà opporsi.

La Camera discute il decreto di Natale. E l’esecutivo pone l’ennesima fiducia

Il copione è lo stesso da mesi. Il Parlamento si vede arrivare decreti anti-Covid varati settimane fa e con tutt’altro quadro epidemiologico, l’opposizione protesta, la maggioranza abbozza, il governo pone la fiducia. È andata così anche stavolta, con la Camera che ieri ha passato la giornata a discutere di un decreto varato a Natale, quello che proroga al 31 marzo lo stato d’emergenza.

Tutte norme superate dal tempo e dagli eventi, visto che il dibattito politico si è già spostato sulle riaperture. E così, quando nel solito clima da imbarazzato déjà vu il ministro per i Rapporti col Parlamento, Federico D’Incà, ha chiesto la fiducia sul decreto (si vota oggi), FdI e Alternativa si sono sfogati al grido del Parlamento calpestato.

Termina così il rituale democratico iniziato in mattinata con l’arrivo alla Camera del testo già approvato in Senato (da convertire entro il 22 febbraio). Il forzista Roberto Bagnasco riconosce che “le misure possono sembrare superflue”, persino “obsolete, in parte superate”, ma insomma “ciò non toglie che è indispensabile approvare la conversione del decreto al più presto”. FdI, però, ha ottimi motivi per non collaborare: Federico Mollicone parla di “Draghistan”, dove “il governo dei migliori strozza il dibattito”. Ma dovendo tirarla per le lunghe c’è chi, come Marco Silvestroni, si ritrova a parlare dei banchi a rotelle, o chi, come Paolo Trancassini, impugna la forca contro “i 9 miliardi per il reddito di cittadinanza”. Per gli appassionati del genere, si replica venerdì: col Milleproroghe, altra richiesta di fiducia.