Ma mi faccia il piacere

Cazzaradona. “Maradona che prende in giro gli italiani. Fazio che lo abbraccia. Sulla Televisione Pubblica. Pagati da noi. Italia paese di m…a. Basta Rai, indipendenza” (Matteo Salvini, Lega Nord, Twitter, 21.10.2013). “Maradona. Un genio unico, assoluto, irripetibile del calcio mondiale. Una preghiera” (Matteo Salvini, Lega, Twitter, 25.11.2020). Sì, una preghiera: va’ a ciapa’ i ratt.

Pirlì. “Emergency in Calabria? Siamo una delle regioni italiane e non vogliamo essere trattati come un Paese in guerra, come un Paese del terzo e quarto mondo. Siamo la terza regione in ordine alfabetico” (Nino Spirlì, presidente reggente della Regione Calabria, Rai Radio1, 18.11). Per non parlare di quello analfabetico.

Il gestore. “Renzi vuole il ministero per gestire i fondi Ue” (il Giornale, 29.11). Ideona: io ci vedrei bene Verdini.

Come natura crea. “Una follia riaprire ora le scuole. Non ripetiamo gli errori estivi” (Alberto Cirio, presidente FI della Regione Piemonte, La Stampa, 28.11). Infatti in estate si ballava in tutte le scuole d’Italia.

Natale col Covid. “Spero che sarà un Natale di famiglia, dove le mamme siano mamme, i nipoti siano nipoti, i nonni siano nonni. Mi rifiuto di pensare a un Natale via Zoom o via Skype” (Salvini, Non è la D’Urso, Canale5, 22.11). Più che il 25 dicembre, il 2 novembre.

I gemelli Feltri. “Prima di linciare il governo, guardiamoci intorno e osserviamo cosa succede in mezzo mondo… Tutto sommato siamo più efficienti…. Conte va ringraziato per aver adottato misure fastidiose, liberticide, che però hanno salvato la pelle a tanta gente” (Vittorio Feltri, Libero, 8.10). “Conte, il re degli incompetenti non ci prende mai. Mi sono stancato di leggere e di scrivere articoli contro Giuseppe Conte” (Vittorio Feltri, Libero, 29.11). Quindi non ha solo un figlio: ha pure un fratello gemello.

Lui può. “Sì al dialogo con il Cavaliere, impossibile con i sovranisti” (Andrea Orlando, vicesegretario Pd, La Stampa, 23.11). Con i frodatori fiscali e i finanziatori della mafia ci si trova meglio.

Senti chi parla. “Litigiosa riunione sulle riforme. E Conte viene ribattezzato ‘bella addormentata’ dal Pd” (il Foglio, 24.11). Hanno parlato i morti di sonno.

Geometrie. “Renzi: contro i populismi la sinistra vince al centro” (Repubblica, 24.11). Parola di uno che ha perso sia a sinistra, sia a destra.

Coerenzi. “Non ci sarà alcun rimpasto, il problema numero uno si chiama occupazione. Non parliamo di legge elettorale o rimpasto: ma facciamo arrivare soldi a imprese e famiglie” (Matteo Renzi, segretario e senatore Italia Viva, 5.8). “Rimpasto? Se ci mettiamo a parlare di legge elettorale e poltrone anziché di lavoro gli italiani ci vengono giustamente a cercare a casa. Prima di parlare di tutto vediamo di sbloccare i cantieri” (Renzi, 7.8). “Il colloquio di Renzi per convincere il premier a fare subito il rimpasto” (Corriere della sera, 28.11). Tutto si può rimproverargli, tranne che non sia sempre sincero e coerente.

Cul-tura. “Natale sobrio? No a baci e abbracci? Buon senso? Sei tu Conte a non avere il buon senso, hai talmente paura del Covid che ti verrà, e che ti venga nel buco del culo!” (Vittorio Sgarbi, deputato FI, 19.11). Gli uomini di cultura li riconosci subito.

Educazione sentimentale. “Personalmente ho constatato che si fa fatica a scoparne una che te la dà volentieri, figuratevi una che non ci sta. Dicono che Genovese sia andato avanti tutta la notte a violentare Michela, una ragazzina di 18 anni la quale pare fosse la terza volta che si recava nella abitazione del nostro ‘eroe’ del menga. Prima osservazione. Dopo che hai penetrato la fanciulla non sei soddisfatto? Nossignori. Vai avanti a farlo fino all’alba. Ammazza che forza. Sei un uomo o un riccio? Come si fa a darci dentro per tante ore. Io, anche quando ero un ragazzo, dopo il primo coito al massimo fumavo una sigaretta, poi dormivo delle grosse. D’accordo che Genovese era carburato dalla coca, ma la cosa non giustifica tanto accanimento sulla passera. Quanto alla povera Michela, mi domando: entrando nella camera da letto dell’abbiente ospite cosa pensava di andare a fare, a recitare il rosario?” (Vittorio Feltri, Libero, 14.11). Senza parole.

Il Vate. “Ho scritto un libro di poesie che spero uscirà in primavera” (Nichi Vendola, ex segretario di Rifondazione e di Sel, Rainews24, 25.11). Non lo meritava, la primavera.

Il titolo della settimana. “La Lombardia già in prima linea per un futuro sostenibile e verde” (Roberto Formigoni, ex presidente della Lombardia, condannato definitivamente a 5 anni e 10 mesi per associazione per delinquere e corruzione, Libero, 29.11). Più che altro, al verde.

Anche se infedeli, quest’“Indifferenti” piacerebbero molto a Moravia

Parlerò del film Gli indifferenti, ispirato al romanzo di Alberto Moravia e diretto da Leonardo Guerra Seràgnoli. Ferzetti ha scritto: “È nato un autore”, per me era già nato nel 2014 con il suo primo lungometraggio Last Summer. Ci siamo incontrati nel 2015 in un caffè di Piazza Farnese, abbiamo parlato a lungo di cinema e dei suoi progetti. Tornato a Londra dove vive abbiamo continuato a scriverci. Forse gli avevo raccontato della mia tesi sul rapporto cinema-letteratura, del mio primo incontro con Moravia (scrittore che ha ispirato tanti capolavori: La Ciociara, Il conformista, La noia, Il disprezzo, per citarne qualcuno). Alberto era d’accordo con me sul fatto che un regista, se è un artista, non deve per forza essere fedele al romanzo, vedi Buñuel in Tristana. Gli esempi sono tanti, è anche vero che raramente un film supera il romanzo.

Un giorno Leonardo mi dice: lascio i progetti che avevo, vorrei fare una nuova versione de Gli indifferenti. Sorpresa, penso al bel film di Maselli (1964), la sfida è enorme. Comincia l’iter dei diritti, la sceneggiatura, trovare la produzione adatta e soprattutto un cast all’altezza. Sono passati gli anni, Leonardo non si è mai scoraggiato, ha lavorato tanto, riscritto la sceneggiatura, trovato gli attori giusti e finalmente nel 2019 il primo ciak. Ho frequentato il set, c’era molta armonia, il regista aveva le idee chiare, la sua competenza era evidente. L’ultimo giorno di riprese nessuno se ne voleva andare, l’atmosfera era malinconica. Poi è arrivato il Covid e le nostre vite sono cambiate, il montaggio fatto a distanza, le sale cinematografiche chiuse, i Festival rimandati a tempi migliori.

Quando ho saputo che il film sarebbe uscito sulle piattaforme avevo le lacrime agli occhi. Tanta fatica per niente. Mi hanno convinto che è meglio così, tutti possono vederlo a casa. Aspettavo con impazienza, le critiche erano buone, c’era interesse. Gli indifferenti oggi, messa in scena efficace, costumi e acconciature senza tempo, Valeria Bruni Tedeschi nel ruolo migliore della sua vita, bravi anche gli altri.

Non svelerò il finale, dirò solo che non è fedele al romanzo. Leonardo voleva “un riscatto” all’indifferenza. Nonostante l’infedeltà, il film bello, elegante e crudo sarebbe piaciuto molto a Moravia.

Dopo 32 anni, la magia dei Pink Floyd arriva da “Delicate Sound of Thunder”

All’indomani dell’uscita e del successo di A Momentary Lapse of Reason (1987), primo album della storia dei Pink Floyd senza lo storico bassista Roger Waters, parte il tour trionfale dei “nuovi” Floyd. Quel disco segna l’inizio di un nuovo capitolo nella storia dei Pink Floyd, che fa fatica a confrontarsi con vent’anni di una carriera ingombrante e leggendaria.

Nessuno avrebbe più scommesso sul futuro dei Pink Floyd, soprattutto lo stesso Waters, per il quale la loro vena creativa si era esaurita e nella sua concezione non potevano esistere i Pink Floyd senza di lui. Conclusasi la battaglia legale sull’uso del nome a favore degli ex compagni Gilmour e Mason (Richard Wright è ancora ufficialmente dimissionario), viene pubblicato l’album della “rinascita”: A Momentary Lapse of Reason, scritto e composto da Gilmour (affiancato da uno stuolo di sessionmen e collaboratori), come The Final Cut era un album di Waters. Il disco, nonostante qualche caduta di tono e momenti non sempre esaltanti, raggiunge il terzo posto della classifica americana e inglese. Seguono due anni di promozione dell’album con un faraonico tour mondiale, immortalato dal doppio album dal vivo Delicate Sound of Thunder, registrato in agosto al Nassau Coliseum di New York. Un nuovo live 20 anni dopo Ummagumma. Quei concerti, dagli apparati scenici mastodontici, hanno attirato più di 4 milioni di paganti e incassato oltre 80 milioni di dollari. Eppure Gilmour e Mason avevano finanziato il tour di tasca propria. Anche in questo caso i due colleghi, con Wright rientrato a pieno titolo nella band, si fanno supportare da esperti musicisti; i “nuovi” Floyd puntano più che in passato sull’effetto scenico, sull’accoppiata di “suoni e visioni”, per stupire sempre di più il pubblico: da una parte uno show ricco di effetti spettacolari che attingono a vecchi elementi della scenografia floydiana, dall’altra una parte sonora, divisa a metà tra nuovi brani (tratti da A Momentary Lapse of Reason, tranne l’apertura di Shine On You Crazy Diamond) e vecchi classici del repertorio di The Dark Side of the Moon, Wish You Were Here e The Wall. Su tutti svetta l’assolo di Gilmour in Comfortably Numb. L’album arriva a vendere 5 milioni di copie, è il primo della band a essere pubblicato in Unione Sovietica. La copertina reca il marchio di Storm Thorgerson e ribadisce la duplice esperienza di “suoni e visioni” dell’arte dei Pink Floyd. Dopo 32 anni dall’uscita del live arriva una versione rimasterizzata e rieditata, disponibile in più formati: 2 cd, 3 lp e un cofanetto di 2 cd, dvd e blu-ray con il film del concerto restaurato. Materiale a sufficienza per godere della musica immortale della band.

Lo “Zibaldone” di Rigoni a macchia di Leopardi

Detesto poche cose al mondo quanto le raccolte di coniectanea, che in latino possiede una sfumatura di disprezzo non trascorsa nelle lingue romanze. In napoletano si tradurrebbe benissimo ‘o sacco d’‘a munnezza: tante cose andate a male, mille volte “riciclate” e raccolte alla rinfusa dando loro l’aspetto di un libro. Vi si dedicano soprattutto i giornalisti che tentano di credersi, e far credere, di essere scrittori. Eccellono nello spacciare aforismi. E però: chi non s’inginocchierebbe di fronte a quelli di Lichtenberg? E gran parte dell’opera di Nietzsche non è concepita per aforismi? E lo Zibaldone di pensieri di Leopardi non è concepito in forma aforistica e insieme la più importante opera filosofica italiana in senso stretto dell’Ottocento, e una delle prime per tutta l’Europa?

Guardiamo la cosa dall’opposta prospettiva. Una piccola e, l’ho già detto, coraggiosissima, casa editrice napoletana, La scuola di Pitagora, mette in vendita in questi giorni Il pensiero di Leopardi di Mario Andrea Rigoni. Ma quanti libri sul Recanatese ha scritto costui? E in forma di coniectanea? Costui è un arrampicatore universitario – ma è già in pensione, e non me lo vedo a fare il commissario concorsuale con la sua lista di raccomandati. Ovvero è uno di quegli più o meno innocui maniaci con l’idea fissa? Il fatto d’esser il nostro più importante leopardista e insieme d’esser stato intimo amico di Cioran e diffusore in Italia della sua opera (orrore!) rende la posizione di Rigoni sempre più indifendibile.

Ho letto più di un’opera del nostro Padovano, in ispecie sul Recanatese. Quest’ultimo mi sembra il culmine di una vasta costruzione. Perché ci scopri anche una ferrea mano sistematica. L’Autore ha il vezzo di apporre la data a ciascuno dei capitoli; ma il libro ha un sol corso, fluente e possente. Sia chiaro: chi scrive è di filosofia affatto ignorante: se gli mettete in mano una pagina di Hegel e gliela lasciate per mille anni, dopo mille anni non ne avrà compreso una sola parola. È così rozzo che i suoi filosofi sono Spinoza, Nietzsche e, appunto, Leopardi. A Schopenhauer aderisce più con l’anima che colla ragione.

Paragonerei Il pensiero di Leopardi a una di quelle immense Toccate per organo di Bach della quale, magari a un certo punto e dopo varî ascolti, ti accorgi possedere una sterminata struttura formale nascosta dietro l’apparente improvvisazione. Bisogna ascoltare, e ascoltare, e ascoltare; come questo libro occorre leggere, e rileggere, e rileggere. Lo farò. Rigoni conosce ogni virgola dello Zibaldone, delle Operette morali, delle Canzoni filosofiche. Sempre ne scorgi il motivo filosofico: ch’è innegatamente pessimista e materialista, materialista in toto: tanto da riconoscere un’anima in quel che convenzionalmente si denomina natura inanimata, come faranno Nerval e Baudelaire. Leopardi non conosceva il tedesco; eppure partecipa al dibattito filosofico internazionale – sui temi a lui cari, s’intende – come se fosse uno di loro: uno schlegheliano, s’intende, non un hegeliano. C’è l’incredibile influenza da lui avuta su Nietzsche: senza il primo il secondo rimarrebbe nella metafisica wagneriana. Poi c’è lo sterminato amore per l’Antico e per l’Eroe, meno infelice di noi perché la vita per lui è un fatto, non una riflessione su noi stessi. E ci sono contraddizioni solo a un poeta-filosofo concesse: lo sconfinato amore per Platone, lo sconfinato odio per Platone. Grazie anche per questo, grande Mario Andrea.

“È solo Di Mare a stoppare Corona. Ma l’unica offesa sono io e l’ho già scusato”

I galloni acquisiti li lascia ad altri: “Direttore? Non mi chiami così, non lo sono da anni”. Un direttore è per sempre. “Non ho più quel titolo, quindi no”. Poche le interviste: “Mi stressano, sono sempre preoccupata del risultato finale, temo fraintendimenti. E poi sono riservata”. Le parole sono importanti, Bianca Berlinguer. “Sono fondamentali”. Anche il termine “gallina”, come l’ha apostrofata Mauro Corona in diretta. “Questa vicenda ha dell’assurdo: sono stata offesa, eppure non mi è stato lasciato il diritto elementare di gestire io stessa la questione; (ci pensa) vengo offesa da un uomo, Corona, e a restituirmi l’onore interviene un altro uomo, il direttore di Rai3, Franco Di Mare, con un atto di autorità inappellabile”.

Sono le nove del mattino, Bianca Berlinguer ha la voce pulita come se fossero le 12; inseguirla è stata un’impresa lunga giorni e giorni, impegni suoi, altri impegni, sempre suoi, poi l’attenzione a cosa accade dentro la sua azienda, più una riottosità nel voler curare un’esistenza perennemente sotto i riflettori, quando le sfumature diventano il primo indice di valutazione generale, anche attraverso un solo pronome possessivo: quando parla della mamma diventa “mia madre”, il padre è “papà”, come ad accettare una certa condivisione.

Da subito ha imparato il valore di gesti e parole.

Da bambina no; papà ha iniziato a diventare un personaggio pubblico dal 1969; (sorride) ricordo un episodio chiave, il passaggio dal prima al dopo: noi tre figli, Laura non era ancora nata, eravamo con lui in autogrill; a un certo punto si avvicina un signore e gli chiede l’autografo. Noi spiazzati.

E poi?

A casa lo raccontiamo a mamma e lei, nel ruolo di chi riporta tutti sulla retta via, rivolge lo sguardo verso papà, e chiude la vicenda con “stai attento, magari un giorno ti fanno firmare una cambiale in bianco”. Noi scoppiammo a ridere.

Torniamo all’oggi: giovedì sera il suo Corona era su La7 da Formigli…

Che situazione strana; ogni volta che lo invitano, prima di accettare, mi chiama per chiedermi, per così dire, il permesso; (silenzio) anche lui sta patendo la situazione e il non aver avuto la possibilità di spiegare.

Più e più volte si è scusato.

In questi tre anni di collaborazione tra di noi è nato un rapporto di affetto.

Dopo il “gallina”, quando vi siete chiariti?

Privatamente la sera stessa; è un personaggio controverso che ha costituito un fattore di originalità dentro la trasmissione e, con la sua tonalità di cultura popolare, ha rappresentato un segno distintivo.

Il vostro inizio era un punto fermo.

Quel ruolo è nato piano piano, mi divertivo e quando c’è stato il lockdown il riscontro del pubblico è stato intenso: ci scrivevano per ringraziarci di quella mezz’ora di vero intrattenimento.

E quando le ha detto gallina, cosa ha pensato?

In quel momento gli ho risposto con durezza, ma non pensavo si sarebbe arrivati a tanto. E ripeto: non mi è stato lasciato il diritto di gestire l’offesa.

Estromessa.

È diventata una questione tra maschi.

Con Di Mare ha parlato?

La sera stessa del fattaccio, Di Mare mi ha inondato di messaggi, da mezzanotte alle due del mattino, con un solo contenuto: “Mai più Corona in trasmissione”. E io: “Ne parliamo domani”.

L’incontro.

Molto acceso ed è finito male; appena sono entrata nella sua stanza, l’incipit è stato: “Quell’uomo non tornerà più nella tua trasmissione, questa offesa non può passare impunita”. E io: “Non spetta solo a te valutare l’entità dell’offesa. Sono in grado di risolverla da sola”.

Che danno le ha arrecato l’assenza di Corona?

Gli ascolti vanno bene, ma con lui sarebbero andati sicuramente meglio; il danno è anche per me, mi manca un po’ di leggerezza e gli spettatori se ne lamentano continuamente. D’altra parte, ci sarà un motivo se una volta escluso da #Cartabianca, Corona viene richiesto da tutte le trasmissioni concorrenti.

Perché Franco Di Mare si è impuntato?

Non lo so. E me lo sono chiesta ripetutamente. I nostri rapporti si sono limitati al caso Corona, per il resto non ho mai avuto alcun confronto con lui.

Come ne uscirete?

Per ora non ci sono margini. E la vicenda ha accentuato la mia sensazione di solitudine in Rai.

Come mai?

Neanche quando Campo Dall’Orto mi ha rimossa da direttore del Tg3 ho avvertito qualcosa di simile: con lui ci siamo incontrati, confrontati, scontrati, mentre adesso sento di non avere interlocutori.

Mancano a lei, o è una questione generale?

Non lo so. Un esempio: mentre La7 e Mediaset portano avanti una politica di squadra molto decisa e compatta, e vietano ai loro volti di frequentare altre tv, la Rai si muove in ordine sparso e così capita che, più volte, mentre è in onda la mia trasmissione, su La7 siano presenti figure note dell’azienda, addirittura una sua ex presidente.

Con chi si sfoga?

Per esempio con Lucia Annunziata, amica da anni.

Quando è diventata direttore, come è cambiato l’approccio verso di lei?

Ho avuto il privilegio di nascere in una famiglia dove non c’è mai stata differenza di educazione tra maschi e femmine.

Un esempio.

Prima di una certa età non potevamo partire da sole con il fidanzatino, e questo valeva anche per Marco; e così per l’orario di rientro serale.

È lui che si è schiacciato su di voi o voi che vi siete avvantaggiate di lui?

(Ride) È reciproco; comunque quando sono diventata direttore mi sono accorta di cosa voglia ancora dire essere una donna al vertice; (riflette) oggi in Rai non c’è una donna al comando né dei Tg né delle reti.

In sintesi?

Era dura far digerire che fosse una donna a prendere decisioni.

Ha fama di carattere tosto.

Fin da piccola sono stata abituata ad assumermi le mie responsabilità; e mia madre sosteneva: “Quando ti metti in testa qualcosa smuovi le montagne”. Insomma, sono cocciuta.

Di lei ha detto Minoli: “Quando l’ho conosciuta era ambiziosa ai limiti dell’arroganza”.

Sono arrivata da lui poco dopo la morte di papà. Essere dura era più che altro una necessità.

Allora non è ambiziosa.

Lo sono, ma non secondo quella descrizione; (ci ripensa, e mentalmente torna a Di Mare) preferisco un direttore che sbaglia, ma prende decisioni, a uno che tergiversa.

Di direttori ne ha avuti molti: Curzi tergiversava?

Un decisionista, e con lui avevi la sensazione di avere le spalle coperte.

Secondo la Sciarelli poteva mettere paura.

A me no; era duro, ma era sempre presente: d’estate si prendeva al massimo una settimana di vacanza e andava a Fregene (30 chilometri da Roma). In quella settimana chiamava in continuazione.

Nel 1990 dove immaginava il suo futuro?

Come giornalista di carta stampata. Il caso ha voluto che incontrassi nel 1985 Minoli e la mia fortuna è stata quella di entrare a Mixer: una vera scuola di giornalismo.

Il lavoro l’ha aiutata a elaborare il lutto?

Tanto, ma certe volte mi rendo conto di non esserci riuscita completamente anche perché quel mio dolore rifletteva un lutto collettivo.

Ritrovava suo padre ovunque.

E con grande affetto da parte di tante persone; (cambia tono) c’è un punto centrale: quando abbiamo raggiunto papà a Padova, ed era già in coma, qualcosa di più grande di noi si è messo in moto, oltre alla macchina organizzativa del Partito comunista, una fortissima emozione collettiva che ci ha in qualche modo travolti.

Non è rimasta sola con il suo dolore.

E neanche con mio padre dopo che è morto. Ma è bello sapere che gli viene riconosciuto di aver lavorato per il bene di tutti e ripenso a una sua frase, la mia preferita: “Siamo convinti che il mondo, anche questo terribile e intricato mondo di oggi, possa essere conosciuto, trasformato e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere e della sua felicità”.

C’è una parte della sua storia che il tempo sta distorcendo?

È accaduto negli anni Novanta, quando alcuni degli eredi del suo partito hanno provato ad addossargli colpe non sue, sulla base del solito alibi: i ritardi di oggi dipendono dalle scelte di allora. Ma sono stati i militanti a difenderlo.

Cosa ne pensava dei leader del partito di allora?

Non li abbiamo frequentati molto, papà ha sempre diviso rigorosamente la vita privata da quella pubblica, anche se, quando poteva, portava uno di noi figli in giro per l’Italia.

Il dirigente con il quale si trovava meglio?

Ricordo Ingrao a Padova: con papà c’erano differenze politiche, ma in ospedale lo vidi trasfigurato dal dolore.

Ai tempi del terrorismo ha mai avuto paura?

Solo per papà, non per noi.

E lei come giornalista?

A volte temo di non essere all’altezza delle responsabilità, e ancora ho qualche timore il martedì, prima di entrare in studio.

Non va a dormire subito.

(Ride) No! Andavo a cena con Claudia e Maddalena fino a quando si poteva, poi tornata a casa ci metto molto a struccarmi.

Mannoni protesta per il ritardo nel dargli la linea. La cosa la diverte?

No, mi fa arrabbiare, non rido per niente.

Un punto di riferimento femminile.

Mia madre. Mi ha insegnato a contare su me stessa, e l’importanza dell’indipendenza economica.

Ha mai ricevuto uno schiaffo da un uomo?

Mai; anche qui, mamma ci ha insegnato: “Se capitasse, girate le spalle, uscite dalla porta e non voltatevi mai indietro”.

Si sono mai avvicinati a lei per rubare un pezzetto del suo cognome?

Gli amici e i fidanzati no, poi, essendo noi quattro figli, la nostra casa era molto incasinata.

Tipo?

Mangiavamo in orari sballati: a pranzo aspettavamo papà e magari arrivava alle tre, e a tavola potevano scoppiare discussioni accese, e lui a ripetere “state calmi, state calmi”.

Un “perché” che si porta dietro da sempre.

(Ci pensa) Ne ho uno molto tradizionale: nonostante i grandi progressi, perché continua a crescere lo scarto tra chi è molto ricco e chi è molto povero?

Un segreto italiano del quale vorrebbe la verità.

Sono davvero tanti; la strage di Piazza Fontana, senza colpevoli dopo oltre 50 anni.

Più di Moro?

Quel giorno non lo dimenticherò: ero a scuola, finisco il compito di Greco, esco e trovo molte mamme, non la mia, che in tono concitato ci invitavano a tornare subito a casa “perché c’è il rischio di un colpo di Stato”. Da allora la nostra vita cambiò.

E…

Volevano dare la scorta anche a noi figli e papà ci chiese un parere. Noi eravamo molto perplessi e non se ne fece nulla.

Il suo personaggio letterario preferito.

Farò arricciare il naso a qualcuno, ma scelgo un personaggio popolare come Rossella O’Hara, una donna che è riuscita a rialzarsi con le sue forze dopo molte cadute e molte fatiche.

Nel 1980 suo padre ha dichiarato di voler invecchiare mantenendo intatti i suoi ideali da ragazzo…

(Sorride) Sì, ma non posso paragonare i miei ai suoi. Gli ideali di papà sono stati il senso della sua vita, oggi è molto più complicato.

(E se domani è un altro giorno, magari lo sarà anche per Mauro Corona a #Cartabianca)

Gli investimenti di famiglia che imbarazzano il ministro

Che il quarantenne ministro del Tesoro, Rishi Sunak, sia molto ricco non è un mistero né uno scandalo. Figlio di immigrati indiani, un medico e una farmacista, ha brillato negli studi guadagnandosi un posto a Oxford e Stanford e poi bruciando le tappe a Goldman Sachs, che ha lasciato a trent’anni per creare un suo fondo di investimento. Ha poi sposato Akshata Murty, una delle eredi del fondatore di Infosys, Narayana Murthy, e per capire di che ricchezza parliamo basti dire che la sua quota dello 0.91 per cento di Infosys vale 430 milioni di sterline, il che la rende più ricca della Regina Elisabetta ferma a 350 milioni. Spinoso problema politico: quando è entrato nell’esecutivo, consigliato da consulenti del governo, Sunak ha pensato di risolvere eventuali conflitti di interessi mettendo i suoi investimenti in un blind trust. I blind trust funzionano se i loro beneficiari non sanno come vengono gestiti: e su questo ci sono dubbi. Per esempio, prima del suo ingresso in politica, il fondo di Sunak, Theleme Partners, registrato offshore, aveva investito 500 milioni in Moderna, una delle società che producono uno dei vaccini Covid, di cui il governo britannico ha ordinato 5 milioni di dosi. Se nel frattempo il ministro abbia disinvestito o ci stia ancora guadagnando non si sa, perché per ora a domanda non risponde. Non solo: i ministri sono tenuti a dichiarare gli interessi propri e dei propri familiari in un apposito registro pubblico. Ma una inchiesta del Guardian ha appena rivelato che in quel registro risulta solo la partecipazione della moglie in una piccola società, e non che lei e la sua famiglia controllano azioni Infosys per 1,7 miliardi, e Infosys ha contratti con il governo britannico, fra cui uno da 5 milioni, in corso, con la Medicines and Healthcare products Regulatory Agency; hanno una partnership da 900 milioni l’anno con Amazon India; una partecipazione diretta in due catene di ristoranti in India; partecipazioni in altre cinque società inglesi. Lo sgradevole dubbio che andrebbe dissipato: ma non è che il ricchissimo Rishi si sta arricchendo di più grazie alla pandemia?

Caso Djalali, Teheran mette in allerta il boia

Dopo quattro anni di carcere nel più famigerato penitenziario di Teheran, il 47enne ricercatore iraniano naturalizzato svedese, Ahmadreza Djalali, ieri ha fatto una delle rare telefonate concesse alla moglie Vida. Non per aggiornarla sulle proprie condizioni di salute, compromesse dalla durissima detenzione e da un lungo sciopero della fame, né per annunciarle la liberazione, bensì per informarla che il 24 novembre è stato trasferito in una cella di isolamento.

Vida, a quel punto, ha capito che stava parlando con il marito e padre dei loro due figli, una adolescente l’altro ancora bambino, per l’ultima volta.

Poco prima delle esecuzioni, lo spietato regime degli ayatollah è infatti solito imporre ai magistrati di trasferire il condannato in isolamento. Dopo aver lanciato campagne, appelli e petizioni per la sua scarcerazione, gli operatori umanitari di Amnesty International e i medici del centro di ricerca per la medicina dei disastri di Novara, dove Djalali aveva lavorato per alcuni anni, sono costernati e sgomenti. “Abbiamo appreso dalla moglie che entro una settimana dal 24 in ogni momento potrà essere effettuata l’impiccagione di uno dei più autorevoli esperti di medicina dei disastri, tra cui sono annoverate le pandemie. L’Iran, uno dei paesi più colpiti dal Covid anziché utilizzare le competenze di Djilali preferisce sacrificarlo sull’altare dello scontro con Israele”, denuncia Riccardo Noury portavoce di Amnesty Italia. Djalali e tutti i cittadini iraniani dalla doppia nazionalità – spesso ottenuta tramite matrimoni con persone straniere o in seguito a corsi di studio o lunghi soggiorni di lavoro presso paesi esteri – ogni volta che rientrano nel paese natale rischiano la cattura e la condanna per spionaggio. “Questa gravissima accusa è quasi sempre un pretesto per incarcerarli e usarli al momento buono come veri e propri ostaggi da scambiare con iraniani detenuti nelle carceri di paesi stranieri per gravi crimini, come appena accaduto in Australia. Oppure vengono utilizzati per compiere atti di vendetta contro un paese considerato ostile o nemico, in primis Israele e Stati Uniti”, sottolinea Noury. Djalali era stato accusato di cospirare a favore della Svezia, dove ancora vive la sua famiglia, e di Israele. E molto probabilmente non è un caso che l’esecuzione della pena capitale, sospesa nel 2017, avverrà, se non è già avvenuta, nei giorni in cui è stato confermato l’assassinio a Teheran di Abu Muhammad al-Masri, il numero due di al Qaeda, e si è compiuto quello contro lo scienziato Mohsen Fakhrizadeh-Mahabadi, considerato tra i capi del programma nucleare iraniano, e per questo al primo posto nella lista nera del Mossad.

L’uso di espatriati innocenti da scambiare o da “giustiziare” è andato aumentando nel corso di questi 4 anni di amministrazione Trump che ha fatto di tutto per portare gli Usa fuori dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano firmato dal suo predecessore, Barack Obama. Djalali si era recato più volte in patria per tenere seminari sulla medicina delle emergenze, in un paese soggetto a forti terremoti, appresa anche al prestigioso Karolinska Institute di Stoccolma. La sentenza di condanna a morte per il ricercatore era stata emessa dopo avergli estorto con la torture la confessione di aver fornito al Mossad i nomi di altri scienziati nucleari. A nulla è valsa la lettera inviata da decine di famosi scienziati e intellettuali internazionali al vertice del clero sciita che in nome di Allah manda a morte persone innocenti e rende orfani molti figli. Solo i governi possono fare pressioni affinché la pena venga ancora una volta sospesa. Ma ora, forse, è davvero troppo tardi.

La tundra siberiana affogata nel petrolio dall’amico di Putin

Le acque della tundra dell’Estremo nord erano diventate improvvisamente rosse. Era il 29 maggio scorso quando, a 300 chilometri dal Circolo polare artico, oltre 20mila tonnellate di combustibile si riversarono nei fiumi e laghi russi. Le immagini satellitari confermavano al mondo ciò che tentavano inutilmente di insabbiare i proprietari della Nornickel, colosso minerario primo produttore di nickel al mondo: un loro impianto aveva ceduto permettendo una fuoriuscita di diesel nelle acque mai registrata prima nella storia. Una catastrofe dell’ecosistema artico senza precedenti. Putin dichiarò lo stato d’emergenza e urlò in diretta tv contro i responsabili: “Perché l’abbiamo dovuto sapere dai social network?”. L’ampia fuoriuscita di carburante – una perdita mai registrata prima della storia –, è avvenuta mentre Dmitry Kobylkin, l’ormai ex ministro delle Risorse naturali, silurato dal presidente il 9 novembre scorso, presiedeva il dicastero della tutela ambientale.

Vertici inadeguati che si dovevano occupare della gestione dell’impianto, i difetti dello stesso: queste sono le cause della tragedia secondo il report stilato dalla ERM, Environmental Resources Management, ingaggiata dalla stessa Nornickel per evitare di pagare un risarcimento che ammonta a circa 148 miliardi di rubli, (più di due miliardi di euro). Ma è stato lo stesso organo di controllo ad ammettere di aver ricevuto accesso solo lo scorso settembre alle strutture dell’azienda di cui maggior azionista è Vladimir Potanin, 41esimo più ricco del mondo, il primo nella lista dei miliardari russi. Oltre alla manutenzione insufficiente o nulla, anche la costruzione obsoleta, nata in epoca sovietica, aveva messe in sicurezza sfacciatamente minimali o totalmente mancanti. Per il Rostekhnadzor – Sevizio Supervisione Ambientale, tecnologica e nucleare –, non è stata colpa dello scioglimento o riscaldamento del permafrost, come vuole far credere l’azienda, ma delle fragili fondamenta e deboli pilastri su cui si reggeva il serbatoio del carburante. Il rapporto dell’istituzione federale stilato dopo l’ispezione tecnica riferisce che sono stati difetti e negligenza nella gestione a far fuoriuscire il gasolio e non il riscaldamento globale. Emissari del Cremlino sono stati spediti sul posto non solo per l’incidente che ha contaminato le acque, ma anche per l’aria inquinata da migliaia di tonnellate di anidride solforosa e altri gas pericolosi emessi ogni anno dalle ciminiere dello stabilimento. La portavoce del Consiglio della Federazione Valentina Matvienko si è recata a Norilsk – città a pochi chilometri dall’impianto – lo scorso ottobre definendo pubblicamente i vertici dell’industria “cinici, corrotti, socialmente irresponsabili che hanno agito con totale indifferenza verso la madrepatria, da cui traggono profitti enormi”.

La trasparenza manca non solo all’aria di quell’angolo remoto dell’Artico, ma anche ai fondi delle operazioni del colosso. La corruzione riguarda anche le autorità locali, secondo la parlamentare: “Norilsk è la città tra le più inquinate non solo in Russia, ma nel mondo: la catastrofe del riversamento ha aggravato una situazione che era già disastrosa. Come è possibile che il ministro dell’Artico o i federali non abbiano mai visto niente? Sono tutti a libro paga della Nornickel o che altro dovrei concludere?” Ora i cancelli della fabbrica sono stati chiusi, gli appartamenti degli abitanti messi in vendita al prezzo di uno smartphone, il silenzio è calato sulla città cimitero. “Indipendentemente dalle cause” ha riferito la Nornickel, “l’azienda si assume la responsabilità della bonifica per riabilitare l’area interessata dalla fuoriuscita”. Quasi tutti gli operai sono stati riassegnati ad altri stabilimenti: Anna Krygina, responsabile delle Risorse umane, ha confermato che gli 800 lavoratori sono stati trasferiti. Macchinari e attrezzature verranno smantellati e spediti a Murmansk, Siberia, dove sorge un altro stabilimento di Potanin, che ha promesso che la carcassa che ha causato il disastro nella cittadina artica sparirà entro il 2025: la fabbrica tirata su dai sovietici verrà rasa al suolo. Quali saranno le prossime mosse dell’azienda lo riferisce la Tass: notizie arrivano dal forum dell’Artico e Antartico appena concluso in Russia. I prossimi investimenti della Nornickel finiranno nella costruzione di un resort che sorgerà sull’altopiano Putorana, regione di Krasnoyarsk. Prezzo stimato: 15 miliardi di rubli, che arriveranno con una promessa: verrà rispettato l’ambiente. Anche il resort – come la fabbrica – sorgerà vicino a un lago: quello di Melkoye.

“The Crown, balle sui Reali. Regina in crisi coi pianti di D”

Ingrid Seward è l’editor in chief di Majesty magazine e una profonda conoscitrice della famiglia reale inglese, su cui ha scritto decine di libri. L’ultimo è Prince Philip revealed; A Man of His Century. Le abbiamo chiesto quanto la serie The Crown sia distante dalla realtà.

Partiamo dalla Regina: il suo personaggio cambia moltissimo nel corso della serie, da ragazza sensibile a donna fredda anche con i figli. È un ritratto realistico?

Era una giovane donna sensibile, salita al trono molto presto. A soli 26 anni entra nel mondo tutto maschile degli anni 50, quando l’atteggiamento nei confronti delle donne era molto diverso da oggi. Sopraffatta, senza una guida, ha seguito le orme del padre. I figli hanno sofferto del fatto che avesse poco tempo per loro – ma questo non era inusuale nell’aristocrazia britannica del tempo, che anzi vedeva i figli di rado –. Non è mai stata fredda, ma è un prodotto del suo tempo, nessuno nella sua vita aveva mai pianto sulle sue spalle come Diana. Niente l’aveva preparata a gestire un conflitto emotivo come quello. Quanto all’umanità di Diana, non era in grado di comprenderla, e benché la ammirasse era preoccupata che il suo potere mediatico la travolgesse, e aveva ragione. Il ritratto che ne fa la serie è troppo severo. Non è mai stata scortese o fredda, solo non ha mai creduto nell’opportunità di mostrare le emozioni in pubblico. Ed è sempre stata al corrente dei sentimenti dei figli, forse con l’eccezione di Charles, che aveva solo 4 anni quando è salita al trono e aveva bisogno dell’amore della madre quando lei era troppo sotto pressione per darglielo.

Il Principe Philip, a cui ha dedicato l’ultimo libro: gioviale gaffeur o uomo pieno di risentimento per la libertà perduta e il ruolo secondario?

È un personaggio complesso, ma un aspetto davvero rilevante della sua personalità, per tutta la sua vita, è la sua devozione al dovere e il costante supporto alla Regina. Ha sempre creduto che il suo dovere fosse servire lei e l’istituzione della monarchia e quindi chiunque irrita lei irrita anche lui. Pensava che Fergie e Diana avessero fatto di tutto per screditare la monarchia e per questo ce l’aveva con entrambe, perché avevano infangato una istituzione a cui lui ed Elisabetta hanno sacrificato la vita e la libertà. Lo stesso con Meghan e Harry e con il principe Andrea. Non è affatto sprezzante o aggressivo: ma ama lo scontro perché apprezza le battute e gli scambi arguti e non sopporta la stupidità. È colto, intelligente, un gran lavoratore, e molto divertente. Ha un senso dell’umorismo tagliente: in un’altra vita, avrebbe potuto essere un ottimo autore di satira. Ha amato i suoi figli ma aveva aspettative alte ed è rimasto deluso soprattutto da Charles. Anna gli somiglia di più ed è la preferita. Ora è anziano, fragile, ma ancora al fianco della Regina in privato, se non in pubblico.

Charles, appunto. Segnato dal rapporto difficile con i genitori, sempre all’ombra di una grande donna, che sia la madre, Diana o Camilla. Che re sarà?

È molto più divertente, ironico e pieno di energia di come appare in The Crown. Da ragazzo lo chiamavano Action Man, ed era molto avanti rispetto ai tempi con le sue idee sulla preservazione climatica. È un visionario ma, diciamo, è maturato tardi. Forse se Diana fosse stata meno giovane o più sofisticata sarebbero potuti davvero diventare la gran coppia che lei sperava diventassero. Sarà un buon re perché ha un sincero interesse per tutto e tutti. La sua non è un’eredità facile, ma sarà amato. Dopo la morte della madre la gente avrà bisogno di stabilità e delle grandi sue doti oratorie.

Diana: com’era davvero? Una vittima o una personalità decisa a vivere a modo suo malgrado tutto? Ed è vero che il viaggio in Australia fu un disastro per la coppia perché Carlo si sentì messo in ombra?

Sì, questo è vero. È anche vero che ha avuto scarso supporto dalla famiglia reale ma è perché lo ha rifiutato. All’inizio era debole; è diventata forte per sopravvivere. Una straordinaria donna-bambina, che ha causato enormi problemi ai reali, ma così amata che ha portato la monarchia ad un livello di esposizione mai visto. Forse è stato un bene, forse no.

Camilla: nella serie è matura, intelligente, brillante, anche sensuale. È così nella realtà?

Sì, ma in più non è cattiva e non avrebbe mai mortificato Diana come nella serie. Solo che Diana l’ha sempre detestata, fin dal primo incontro e non si è mai fidata di lei.

C’è qualche scena o personaggio che l’hanno particolarmente irritata?

La Regina Madre. È descritta come una caricatura, quando invece era una matriarca, la vera capofamiglia, molto forte, molto brillante, amabile e divertentissima. E poi ho odiato le scena di Margaret Thatcher a Balmoral. La Regina è un capo di stato e non avrebbe mai trattato così un’ospite. Era suo dovere far sentire a suo agio il suo Primo Ministro, ed è quello che ha fatto. Nella sua biografia la Thatcher racconta di aver lavato i piatti con la Regina in uno dei cottage della proprietà, ma non sono mai andate a caccia perché la Regina di sicuro sapeva che la Thatcher lo avrebbe odiato.

Complessivamente pensa che la serie possa danneggiare la monarchia? I reali vengono rappresentati come maleducati, snob e allo stesso tempo fragili, rancorosi e infelici.

Penso di sì, se chi la guarda non sa la verità e crede a quello che vede. Certo, come dice lei, in The Crown sembrano davvero orribili.

Ma i Reali la guardano? La Regina?

La Regina no di sicuro, e nemmeno gli altri se hanno un po’ di buon senso. A che servirebbe? È così irritante vedersi raccontati in un modo tanto falso.

Teatro, malizia e candore infantile. E l’ironia è fatta

Se si ha una predisposizione naturale, il metodo migliore per apprendere le cose rilevanti della comicità è la pratica teatrale: senza, l’oggetto resta come imprendibile. Regole e postulati si sono sviluppati dall’arte stessa: c’è chi ha studiato ciò che facevano d’istinto i comici, traendone precetti. Chi non stimò pertinente alla propria analisi la pratica del comico, quasi fosse secondaria, edificò costruzioni teoriche le cui fondamenta, che rimangono nascoste alla vista, sono tutto fuorché solide. Solo chi ha fatto pratica di fronte a un pubblico, per esempio, sa quanto siano necessarie certe nozioni di minor rilievo, ma tali per cui, se le si trascura, non v’è luogo per le più importanti.

La perfetta arte comica è una realtà: ho conosciuto comici al cui confronto altri mangiano il fieno. Il comico perfetto non può darsi se non in chi è pieno di malizia, ma al contempo possegga, oltre a uno straordinario controllo, un incoercibile candore infantile. Quando una persona di spirito non è maliziosa, né in controllo, né candida, per me non è neppure un comico; e non desidero che lo diventi, se pure può.

Moglie, tu non permetti che io ti inculi, ma lo permettevano Cornelia a Gracco, Giulia a Pompeo e Porcia a te, Bruto. (Epigr., XI, 104, 17-8)

Per cui, a scanso di errori scellerati, che sono imperdonabili, dirò e non dirò: chi merita di imparare, il sapere che gli manca saprà rubarselo.

SAGARISTIONE: Ho capito. Oggi t’hanno inculato a dovere. PEGNIO: Embè? Che ti frega? E poi mica come te, che lo fai gratis. (Per., 284-285)

Ritorniamo dunque indietro nel tempo, a scuola di stile dai maestri della comicità greca e latina.

 

IL PITTORESCO

Hai un grosso difetto, Galla. Ogni qualvolta mi accingo all’impresa e ci agitiamo con gli inguini uniti, tu taci, ma non la tua vagina. Volessero gli dei che tu parlassi e quella tacesse: la tua vagina garrula mi dà fastidio. Preferirei che tu scoreggiassi: è una cosa che fa bene, secondo Simmaco, e nello stesso tempo muove al riso. Ma chi può ridere del borbottio di una stupida vagina? Quando rumoreggia, a chi non viene meno il membro e la voglia? (Epigr., VII, 18, 4-14)

MIRRINA: Se rimango sola in casa, il sonno mi fa scivolare le cose dalle mani. (Cas., 168-169)

Aristofane chiama Euripide “Questo presuntuoso fabbricatore di zoppi!” (Bat., 845-46).

CORO: Quel rottinculo chiacchierone del figlio di Clinia. (Ak., 716)

SICONE: Mangiamerda! (Dys., 488)

 

IL SUONO COMICO

Il suono ‘K’ è fra i più comici. Lo ricorda Neil Simon nella commedia “The Sunshine Boys” (“Words with a ‘K’ in it are funny. Chicken is funny. Cupcake is funny. Tomato is not funny. Roast beef is not funny. Cookie is funny. Cucumber is funny. Cleveland is funny. Maryland is not funny.”); ma Aristofane e Plauto già lo sapevano:

RANE: Brekekekex koax koax, brekekekex koax koax! (Bat., 209-10)

ARTEMONA: Dice che lo invitano Archidemo, Cherea, Cherestrato, Clinia, Cremete, Cratino… (Asin., 865-866)

ME. Non hercle egoquidem usquam quicquam nuto neque nicto tibi. (Bacc., 613)

Anche l’affollamento di parole mira a un effetto comico sonoro:

TOSSILO: O rumenta ruffianesca, cesso pubblico impiastricciato di schifezza, sporcaccione, disonesto, iniquo, fuorilegge, rovina del popolo, avido e invidioso depredatore del pubblico denaro, procace, rapace, furace… (Pers., 406-410)

In latino, la stessa frase è anche un’orgia di suoni “K”:

TO. Oh, lutum lenonium, commixtum caeno, stercolimum publicum, impure, inhoneste, iniure, inlex, labes popli, pecuniae accipiter, avide atque invide, procax, rapax, trabax… (Pers., 406-410)

 

IL RITMO COMICO

La sequenza ternaria, la cui completezza era sfruttata anche nelle formule rituali, è particolarmente adatta alla comicità:

SIMICHE: Che disgrazia! Che disgrazia! Che disgrazia! (Dys., 574)

ANTIFONE: Cosa? L’ha venduta? GETA: Che dici? L’ha venduta? FEDRIA: L’ha venduta. (Pho., 510-11)

ACANTIONE: Tuo padre…. CARINO: Che c’entra mio padre? ACANTIONE: …la tua amichetta…. CARINO: Che c’entra lei? ACANTIONE: …l’ha vista. CARINO: L’ha vista? (Merc., 180-181)

 

IL PATHOS

Quando lo si esagera, crea effetti comici sicuri:

EUCLIONE: Sono morto, defunto, deceduto. Dove correre? Dove non correre? (Aul., 713)

FILOCLEONE: Questo mi fanno? Cosa mi dici! Mi turbi le viscere, mi conquisti la mente, insomma non so più cosa mi fai. (Sfe., 696-97)

Lo stesso accade quando è innaturalmente assente (deadpan), come nella replica di Geta:

CNEMONE: Maledetto! Gli dei ti facciano crepare nel peggiore dei modi, se continui a cianciare! GETA: Molto ragionevole. (Dys., 599-602)

 

L’IRONIA

L’ironia è la figura stilistica con cui intendiamo il contrario di ciò che diciamo.

MERCURIO: Parla, perché sei venuto? SOSIA: Perché ci fosse qualcuno che tu potessi prendere a pugni. (Amph., 377)

SCELEDRO: Uno scandalo. PALESTRIONE: Tientelo per te. Non dirmi niente, non voglio sapere nulla. (Mil., 282-283)

AMBASCIATORE: È stato estenuante attraversare le pianure del Caistro, buttati su carri scomodi, e in tenda. Da morire. DICEOPOLI: Stavo bene io: buttato nel fango, in trincea! (Ak., 68-72)

L’ironia può servirsi del paragone iperbolico:

EVELPIDE: Che uomo sapiente! Davvero un’idea da stratego! Con le tue macchine da guerra ti lasci dietro anche Nicia! (Orn., 363-64)

SCIMMIA: Voglio sapere se conosci un uomo che sta da queste parti. BALLIONE: Io conosco me. SCIMMIA: Ce ne sono pochi che sappiano tanto. In piazza se trova uno su dieci, che conosca se stesso. (Pseu., 970-972)

(32. Continua)