Il mercante di Treviso, le scarpette della moglie e gli affari del meretricio

Dalle novelle apocrife di Pietro Aretino. A quel tempo, Messer Damiano era uno dei mercanti più noti di Treviso. Importava da Venezia ogni sorta di mercanzia all’ingrosso, che rivendeva al dettaglio con profitto. Il commercio era la sua ossessione: non gli importava altro. Anche sua moglie, Madonna Eudora, aveva un’ossessione. Era una donna molto bella, dalla femminilità fremente, e al suo passaggio gli uomini si voltavano ad ammirarla, facendo convergere su di lei i loro desideri più roventi, come raggi del sole attraverso una lente biconvessa. I bei giovanotti erano la sua passione, e ogni giorno, approfittando del marito assente, ne conduceva in casa qualcuno. Non c’è da meravigliarsi: l’istinto di ogni donna la spingerebbe a concedersi a dieci uomini di seguito, finché fossero esaurite tutte quelle provviste di energia che un uomo solo non basta a esaurire.

Il marito non sospettava nulla, ma un giorno brontolò: “Cosa fai tutto il giorno, chiusa in casa? Come si può essere soddisfatti della propria vita, se non si commercia in qualcosa?”. Le aveva dato un’idea. Da quel giorno, ogni volta che il giovane di turno si scioglieva dal suo abbraccio e, seduto sul bordo del letto, cominciava a rivestirsi, Eudora esigeva un pagamento. “Giusto un pensiero, qualcosa di personale che mi ricordi di te. Una cosa bella, ma non troppo costosa”. Felice di cavarsela così a buon mercato, ognuno di loro le donava le proprie calzature, che lei ammassava in un magazzino inutilizzato dal marito. I calzolai di Treviso fecero fortuna. I nobili, salutate le mogli, si allontanavano con ai piedi preziose scarpette di velluto e seta; i commercianti con eleganti scarpe di tela ricamata; gli artigiani con raffinati scarponcini in pelle. E ciascuno, con grande stupore delle mogli, delle fidanzate e delle madri, tornava a casa scalzo.

Qualche anno dopo, Messer Damiano ricevette un carico di merci dalla Siria, e avendo il magazzino pieno aprì quello della moglie. Restò a bocca aperta: davanti ai suoi occhi, file e file di scaffali perfettamente ordinati esibivano un campionario di calzature dalla fattura eccelsa, come non se ne trovavano neppure nei negozi più lussuosi di Venezia; alcune anche di foggia straniera. Corse a casa, e chiese spiegazioni. La moglie scoppiò a ridere. “Credi che una donna non sappia comprare a molto e vendere a poco?”. “Guarda che è il contrario: si deve comprare a poco e vendere a molto”. “Sì, certo, naturale, è quello che intendevo. E non me la cavo male, come hai visto”. Damiano, contentissimo dell’inaspettato talento commerciale della moglie, si complimentò con lei, e la esortò a continuare, mettendole a disposizione altri magazzini. In breve, Madonna Eudora collezionò tante di quelle scarpe da poter calzare a nuovo tutti gli uomini della Serenissima. Ma il Tempo crudele, signore di tutto, un giorno soffiò su di lei il suo alito freddo. Il bel volto di Eudora prese a segnarsi di rughe; il suo corpo, florido e attraente, a rinsecchirsi; finché, un brutto giorno, nessun uomo la guardò più. Il suo appetito, però, non era cambiato: un bel toso le faceva ancora gola. Allora decise di fare il contrario: col belletto, poteva rimorchiare marinai in licenza, scaricatori di porto, facchini; e, dopo aver fatto l’amore, regalava a ciascuno un bel paio di scarpe dal suo campionario. Anni dopo, il marito scoprì che i magazzini della moglie erano quasi vuoti. Sbalordito, chiese spiegazioni. “Devi aver fatto affari d’oro!”. La moglie scosse la testa, e con un sospiro disse: “Tutte le scarpe, ahimé, se ne sono andate come sono venute”.

 

Sansonetti e la strana guerra di Formica

Il Riformista di Piero Sansonetti, dopo aver ripreso con un anno di ritardo lo scoop del Fatto sui soldi della Philip Morris a Casaleggio, prosegue la sua campagna sul tremendissimo rapporto tra grillini e lobbisti con un’intervista all’intramontabile Rino Formica, splendido 93enne, eroe craxiano della Prima Repubblica. Formica aggiunge il suo mattoncino alla Cinquestellopoli scoperta a scoppio ritardato da Sansonetti e i suoi. Il socialista si accredita come “nemico irriducibile” della Philip Morris, perché nel 1991 da ministro delle Finanze lottò senza riserve contro il gigante del tabacco: “I contrabbandieri erano riforniti addirittura da fabbriche che la Philip Morris aveva in Bulgaria”. Le cronache dell’epoca in verità consegnano un ritratto un po’ meno elegiaco: Formica non fu poi così inflessibile. Anzi la sua idea per stroncare il traffico si può riassumere così: la trattativa Stato-contrabbando. Formica propose alla manodopera del mercato nero di “riemergere” e farsi assumere dallo Stato: da contrabbandieri a finanzieri. Un’offerta che offese entrambe le categorie.

Il “riequilibrio” dei giallorosa e la debolezza strutturale del Pd

Per tradizione i rimpasti non portano bene ai governi, basta guardare la storia della Seconda Repubblica dove tutti gli esecutivi “ritoccati” hanno poi propiziato la sconfitta della coalizione che li sosteneva. Di solito, il fatidico “riequilibrio” invocato dagli alleati serve solo a variare gli assetti di poltrone e di potere senza incidere più di tanto. Ma nella surreale vicenda del rimpasto giallorosa che si concretizzerebbe dopo l’approvazione a fine anno della manovra, è un altro il punto che dovrebbe far riflettere strateghi e tattici della maggioranza composta da quattro forze: M5S, Pd, Articolo 1 e Italia viva. Un punto bene illustrato dagli ultimi dati di Nando Pagnoncelli pubblicati ieri dal Corriere della Sera

, in cui il centrodestra è al 49 per cento e i giallorosa poco sopra il 41. E dentro la maggioranza il partito che più ristagna da un anno a questa parte è lo stesso che ha l’ossessione del rimpasto. Cioè, il Pd di Nicola Zingaretti che non si schioda dal 20 per cento.

Insomma, non una posizione di forza, come magari quella di Matteo Salvini nell’estate del 2019 quando raddoppiò i voti alle Europee e andò in pressing sui 5S fino alla rottura. Non solo. A destra e a sinistra del Pd, ci sono ben cinque cespugli che racimolano oltre il dieci per cento, quasi tutti nati da diaspore dei dem. In altri tempi – come in quel Novecento tanto caro a Goffredo Bettini, vero pilota (senza incarichi formali) di questo rimpasto – una forza seria e riformista s’interrogherebbe internamente sulle ragioni di questo prolungato impantanamento, senza crescita e senza orizzonti chiari, anziché appellarsi all’inesistente valore salvifico di un rimpasto di poltrone durante l’emergenza pandemica. Anche perché se Conte non si tocca (Bettini), idem Gualtieri (sempre Bettini), chi crede alla favola che basterà cambiare la Catalfo o la De Micheli per riavviare inarrestabile la spinta propulsiva del Conte-2?

“Sì al tavolo con i dem, no a cancellare i miei 5 anni”

Sindaca Chiara Appendino, ormai lei è fuori dalla partita per la sua successione. Dopo la condanna in primo grado a 6 mesi, per falso ideologico nel bilancio del Comune di Torino del 2016, si è autosospesa dal M5S e ha annunciato che non si ricandiderà. Due giorni fa, anche il rettore del Politecnico, Guido Saracco, ha ritirato per motivi familiari la disponibilità a correre, spiazzando il Pd. Chi diventerà sindaco di Torino?

Bella domanda. Alla quale risponderò dopo, facendo un ragionamento che riguarda anche me. Prima, però, mi permetta di dire che sono dispiaciuta per Saracco. Ecco, credo che si sarebbe potuto costruire. Peccato.

Dunque, nonostante questa defezione, la strada resta quella di un accordo possibile tra Cinquestelle e Pd?

Alt: non corriamo troppo e non mi faccia dire ciò che non dico. Il mio ragionamento, quello di chi non si ricandida più, ma che è tuttora sindaco, è questo: mettiamo in piedi un tavolo sulla città, individuiamo temi, ruoli e futuro che intendiamo dare a Torino nel Paese. Poi si parlerà di uomini o di donne e di possibili alleanze. Con qualche paletto, però, che tenga conto del fatto che io e il M5S abbiamo guidato questa città negli ultimi 4 anni e mezzo.

Che cosa vuol dire?

Che ci sono delle cose che abbiamo fatto e, soprattutto, delle scelte che impegnano il futuro di Torino. Non si possono mettere da parte e non si può pensare di affidarle a personaggi che vengono dal passato. Io rivendico di aver riportato il bilancio del Comune a una situazione di sicurezza. Abbiamo scongiurato il pre-dissesto e ora il Comune può tornare a fare investimenti: persino nella manutenzione delle strade. E poi ci sono gli impegni mantenuti sulle periferie, dove abbiamo investito 45 milioni di euro, sulla mobilità. sull’innovazione, e quelli per lo sviluppo, con gli aiuti del governo per sei poli di intervento.

Una rivendicazione giusta per chi si prepara a lasciare, ma che aggiunge poco alla costruzione di un’alleanza per il 2021. Non crede?

Non è vero. Ci si allea o, meglio, ci si mette attorno a un tavolo, se ci si riconosce reciprocamente. Io ogni sera mi interrogo su che cosa avrei potuto fare meglio. Ma le cose che ho appena elencate non si possono cancellare. Non toccherà a me condurre quella discussione, ma ci sono argomenti che non potranno essere messi da parte. Quello dei diritti, per esempio: io sono il primo sindaco che ha trascritto la nascita di un figlio di genitori dello stesso sesso. Su questo, non si torna al passato.

Qualche nome per un possibile candidato? Qualche consiglio al Pd?

Non spetta a me fare nomi, non ci possono essere candidati di Chiara Appendino. E non intendo bruciare nessuno, neppure tra i 5Stelle. Anche al Pd non posso dare consigli; faccio solo una riflessione: non si può rimuovere la sconfitta del 2016 come un mero incidente di percorso. E poi invito tutti, anche i miei, ad andare nei mercati di periferia come faccio io ogni sabato, e a scoprire un malcontento fortissimo, accentuato dal Covid. Segnali da cogliere prima di ogni scelta per contrastare il centrodestra.

Nemmeno un nome a 5Stelle?

Ripeto, non faccio nomi e non brucio nessuno. So però che il gruppo consiliare lavora a un programma e questo è positivo. Un’unica concessione, ma per Roma: spero che Virginia Raggi si ricandidi, perché penso possa vincere.

Che cosa ha provato per quella condanna che l’ha portata alla rinuncia e poi, qualche giorno fa, quando il pm ha chiesto per lei una pena a 1 anno e 8 mesi nel processo sui fatti di piazza San Carlo?

I sentimenti sono tanti. La sera della condanna si sono mescolati rabbia, dolore, sconforto. Ti senti giudicata, messa in discussione riguardo ai tuoi valori e alla tua morale. Io non avevo mai messo piede in un tribunale. Quando ho annunciato alla mia famiglia che non mi sarei più ricandidata, mia figlia di 5 anni mi ha risposto: torni a fare la mamma. Però io le sentenze le rispetto, fa parte della mia storia: e per quanto riguarda il falso ideologico, una questione tecnica e non certo di soldi spariti, confido e molto nell’Appello. Se sei sindaco devi agire, non puoi fermarti per paura di eventuali conseguenze. Ma anche per quella vicenda vale ciò che ho detto presentandomi nell’aula del processo per piazza San Carlo: un sindaco deve rappresentare sempre la sua città, assumendosene tutte le responsabilità.

Qualcuno continua a ripetere che potrebbe attenderla un impegno a Roma nel Movimento. C’è qualcosa di vero?

Prima di rinunciare alla ricandidatura, per quella condanna mi sono autosospesa dal M5S. Le sembra possibile che io possa perdere la faccia? Non intendo certo chiamarmi fuori dalla nostra storia, ma proprio perché sono coerente con essa, per ora sto ferma.

Che ne sarà però dei 5stelle, dopo degli Stati generali molto confusi?

Per me gli Stati generali sono un inizio. Dobbiamo dirci soprattutto che cosa vogliamo fare per questo Paese, che identità vogliamo avere in continuità con ciò che siamo stati. Tenendo conto, però, di qualcosa di importante che è venuto dopo: l’esperienza di governo, con il ruolo di suoi azionisti di maggioranza. Ecco: dobbiamo capire come possiamo continuare a essere un movimento che vuole partecipare al governo dell’Italia.

Comunali ’21: la lotteria giallorosa da Fico a Sala

Lo avevano detto subito dopo le Regionali di settembre, i giallorosa, che non sono riusciti a fare sintesi su nessun candidato presidente: “Apriamo subito un tavolo per le Comunali 2021”. Ma a pochi mesi – Covid permettendo – dalla scelta dei sindaci delle principali città italiane, la discussione è ancora lontanissima dall’iniziare. Ecco chi c’è ai nastri di partenza.

 

Roma. Se le Comunali 2021 dovessero slittare da giugno a ottobre, sarà soprattutto per le difficoltà del centrosinistra di trovare un nome all’altezza per la Capitale. E con Virginia Raggi che punta al bis, è ancora più dura. A Zingaretti, Carlo Calenda starebbe anche bene, ma il Pd si perderebbe tutta l’ala sinistra della coalizione, con l’urbanista Paolo Berdini già pronto a farne le veci. I dem le stanno provando tutte per convincere Raggi a desistere: vorrebbero le fosse offerto un posto da sottosegretario (magari al posto di Pierpaolo Sileri, da spendere per il Campidoglio) ma lei non ne vuole sapere. E molto dipenderà dalla sentenza del processo d’Appello, forse in arrivo già il 14 dicembre. Qualcuno pensa anche al ministro Roberto Gualtieri, dopo l’eventuale rimpasto. Si cerca un anti-Bertolaso, un “poliziotto-commissario che stia bene anche al M5S di governo”, un profilo “tipo Gabrielli” dicono (ma lui non è disponibile). A destra, l’ex capo della Protezione civile sembra vicino dall’ufficializzazione: Giorgia Meloni avrebbe dato il suo ok; in corso “l’ultima riflessione” con Andrea Abodi (ex Figc). In palio – oltre ai 5 anni di mandato – c’è un miliardo di stanziamenti per il Giubileo 2025.

 

Milano. Anche qui, candidati certi non ce ne sono. E allora si compulsano i sondaggi: per l’istituto Noto, se l’uscente Beppe Sala dovesse decidere di non ricandidarsi, il profilo migliore per la sinistra sarebbe quello di Tito Boeri, mentre a destra i più graditi sono Ferruccio Resta, rettore del Politecnico, e Maurizio Lupi. Tutto dipenderà da cosa farà Sala. Prima della seconda ondata sembrava quasi certa la sua non ricandidatura, con i due assessori Pierfrancesco Majorino e Pierfrancesco Maran come potenziali eredi. Ora Sala è più prudente e non sono sfuggite le accuse politiche all’amministrazione leghista della Regione. L’ex Mr Expo è apprezzato dai milanesi (64% secondo Noto), ma la corsa solitaria di Pd e M5S potrebbe portargli via un 7-8%, considerando che a livello locale, almeno per ora, entrambi hanno escluso alleanze. Il vantaggio per i giallorosa è che non c’è fretta: la destra in alto mare consegna nomi ai giornali per sondarne la popolarità: oltre a Lupi e Resta, il bocconiano Maurizio Dallocchio, il chirurgo Paolo Veronesi, l’improbabile Franco Baresi, già autoesclusosi con una risata.

 

Napoli. Solo il presidente della Camera, Roberto Fico, “batte” il pm anticamorra Catello Maresca, secondo Noto Sondaggi. Qui, al momento, l’unica candidatura ufficiale è quella dell’assessore Alessandra Clemente, designata dal sindaco uscente Luigi de Magistris per tentare di prolungare l’esperienza arancione degli ultimi 10 anni. Fico e Maresca sono stati testati come candidati sindaci di centrosinistra e centrodestra, ma la situazione è assai fluida: primo perché il nome di Fico passerebbe per un non scontato accordo Pd-M5S al quale sta lavorando da mesi il segretario dem Marco Sarracino e a cui è ostile Vincenzo De Luca, secondo perché il Pd avrebbe anche altri nomi, a cominciare dai ministri Enzo Amendola e Gaetano Manfredi. Che però nei sondaggi, al contrario di Fico, escono sconfitti da Maresca, nome designato da pezzi di Forza Italia che vogliono fare piazza pulita della gestione Cesaro. Sullo sfondo, sornione, c’è già in campo l’ex governatore Antonio Bassolino.

 

Bologna. Il partitone spaccato e la città annoiata. I vertici dem avrebbero scelto di puntare su Alberto Aitini, assessore alla Legalità che ricorda a tanti, a torto o ragione, il piglio da sceriffo del fu sindaco Sergio Cofferati. Una scelta che va a colpire l’assessore alla Cultura Matteo Lepore, autocandidatosi da mesi senza l’entusiasmo del partito, ma con il sostegno del sindaco uscente Virginio Merola e di alcune sacche cittadine molto trasversali: le Sardine, ma anche i moderati di Forza Italia, alcuni centri sociali ma anche i commercianti. Un recente sondaggio Winpoll certifica che è lui il candidato preferito e vincente al primo turno contro la destra. A seguire, nel sondaggio, c’è Elisabetta Gualmini, europarlamentare che non ha ancora sciolto la riserva. L’unica donna più o meno in gioco. Scomparsa la Lega, il centrodestra aspetta di conoscere il nome dell’avversario per decidere con chi sfidarlo.

 

Torino. Chiara Appendino non si ricandida e il M5S è senza un candidato sindaco. Sono invece certe le candidature del centrosinistra, che ha indetto le primarie, sospese temporaneamente pochi giorni fa a causa del Covid. I candidati sono quattro. Due consiglieri comunali del Pd, Enzo Lavolta e Stefano Lorusso, il Radicale Igor Boni e il “civico” Luca Javier. Nei giorni scorsi ha fatto un passo in avanti anche Gianna Pentenero, ex assessora regionale sotto la giunta Bresso e oggi consigliera regionale, che però ha fatto intendere di non essere entusiasta all’idea delle primarie. Per il centrodestra non ci sono candidature ufficiali ma nessuno ha smentito l’ipotesi di Paolo Damilano, imprenditore amato dalla Lega (anche se non iscritto al partito), attualmente presidente della Torino Film commission.

Rinvio delle tasse e nuovi bonus per gli stagionali

Si concentra sulle misure fiscali il decreto Ristori quater che il Consiglio dei ministri dovrebbe varare entro stasera. Secondo la bozza, il punto centrale del pacchetto – che vale circa 5 miliardi – è la riscrittura del calendario delle scadenze da qui alla prossima primavera. La maggior parte dell’extra-gettito stanziato con l’approvazione dello scostamento di bilancio da 8 miliardi verrà liberato per la tregua fiscale e per i nuovi aiuti una tantum ai lavoratori più colpiti dalla crisi Covid. Non sono previste altre risorse per il bonus baby sitter. Anche il Ristori quater dovrebbe seguire la strada del bis e del ter (su cui ci sono nuovi dubbi dei tecnici del Senato sulle coperture): il decreto sarà assorbito nel pacchetto Ristori all’esame delle commissioni Bilancio e Finanze del Senato. Si punta ad arrivare in aula prima di Natale per consentire poi un rapido passaggio alla Camera per l’approvazione definitiva entro la scadenza del 27 dicembre.

Vediamo le misure più importanti.

Scadenze fiscali. C’è un mini-rinvio generalizzato degli acconti di Ires, Irpef e Irap, per tutti, dal 30 novembre al 10 dicembre. Il testo dovrebbe essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale in tempo utile proprio per sospendere le scadenze fiscali previste per lunedì. Così si dà tempo di ricalcolare la propria situazione e capire se si rientra nei parametri che danno diritto alla proroga più lunga, a partire dal 30 aprile. Può ottenerla solo chi può dimostrare un calo del 33% dei ricavi del primo semestre 2020 sul 2019 e un fatturato entro i 50 milioni. Non è richiesto il calo dei ricavi se ci trova in zona rossa o arancione. Previsto il rinvio del federalismo fiscale dal 2021 al 2023.

Debiti fisco. I contribuenti in ritardo con le rate delle cartelle esattoriali avranno tempo fino al primo marzo del 2021 per mettersi in regola. L’attuale scadenza per i versamenti delle rate, per evitare la decadenza dell’accordo raggiunto con il fisco, scadrebbe il prossimo 10 dicembre. Nel periodo di rateazione, anche in caso di mancato pagamento di 10 rate anche non consecutive non si decade dall’agevolazione fino al 31 dicembre 2021. Poi stop ai nuovi fermi amministrativi delle automobili e delle ipoteche se il contribuente presenterà o ha presentato una domanda per chiedere una dilazione dei propri debiti fiscali per comprovate difficoltà economiche. La norma prevede che alla presentazione della domanda si blocchino anche i termini di prescrizione e decadenza. Disposto anche che fino al 31 dicembre 2021 si possa richiedere la rateizzazione di un debito fino a 100 mila (oggi il limite è 60 mila) senza presentare la documentazione che attesti le difficoltà a pagare.

Bonus 1.000 euro. È la nuova indennità in favore dei lavoratori del settore turistico, dello spettacolo e delle terme che da gennaio hanno smesso.

Lavoratori sport. Per il solo mese di dicembre i lavoratori dello sport riceveranno 800 euro se hanno cessato, ridotto o sospeso la propria attività, mentre 92 milioni di euro extra vanno al Fondo a sostegno delle associazioni sportive e società sportive dilettantistiche.

Fiere e congressi. In arrivo altri 500 milioni di euro per il ristoro delle perdite subìte dal settore.

Polizia. È autorizzata per il 2020 un’ulteriore spesa di 62,2 milioni di euro. Mentre sono previsti altri 5,5 milioni per lo straordinario dei vigili del fuoco.

Ora un super-ministero per i fondi del Recovery

Una moltiplicazione di figure e di organismi: sarà una struttura piramidale a gestire il Recovery Plan. Dunque, il Comitato interministeriale affari europei; un organo politico composto dal premier Conte, dal ministro dell’Economia Gualtieri, dal ministro dello Sviluppo economico Patuanelli. Si è partiti da qui per disegnare la struttura di governance, ma la discussione che si è avuta ieri nella capodelegazione convocata da Conte, con Gualtieri e Amendola (ministro degli Affari europei), si è però incentrata soprattutto su a chi dovrà rispondere questo gruppo: sul piatto, le ipotesi di un super manager, una sorta di mega commissario o più figure, per i vari capitoli del piano. Si è optato per un comitato esecutivo-struttura di missione costituito da manager, probabilmente 6 (come i 6 capitoli del piano) che potrebbero essere responsabili degli obiettivi del Recovery, anche con poteri sostitutivi rispetto ai soggetti attuatori. Con che tipo di poteri, anche rispetto ai ministeri, è ancora in fase di definizione. Inoltre, sarebbero coadiuvati da una task force di 300 persone. Amendola sarebbe delegato ai rapporti con Bruxelles. L’assetto della governance dovrebbe essere definito con una norma inserita nella legge di Bilancio. Quindi, la partita politica resta aperta. Tale struttura farà parte del Recovery Plan da presentare alla Commissione europea. Sservirà non per stendere il piano, ma per l’attuazione:

La questione si intreccia con le fibrillazioni politiche di queste settimane. “Il tema che il Pd pone al governo è quello di come verrà organizzato e gestito il Recovery Plan. 209 miliardi di euro si gestiscono bene solo con una struttura amministrativa diversa, non fatta da avvocati e giuristi: bisogna chiamare ingegneri, urbanisti e sociologi”, ha detto venerdì sera il vice segretario del Pd, Andrea Orlando, durante un’intervista a Otto e mezzo nella quale è stato più che critico con Conte. Dal Nazareno assicurano che non ci sono contrasti sulla gestione del piano: è ovvio che la regia deve essere a Palazzo Chigi, ma anche che i ministri competenti devono essere coinvolti. In realtà, proprio sul Recovery Plan si misura la tenuta della maggioranza. Lo aveva detto anche a settembre Orlando che sarebbero serviti magari nuovi dicasteri ad hoc. In questi giorni si è parlato pure di un ministro per la gestione del Recovery Plan. La prima figura che risponderebbe ai requisiti necessari (conoscenza del dossier, ottimi rapporti con Conte e fiducia da parte del Pd) sarebbe Amendola. Ma allo stato la figura non è prevista. E forse proprio per questo lui venerdì sera ci teneva a chiarire: “Il tema della governance non riguarda il mio ministero, il mio ministero è solo di raccordo con Bruxelles, non di esecuzione”. Ma se non lui, altri nel Pd aspirano a quel ruolo. Ancora. Ad avere un ruolo preminente nella cabina di governance sarà il ministro del Tesoro. Proprio mentre si rincorrono le voci che vogliono Gualtieri sindaco di Roma: sarebbe l’unica scelta possibile, se Nicola Zingaretti continua a non volerlo fare. Su questo interviene Goffredo Bettini, l’uomo che tesse la tela del futuribile Conte 3 e della cui area lo stesso Gualtieri fa parte: “Togliere ora il ministro che ha garantito i rapporti con l’Europa ed ha in mano la più alta responsabilità per il Recovery Plan, mi pare un grande azzardo”.

Nel frattempo, in una riunione parallela, M5S e Pd hanno litigato di nuovo sul Mes. Il M5S avrebbe chiesto di inserire nella risoluzione di maggioranza il fatto che l’Italia non ricorrerà alla linea di credito sanitario. Pd contrario.

Il rimpasto e il rebus Di Maio: segreteria 5S o capodelegazione?

Tutte le strade giallorosa alla fine portano a lui, all’ex capo. Perché nel governo tutti agitano la parola rimpasto, proprio mentre il M5S prova a concludere il suo faticoso congresso: due vicende che si incrociano sul suo nome, quello del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Al suo ennesimo bivio.

Perché ora deve decidere se entrare nella nuova segreteria del Movimento, che andrà votata dagli iscritti sul web, oppure se puntare solo su altri ruoli di governo: quello di capodelegazione o quello di vicepremier. Comunque ipotesi, perché l’attuale capodelegazione grillino, Alfonso Bonafede, non ha alcuna premura di cedere il posto. Mentre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte non vuole ritrovarsi due vice come ai tempi del governo con la Lega. Però Di Maio può essere un perno necessario, per il M5S che è una galassia piena di caos, ma pure per il Conte che da Nicola Zingaretti non ha molto da temere, ma che a Dario Franceschini deve stare attento. Così bisogna comunque ripartire dal ministro di Pomigliano, che cerca di tessere la tela della segreteria a 5Stelle. Per questo ha riallacciato i contatti con Alessandro Di Battista, come raccontato dall’ex deputato. Di Maio vuole che Di Battista faccia parte dell’organo collegiale, per evitare che rimanga fuori a cannoneggiare. Ma per correre l’ex parlamentare pretende che vengano messe al voto le sue condizioni, dalla revoca della concessione ad Autostrade all’intoccabilità dei due mandati. Richiesta difficile da esaudire, tanto che nella sua area si lavora già a candidature alternative (Antonella Laricchia o Barbara Lezzi). Di Maio però spera ancora di convincerlo. Perché l’ex capo entrerà con certezza solo in un organo fatto di big: con lui, Di Battista e magari il presidente della Camera Roberto Fico, altro maggiorente incerto (ma dal Quirinale non avrebbero posto obiezioni alla sua candidatura). In caso contrario, Di Maio potrebbe anche restare fuori. E cercare più decisamente altri ruoli di governo, come quello di capodelegazione. Anche se c’è una controindicazione: togliere quel ruolo al Guardasigilli potrebbe essere rischioso. “Alfonso deve restare capodelegazione, perché renziani e un pezzo del Pd sono pronti ad assaltare il suo ministero” spiega un altro 5Stelle di governo. Ergo, con un rimpasto da definire a Bonafede non può essere chiesto un passo indietro.

Il tema si potrebbe porre solo tra qualche settimana, perché di ritocco della squadra di governo se ne parlerà in concreto non prima di gennaio, a legge di bilancio approvata. Ma già ora c’è un altro nodo sul tavolo, quello dei vicepremier. Perché per Di Maio tornare a fare il numero due di Conte sarebbe più semplice. Nessuno nel M5S gli potrebbe obiettare un’incompatibilità con un ruolo anche in segreteria (questione che invece si porrebbe se facesse il capodelegazione). E potrebbe incidere di più, dentro l’esecutivo. Ma Conte fa muro. E spinge per un rimpasto minimo, in cui mutino solo un pugno caselle. E su questo è concorde con Di Maio, consapevole che da un ampio giro di poltrone il M5S potrebbe rimetterci. Nell’attesa, ieri da Sky Tg 24, un dem influente come Goffredo Bettini gli ha inviato segnali: “Nei dieci punti di Di Maio (quelli della lettera al Foglio, ndr) c’è un’impostazione di grande serietà”. Stando proprio al Foglio, la missiva è piaciuta molto anche al forzista Renato Brunetta. A conferma che il Di Maio “dialogante” miete consensi, tra i berlusconiani. Ma per ora pesa di più il sostegno di Bettini, che in questi giorni ha sentito diversi grillini di governo. Ripetendo a tutti: “Conte non si tocca, ma serve un esecutivo più forte”.

Certo, poi c’è anche il reggente del M5S Vito Crimi, che ieri sera ha scandito: “Parlare di rimpasto è fuori della realtà, nessun ministro del Movimento è sacrificabile”. Un intervento richiesto da ministri e sottosegretari attuali, agitatissimi nelle chat. Ma tra un po’ non toccherà più a lui farlo. E a occhio lo vivrà come un sollievo.

Covid, i veri dati delle carceri e quegli scioperi della fame

Pressoché costante il numero dei positivi al Covid tra i 53.720 detenuti nelle carceri italiane. Il dato si trova sul sito del ministero della Giustizia, che ha deciso di pubblicare ogni settimana le cifre legate all’emergenza Covid, come segno di “trasparenza”. Secondo dati aggiornati al 24 novembre, i detenuti positivi sono 826, contro gli 809 del fine settimana scorso. Venti di questi sono neo detenuti che, al momento dell’ingresso in carcere, sono sottoposti a un tampone, messi in isolamento fino all’esito dell’esame e se positivi, asintomatici, restano in isolamento, altrimenti vengono doverosamente curati. A proposito di asintomatici, sono 772 su 826 positivi, cioè il 93,5%. Certo, sono un pericolo per gli altri perché contagiosi, ma vengono individuati e isolati con i tamponi. Non come in tante Rsa per anziani, trasformate in centri di morti annunciate. Sempre rispetto agli 826 detenuti positivi, 32 hanno sintomi compatibili con le cure in carcere, mentre 22 sono in ospedale. E veniamo al personale del Corpo della polizia penitenziaria che, naturalmente, può contagiarsi altrove e portare il virus involontariamente in carcere: su 37.153, sono positivi in 970 (969 domenica scorsa). Asintomatici 871, sintomatici 99. Sono a casa nel 97% dei casi, in isolamento in caserma in 19. In ospedale in 10. Tra il personale dirigenziale e amministrativo del Dap, 4.090 persone, sono positivi al Covid in 72, domenica scorsa erano 73. In 107 penitenziari, cioè nel 56% delle strutture, non ci sono casi di Covid; 69 penitenziari hanno meno di 10 casi e 14 ne hanno più di 10. Ma Roberto Saviano, e con lui Sandro Veronesi, ha annunciato uno sciopero della fame di 48 ore per chiedere molte più scarcerazioni. Ritiene che sia una fesseria pensare che il carcere non sia tra i posti più a rischio Covid, se si ripetono i tanti protocolli che ha messo a punto il Dap.

Soccorsi, figlie, selfie: solo processi

“Non smetteremo mai di piangere”, scrive sui social il regista Paolo Sorrentino, pubblicando la foto di un Diego Maradona ragazzo con la figlia Dalma che gli infila un fiore nel bordo superiore di un calzettone da calcio. Lui, che nel discorso in cui ricevette l’Oscar per La Grande Bellezza trovò il modo di citarlo e che per Netflix sta lavorando alla serie È stata la mano di Dio (con gli avvocati di Diego che hanno avvertito dell’esistenza di un “marchio registrato” su quella “mano”), lui che ne infilò una comparsa sovrappeso in Youth, lui, che all’Ansa aveva esorcizzato: “Maradona non è morto. È solo andato a giocare in trasferta”. Nel suo post su Instagram è taggata quella bambina, Dalma, che è la primogenita tra i 5 figli riconosciuti da Maradona. “Ho sempre avuto molta paura della mia morte, ma non oggi – scrive lei su Instagram – Perché so che questo sarà il momento in cui ti rivedrò e ti abbraccerò di nuovo. Mi manchi già papà. Resisterò qui, senza quella parte del mio cuore che ieri hai portato con te. (…) Ti porto le margherite per decorare i tuoi calzini da giocatore e per favore guardami di nuovo con quell’amore che vedi nella foto! Ti amerò per sempre”. In verità le cronache raccontano come non fossero idilliaci, negli ultimi anni, i rapporti tra Diego e le figlie di Claudia Villafane (l’unica che ha sposato) Dalma e Gianina. Su un patrimonio stimato di 275 milioni di dollari, sembrano loro (viste spesso nelle ultime settimane nella villa a Tigre), le maggiori beneficiarie del testamento. Dovranno vedersela con gli altri tre figli riconosciuti, Diego Junior, nato dalla napoletana Cristiana Sinagra, Diego Fernando e Lana, e con gli altri che chiedono il riconoscimento (tre nati nel periodo “cubano” di Diego). Ieri Santiago Lara, un argentino di 19 anni residente a La Plata, ha annunciato di aver presentato attraverso i suoi legali una richiesta alla giustizia di disporre la riesumazione del cadavere di Diego Maradona “per poter prelevare un campione di Dna che potrebbe provare che lui è mio padre”. L’istanza, ha precisato il giovane che è figlio della modella Natalia Garat morta di cancro tempo fa a 23 anni, è stata consegnata una settimana fa e in essa si chiedeva anche alla magistratura di evitare la cremazione dei resti del “pibe de oro” in modo da “preservare la possibilità di giungere alla verità. Non ho rivendicazioni finanziarie da fare” ha assicurato.

Il finale di partita di Maradona non pare allegro. La giustizia argentina ha aperto un’indagine per stabilire se ci sia stata negligenza nei soccorsi dopo che l’avvocato e amico di Maradona, Matías Morla, aveva denunciato: “L’ambulanza ha impiegato più di mezz’ora per raggiungere casa sua”. Sono invece indagati per profanazione di cadavere i lavoratori delle pompe funebri che si erano fotografati con il corpo di Diego.