Maradona, la foto con i boss restò “nascosta” per 2 anni

Il 27 febbraio 1987 un gruppo di poliziotti entra di corsa nella questura di Napoli. Urla, risate, euforia. Uno si affaccia in sala cronisti e alla domanda dell’amico giornalista, l’unico in stanza, sul perché di quella adrenalina, gli soffia in un orecchio: “Abbiamo finito una perquisizione a Forcella, non hai idea di cosa abbiamo trovato”. Il giornalista, Enzo La Penna, in servizio al Giornale di Napoli,insiste, è curioso. Il poliziotto aggiunge: “Abbiamo trovato le foto di Maradona in compagnia dei Giuliano”. Dove? “Era fotografato in casa loro. Lui e i fratelli Giuliano, in una vasca da bagno”. La Penna non crede alle proprie orecchie. I Giuliano sono un potentissimo clan di camorra che ha ai suoi piedi la città. Nei giorni successivi cerca un riscontro. Non lo trova. Non riesce a vedere le foto, figurarsi averne una copia. Viene respinto da un muro di gomma di poliziotti e funzionari, tra smentite poco convinte, sorrisetti e mezze allusioni, e la sua fonte evaporerà per l’ordine del silenzio. “Dopo un po’ smisi di cercare quelle immagini, pensai mi avessero raccontato una bugia”. Invece le fotografie di Maradona e i Giuliano esistevano. Erano state rinvenute nella casa del latitante Carmine Giuliano (uno dei due ritratti nella vasca), e riusciranno a pubblicarle i giornalisti del Mattino solo nell’estate del 1989: erano spillate a un fascicolo, custodito nell’ archivio di Castel Capuano, degli atti di un processetto di droga concluso con un’assoluzione.

Fino ad oggi La Penna, che in seguito andò a lavorare all’Ansa, diventando per autorevolezza, unita al garbo da gentiluomo, il punto di riferimento della cronaca giudiziaria a Napoli, ha custodito il segreto di aver saputo per primo, e inutilmente, una notizia che avrebbe terremotato Napoli. Perse l’occasione di uno scoop che si fa una volta sola nella vita. “Andy Warhol disse che tutti dovrebbero avere un quarto d’ora di celebrità e quello sarebbe stato il mio”. Le foto di Maradona nella vasca a forma di conchiglia rimbalzarono in tutto il mondo. Oggi è lecito chiedersi perché quelle 71 immagini imboccarono un percorso che le lasciò nel buio per due anni. Maradona ha goduto di qualche protezione giudiziaria? Le sue frequentazioni discutibili furono oscurate per non turbare la corsa del Napoli verso il primo scudetto, conquistato pochi mesi dopo? L’unica certezza è che le foto finirono in un’inchiesta di nessun rilievo mediatico.

L’ex questore di Napoli Giuseppe Fiore all’epoca guidava la sezione Catturandi, quella del blitz in casa Giuliano. Fu tra i primissimi ad avere tra le mani le foto. “Sono convinto che Maradona non ebbe protezioni, lei ha l’ottica del giornalista ma dal punto di vista investigativo non è che quelle foto avessero in sé un particolare valore” sostiene Fiore. “Chi erano i Giuliano era noto, che si adoperassero per aprire circoli del Napoli e invitare i giocatori, per dimostrare la loro influenza, era altrettanto noto. L’unico approfondimento interessante sarebbe stato convocare Maradona per chiedergli subito chi e come l’avesse convinto ad andare a Forcella”. Così forse la news sarebbe uscita. “Ma interessava fare inchieste utili per le condanne, non gli scoop”. Luigi Bobbio è il pm che nel 1990 inquisì Maradona per la cocaina offerta alle donne che si portava a letto all’Hotel Paradiso. “Volevo arrestarlo, c’erano indizi gravi e seri, ma il procuratore capo non volle: forse temeva il clamore che avrebbe suscitato”. C’erano ‘protezioni’ intorno a Maradona? “Sicuramente, come quelle che ebbe nel sistema calcio, che non gli aveva mai trovato i metaboliti della droga nelle urine”. Forse non erano stati mai cercati. Ma questa è un’altra storia.

Palamara, nuove accuse al Csm: altri guai in arrivo

Per Luca Palamara i conti con la giustizia disciplinare non sono finiti. La Procura generale della Cassazione gli contesta altri fatti legati allo scandalo nomine e dintorni. All’esame dei magistrati disciplinari c’è anche una vicenda ad alta densità politica, dato che vengono chiamati in causa la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, non indagata, e il suo consigliere giuridico Claudio Galoppi, consigliere togato del Csm, con Casellati e Palamara nel quadriennio 2014-2018. Stiamo parlando del cosiddetto emendamento Tancredi approvato quando al governo c’era Paolo Gentiloni, nel dicembre 2017, e che consente agli ex consiglieri del Csm di poter immediatamente concorrere a nomine mentre con il governo Renzi il divieto era già scesa da due a un anno.

Se per la vicenda nota come “Hotel Champagne” (di Roma), Palamara è stato radiato dalla magistratura e adesso pende un suo ricorso alle Sezioni Unite civili della Cassazione, venerdì l’ex pm della Capitale è stato interrogato in Procura generale della Cassazione “in qualità di persona sotto procedimento disciplinare”. L’ufficio guidato dal procuratore generale Giovanni Salvi è una cortina di ferro. La parola d’ordine è la consegna del silenzio, come sempre quando si tratta di disciplinari. Palamara sarebbe ancora sotto procedimento disciplinare per più episodi, come altre toghe. Il Pg Salvi al plenum del Csm ha detto che sono 27 i magistrati su cui c’è un’istruttoria in corso, sempre in conseguenza delle chat. Quel numero 27, salvo clamorose novità, è quello definitivo. Tornando a Palamara, come accennato, è stato sentito anche sull’emendamento Tancredi, cioè l’ex deputato Ncd-Ap Paolo Tancredi che lo ha presentato senza, a quanto pare, averlo scritto. Secondo la Procura generale, Palamara avrebbe brigato insieme a Galoppi (di Magistratura Indipendente) e a un altro ex consigliere, Massimo Forciniti (di Unicost come Palamara) perché quell’emendamento approdasse e fosse approvato in Parlamento, contrario l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando. Galoppi, Palamara e Forciniti sono accusati dalla Procura generale non solo di essere gli “ispiratori” di quell’emendamento ma di “aver messo a punto il testo… per conseguire un vantaggio ingiusto”.

Fra i tre l’unico ad aver conseguito un vantaggio è Galoppi, uscito dal Csm ed entrato a Palazzo Madama. Palamara e Forciniti non hanno raggiunto i loro obiettivi: l’uno di essere nominato procuratore aggiunto a Roma e l’altro presidente del Tribunale di Salerno (ha ritirato la domanda) perché nel frattempo è venuto fuori il dopo cena, sulla nomina del procuratore di Roma, all’hotel Champagne, il 9 maggio 2019, con Palamara, i parlamentari Luca Lotti (imputato a Roma per Consip) e Cosimo Ferri (ex togato Csm) con 5 togati del Csm, costretti alle dimissioni. Palamara, durante l’interrogatorio in Procura generale ha puntato molto sull’intervista di Tancredi, del giugno scorso, a La Verità: l’ex deputato ha detto che il testo dell’emendamento gli sarebbe arrivato non dai magistrati, ma “con un bigliettino anonimo”, consegnato da “un funzionario della Camera, però me l’aveva preannunciato Elisabetta (Casellati, ndr)”. Le chat, però, fanno emergere un interessamento del trio sotto accusa disciplinare: è l’11 dicembre 2017, Palamara rimbrotta Forciniti: “Per fortuna che Galoppi mi ha detto che ora le manda (le indicazioni del testo dell’emendamento, ndr). Te lo avevo chiesto da sabato. Ma tu te ne fotti”. E Forciniti: “Più che far fare emendamento a tale Tancredi non posso fare”.

“Indagini superficiali su Rossi”. Escort: “Ecco i 2 pm dei party”

Per la prima volta sono dei magistrati a metterlo nero su bianco, e non più solo dei giornalisti: ci sono state “carenze” nella prima inchiesta sulla morte del manager del Monte dei Paschi di Siena David Rossi, ovvero quella svolta nell’immediatezza dei fatti. Ne seguì anche una seconda: in entrambi i casi è stata esclusa l’ipotesi dell’omicidio. “Le denunce di lacune e superficialità sono infondate – scrive la Procura di Genova, incaricata di valutare presunti depistaggi dei colleghi toscani – se riferite alla seconda indagine”. Un’istruttoria “ampia e scrupolosa”, ma condotta fuori tempo massimo, quantomeno per eseguire accertamenti ormai impossibili. Due in particolare le mancanze evidenziate del primo fascicolo: “La distruzione dei vestiti” indossati dalla vittima e “dei fazzolettini intrisi di verosimile sostanza ematica rinvenuti nel suo ufficio”, reperti mai analizzati. Tuttavia, “anche a voler ammettere che le critiche alla prima indagine non siano del tutto infondate, ciò non consente di affermare che tali omissioni siano state determinate dalla volontà di ostacolare l’accertamento della verità”.

Sono queste le ragioni che hanno portato la Procura di Genova a chiedere l’archiviazione sul presunto insabbiamento del caso, a cui ha presentato opposizione la famiglia. David Rossi, influente ex capo della comunicazione del Mps, morì dopo essere caduto dal suo ufficio il 6 marzo del 2013, nel pieno dello scandalo giudiziario che imperversava sull’istituto bancario. Un suicidio, secondo chi indagò. Una morte quantomeno sospetta, secondo la famiglia. A sollevare l’ipotesi di possibili depistaggi erano state Le Iene, con una serie di puntate televisive iniziate con un’intervista all’ex sindaco ed ex dirigente Mps Pierluigi Piccini, che in quel colloquio adombrava possibili ricatti a magistrati senesi legati a festini hard.

Ed è proprio questo l’altro elemento portante dell’incartamento, ora in mano al Csm, organo incaricato di valutare profili disciplinari. In quegli atti, fino ad oggi inediti, sono contenuti verbali di due testimoni che collegano i nomi di due magistrati senesi a “festini omosessuali”. Il primo si dichiara un ex escort, che avrebbe partecipato a un giro di prostituzione di alto bordo. Aveva già parlato alle Iene in forma anonima, ed è stato identificato dai magistrati attraverso i tabulati telefonici. Collega un magistrato a un “rapporto di gruppo”. Di un altro, riconosciuto durante l’intervista televisiva, dice di non essere più così certo, una volta messo alle strette dagli inquirenti. Questo secondo nome è lo stesso fatto da un altro testimone, finora inedito: si chiama William Villanova Correa, è detenuto per omicidio nel carcere di Massa per aver ucciso una prostituta. Anche lui avrebbe partecipato a party con “personalità altolocate”, che avrebbero coinvolto “minorenni”. Di uno dei due magistrati, lo stesso di cui aveva parlato il primo testimone, dichiara: “Chiedete a lui dei festini, ha la coscienza sporca”. L’ex escort ha indicato tra i partecipanti a quelle serate anche un alto ufficiale dei carabinieri che prestò servizio a Siena e un manager di Mps.

Ma quanto sono attendibili questi testimoni? Alle affermazioni di Villanova Correa i pm di Genova attribuiscono scarsa credibilità, perché troppo “generiche”. Dell’ex escort, sempre secondo gli investigatori, “è lecito quantomeno dubitare”, sebbene gli venga riconosciuto come la sua deposizione sia “più netta e perentoria”: “Non è sempre stato coerente. In almeno un caso ha manifestato successivi dubbi su riconoscimenti precedentemente effettuati in termini di sicurezza”. E nel descrivere l’intervista televisiva “ha precisato che le modalità del giornalista lo hanno un po’ frastornato”.

“Le risultanze – si legga ancora nelle carte inviate al Csm – non hanno fornito alcuna risultanza dalla quale possa desumersi che tali inopportune abitudini siano state indebitamente utilizzate per esercitare indebite pressioni sugli inquirenti”. La questione dell’“opportunità”, a questo punto, e della presunta “esistenza di inconfessabili frequentazioni e legami”, investirà un eventuale procedimento disciplinare. L’ultimo giallo infine riguarda il racconto di un terzo testimone che riferisce di festini nei dintorni di Siena: un computer con foto e video compromettenti, poi “ripulito” subito dopo la morte di Rossi.

“Ora formerò una squadra di esperti. Pronto a lavorare con Gino Strada”

Guido Longo sa cosa lo aspetta. “Non ho mai avuto incarichi facili nella vita”. Ma il nuovo commissario alla sanità calabrese è pronto ad affrontare la sfida con la stessa grinta di quando dava la caccia ai latitanti. È abituato a essere concreto e a pesare le parole. Ecco perché risponde subito: “Fatemi capire la situazione. Fatemi arrivare”. E l’intenzione è quella di essere “subito, già da lunedì” in quel di Catanzaro. Perché “il tempo non è certo dalla nostra parte, non c’è da perdere un giorno”.

La girandola di nomi, le gaffe, le dimissioni dei nominati prima di lei, lo stallo: Guido Longo, sulla partita della nomina del commissario calabrese il governo non ha dato una delle migliori prove di sé…

Certamente se fosse andata bene, non avrebbero nominato me. Ma non mi interessa commentare cosa è successo finora. Sono stato chiamato e sono qui per lavorare bene e rendere un servizio ai calabresi.

Lei conosce bene la Calabria. Qui ha fatto l’investigatore, il questore e il prefetto. Cosa si aspetta di trovare?

Una situazione complicata. Ma i cittadini devono poter usufruire al massimo del servizio sanitario, sia in termini quantitativi che qualitativi. Cercheremo di migliorare lo standard. Io sono un fissato della territorializzazione del servizio sanitario.

Il governo ha chiesto la collaborazione anche di Gino Strada.

Non lo conosco personalmente, ma lo stimo per quello che ha fatto, che fa e che farà. Strada è una persona seria e competente. Se vorrà affiancarsi al mio compito mi farà molto piacere, sono a disposizione.

Chi l’ha chiamata da Roma per proporle l’incarico?

Il ministro dell’Interno e il presidente Conte.

E lei ha subito accettato o ha chiesto tempo?

Ho accettato subito. Sono molto legato alla terra di Calabria.

Una terra di aziende sanitarie senza bilanci, di doppi pagamenti e di terapie intensive che non ci sono.

In questo mondo, se uno sulle cose ci lavora la soluzione la troverà sempre, in qualche modo. Ma deve lavorare sodo e spenderci tempo. Costituirò una squadra di esperti del sistema manageriale sanitario e di contabilità pubblica.

Raccontiamo il caso dell’Asp di Cosenza, dove non si trovano fatture per milioni di euro…

Le ripeto, datemi il tempo. Devo leggere tutto e affronteremo anche questa situazione.

Lei avrà anche a che fare con due Asp sciolte per ’ndrangheta. Sarà un po’ come tornare ai tempi di Longo investigatore?

Che dobbiamo fare? Purtroppo è così.

Si è fatto un’idea sul perché siamo arrivati a questo punto e che cosa i commissari non sono riusciti a fare in 10 anni?

Sono abituato a trovare il problema e cercare una soluzione, senza giudicare. Bisogna viverle le situazioni per esprimere delle valutazioni.

Incontrerà i vertici della Regione che hanno sempre contrastato l’idea di un commissario nominato dal governo?

Ovvio. Spero in un rapporto istituzionale leale e franco. Per dare una mano assieme alla Calabria.

Longo, prima grana: 8 mln di fatture sparite a Cosenza

ACosenza l’ultima richiesta è arrivata lo scorso agosto: versare 8,3 milioni di euro. Sull’unghia, altrimenti si va in tribunale. È su questa nuova bomba che si è appena seduto Guido Longo, neo commissario alla sanità calabrese. L’intimazione di pagamento spedita alla Azienda sanitaria locale (in Calabria si chiamano Asp) è firmata da una società di Milano: la Tocai Spv Srl. I proprietari ultimi della Tocai non sono noti, l’impresa è controllata da un trust, il Rubino Finance, che gestisce una serie di altre aziende attive nello stesso business: debiti della sanità, in particolare sanità calabrese, la più disastrata d’Italia. Circa 11 anni di commissariamento e un buco in bilancio che si allarga di anno in anno.

La Corte dei Conti dice che la sanità pubblica della regione ogni anno perde 105 milioni di euro, e il buco si aggiunge ai debiti accumulati. Solo quelli con i fornitori privati valgono 1,1 miliardi di euro (dati 2019). Tra questi, ci sono quelli di società come la Tocai Spv. Le Spv (Special purposevehicles) sono società-veicolo, fanno cartolarizzazioni. Negli ultimi anni, molte si sono buttate su questa nuova nicchia di mercato. Fanno affari rivendendo crediti di aziende private nei confronti delle Asl italiane.

Funziona così. Molte aziende private convenzionate con il sistema sanitario nazionale, come le cliniche e le Rsa, dovrebbero essere pagate per le prestazioni effettuate in convenzione dalla propria Asl di riferimento, ma invece di aspettare il pagamento (solitamente in ritardo) vendono il loro credito a queste società-veicolo, in cambio di liquidità immediata. Le Spv si accollano il rischio di recuperare il credito a fronte di un prezzo d’acquisto vantaggioso. Poi trasformano questi crediti in titoli finanziari, impacchettandoli in bond da vendere agli investitori. La Tocai nel suo bilancio dice di aver comprato in totale fatture da aziende sanitarie private per 10,5 milioni di euro, pagandole 9,6 milioni. E le ha di fatto rivendute, a investitori istituzionali non meglio specificati, trasformandole in obbligazioni. Titoli che promettono un ottimo rendimento: 5,5% annuo.

È così che si è messo in moto il mercato dei bond sanitari in Calabria. Decine di Spv create negli ultimi quattro-cinque anni per fare profitti, sfruttando la malagestione della sanità locale. Come nel caso dei mafia bond, scoperti mesi fa da un’inchiesta del Financial Times.

Per la Corte dei Conti, le doppie e triple fatture della Asp di Reggio Calabria sono poca cosa rispetto a quanto successo Cosenza. Sul totale di 1,1 miliardi di debiti verso i fornitori privati, la Asp di Cosenza è la più indebitata delle cinque aziende sanitari della regione, con un fardello di 361 milioni. Il numero ufficiale potrebbe non essere esaustivo, visto quanto sta succedendo proprio con la Tocai. Quando ad agosto la società milanese ha chiesto il pagamento di vecchie fatture per 8,3 milioni di euro, alla Asp di Cosenza sono saltati sulla sedia. Due dirigenti hanno scritto alla loro capa, Cinzia Bettelini, commissario della Asp, per comunicare che quelle fatture non “non erano registrate nella contabilità aziendale”, si legge nei documenti. Com’è possibile che la Asp Cosenza non avesse mai registrato fatture per 8,3 milioni? E quanti altri debiti del genere gravano sul bilancio regionale?

A una richiesta di intervista il commissario Bettellini non ha risposto. Una dirigente interna all’azienda sanitaria locale, chiedendo l’anonimato, ci ha confermato che “le fatture non ci sono. Tutte quelle con la Tocai sono state saldate: le fatture che ci chiedono ora sono inesigibili, potrebbero essere fatture che l’azienda privata da cui le hanno comprate non ha mai inviato a noi”. Tocai ci ha fatto sapere di essere in possesso di tutte le garanzie che il credito in questione è certo, liquido ed esigibile, aggiungendo che proprio quelle fatture sono “oggetto di un giudizio davanti al Tribunale di Cosenza”, in cui la difesa dell’Asp Cosenza “non ha mai contestato la mancata ricezione delle fatture”.

Come se non bastasse, l’azienda privata da cui Tocai ha comprato i crediti nel frattempo è fallita. È la Casa di Cura Tricarico. La Procura di Paola ipotizza la bancarotta fraudolenta. Alcuni dei titolari l’avrebbero spolpata usando i soldi dell’azienda per fini personali, per questo a giugno sono stati arrestati.

Chi pagherà alla fine gli 8,3 milioni che mancano? La Asp Cosenza o l’anonima società milanese? All’azienda sanitaria costerebbe un po’ di debito in più, particolare di un fenomeno generale, quello della finanziarizzazione dei crediti sanitari di una regione, la Calabria, che oggi non ha abbastanza posti per ricoverare i malati di Covid. Ma anche per Tocai sarebbero dolori. “Il servizio titoli emessi, in linea interessi e capitale, è assicurato unicamente dagli incassi derivanti dal portafoglio crediti”, scrive nel bilancio la società. Significa che se da Cosenza non pagano, le cose rischiano di mettersi male anche per chi ha investito in quei bond.

Ecco perché 10 regioni restano ad alto rischio

La Lombardia oggi da rossa diventa arancione come Piemonte e Calabria perché Rt, il tasso di riproduzione del virus che consente ai tecnici di prevedere come andrà, è sceso da 2,16 (8-21 ottobre) a 1,24 (4-17 novembre). Rimane però tra le dieci Regioni considerate a rischio “alto” dalla cabina di regia ministero della Salute-Istituto superiore di sanità perché l’incidenza resta molto alta (1.005 nuovi casi ogni 100 mila abitanti negli ultimi 14 giorni, la media nazionale è 706.3, prima era 730), il tracciamento langue (dichiara di farlo per il 66,5% dei positivi: il dato più basso in Italia), passano 6 giorni tra sintomi e diagnosi col risultato che i casi gravi aumentano e la pressione sugli ospedali cala troppo lentamente. Il Piemonte invece passa a rischio “moderato con probabilità di progressione ad alto” perché Rt è sceso da 2,09 a 0,9, per quanto l’incidenza sia più elevata (1115,7) e gli ospedali più affollati.

Rt nazionale a 1,08 (era a 1,7 un mese fa) vuol dire che l’epidemia cresce ancora. “Se ci rilassiamo la curva riparte subito”, ha detto il professor Silvio Brusaferro, presidente dell’Iss. Ieri 26.323 nuovi casi (la media settimanale è scesa in 10 giorni da oltre 35 mila a 27 mila) e 686 morti (nei giorni scorsi erano stati più di 800). L’indice di positività dei tamponi è all’11,7%. Da giovedì diminuiscono i ricoverati nelle aree mediche (ieri -385 ma ce ne sono ancora 33.299) e nelle terapie intensive (-20 ma sono 3.762). Tra le 10 Regioni a rischio “alto” c’è la Toscana, con Rt a 1,24 come la Lombardia e gli ospedali in difficoltà. Dal 4 dicembre, con il nuovo Dpcm che sostituirà l’attuale in scadenza il 3, dovrebbe comunque passare ad arancione come la Campania, a rischio “alto” ma con Rt a 0,94 e ospedali appena sopra le soglie d’allerta, almeno secondo i numeri forniti. Lo stesso dovrebbe avvenire per l’Abruzzo, rosso e tuttora a rischio “alto”, unica Regione che dichiara “trasmissione non gestibile con misure locali” anche se Rt è sceso a 1,1. L’arancione si avvicina anche per la Val d’Aosta (Rt 1,01), a rischio “moderato con probabilità di progressione ad alto” dove l’incidenza resta elevata e Bolzano (1,03) che però rimane a rischio “alto”: ha il maggior numero di casi ogni 100 mila abitanti negli ultimi 14 giorni (1423,8: il doppio della media) e vede allungarsi il tempo sintomi e diagnosi (6 giorni). Del resto è già arancione la Calabria, che non fornisce la data di inizio sintomi per quasi l’80% dei casi: Rt è a 0,94 ma la stima è ritenuta “non affidabile” perché appunto dipende dall’inizio dei sintomi.

Tra le Regioni arancioni sono a rischio “alto” Emilia-Romagna (Rt a 1,11 e casi in leggero calo), Friuli-Venezia Giulia (1,17 e casi ancora in aumento) e Puglia (1,06 e 6 giorni tra sintomi e diagnosi). A rischio “moderato con probabilità di progressione ad alto” Marche (Rt a 0,97) e Basilicata (1,22 anche se i casi diminuiscono); va meglio l’Umbria, Rt a 0,86 e rischio “moderato”: potrebbero diventare gialle. Lo sono da oggi Liguria e Sicilia, la prima per il rapido calo di Rt a 0,77 anche se il tracciamento è indietro e la seconda, dove Rt resta a 1,05, per le condizioni migliorate negli ospedali.

Il Veneto ha Rt a 1,23 ma non è a rischio “alto” perché il sistema tiene, come il Molise dove Rt è a 1,12. Al contrario la Sardegna, con Rt a 0,77, è a rischio “alto” perché il tracciamento è solo al 67,6%.

Audio rubato in corsia: “De Luca spaccia letti che però non esistono”

La repressione cinese del dissenso nella sanità campana di Vincenzo De Luca. Le bugie sui dati della sanità, dei posti letto e dell’epidemia da Covid. Il clima di angosce e tensioni che si vive nella trincea degli ospedali campani sotto la pressione del virus. Parla un medico e le sue parole fanno paura: “Intanto io in ospedale continuo a perdere la gente pure giovane. Oggi è morto un ragazzo di 47 anni e quindi non è più un fatto di anziani o roba del genere, se non si capisce questo non si può fare niente… se (alle persone, ndr) gli danno i dati veri la gente viene presa dal panico… oppure ci sta qualche imbecille che inizia a fare il negazionista e tutto il resto…”. E poi, riferendosi ai dirigenti sanitari messi in sella dal governatore De Luca e ai bollettini quotidiani sulla situazione dei ricoveri, “stanno spacciando posti letto che non esistono e che stanno tentando di recuperare, ma sono talmente incapaci che non ci riusciranno perché vogliono usare delle soluzioni che non sono percorribili. Io vi parlo del mio ospedale, ma credo che la situazione…”.

Dall’audio rubato a un infettivologo di un ospedale della provincia salernitana si ascolta un racconto che fa a cazzotti con quell’“abbiamo fatto un miracolo” che De Luca ripete come un mantra a ogni diretta social senza contraddittorio. L’audio è stato raccolto dall’avvocato penalista Michele Sarno, candidato sindaco di Salerno in pectore, storico leader della destra antideluchiana. Sarno è l’interlocutore dello sfogo dell’anonimo medico registrato pochi giorni fa: si tratta di dottore che lavora nella prima linea dell’emergenza, faccia a faccia coi pazienti Covid di un ospedale pubblico. Il colloquio viene usato nel cuore di una polemica politica dell’avvocato sulla situazione a suo dire “scioccante” dei Covid center di Salerno: “Sono certo che i dati e il malcostume denunciati dalle trasmissioni di Massimo Giletti sono la verità, ho infermieri e medici che mi hanno testimoniato l’inferno che sono costretti a vivere”. La direzione generale dell’Aou di Salerno gli ha replicato definendo le sue parole “sconcertanti”, invitandolo “a non usare la politica politicante per offendere tutto il personale della sanità salernitana”. Di qui la diffusione dell’audio. Il Fatto Quotidiano – dopo aver ascoltato la conversazione e verificato l’autenticità di quanto raccontato in alcuni passaggi – ha deciso di pubblicarne ampi stralci. A cominciare dalla reazione del dottore ai complimenti del legale, che definisce l’ospedale dove lavora una eccellenza del territorio. “Sì, però lo sapete che ci attaccano di continuo pure i colleghi. Noi abbiamo tutti contro: sindacati, politica, politica locale, altri colleghi, ce li abbiamo tutti contro. Non uno sì e uno no. Però quando c’è bisogno per qualche parente loro o qualche cosa loro, li vedete che vengono tutti in processione. Il giorno dopo ti girano la faccia. E quello è il problema”.

L’acqua della politica, secondo il medico, avvelena i pozzi del management della sanità. “Quello del San Leonardo e quello della nostra Asl sono degli individui che secondo me non dovrebbero nemmeno scopare nella direzione generale, perché se voi andate a prendere i curriculum di questa gente, sono solo curriculum politici, questi non hanno mai fatto i medici, ma soprattutto, non hanno mai fatto gli organizzatori…”. Per il medico, il controllo politico di De Luca e dei suoi uomini sulla sanità è asfissiante: “Il problema, avvocà, è che ha fatto una ragnatela sul territorio che voi non avete proprio idea. Quello ha infiltrato i suoi dappertutto, anche ai livelli più bassi. Una volta sono andato a una riunione in cui parlava il figlio, due, tre anni fa, e mi sono trovato quelli che fanno le pulizie a rappresentare l’ospedale. Quindi perfino quelli che fanno le pulizie sono emanazione di questa struttura”. La “Struttura” di De Luca. Che non ammette opinioni contrarie.

“Qua non sia mai vi permettete di cantare fuori dal coro: siete morto, venite attaccato a partire dal portiere, passando per il centralinista, arrivando alla signora che pulisce a terra… io faccio il medico e se uno si ammala, io me ne strafotto se è di destra o di sinistra e la malattia, meglio di me, se ne frega se uno è di destra o di sinistra …”. E quindi “De Luca non è un uomo di sinistra perché uno che ha fatto una rete così capillare dove un medico non può neanche esprimere un’opinione che viene radiato, scusatemi ma che regime è questo!? (…) Se tu mi fotti solo perché ho detto ‘sono fuori dal coro’, non è che mi dici vabbè io ti dimostro che tu che sei fuori dal coro stai dicendo una sciocchezza, no tu non lo puoi dire e basta, che regime è!? Manco a Pechino si fanno queste cose”. Nella Campania di De Luca forse sì.

“Vaccinarsi in ospedale e in estate finirà tutto. Feste di Natale in sei”

“C’è grande attesa per i vaccini, di cui uno sembrerebbe addirittura conferire immunità sterilizzante: cioè impedire il contagio”. Il professor Franco Locatelli (presidente del Consiglio superiore di sanità) si riferisce ai dati del vaccino Pfizer Biontech relativi alla fase pre-clinica sui modelli animali. “Per fine gennaio in Italia, incrociando le dita rispetto alle approvazioni di Fda ed Ema – le agenzie del farmaco americana ed europea – inizieremo la campagna d’immunizzazione con il vaccino di Pfizer”.

Il Wall Street Journal scrive dell’inizio delle operazioni di trasporto delle prime dosi dagli Stati Uniti all’Europa. Quando arriverà il via libera?

Sia Pfizer sia Moderna tra domani e martedì dovrebbero entrare in valutazione da parte di Ema, che si esprimerà entro Natale.

E l’Italia è pronta?

È falsa la notizia che non si stia lavorando alla campagna vaccinale. Già da tempo ci stiamo occupando di distribuzione e pianificazione, tenendo conto delle peculiarità dei vari vaccini in preparazione soprattutto rispetto alla catena del freddo, perché quello della Pfizer che sarà il primo ad arrivare necessita di una conservazione a -70 gradi, richiedendo quindi un sistema di distribuzione particolare e più impegnativo.

Come si distribuirà?

Il ministro Speranza riferirà su questo tema il 2 dicembre in Parlamento. Ci saranno diversi punti vaccinali.

Le farmacie?

Per il vaccino Pfizer non si può pensare di coinvolgere le farmacie: servono crio-contenitori che potranno essere disponibili solo in alcuni punti ospedalieri concertati con le Regioni.

Priorità?

Gli operatori sanitari e sotto-sanitari, per proteggere loro stessi e i pazienti: 800 mila persone. Poi gli anziani delle Rsa e gli over 80: quattro milioni e mezzo di persone, di cui circa 300 mila nei presidi residenziali. L’età media dei decessi per Covid è di 81 anni. Serviranno due dosi a distanza di un mese: servirà anche un sistema informatico efficiente per tracciare i vaccinati e allertarli per la seconda dose.

Gli ospedali oggi?

La pressione c’è ancora ed è importante, però stiamo scendendo. Si vede la luce, ma deve essere una luce che illumina le intelligenze e le coscienze per evitare di ricascarci.

Ci stiamo già rilassando?

Spero proprio di no, perché se passasse il messaggio che si possa tornare alla normalità o quasi vorrebbe dire che abbiamo sbagliato anche comunicativamente. I numeri sono confortanti, ma guai a dimenticare cosa è successo la scorsa primavera e poi un mese e mezzo fa.

Quando il Covid sarà solo un brutto ricordo?

Voglio sperare fine estate-autunno 2021 con un numero tale di vaccinati che ce lo consenta. Poi bisognerà capire quanto dura l’immunità e quanto dura in base alle varie fasce d’età, perché non è escludibile una risposta meno buona e una memoria immunologica meno persistente nei più anziani.

Le feste natalizie?

Per la prima e spero unica volta dovremo dimenticarci di feste in piazza, veglioni, cenoni con parenti e amici. Altrimenti tra tre, quattro settimane pagheremo un altro prezzo altissimo perdendo quanto guadagnato.

Con chi passerà le feste?

Sono solito lavorare a San Silvestro e Capodanno. Spiace anche a me per il Natale in tono minore, ma starò con mia moglie e mia sorella col marito. In quattro. E anche in sei andrebbe bene, non di più vi prego.

La polemica sugli impianti sciistici pare lunare.

Non esistono le condizioni epidemiologiche per consentire la riapertura, valuteremo a gennaio e febbraio. La cancelliera Angela Merkel ha dato un bel segnale chiedendo uniformità europea su questo, spero che anche la Svizzera si adegui.

La terza ondata?

Spero solo fluttuazioni.

Ritornando indietro cosa farebbe diversamente?

Noi tutti abbiamo pensato a inizio luglio: con 300 contagi al giorno il problema è alle spalle. E bisogna rafforzare la medicina territoriale: in una regione popolosa e con tanti anziani come la Lombardia, ad esempio, serve un potenziamento serio.

 

Tana liberi tutti

A edicole unificate, Roberto Saviano su Repubblica, Sandro Veronesi sul Corriere e Luigi Manconi sulla Stampa hanno scritto tre articolesse quasi identiche per unirsi per un paio di giorni allo sciopero della fame dei radicali e detenuti a favore di amnistia e/o indulto e/o altre tre misure svuota-carceri per “far uscire qualche migliaio di persone”: bloccare l’esecutività delle condanne definitive (cioè lasciare a spasso i nuovi pregiudicati); estendere a tutti i condannati, senza distinzioni di reati, la detenzione domiciliare speciale del dl Ristori (cioè mandare a casa anche i mafiosi e i terroristi, saggiamente esclusi dal governo); allungare la liberazione anticipata dagli attuali 45 giorni l’anno a 75 (cioè cancellare due mesi e mezzo da ogni anno di pena da scontare). Il tutto per scongiurare la presunta “strage” da Covid, con tanto di “condanne a morte” decise dal governo cattivo. I tre si dipingono come intellettuali scomodi, censurati ed emarginati dai media, alfieri di una battaglia che richiede “una grossa dose di coraggio”: infatti occupano tre pagine sui tre principali quotidiani italiani.

Noi pensiamo che i detenuti, a parte le restrizioni previste dalla legge, debbano godere degli stessi diritti degli altri cittadini. Quindi, se davvero la situazione fosse l’apocalisse descritta dal trio, ci assoceremmo immantinente al grido di dolore. Per fortuna i dati – quelli veri, non i loro – dicono l’opposto: le carceri restano il luogo più sicuro, protetto e controllato del Paese: 5 morti da febbraio su 54.363 (contro i 29 reclusi morti in Gran Bretagna). E solo una mente disturbata può pensare di difendere i detenuti dal Covid mandandoli a casa (per chi ne ha una). Che, trattandosi di gente perlopiù povera, è di solito un ambiente altrettanto esiguo, promiscuo, sovraffollato, ma per giunta incontrollato. Già nella prima ondata i “garantisti” all’italiana strillavano all’“olocausto” nelle carceri, accusando il ministro Bonafede di non metter fuori nessuno, mentre altri geni gli imputavano di metter fuori centinaia di boss (che poi erano tre). Risultato: 3 morti da marzo a maggio e picco massimo di 140 contagiati sui 51mila detenuti di allora. Un’inezia, in rapporto ai dati nazionali. Del resto, bastava un po’ di buonsenso: contro un virus che si combatte con l’isolamento, chi è già isolato è avvantaggiato rispetto a chi non lo è; e rimetterlo in circolazione non riduce il rischio che si contagi, ma lo aumenta. Ora che la seconda ondata è più diffusa e uniforme in tutta Italia, anche le carceri ne risentono. Sugli attuali 53.720 detenuti (dati del 24 novembre: chissà dove Saviano ne ha visti “oltre 60mila”), i morti sono 3 e i positivi 826 (l’1,5% del totale).

Di questi, 772 sono asintomatici, cioè non malati (93,5%), 32 paucisintomatici curati nelle strutture carcerarie e 22 sintomatici in ospedale. Poi ci sono gli agenti penitenziari: 970 positivi su circa 36mila, di cui 871 asintomatici (90%) e 99 sintomatici (10%). Ma sommarli ai detenuti, come fanno i tre tenori per raddoppiare i positivi in carcere, non ha senso, perché gli agenti positivi non mettono piede in carcere: 941 sono isolati in casa (97%), 19 in caserma e 10 in ospedale. Idem per il personale amministrativo e dirigenziale (72 positivi). Chi conosce i dati sul Covid (quelli veri) noterà la percentuale enorme di positivi asintomatici in carcere (93,5%) rispetto a chi sta fuori (55-60%). Il perché è presto spiegato: in carcere chiunque entri per iniziare la detenzione (“nuovo giunto”) viene sottoposto a tampone, resta isolato per 10-14 giorni e va in cella con gli altri solo dopo il secondo test negativo; per chi invece è già lì, appena si scopre un positivo scatta il tampone per tutti gli ospiti dell’istituto. Quindi la copertura di screening è pressoché totale, cosa che ovviamente non avviene per chi sta fuori: su 60 milioni di italiani, ogni giorno ne vengono testati 200-220 mila, spesso gli stessi che fanno il secondo tampone o più coppie di test. Il che rende ridicola la tesi del trio Saviano-Veronesi-Manconi, secondo cui si rischia il Covid più dentro che fuori. È vero il contrario: su 51mila detenuti, l’indice di positività è dell’1,5%, mentre sui 220-200 mila cittadini liberi testati al giorno è dell’11-12% (che sale addirittura al 23-24 escludendo i secondi tamponi e quelli ripetuti dagli stessi soggetti). Il che smentisce platealmente la tesi di Saviano-Veronesi-Manconi.

È falso che le carceri registrino “un tasso di infetti circa 10 volte superiore a quello, già pesante, che c’è fuori” (Veronesi), anche perché nessuno sa quanti siano i positivi fuori. Ed è falso che il governo – in particolare Bonafede e il Dap – se ne freghi per “indifferenza”, “ottundimento”, “paralisi”, “disumanità” e sadica sete di “tortura”. Anzi i protocolli finora adottati, con i test, i triage, gli isolamenti hanno circoscritto i contagi. E il sovraffollamento endemico delle carceri (che dipende dalla carenza di posti cella in rapporto al numero dei delinquenti, non certo da un eccesso di detenuti, il cui numero è inferiore alle medie europee) è stato alleviato senza tana liberi tutti, ma con misure equilibrate: la semilibertà prolungata (chi deve rientrare la sera dorme a casa) e la detenzione domiciliare speciale (con braccialetto elettronico per i casi più gravi, esclusi mafiosi e altri soggetti pericolosi). Se i numeri cambieranno, ne riparleremo. Per ora l’unica strage in corso nelle carceri è quella della verità.

A Romano piace Togliatti e invece su Berlinguer la pensa come Napolitano

Passata la sbandata per il montismo (è stato deputato con Scelta Civica) e abbandonato il renzismo con il quale era arrivato addirittura ad assumere la direzione di una Unità da rottamare, Andrea Romano torna alle origini. Con la qualifica dello storico della sinistra che si è fatto le ossa imparando il russo a Mosca, scrive un saggio sul Pci in cui riversa l’idea renziana del “partito della nazione”.

La definizione non è peregrina se riferita alla strategia, da Togliatti agli anni 70, di fare del Pci un partito di tutta la società italiana, orientato all’obiettivo della “unità antifascista” con cui rivendicare la bontà dei governi di unità nazionale. Quello del 1946-’47, con Alcide De Gasperi e di quello “delle astensioni” frutto del “compromesso storico” voluto da Enrico Berlinguer. Il Pci è soprattutto quel partito che si fa “responsabile”, vivendo interamente sulle proprie spalle le sorti della Nazione. Di quella responsabilità Romano sembra essere ammirato tanto che si unisce alla critica a Enrico Berlinguer che a suo tempo fece Giorgio Napolitano, accusando di “vuote invettive” le parole con cui il compianto segretario Pci rivendicava la “diversità morale” del Pci. Quelle “invettive”, si argomenta, ruppero la capacità del Pci di dotarsi di una strategia politica lasciando spazio a uno splendido isolamento che né il “nuovo Pci” della fine degli anni 80 né la svolta di Achille Occhetto, seppero rimediare. E a Berlinguer si rimprovera addirittura di aver incubato, con quelle parole, l’attuale antipolitica, quella che fece dire a Gianroberto Casaleggio che l’ex segretario Pci fosse un modello anche per il M5S.

Il libro consente di riflettere su cosa il Pci sia stato davvero, con spunti originali – come l’analisi degli ultimi anni 80 – che, fortunatamente, mettono da parte idee strampalate alla Matteo Renzi che vorrebbe Tony Blair alla celebrazione del Pci nel 2021. Troppo anche per Andrea Romano.

 

Il partito della Nazione

Andrea Romano

Pagine: 128

Prezzo: 18

Editore: Paesi Edizioni